J.R.R.Tolkien ed il cattolicesimo, a partire dal suo epistolario. Il cristianesimo come chiave interpretativa de Il Signore degli Anelli
di Andrea Lonardo


Indice


Dio è il Signore, degli angeli, e degli uomini – e degli elfi... Nel regno di Dio la presenza di ciò che è più grande non schiaccia ciò che è più piccolo. L’Uomo redento è ancora uomo. Il Racconto, la fantasia, continuano ancora, e dovrebbero continuare. L’Evangelium non ha abrogato le leggende; le ha santificate, specialmente nel “lieto fine”. Il cristiano deve ancora operare, con la mente come con il corpo, deve soffrire, sperare, e morire; ma ora può percepire che tutte le sue predisposizioni e facoltà hanno uno scopo, che può essere redento. Così grande è stata la liberalità con cui è stato trattato che ora egli può, forse, a ragion veduta supporre che nella Fantasia può effettivamente assistere al germogliare e al molteplice arricchimento della creazione.[1]

Così J.R.R.Tolkien ha scritto dell’intimo rapporto tra la creazione fantastica e la realtà della salvezza cristiana. Vogliamo seguirlo nei suoi espliciti riferimenti al cristianesimo, disseminati nel suo epistolario e nei suoi scritti di storia della letteratura, per rileggere poi da questo punto di vista Il Signore degli Anelli, senza caricarne i singoli personaggi di significati illegittimi, ma, piuttosto, contemplandone l’insieme, a partire dalla prospettiva del suo autore.

Tolkien, scrittore cattolico in un ambiente anglicano

La fede cattolica di Tolkien, ricevuta dalla madre, ci appare nell’epistolario come una scelta consapevole e riflessa, anche a motivo dell’ambiente a maggioranza anglicana, nel quale si trovava a vivere nell’Inghilterra di allora. Ecco come ci presenta il valore della tradizione cattolica, attraverso l’immagine della vita stessa che cresce e si sviluppa:

I “protestanti” cercano nel passato la “semplicità” e il rapporto diretto che, naturalmente, benché presenti degli aspetti positivi o per lo meno comprensibili, è uno sbaglio inutile. Perché il “cristianesimo primitivo” è e rimarrà, nonostante tutte le ricerche, in gran parte ignoto; perché la “primitività” non è garanzia di valore ed è ed era per lo più riflesso di ignoranza. Gravi abusi erano un elemento del comportamento liturgico cristiano agli inizi come adesso. (Le restrizioni di San Paolo a proposito dell’eucarestia valgono a dimostrarlo!) Inoltre la “mia chiesa” non è stata concepita da Nostro Signore perché restasse statica o rimanesse in uno stato di eterna fanciullezza; ma perché fosse un organismo vivente (come una pianta), che si sviluppa e cambia all’esterno in seguito all’interazione fra la vita divina tramandatale e la storia – le particolari circostanze del mondo in cui si trova. Non c’è alcuna somiglianza tra il seme di senape e l’albero quando è completamente cresciuto. Per quelli che vivono all’epoca della sua piena crescita è l’albero che conta, perché la storia di una cosa viva fa parte della vita e la storia di una cosa divina è sacra. I saggi sanno che tutto è cominciato dal seme, ma è inutile cercare di riportarlo alla luce scavando, perché non esiste più e le sue virtù e i suoi poteri ora sono passati all’albero. Molto bene: le autorità, i custodi dell’albero devono seguirlo, in base alla saggezza che posseggono, potarlo, curare le sue malattie, togliere i parassiti e così via. (Con trepidazione, consapevoli di quanto poco sanno della sua crescita!) Ma faranno certamente dei danni, se sono ossessionati dal desiderio di tornare indietro al seme o anche alla prima giovinezza della pianta quando era (come pensano loro) bella e incontaminata dal male. L’altro motivo (che ora è così confuso con la tentazione primitivistica, anche nelle menti dei riformatori): aggiornamento; ammodernamento; anche questo presenta dei pericoli, come la storia ha dimostrato. Con questo aspetto si è confuso anche l’ “ecumenismo”.
Io guardo con favore a quegli sviluppi che sono strettamente “ecumenici”, cioè tesi verso quegli altri gruppi o quelle Chiese che si definiscono (e spesso lo sono davvero) “cristiani”. Abbiamo pregato molto per la ritrovata unità dei cristiani, ma è difficile vedere, se ci si pensa, come possa realizzarsi se non nel modo in cui si tenta di realizzarla adesso, con tutte le inevitabili assurdità secondarie. Un aumento della “carità” sarebbe un vantaggio enorme. In quanto cristiani i fedeli al Vicario di Cristo devono mettere da parte i risentimenti che provano in quanto essere umani per esempio nei confronti delle sfrontatezze dei nostri nuovi amici (specialmente quelli della Chiesa d’Inghilterra). Ora si viene spesso lodati come rappresentanti di una Chiesa che ha visto l’errore dentro di sé, ha abbandonato la propria arroganza e il separatismo; ma non ho ancora incontrato un “protestante” che dimostri o esprima consapevolezza dei motivi che hanno causato il nostro comportamento, vecchi e nuovi: dalla tortura e dall’espropriazione fino a “Robinson” e cose del genere. E’ mai stato detto che i cattolici romani soffrono ancora per restrizioni che non vengono applicate più nemmeno agli Ebrei? Mi è difficile tutto questo, dato che la mia infanzia è stata oscurata dalla persecuzione. Ma la carità deve perdonare un mucchio di peccati! Ci sono dei rischi (naturalmente), ma una Chiesa militante non può pensare di chiudersi dentro una fortezza con tutti i suoi soldati. Una cosa del genere ha avuto pessime conseguenze sulla linea Maginot.[2]

Dalle lettere traspare il deprezzamento pregiudiziale al quale il cattolicesimo è sottoposto negli ambienti universitari. L’amarezza di Tolkien è ancora maggiore perché la critica non si arresta neanche quando la guerra sta per sfiorare la città del Papa ed il Pontefice è in pericolo:

E’ sempre più doloroso man mano che gli eserciti si avvicinano a Roma sentire i commenti grossolani di vecchi e sciocchi signori. Trovo la situazione attuale sempre più penosa. Mi chiedo se ti sia mai capitato di sentire qualche discorso del papa...
Seduto accanto a me, il direttore ha detto a voce alta: “Grazie al cielo che non hanno eletto al rettorato un cattolico romano: disastroso, disastroso per il College”. “Sì, davvero”, gli ha fatto eco il dr.Ramsden, “disastroso”. Il mio ospite mi ha guardato e ha sorriso e ha sussurrato: “Che modelli di tatto e di cortesia!”.[3]

Anche l’amico Clive Staple Lewis[4], anglicano e apologeta del cristianesimo, appare a Tolkien non scevro da pregiudizi sul mondo cattolico. In una lettera lo descrive, mentre entrambi si trovano ad ascoltare testimonianze oculari dei massacri di preti cattolici nella guerra di Spagna:

Le reazioni di C.S.L.[5] sono state strane. Niente giova di più alla propaganda rossa quanto il fatto che lui (che sa come siano per quanto riguarda tutto il resto mentitori e calunniatori) crede a tutto quello che viene detto contro Franco e a niente di quello che viene detto in suo favore. Persino il discorso pubblico di Churchill in Parlamento l’ha lasciato indifferente. Ma l’odio contro la nostra chiesa è dopo tutto... così profondamente radicato che resta anche quando le sovrastrutture sembrano rimosse (C.S.L. per esempio rispetta i Santi Sacramenti, e ammira le monache!). Tuttavia se un luterano viene messo in prigione lui protesta; ma se i sacerdoti cattolici vengono massacrati, lui si rifiuta di crederci (e oso dire che in realtà pensa che se lo siano meritato). Ma R.C.[6] l’ha un po’ scosso.[7]

