Teologia della liberazione

da Introduzione al cristianesimo. Ieri, oggi, domani
di Joseph Ratzinger (Prefazione dell’aprile 2000)


Nella determinazione del ruolo del cristianesimo nella storia ha influito soprattutto l’idea di un nuovo rapporto tra chiesa e mondo. Se negli anni Trenta Romano Guardini aveva coniato (giustamente) l’espressione «distinzione di ciò che è cristiano» (Unterscheidung des Christlichen), oggi tale distinzione sembrerebbe aver perso la sua importanza in favore, piuttosto, del superamento delle distinzioni, dell’avvicinarsi al mondo, del coinvolgersi nel mondo. Quanto rapidamente queste idee potessero uscire dalla cerchia dei discorsi ecclesiastici accademici e acquisire un taglio più pratico cominciò a essere evidente già nel 1968, all’epoca delle barricate parigine, quando si celebrava un’eucaristia della rivoluzione e, con essa, si sperimentava un nuovo connubio tra chiesa e mondo all’insegna della rivoluzione, in attesa di tempi migliori. La partecipazione in prima linea di comunità studentesche cattoliche ed evangeliche ai movimenti rivoluzionari nelle università europee ed extraeuropee non fece che confermare tale tendenza.
Il bagliore di questa nuova conversione di idee in prassi, di questa nuova fusione di impulso cristiano e di azione politica a livello mondiale fu particolarmente vivido in America Latina. Per oltre un decennio la teologia della liberazione sembrò indicare alla fede la nuova direzione da prendere per tornare ad essere incisiva nel mondo, in quanto al mondo nuovamente congiunta grazie alle nuove conoscenze e alle nuove direttive dell’epoca. Che i paesi latinoamericani fossero spaventosamente contrassegnati da repressione, da una dominazione iniqua, dalla concentrazione della proprietà e del potere nelle mani di pochi e dallo sfruttamento dei poveri è un fatto indiscusso, tanto indiscusso da ingenerare un bisogno di intervento. E, poiché questi paesi erano nella maggior parte cattolici, non poteva esserci dubbio circa le responsabilità della chiesa e la necessità da parte della fede di affermarsi come strumento di giustizia. Ma in che modo? Sembrava, a quell’epoca, che l’unica strada percorribile fosse il marxismo. Sembrava che Marx avesse assunto il ruolo che nel XIII secolo aveva ricoperto il pensiero aristotelico, una filosofia precristiana (ossia ‘pagana’) da battezzare per riavvicinare l’una all’altra fede e ragione e per porle in un rapporto corretto. Chi, tuttavia, accoglieva Marx (o le varianti del pensiero neomarxista) come rappresentante della ragione universale non aderiva semplicemente a una filosofia, a una visione dell’origine e del senso dell’esistenza, bensì e soprattutto a una prassi. Perché questa filosofia è sostanzialmente una ‘prassi’, che crea innanzitutto ‘verità’, non la presuppone. Chi fa di Marx un filosofo della teologia accetta anche il primato della politica e dell’economia, elevandole al ruolo di forze effettive di salvezza (o di non-salvezza, se male utilizzate): in quest’ottica il riscatto dell’uomo avviene per il tramite della politica e dell’economia, in seno alle quali prende corpo il futuro. Il primato di prassi e politica significava, innanzitutto, l’impossibilità di includere Dio nella categoria del ‘pratico’: la ‘realtà’ che bisognava riconoscere era soltanto quella materiale dell’accadere storico, che era necessario penetrare e indirizzare verso il giusto obiettivo, trasformandolo con gli strumenti appositamente creati allo scopo, senza escludere, al bisogno, la violenza. In quest’ottica diventava necessario accantonare il discorso di Dio, estraneo all’ambito del pratico e alla sfera della realtà, per avere la libertà di realizzare gli obiettivi più importanti. Rimaneva l’immagine di Gesù, che ormai, non più colto come il Cristo, veniva considerato come l’incarnazione di tutti i sofferenti e gli oppressi, un loro portavoce che chiamava alla rivoluzione e a grandi cambiamenti. La novità, nel complesso, era che il progetto di riforma del mondo, che in Marx è pensato in senso non soltanto ateistico, ma anche antireligioso, si riempiva ora di entusiasmo religioso e poggiava su fondamenti religiosi: una Bibbia (soprattutto l’Antico Testamento) riletta in una nuova chiave e una liturgia celebrata come pre-compimento simbolico della rivoluzione e come preparazione alla stessa.