Per Tolkien, l’incontro con un solo prete cattolico che gli ha aperto la via alla conoscenza della fede cristiana, vale più di tutti i contro-esempi che ben conosce:

Quando penso alla morte di mia madre (era più giovane di Prisca), stremata dalle persecuzioni, dalla povertà e dalle conseguenti malattie, nello sforzo di trasmettere a noi ragazzi la fede, e quando ricordo la minuscola camera da letto che dividevamo, affittata nella casa di un postino a Renal, dove lei morì tutta sola, troppo malata per ricevere l’estrema unzione, trovo molto duro e amaro il fatto che i miei figli si allontanino (dalla Chiesa). Naturalmente Canaan sembra diversa a quelli che l’hanno raggiunta provenendo dal deserto, e gli ultimi abitanti di Gerusalemme possono sembrare spesso degli sciocchi o delle canaglie, o peggio. Ma in hac urbe lux solemnis[8] mi è sempre sembrato vero. Ho conosciuto “nel corso delle mie peregrinazioni” sacerdoti tabacconi, stupidi, che trascuravano i propri doveri, presuntuosi, ignoranti, ipocriti, pigri, brilli, dal cuore duro, meschini, cinici, avidi, volgari, snob e persino (a occhio e croce) immorali; ma per me un solo fratello Francis li compensa tutti e in fondo lui era un Tory gallese-spagnolo della classe alta e ad alcuni sembrava solo un vecchio snob pettegolo e borbottante. Lo era e non lo era. Da lui ho imparato soprattutto la carità e la capacità di perdonare; e con questi insegnamenti ho superato persino l’oscurità “liberale” da cui provenivo, conoscendo molto meglio il Bloody Mary che la Madre di Gesù – che non era mai stata menzionata se non come oggetto di una venerazione sbagliata da parte dei cattolici romani.[9]

Il riferimento alla testimonianza di padre Francis si sostanzia dell’amore che Tolkien ha sempre portato ai sacramenti cattolici ed è dinanzi ad essi che si domanda se è stato un buon padre:

Tu parli di “caduta della fede”, tuttavia. Questa è tutta un’altra cosa. In ultima analisi, la fede è un atto di volontà, ispirato dall’amore. Il nostro amore può raffreddarsi e la nostra volontà può essere indebolita dallo spettacolo dei difetti, della follia e persino dei peccati della Chiesa e dei suoi ministri, ma non penso che chi una volta ha avuto fede la perda per questi motivi (meno che mai uno che possieda una conoscenza storica). Lo “scandalo” al massimo è occasione di tentazione – come l’indecenza lo è della brama, non la crea dal nulla, ma la fa manifestare. E’ comodo perché distoglie gli occhi da noi stessi e dalle nostre colpe e ci fornisce un capro espiatorio. Ma l’atto di volontà della fede non è l’unico momento di una decisione finale: è un atto permanente che si ripete, una situazione che deve durare – così noi preghiamo per la “perseveranza conclusiva”. La tentazione di “non credere” (che in realtà significa il rifiuto di Nostro Signore e delle Sue richieste) è sempre dentro di noi. Una parte di noi anela a trovare una scusa fuori di noi per mollare. Più forte è questa tentazione interiore più facilmente e più severamente saremo scandalizzati dagli altri. Penso di essere tanto sensibile quanto te (o qualsiasi altro cristiano) di fronte agli scandali, siano essi del clero che dei laici. Io ho sofferto dolorosamente nella mia vita a causa di preti stupidi, stanchi, ignoranti o persino cattivi; ma ora mi conosco abbastanza bene da sapere che non lascerò la Chiesa (che per me significherebbe lasciare l’alleanza con Nostro Signore) per una qualsiasi di queste ragioni: la lascerei se non credessi, e non crederei nemmeno se incontrassi qualche sacerdote saggio e santo. Negherei i Santi Sacramenti, cioè: definirei il Nostro Signore un imbroglio. Se Egli è un imbroglio e se lo sono anche i Vangeli – cioè: racconti distorti di un megalomane demente (che è l’unica alternativa), allora naturalmente lo spettacolo inscenato dalla Chiesa (nel senso dei sacerdoti) in passato e oggi è semplicemente la prova di una gigantesca frode. Ma se così non è, allora questo spettacolo è, ahimè! solo quello che ci si doveva aspettare: cominciò prima della prima Pasqua, e non deve influenzare la fede – tranne per il fatto che ci addolora profondamente. Ma noi dovremmo addolorarci per conto di Nostro Signore, associandoci agli scandalizzatori e non ai santi, senza gridare che non possiamo accettare Giuda Iscariota, o l’assurdo e codardo Simon Pietro o le sciocche donne simili alla madre di Giacomo che cerca di spingere suo figlio. Ci vuole un’incredibile dose di scetticismo per non credere che Gesù non sia veramente esistito, e ancora di più per non credere alle cose che gli vengono attribuite — è così improbabile che possano essere state inventate da qualsiasi altro al mondo, all’epoca: come per esempio: «prima di Abramo venne ad essere l’Io sono» (Giovanni, VIII). «Colui che ha visto me ha visto il Padre» (Giovanni, IX); oppure la promulgazione dei Santi Sacramenti in Giovanni, V: «Colui che mangerà la mia carne e berrà il mio sangue avrà vita eterna». Noi quindi dobbiamo credere in Lui e in quello che ha detto e assumercene le conseguenze; oppure rifiutarlo e assumercene le conseguenze. Io trovo difficile credere che chi abbia preso anche solo una volta la Comunione, consapevolmente, possa poi rifiutare di credere in Lui senza incorrere in una grave colpa. (Comunque, Lui solo conosce ogni anima e le circostanze in cui si trova.)
L’unico rimedio contro il vacillare e l’indebolirsi della fede è la Comunione. Benché sia sempre lo stesso, perfetto e completo e inviolato, il Santo Sacramento non agisce completamente e una volta per tutte in ognuno di noi. Come l’atto di Fede deve essere ripetuto e così accresce la sua efficacia. La frequenza garantisce il massimo effetto. Sette volte alla settimana è più efficace che sette volte dopo lunghi intervalli. Inoltre ti raccomando questo esercizio (ahimè! è fin troppo facile trovare il modo di praticarlo): fa’ la tua Comunione in un ambiente che urti i tuoi sentimenti. Scegli un sacerdote che borbotta e tira su col naso oppure un frate orgoglioso e volgare; e una chiesa piena della solita folla borghese, bambini maleducati — da quelli che gridano a quei prodotti delle scuole cattoliche che nel momento in cui il tabernacolo viene aperto si siedono e sbadigliano — giovani sporchi e con le camicie sbottonate, donne in pantaloni e spesso con i capelli arruffati e senza velo. Vai a fare la Comunione insieme a loro (e prega per loro). Sarà la stessa cosa (o anche meglio) che assistere ad una messa detta splendidamente da un sant’uomo e ascoltata da poca gente devota e decorosa. (Non sarà mai peggio della confusione di quando Gesù nutrì i cinquemila - dopo di che annunciò quello che sarebbe stata la Comunione.)
Io stesso sono convinto delle affermazioni di Pietro, né guardandosi intorno nel mondo sembrano esserci molti dubbi (se il cristianesimo è vero) su quale sia la vera Chiesa, il tempio dello spirito morto ma vivo, corrotto ma santo, che si rigenera e rivive. Non che uno debba dimenticare le sagge parole di Charles Williams, che è nostro dovere occuparci degli altari accreditati e stabiliti, benché lo Spirito Santo possa mandare il suo fuoco da altre parti. Dio non può essere limitato (nemmeno nell’ambito dell’edificio che ha fondato) – della qual cosa San Paolo è il primo esempio – e può usare qualsiasi canale attraverso il quale far arrivare la sua grazia. Persino amare Nostro Signore, e chiamarlo Signore e Dio, è una grazia e può portare altra grazia. Tuttavia, per non parlare solo di casi singoli, il canale principale deve essere quello istituzionale, altrimenti correrebbe il rischio di estinguersi nella sabbia. Oltre al Sole c’è la luce della Luna (che può essere tanto brillante da permettere di leggere); ma se il Sole scomparisse, non si riuscirebbe più a vedere la Luna. Che cosa ne sarebbe della cristianità oggi, se la Chiesa romana fosse stata distrutta?
Ma per me quella Chiesa di cui il Papa è capo riconosciuto ha un merito maggiore, e cioè quello di aver sempre difeso il Santo Sacramento e di avergli reso sempre onore e di averlo messo (come Cristo voleva) al primo posto. “Nutrite le mie pecorelle” fu il Suo ultimo incarico a San Pietro; e dato che le Sue parole vanno sempre intese alla lettera, suppongo che fossero riferite principalmente al Pane della Vita. E’ stato contro questo che venne lanciata la prima rivolta dell’Europa occidentale (la Riforma) – contro “la favola blasfema della messa” – e le opere della fede sono state una falsa pista. Credo che la più grande riforma del nostro tempo sia quella portata avanti da san Pio X: superando tutto quello, di cui pur c’era bisogno, che il Concilio deciderà. Mi chiedo in che stato sarebbe la Chiesa se non fosse per quella Riforma.

Ma io sono uno di quelli che è fuggito dall’Egitto e prego Dio che nessuno della mia stirpe debba ritornare là. Ho assistito (comprendendo solo a metà) alle eroiche sofferenze e alla morte precoce in grande povertà di mia madre che mi ha fatto entrare con sé nella Chiesa; e ho ricevuto lo straordinario aiuto di Francis Morgan. Ma mi sono innamorato dei Santi Sacramenti fin dall’inizio – e grazie a Dio non me ne sono mai allontanato: ma, ahimè!, non ho vissuto sempre alla loro altezza. Vi ho allevati male e vi ho parlato troppo poco. Per cattiverie e per pigrizia ho quasi smesso di praticare la mia religione – specialmente a Leeds, e al 22 di Northmoor Road. Non per me l’Abisso dei Cieli, ma la voce silenziosa del Tabernacolo e quella sensazione di fame implacabile. Mi rammarico amaramente di quei giorni (e ne soffro); soprattutto perché ho fallito come padre. Ora prego per voi tutti, senza soste, che il Salvatore (the Haelend, come il Redentore veniva chiamato in inglese antico) mi guarisca dei miei difetti e che nessuno di voi debba mai smettere di invocare Benedictus qui venit in nomine Domini.[10]

E’ alla Chiesa che bisogna guardare con speranza, anche nei tempi bui, quando il male sembra prevalere a motivo di Hitler o di Stalin. Il Signore fa crescere nel silenzio ciò che un giorno risplenderà:

Come nei precedenti secoli bui, solo la Chiesa cristiana continuerà a mantenere una considerevole tradizione (non senza cambiamenti, né, forse, senza guasti) di alta civiltà spirituale, a meno che non sia costretta a nascondersi in nuove catacombe. Pensieri cupi, su cose che in realtà non si possono prevedere; il futuro è impenetrabile specialmente ai saggi; perché le cose più importanti sono sempre nascosta agli occhi dei contemporanei, e i semi di quello che sarà stanno germogliando silenziosamente nell’oscurità di qualche angolo nascosto, mentre tutti noi guardiamo a Stalin o Hitler, o leggiamo articoli illustrati su Beveridge (Il direttore del College universitario nella sua abitazione), sul “Picture Post”.[11]

A chi gli chiede il significato dell’esistenza dell’uomo, il senso della propria esistenza, Tolkien risponde con una riflessione che attinge alla ricchezza della tradizione cattolica, che vede l’uomo creato per la lode di Dio, “ad maiorem Dei gloriam”:

Se chiediamo perché Dio ci ha incluso nel suo disegno, non possiamo rispondere che con la constatazione che l’ha fatto. Se Lei non crede in un Dio, la domanda “Qual è lo scopo della vita?” non può nemmeno essere posta e non può avere risposta. A chi o a che cosa rivolgerebbe la domanda? Ma dato che in uno strano angolo dell’Universo... si sono sviluppate delle cose che hanno una mente che si pone delle domande e cerca di rispondervi, Lei potrebbe rivolgersi a una di queste strane cose. Essendo io una di queste, potrei avventurarmi a dire (parlando con assurda arroganza per conto dell’Universo): “Io sono come sono. Non ci si può far niente. Puoi continuare a cercare di scoprire che cosa sono, ma non ci riuscirai mai. E perché vuoi saperlo, proprio non lo so. Forse il desiderio di sapere per il puro gusto di sapere è legato alle preghiere che alcuni di voi rivolgono a quello che chiamate Dio. Nella loro forma più alta queste preghiere sembrano voler semplicemente lodare Dio per la sua esistenza e per aver fatto quello che ha fatto come l’ha fatto”.
Quelli che credono in un Dio, in un Creatore, non pensano che l’Universo per se stesso sia degno di venerazione, benché lo studio devoto dell’Universo possa essere uno dei modi per onorarne il Creatore. E dato che in quanto creature viventi siamo (in parte) all’interno di esso e parte di esso, le nostre idee di Dio e i modi in cui le esprimiamo saranno in gran parte derivate dalla contemplazione del mondo che ci circonda. (Benché esista anche la rivelazione indirizzata sia a tutti gli uomini sia a individui particolari.)
Così si può dire che lo scopo principale della nostra vita, per ciascuno di noi, è quello di aumentare, in base alla nostra capacità, la nostra conoscenza di Dio con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione e grazie a questa conoscenza esprimere lodi e ringraziamenti. Fare come diciamo nel Gloria in Excelsis: Laudamus te, benedicamus te, adoramus te, glorificamus te, gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam. Noi ti lodiamo, ti chiamiamo santo, ti veneriamo, proclamiamo la tua gloria, ti ringraziamo per la grandezza del tuo splendore.
E nei momenti di esaltazione possiamo chiamare tutte le cose create a unirsi a noi nel nostro coro, parlando per loro conto, come fa il Salmo 148 e la Canzone dei tre bambini in Daniele II. LODATE IL SIGNORE... tutte le montagne e le colline, tutti i frutteti e le foreste, tutte le cose che strisciano e gli uccelli che hanno le ali.
E una risposta troppo lunga, e anche troppo corta — per una domanda simile.[12]

Come letterato cattolico fu invitato a collaborare con la versione inglese della famosa Bibbia di Gerusalemme, l’edizione curata dai domenicani della Scuola Biblica di Gerusalemme, ma si schermisce:

Tolkien... è tra i principali collaboratori della Bibbia di Gerusalemme tradotta di recente.”
Nominarmi tra i “principali collaboratori” è una cortesia che non merito da parte dell’editore della Bibbia di Gerusalemme. Sono stato consultato per lo stile di uno o due passaggi e per criticare alcuni apporti di altri collaboratori. Originariamente mi era stata affidata una notevole parte di testo da tradurre, ma dopo aver svolto del lavoro preliminare sono stato obbligato a rifiutare a causa di altri impegni, e mi sono limitato a portare a termine Giona, uno dei libri più brevi.[13]

Il contesto storico ed i giudizi di Tolkien su nazismo e comunismo

La semplice lettura dei suoi scritti privati è sufficiente a demolire ogni pretestuoso tentativo di lettura politica che dei suoi racconti è stata fatta. E’, infatti, con grande disincanto che Tolkien guarda agli eventi bellici e post-bellici nell’arco della sua vita. Nessuno sembra salvarsi dai suoi giudizi: certo non i nazi-fascisti, né i comunisti, ma nemmeno gli inglesi o gli americani. E’ la fede cristiana che fa da discrimine nel giudizio di ogni evento. E se, certamente, l’opposizione al nazi-fascismo gli appare una giusta causa – che chiede uno sforzo bellico per debellarla - questo non scusa tutte le immoralità che il fronte dei vincitori ha commesso durante la guerra. E la superficialità del tempo di pace che inizia.