Bisogna riconoscerlo: il cristianesimo, con questa curiosa sintesi, riapprodava nel mondo, proponendosi come messaggio ‘epocale’. Non fa meraviglia che gli stati socialisti simpatizzassero per questo movimento. Più sorprendente, al contrario, è il fatto che anche nei paesi cosiddetti ‘capitalisti’ l’opinione pubblica mostrasse un debole per la teologia della liberazione, che dai suoi oppositori era invece additata come un peccato contro il genere umano e la natura umana; in realtà, ovviamente, nessuno auspicava di vedere applicate le indicazioni pratiche di questa teologia, poiché un ordine sociale giusto sembrava già essere stato raggiunto. Non si può negare, tuttavia, che nelle varie teologie della liberazione vi fossero anche molte idee veramente degne di considerazione. Tutti questi progetti, però, dovevano rinunciare a porsi come forma epocale di sintesi di cristianesimo e mondo nel momento in cui la fede cedeva alla politica il ruolo di forza salvifica. È vero che l’uomo, come dice Aristotele, è un «essere politico», ma è altrettanto certo che l’uomo non può essere ridotto alla politica e all’economia. A mio avviso, il problema reale e più profondo delle teologie della liberazione è la perdita effettiva dell’idea di Dio, che ovviamente (come si è accennato) ha anche determinato un cambiamento fondamentale dell’immagine di Cristo. Non che si sia negata l’esistenza di Dio, per carità. Semplicemente, si è cessato di riferirsi a Dio per la ‘realtà’ a cui ci si doveva rivolgere. Dio, cioè, ha perso la sua funzione. A questo punto viene da chiedersi con un certo stupore: Questo accadeva soltanto nella teologia della liberazione? Oppure essa ha potuto giudicare la questione di Dio come non pratica per il futuro progetto di riforma del mondo semplicemente perché la cristianità da tempo così pensava o, addirittura, così viveva, senza pensarci e senza accorgersi? La coscienza cristiana non si è forse, senza accorgersi, rassegnata all’idea che la fede in Dio fosse un fatto soggettivo, ristretto alla sfera del privato e non estensibile alle attività comuni della vita pubblica, in cui ci si doveva inserire per poter collaborare, «etsi Deus non daretur» (nel caso in cui Dio non esistesse)? Non si doveva trovare una strada percorribile anche nel caso in cui Dio non fosse esistito? La conseguenza naturale fu che, di fatto, al momento del passaggio della fede dallo spazio chiuso del religioso all’ambito pubblico e generale non fu riconosciuta a Dio alcuna funzione, ma si tese ad accantonarlo dov’era prima: nella sfera privata, intima, riguardante soltanto il singolo individuo. Perciò, lasciando Dio come Dio senza funzione, e tanto più che spesso si era abusato del suo nome, non era necessaria una particolare noncuranza nei suoi confronti né opporgli un rifiuto consapevole. La fede sarebbe uscita veramente dal ghetto soltanto se avesse portato nella sfera pubblica ciò che le è proprio, il Dio che giudica e soffre, il Dio che pone all’uomo limiti e criteri; il Dio da cui prende vita e a cui ritorna ciascuno di noi. Più che mai, invece, questo Dio è rimasto di fatto relegato nel ghetto dell’inservibilità.
In realtà, Dio è ‘pratico’; non è un mero corollario teorico a una determinata visione del mondo, un’idea a cui ricorrere per trovare conforto o appiglio o, semplicemente, un concetto che si possa ignorare.


 

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