La fede cristiana gli fa comprendere che il disegno di Hitler è maledetto da Dio:

La gente di questo paese non sembra ancora essersi resa conto che nei tedeschi noi abbiamo dei nemici le cui virtù (e sono virtù) di obbedienza e patriottismo superano le nostre, nella massa. La cui industria è circa dieci volte più sviluppata. E che sono – sotto la maledizione del Signore – guidati ora da un uomo ispirato da un diavolo pazzo, vorticoso: un tifone: che fa assomigliare il povero vecchio Kaiser al lavoro a maglia di una vecchietta. Ho trascorso gran parte della mia vita, fin da quando avevo la tua età, a studiare germanistica (che in senso generale comprende Inghilterra e Scandinavia). C’è molta più forza e veridicità nell’ideale “germanico” di quanta la gente ignorante non immagini. Io ne ero molto attratto da studente (quando Hitler, penso, si dilettava di pittura e non ne aveva ancora sentito parlare), come reazione contro i “classici”. Bisogna cercare di scoprire il lato buono delle cose, individuando il male vero. Ma nessuno mai mi chiama alla radio o mi chiede di scrivere un poscritto! Eppure credo di sapere meglio di molti altri qual è la verità a proposito del consenso “nordico”. Comunque, in questa guerra io ho un bruciante risentimento privato, che mi renderebbe a 49 anni un soldato migliore di quanto non fossi a 22, contro quel dannato piccolo ignorante di Adolf Hitler (perché la cosa strana circa l’ispirazione demoniaca e l’impeto è che non riguarda per niente la statura intellettuale di una persona, ma riguarda la sola volontà). Sta rovinando, pervertendo, distruggendo e rendendo per sempre maledetto quel nobile spirito nordico, supremo contributo all’Europa, che io ho sempre amato, e cercato di presentare in una giusta luce. Da nessun’altra parte, detto per inciso, era più nobile che in Inghilterra, né più presto santificato e cristianizzato[14].

Ha grande lucidità quando, richiesto di indicare la sua provenienza familiare, capisce che gli si sta chiedendo se è di origine ebraica o meno, per avere elementi in vista di una sua presentazione agli occhi della stampa nazista. Il suo attacco a chi offende gli ebrei è frontale:

Temo di non aver capito chiaramente che cosa intendete per arisch. Io non sono di origine ariana, cioè indo-iraniana; per quanto ne so, nessuno dei miei antenati parlava indostano, persiano, gitano o altri dialetti derivati. Ma se voi volevate scoprire se sono di origine ebrea, posso solo rispondere che purtroppo non sembra che tra i miei antenati ci siano membri di quel popolo così dotato. Il mio bis-bis-nonno venne in Inghilterra dalla Germania nel diciottesimo secolo: la gran parte dei miei avi è quindi squisitamente inglese e io sono assolutamente inglese, il che dovrebbe bastare. Sono sempre stato solito, tuttavia, considerare il mio nome germanico con orgoglio e ho continuato a farlo anche durante il periodo dell’ultima, deplorevole guerra, durante la quale ho servito nell’esercito inglese. Non posso, tuttavia, trattenermi dall’osservare che se indagini così impertinenti e irrilevanti dovessero diventare la regola nelle questioni della letteratura, allora manca poco al giorno in cui un nome germanico non sarà più motivo di orgoglio. La Vostra indagine è sicuramente dovuta all’obbligo di adeguarsi alla legge del Vostro paese, ma che questa debba anche essere applicata alle persone di un altro stato è scorretto anche se avesse (ma non ce l’ha) a che fare con i meriti del mio lavoro o con la sua idoneità alla pubblicazione, lavoro del quale sembravate soddisfatti anche senza saper nulla della mia Abstammung[15].

La sua avversione al comunismo ed ai suoi crimini è altresì evidente, nonostante i russi siano alleati con inglesi ed americani nella guerra in corso. Di questi ultimi, invece, già intravede il modello economico consumistico con tutti i suoi potenziali distruttivi:

Anche se devo ammettere che ho sorriso a denti stretti e “mi sono quasi rotolato sul pavimento, senza interessarmi di quello che sarebbe successo”, quando ho sentito che quel vecchio assassino assetato di sangue di Giuseppe Stalin ha invitato tutte le nazioni a unirsi in una grande famiglia e a lottare per abolire la tirannia e l’intolleranza! Ma devo anche ammettere che nella foto il nostro piccolo cherubino W.S.C. in realtà sembrava il più ruffiano di tutti. Uhm, bé! Mi chiedo (se sopravviveremo a questa guerra) se resterà una piccola nicchia, anche scomoda, per gli antiquati reazionari come me (e te). I grandi assorbono i piccoli e tutto il mondo diventa più piatto e più noioso. Tutto diventerà una piccola, maledetta periferia provinciale. Quando avranno introdotto il sistema sanitario americano, la morale, il femminismo e la produzione di massa all’est, nel medio Oriente, nel lontano Oriente, nell’Urss, nella pampa, nel Gran Chaco, nel bacino danubiano, nell’Africa equatoriale, nelle terre più lontane dove esistono ancora stregoni, nel Gondhwanaland, a Lhasa e nei villaggi del profondo Berkshire, come saremo tutti felici. Ad ogni modo, questa dovrebbe essere la fine dei grandi viaggi. Non ci saranno più posti dove andare.

Ma scherzi a parte: trovo questo cosmopolitanesimo americano terrificante. Per quanto riguarda la mente e lo spirito, e trascurando le insignificanti paure di chi non vuole essere ucciso da soldati brutali e licenziosi (tedeschi o di altra nazionalità), non sono del tutto sicuro che una vittoria americana a lunga scadenza si rivelerà migliore per il mondo nel suo complesso piuttosto della vittoria di - . Non penso che le lettere inviate entro i confini del paese vengano censurate[16].

E’ un sentimento di pietas che, nonostante gli orrori nazisti, vorrebbe vedere sorgere:

Ho appena sentito le novità... I russi a sessanta miglia da Berlino. Sembra che qualcosa di decisivo debba accadere da un momento all’altro. La terribile distruzione e la miseria provocate da questa guerra aumentano di ora in ora: distruzione di quella che dovrebbe essere (e in realtà lo è) la ricchezza comune dell’Europa, e del mondo, se l’umanità non fosse così fanatica, ricchezza la cui perdita ci toccherà tutti, vincitori e vinti. Eppure la gente gode malignamente nel sentire delle code senza fine, lunghe quaranta miglia, di miserabili profughi, donne e bambini che si dirigono verso occidente, morendo per strada. Sembra che in queste oscure ore diaboliche non siano rimasto più nessun moto di pietà o di compassione, nessuna immaginazione. Con la qual cosa non voglio dire che tutto questo, principalmente (non solamente) provocato dalla Germania, non sia inevitabile e necessario. Ma perché questa soddisfazione maligna! Dovremmo aver raggiunto un livello di civiltà in cui può ancora essere necessario giustiziare un criminale ma senza goderne, o impiccare sua moglie e suo figlio accanto a lui mentre la gente grida come tanti orchi. La distruzione della Germania, sia pure cento volte meritata, è una delle più spaventose catastrofi mondiali.[17]

Compare un riferimento al Signore degli Anelli, ma non a giustificare l’una o l’altra delle parti in causa, bensì a mostrare come mai la violenza e la sopraffazione debbano essere desiderate:

C’era un solenne articolo nel giornale locale che teorizzava in tutta serietà lo sterminio sistematico dell’intera nazione tedesca come unico giusto modo di comportarsi dopo una vittoria in guerra: perché sono serpenti a sonagli e non conoscono la differenza tra bene e male! (Chissà l’autore dell’articolo?) I tedeschi hanno lo stesso diritto di definire polacchi ed ebrei vermi da schiacciare, creature subumane, quanto noi di definire così i tedeschi: e cioè nessun diritto, qualunque cosa abbiano fatto. Naturalmente, c’è una differenza qui da noi. L’articolo ricevette una risposta e la risposta venne stampata. Il furfante volgare e ignorante non è ancora un capo con il potere in mano; ma è molto più prossimo a diventarlo ora di quanto non fosse in passato anche in questa verde e piacevole isola. Sai benissimo tutto ciò. Tuttavia non sei l’unico che sente il desiderio di sbuffare o esplodere, a volte; e anch’io potrei mandare fuori uno sbuffo di vapore, se aprissi la valvola, a paragone del quale (come disse la Regina ad Alice) questo è solo una spruzzata di profumo. Non ci si può far niente. Non puoi combattere il Nemico con il suo Anello senza trasformarti anche tu in un Nemico; ma sfortunatamente la saggezza di Gandalf sembra sia sparita insieme a lui nel lontano e genuino Occidente[18].

La teologia cristiana e la dottrina del peccato originale negli scritti tolkieniani

Nelle lettere di Tolkien incontriamo più volte una lettura cristiana della presenza del male nel mondo e della forza di Cristo che gli si oppone.
Talvolta, con il suo humour inglese, scherza sulla fede e sulla bontà di Cristo:

Quindi concluse che l’unico critico letterario è Cristo, il quale ammira più di ogni altro uomo al mondo i doni che Lui stesso ha dispensato. Quindi “riconosciamoci in Cristo”. Dio ti conservi.[19]

Più spesso evidenzia la serietà del problema del male e del peccato. Pure, senza mai dimenticare l’opera instancabile di Dio e del bene:

Una conoscenza anche superficiale della storia deprime una persona dandole la sensazione dell’eterna quantità dell’iniquità umana: vecchia, vecchia, squallida, infinita immutabile incurabile corruzione. Tutte le città, tutti i paesi, tutte le abitazioni degli uomini – fogne! E allo stesso tempo uno sa che c’è sempre un po’ di bene: sempre più nascosto, sempre meno chiaramente discernibile, che raramente esce allo scoperto, si fa visibile, si trasforma in una buona parola, in una vera santità, molto più grande della visibile corruzione. Ma io temo che nelle vite di tutti, tranne pochi, la bilancia sia in debito: facciamo così poco bene in positivo, anche se in negativo evitiamo quello che è il male attivo. Dev’essere terribile essere un sacerdote!...[20]

La sessualità, il rapporto uomo-donna, manifestano che uno squilibrio si è prodotto nell’essere umano, dopo la sua creazione:

Lo spostamento dell’istinto sessuale è uno dei sintomi principali della Caduta. Il mondo è andato sempre peggio di epoca in epoca. Le varie forme sociali cambiano e ogni nuova moda comporta particolari pericoli: ma il “duro spirito della concupiscenza” ha percorso ogni strada e siede sogghignando in ogni casa, da quando Adamo è caduto...

E’ un mondo corrotto, il nostro, e non c’è armonia tra i nostro corpi, la nostra mente e l’anima. Tuttavia, la caratteristica di un mondo corrotto è che il meglio non si può ottenere attraverso il puro godimento, o quella che è chiamata la realizzazione di sé (che di solito è un modo elegante per definire l’autoindulgenza, nemica della realizzazione degli altri); ma attraverso la rinuncia, la sofferenza. La fede nel matrimonio cristiano implica questo: grande mortificazione. Per un cristiano non c’è alternativa. Il matrimonio può aiutarlo a santificare e a dirigere verso un giusto obiettivo i suoi impulsi sessuali; la sua grazia può aiutarlo nella battaglia; ma la battaglia resta. Il matrimonio non lo potrà soddisfare – come un affamato può essere soddisfatto da pasti regolari. Presenterà tante difficoltà per mantenere la purezza che si addice a quello stato e altrettante soddisfazioni. Nessun uomo che si sia sposato giovane, per quanto sinceramente innamorato di sua moglie, le è mai stato fedele per tutta la vita con la mente e con il corpo senza un deliberato e consapevole uso della sua volontà o senza negazione di sé. Queste cose non vengono quasi mai dette nemmeno a quelle persone cresciute nella fede della Chiesa. Quelle che vivono al di fuori sembra che non ne abbiano mai sentito parlare. Quando l’innamoramento è passato o quando si è un po’ spento, pensano di aver fatto un errore e di dover ancora trovare la vera anima gemella. Per vera anima gemella troppo spesso si scambia la prima persona sessualmente attraente che si incontra. Qualcuno che forse davvero avrebbero fatto meglio a sposare, se solo... Da qui il divorzio, per risolvere quel “se solo”. E naturalmente di solito hanno ragione: avevano fatto un errore. Solo un uomo molto saggio, arrivato al termine della sua vita, potrebbe esprimere un equo giudizio su quale persona, fra tutte, avrebbe fatto meglio a sposare! Quasi tutti i matrimoni, anche quelli felici, sono errori: nel senso che quasi certamente (n un mondo migliore, o anche in questo, pur se imperfetto, ma con un po’ più di attenzione) entrambi i partner avrebbero potuto trovare compagni molto più adatti. Ma la vera anima gemella è quella che hai sposato. Di solito tu scegli ben poco: lo fanno la vita e le circostanze (benché, se c’è un Dio, queste non sono che i Suoi strumenti o la Sua manifestazione)...
Al di là di questa mia vita oscura, tanto frustrata, io ti propongo l’unica grande cosa da amare sulla terra: i Santi Sacramenti. [...]. Qui tu troverai avventura, gloria, onore, fedeltà e la vera strada per tutto il tuo amore su questa terra, e più di questo: la morte. Per il divino paradosso che solo il presagio della morte, che fa terminare la vita e pretende da tutti la resa, può conservare e donare realtà ed eterna durata alle relazioni su questa terra che tu cerchi (amore, fedeltà, gioia), e che ogni uomo nel suo cuore desidera[21].

Il rifiuto di ammettere che esiste un problema dell’affettività umana, che chiede un cammino per arrivare all’amore, è nefasto:

Si è venuta a creare una situazione in cui le persone comuni, irreligiose e irriflessive, non solo non sono più frenate dalla legge per quanto riguarda la loro incostanza, ma anzi sono incoraggiate all’incostanza dalla legge e dai costumi sociali. Non occorre aggiungere che si è venuta a creare una situazione in cui è incredibilmente difficile educare la gioventù cristiana alla morale sessuale cristiana (che in base alla nostra ipotesi è una morale giusta per tutti e che andrà perduta, la sua sopravvivenza dipendendo dalla gioventù cristiana)[22].

La fiducia sconsiderata nella tecnologia riflette anch’essa il Peccato d’origine:

C’è la tragedia e la disperazione di tutte le macchine nude. A differenza dell’arte che si accontenta di creare nella mente un nuovo mondo, la tecnica cerca di realizzare i desideri, e così di creare potere in questo mondo; e questo non può in realtà essere fatto con qualche soddisfazione. Le macchine che risparmiano la fatica creano solamente fatica peggiore e senza fine. E in aggiunta a questa sostanziale incapacità di creare, c’è la Caduta, che fa sì che i nostri aggeggi non solo falliscano i loro obiettivi, ma diano vita ad altre cose malefiche e orribili. Così inevitabilmente da Dedalo e Icaro arriviamo al bombardiere gigante. Non è certo un passo avanti sulla strada della saggezza![23]

Dinanzi alla serietà della presenza del male, la sua speranza cristiana sta fissa nella promessa di Cristo e nella certezza di una immortalità di bene che Dio ha in serbo. Questo appare con più evidenza nelle lettere ai figli, anche nel pericolo delle battaglie della guerra:

Tuttavia tu sei la mia carne e il mio sangue e tieni alto il nostro nome. E’ già qualcosa essere il padre di un giovane e buon soldato. Sai perché tengo così tanto a te e perché tutto quello che fai mi tocca da vicino? Eppure, dobbiamo sperare e aver fiducia. Il legame tra padre e figlio non è costituito solo dalla consanguineità: ci deve essere un po’ di aeternitas. Esiste un posto chiamato “paradiso” dove le opere buone iniziate qui possono venire portate a termine; e dove le storie non scritte e le speranze incompiute possono trovare un seguito. Possiamo riderne insieme eppure...[24]

L’affidare i figli ai loro angeli custodi diviene occasione per meditare sul legame di ogni persona con Dio stesso:

Ricorda il tuo angelo custode. Non una signora grassoccia con ali di cigno! Ma – almeno così penso e credo - in quanto anime dotate di libero arbitrio siamo fatti in modo da affrontare (o essere in grado di affrontare) Dio.
Ma Dio è anche (si fa per dire) dietro di noi, sostenendoci, nutrendoci (dato che siamo creature sue). Quel luminoso punto di potere dove il cordone della vita, il cordone ombelicale dello spirito termina, là è il nostro angelo, che guarda in due direzioni: a Dio dietro di noi, senza che noi possiamo vederlo, e a noi. Ma naturalmente non stancarti di contemplare Dio, nel tuo libero arbitrio e nella tua forza (che entrambi ti arrivano “da dietro”, come dicevo). Se non riesci a raggiungere la pace interiore, e a pochi è dato raggiungerla (men che mai a me) nelle tribolazioni, non dimenticare che l’aspirazione a raggiungerla non è inutile, ma un atto concreto. Mi dispiace di doverti parlare così e in modo così incerto. Ma non posso fare niente di più per te, carissimo. [...]
Se già non lo fai, prendi l’abitudine di pregare. Io prego molto (in latino): il Gloria Patri, il Gloria in Excelsis, il Laudate Dominum; il Laudate Pueri Dominum (a cui sono particolarmente affezionato), uno dei salmi domenicali; e il Magnificat; anche la Litania di Loreto (con la preghiera Sub tuum praesidium). Se nel cuore hai queste preghiere non avrai mai bisogno di altre parole di conforto. E’ anche bene, una cosa ammirevole, sapere a memoria il Canone della Messa, perché la puoi recitare sottovoce se qualche circostanza avversa ti impedisse di assistervi. Così endeth Faeder lar his suna[25].
Con tutto il mio amore[26]

La fede in Dio è forza che assicura che il bene non è mai vano nell’eternità e che, anche, ha forza nel dispiegarsi del tempo:

Ma il punto di vista storico, naturalmente, non è l’unico. Tutte le cose e le azioni valgono per se stesse, a parte le loro “cause” e i loro “effetti”. Nessun uomo può giudicare quello che sta veramente succedendo al momento attuale sub specie aeternitatis. Tutto quello che sappiamo, e anche questo in larga parte per diretta esperienza, è che il male agisce con grande potenza e successi continui – inutilmente: preparando sempre e solamente il terreno perché il bene, inaspettatamente, germogli. Così accade in generale, e così accade nelle nostre vite... Ma c’è ancora qualche speranza che le cose per noi possano migliorare, anche sul piano temporale, per grazia di Dio. E anche se abbiamo bisogno di tutto il nostro umano coraggio e di tutte le nostre risorse naturali (l’enorme capacità del coraggio umano e dell’umana sopportazione è stupenda, non è vero?) e di tutta la nostra fede religiosa per affrontare il male che ci può capitare (come capita ad altri, secondo la volontà di Dio), tuttavia possiamo pregare e sperare. Io lo faccio. E tu sei stato per me un dono così speciale, in un periodo di disperazione e di sofferenza mentale, e il tuo amore, che si è dischiuso subito non appena sei nato, mi ha fatto capire, a chiare lettere, che io avrò sempre motivo di consolazione grazie alla certezza che non c’è fine a tutto questo. E’ probabile che sotto l’ala del Signore noi ci riincontreremo, “vivi e uniti”, fra non molto tempo, carissimo, ed è certo che abbiamo un legame speciale che durerà al di là della vita – sempre soggetto, naturalmente, al mistero del libero arbitrio, con il quale ognuno di noi può rigettare la propria “salvezza”. Nel qual caso Dio sistemerà le cose in modo diverso![27]

Favola e vangelo: il lieto fine dopo il peccato di origine

Sopratutto, per gettare un’ulteriore luce su Il Signore degli Anelli, dobbiamo rivolgerci allo straordinario scritto teorico dal titolo “Sulle fiabe” che Tolkien ci ha lasciato. In questa conferenza, poi divenuta un saggio[28], difende il lavoro dello scrittore capace di creare un “mondo secondario” (questa l’espressione di Tolkien per indicare ciò che noi chiamiamo “mondo fantastico”) e spiega il senso e la gioia del suo essere autore de Il Signore degli Anelli, nella creazione di quel mondo, così minuziosamente descritto, nel quale noi incontriamo Sam, Frodo e tutti gli altri personaggi.

“Sulle fiabe” vuole rispondere a delle semplici domande:

Cosa sono le fiabe? Qual è le loro origine? A cosa servono? Cercherò di dare a queste domande una riposta, o degli accenni di risposta che ho spigolato – soprattutto dalle storie stesse, quelle poche che io conosco della loro moltitudine.[29]

Tolkien contesta subito quelle spiegazioni superficiali che possono essere date del mondo delle fiabe, anche perché conducono ad un immediato deprezzamento di questo lavoro letterario. Le “fiabe” non sono, nella loro essenza più profonda, né “favole di animali”, né “storie su esseri fatati”:

Ho detto che “storie su esseri fatati” era una definizione troppo restrittiva[30]. E’ troppo restrittiva anche se eliminiamo la statura minuscola, perché le fiabe nell’uso linguistico corrente non sono storie sulle fate o gli elfi, ma storie sul mondo fatato, cioè Faërie, il regno o lo stato in cui le fate conducono la loro esistenza. Faërie contiene molte cose oltre a elfi e fate, e oltre a gnomi, streghe, troll, giganti o draghi: contiene i mari, il sole, la luna, il cielo; e la terra, e tutto ciò che è in essa: alberi e uccelli, acqua e pietre, vino e pane, e noi stessi, uomini mortali, quando siamo vittime di un incantesimo. Storie che veramente trattino in primo luogo di “esseri fatati”, cioè di creature che anche nella lingua di oggi possono essere chiamate “elfi”, sono relativamente rare, e di norma non sono troppo interessanti. La maggioranza delle buone “fiabe” vertono sulle avventure di uomini nel Reame Periglioso o lungo le sue nebulose regioni di confine.[31]

Tolkien distingue inoltre, per comprendere l’intima natura delle fiabe, l’Incantesimo che è loro proprio, dalla Magia:

L’Incantesimo, in mancanza di un termine meno discutibile, produce un Mondo Secondario nel quale sia l’artefice che lo spettatore possono entrare, finché vi si troveranno con piena soddisfazione dei loro sensi; ma nella sua pura essenza è artistico sia nel desiderio che nello scopo. La Magia produce, o pretende di produrre, un’alterazione del Mondo Primario. Non conta da chi si dica che venga praticata, fata o mortale; rimane comunque distinta... Non è un’arte, ma una tecnica; ciò che desidera è il potere in questo mondo, il dominio di cose e volontà.
La Fantasia aspira all’abilità elfica, all’Incantesimo, e quando gli riesce, gli si avvicina più di tutte le forme umane di Arte. Nel cuore di molte storie sugli esseri fatati elaborate da esseri umani si trova, scoperto o nascosto, puro o mescolato ad altri elementi, il desiderio di un arte sub-creativa vivente e realizzata, che (per quanto esteriormente possa somigliarle) è interiormente diversa dall’egocentrica bramosia di potere che costituisce il marchio caratteristico del Mago puro e semplice. Di questo desiderio sono largamente fatti gli elfi nella loro parte migliore (pur sempre pericolosa); ed è da loro che possiamo apprendere quale sia il desiderio centrale e l’aspirazione principale della Fantasia umana.[32]

La fiaba, pur essendo opera fantastica, ha così a che fare con la realtà, in tutta la sua consistenza, ma, ancor più, ha a che fare con l’uomo e con i suoi bisogni e desideri più profondi:

La Magia del Regno Fatato non è fine a se stessa, la sua virtù risiede nei suoi effetti: e fra questi vi è la soddisfazione di alcuni primordiali bisogni umani. Uno di questi desideri è contemplare le profondità dello spazio e del tempo. Un altro è... essere in comunione con altri esseri viventi. Una storia può così trattare della soddisfazione di questi desideri, con o senza l’intervento di macchine e di magie e, in proporzione alla sua riuscita, si avvicinerà alla fiaba e ne avrà il sapore.[33]

Paradossalmente è condizione necessaria della fiaba che essa si presenti come vera. Non tollera artifici e finzioni che distraggano dalla sua “verità”:

E’ comunque essenziale per una fiaba genuina, distinta dall’impiego di questa forma letteraria per scopi inferiori e sviliti, che essa venga presentata come “vera”. Considererò un momento il significato di “vera” in questo contesto. Poiché la fiaba tratta di “meraviglie”, non può tollerare alcuna cornice e alcun congegno narrativo in cui si suggerisca che tutta la storia in cui questi prodigi accadono sia una finzione o un’illusione.[34]

E ancora:

La Fantasia è una naturale attività umana. Certo, essa non distrugge e neppure offende la Ragione, e non smussa neanche l’appetito per - né oscura la sua percezione della - verità scientifica. Al contrario. Quanto più la ragione è acuta e chiara, tanto meglio opererà la Fantasia. Se gli uomini si trovassero in uno stato nel quale non volessero conoscere, o non potessero percepire la verità (i fatti o le testimonianze), allora la Fantasia languirebbe sintantochè essi non fossero guariti. E se mai giungeranno ad uno stadio di questo genere (il che non sembra del tutto impossibile) la Fantasia perirà, e diverrà Illusione Morbosa.
Perché la Fantasia si fonda sulla dura consapevolezza che le cose sono proprio così nel mondo, quale esso appare alla luce del sole; sul riconoscimento di un dato di fatto, ma non sul divenirne schiavi.[35]

Falsa è anche, per Tolkien, l’affermazione che le fiabe siano un genere letterario per bambini:

In realtà l’associazione tra bambini e fiabe è un accidente della nostra storia domestica. Le fiabe nel mondo letterario moderno sono state relegate alle stanze dei bambini, così come il mobilio logoro o non più di moda viene relegato nella stanza dei giochi, innanzitutto perché gli adulti non lo vogliono più, e non importa se viene usato in modo improprio[36]. Non è una scelta dei bambini che lo decide. I bambini come classe – e non lo sono, eccetto che per una comune mancanza di esperienza – non amano le fiabe più degli adulti, né le comprendono meglio di loro; e comunque non le amano più di quanto amino altre cose. Sono giovani e stanno crescendo, e normalmente hanno un sano appetito, cosicché le fiabe, di regola, vengono digerite abbastanza bene. Ma in realtà solo alcuni bambini, e alcuni adulti, hanno un gusto particolare per esse; e quando ce l’hanno non è esclusivo, e neppure necessariamente predominante. E’ inoltre un gusto, penso, che non si manifesterebbe nella prima infanzia senza stimoli artificiali; e che certamente, se è innato, non diminuisce ma aumenta con l’età. E’ vero che in tempi recenti le fiabe sono state abitualmente scritte o “adattate” per i bambini. Ma si potrebbe fare la stessa cosa con la musica, la poesia, i romanzi, la storia, o i manuali scientifici. E’ un procedimento pericoloso, anche quando è necessario. Si salva dal disastro certamente soltanto per il fatto che le arti e le scienze non sono materie relegate in blocco alla stanza dei bambini; all’asilo e a scuola vengono impartiti soltanto assaggi e cenni sulle cose degli adulti, nella misura in cui sembra adatta ai bambini secondo l’opinione (spesso erronea) degli adulti. Ciascuna di queste materie, se lasciata nel suo complesso incustodita nella stanza dei bambini, verrebbe gravemente danneggiata. Lo stesso accadrebbe a un bel tavolo, a un buon quadro, a uno strumento utile (come un microscopio); verrebbero smontati o rotti, se fossero lasciati senza precauzioni in un’aula scolastica. Le fiabe, bandite a questo modo, tagliate fuori dall’ambito di un’arte pienamente adulta, finirebbero per rovinarsi; e invero, già per il fatto stesso di essere state bandite, sono cadute in rovina.[37]

L’identificare l’uditorio delle fiabe con quello dei bambini porta ad un immediato svilimento della creazione fantastica che ne è all’origine. L’autore di un racconto fantastico è veramente il creatore adulto di un mondo:

I bambini sono capaci, naturalmente, di una credulità letteraria, quando l’arte di chi compone la storia è sufficientemente buona da produrla. Questa attitudine mentale è stata chiamata “sospensione volontaria dell’incredulità”.[38]Ma non mi sembra una buona descrizione di ciò che avviene. Ciò che avviene in realtà è che il compositore della storia si dimostra un “sub-creatore” riuscito. Egli costruisce un Mondo Secondario in cui la nostra mente può introdursi. In esso, ciò che egli riferisce è “vero”: in quanto in accordo con le leggi di quel mondo. Quindi ci crediamo, finché, per così dire, restiamo al suo interno. Nel momento in cui sorge l’incredulità, l’incantesimo è rotto; la magia, o piuttosto l’arte, non è riuscita. Ci si ritrova di nuovo fuori, nel Mondo Primario, e si guarda dall’esterno il piccolo, abortito Mondo Secondario.[39]

Gli stessi bambini, se presi da una vera storia di fantasia riuscita, non pongono con frequenza la domanda circa la verità della storia stessa, ma interrogano sulla bontà dei personaggi di essa:

Molto più spesso, essi mi hanno chiesto: “Era buono? Era cattivo?” Ciò significa che erano soprattutto interessati ad aver chiara la Ragione e il Torto. Perché questa è una questione egualmente importante e nella Storia e nel Mondo Fatato.[40]

Rifacendosi ai ricordi della sua infanzia Tolkien rammenta come le fiabe siano state per lui una forma di vera conoscenza, siano state forma del suo incontro con il desiderio:

Io non avevo nessun particolare infantile “desiderio di credere”. Io volevo sapere. Credere dipendeva dal modo in cui mi venivano presentate le storie, dalle persone più anziane, o dagli autori, o dal tono e dalla qualità inerenti al racconto. Ma non ricordo che, in nessun momento, il piacere che mi dava una storia dipendesse dal fatto di credere che avvenimenti di quel genere potessero aver luogo, o avessero avuto luogo, nella “vita reale”. In primo luogo le fiabe non avevano chiaramente a che fare con ciò che era possibile, ma con ciò che era desiderabile. Se risvegliavano il desiderio,e lo soddisfacevano, giungendo spesso ad acuirlo in modo insopportabile, erano riuscite.[41]

Le fiabe riuscite non sono infantili, non nascondo il male presente nella realtà, ma anzi preparano a sostenerlo:

Se usiamo bambino nel senso buono (ha anche un senso legittimamente cattivo), non dobbiamo permettere che ciò ci spinga nel sentimentalismo, facendoci usare adulto o grande solo in senso cattivo (legittimamente, queste parole hanno anche un senso buono). Il processo di crescita non è di necessità collegato al fatto di crescere in malvagità, anche se spesso le due cose sono concomitanti. I bambini devono crescere e non diventare dei Peter Pan. Non per perdere innocenza e meraviglia; ma per avanzare in un viaggio prestabilito: quel viaggio nel quale arrivare è meglio che procedere pieni di speranza, sebbene per arrivare si debba procedere pieni di speranza. Ma una delle lezioni che ci danno le fiabe (se possiamo parlare di lezioni per cose che non montano mai in cattedra) è che il pericolo, il dolore e l’ombra della morte possono conferire dignità e in qualche caso persino saggezza alla gioventù inesperta, impacciata ed egoista.[42]

La fiaba allora si presenta come una vera creazione, come “arte” nel senso più profondo della parola, come lo stabilimento di un “mondo secondario” nel quale tutto deve essere credibile:

Sono non soltanto consapevole, ma anche lieto del fatto che esistano legami etimologici e semantici tra fantasia e fantastico: con immagini di cose che non solo “non sono realmente presenti”, ma invero non possono essere affatto trovate nel nostro mondo primario, o delle quali si suppone che non possano esservi trovate. Nell’ammettere questo, non consento affatto a un tono spregiativo. Che le immagini si riferiscano a cose che non appartengono al mondo primario (se davvero ciò è possibile) è una virtù, non un vizio. La Fantasia in questo senso è, credo, non una forma inferiore ma una forma più elevata di Arte, invero la forma più prossima alla purezza e dunque (quando viene raggiunta) quella più potente.
Naturalmente la Fantasia ha dalla sua un vantaggio: quella stranezza che attrae. Ma questo vantaggio è stato volto contro di lei, e ha contribuito alla sua cattiva reputazione. A molta gente non piace subire un’ “attrazione”. Non gradiscono alcuna intromissione con il Mondo Primario, o quei rapidi sguardi a esso, loro familiari. Essi, dunque, con stupidità, e anche con malignità, confondono la Fantasia con il Sogno, nel quale non vi è Arte alcuna[43]; e con il disordine mentale, in cui non c’è neppure alcun controllo: con l’illusione e con l’allucinazione. Ma l’errore, o la malignità, che viene generato dal turbamento e dal conseguente disgusto, non è la sola causa di questa confusione. La Fantasia ha anche uno svantaggio essenziale: è difficile da raggiungere. La Fantasia può essere, penso, non meno ma più che sub-creativa; e in ogni caso si constata nella pratica che “l’intima consistenza della realtà” è tanto più difficile da produrre, quanto più le immagini e la ristrutturazione del materiale primario sono dissimili dalla struttura reale del Mondo Primario stesso. E’ più facile ottenere questo tipo di “realtà” con materiale più “sobrio”. Troppo spesso quindi, la Fantasia resta senza sviluppo: viene e venne utilizzata superficialmente, o solo con parziale serietà, o per semplice decorazione: resta mera “fantasticheria”. Chiunque erediti lo straordinario strumento del linguaggio umano può parlare del sole verde. Molti possono quindi immaginarlo o descriverlo. Ma questo non basta ancora – per quanto possa già essere qualcosa di più potente di molti “schizzi dal vero” o di molte “scene di vita” che ricevono plauso letterario. Creare un Mondo Secondario all’interno del quale il sole verde possa essere credibile, imponendo la Credenza Secondaria, richiederà probabilmente fatica e riflessione, e sicuramente avrà bisogno di una particolare abilità, una sorta di maestria elfica. Pochi tentano imprese così difficili. Ma quando queste imprese vengono tentate e quando sono in una certa misura riuscite, allora abbiamo una rara conquista artistica: della vera arte narrativa, l’elaborazione di una storia nella sua modalità primaria e più potente.[44]

Avere creatività, fantasia, è uno degli eventi che rivela la nostra somiglianza con Dio stesso, con il Creatore:

La Fantasia resta un diritto umano: noi creiamo a nostra misura e secondo la nostra modalità derivata, perché siamo stati creati: e non soltanto creati, ma creati a immagine e somiglianza di un Creatore.[45]

Nella creazione letteraria noi usiamo ciò che esiste; ci serviamo, ad esempio, della natura, con tutte le sue leggi, ma ne facciamo un qualcosa di unico e di irripetibile. Da qui consegue il rifiuto di ogni lettura allegorica di un’opera di fantasia ben riuscita, quindi anche de Il Signore degli Anelli. In una prospettiva allegorica i singoli personaggi sarebbero visti come semplici rappresentazioni di idee, di tipi, e non come viventi realtà, esistenti in sé, pieni della propria dignità e bellezza. Nella creazione fantastica ogni personaggio non rappresenta, ma è!

La primavera, ovviamente, non è davvero meno bella perché abbiamo già visto o sentito di altri eventi simili: eventi simili, ma mai lo stesso evento dall’inizio del mondo alla sua fine. Ogni foglia, di quercia, di frassino, di biancospino, è una incarnazione unica del modello; e per alcune proprio quest’anno può essere quello dell’incarnazione, il primo mai visto e riconosciuto, anche se le querce hanno continuato a cacciar fuori foglie per innumerevoli generazioni umane. Non dobbiamo perdere la speranza di disegnare, né abbiamo bisogno di farlo, solamente perché tutte le linee possono essere soltanto o curve o dritte, né perdere quella di dipingere perché esistono soltanto tre colori “primari”.[46]

La creazione fantastica permette di parlare con occhi nuovi di ciò che abbiamo sempre dinanzi a noi. Permette di distaccarcene, vedendo la stessa realtà in un contesto diverso, per poterla riscoprire, per tornare a considerarla ed amarla:

La Riscoperta (che comprende un ritorno alla salute e il suo rinnovamento) è un ri-acquisto, il riacquisto di una chiara visione. Non dico che si tratti di “vedere le cose come sono”, e non mi mescolo coi filosofi, anche se potrei azzardarmi a dire di “vedere le cose come noi siamo (o eravamo) destinati a vederle”, quali cose distinte da noi. Abbiamo bisogno, in ogni caso, di pulire le nostre finestre, cosicché le cose viste con chiarezza possano essere liberate dal grigio offuscamento della banalità e della familiarità – liberate dalla possessività. Di tutti i volti, quelli dei nostri familiares, sono insieme quelli con cui è più difficile fare giochi con la fantasia, e quelli che è più difficile vedere con fresca attenzione, percependo la loro somiglianza e la loro differenza: il fatto che sono dei volti, e tuttavia dei volti unici. Questa banalità è in realtà la pena che si sconta per l’ “appropriazione”: le cose che sono trite, o (in senso cattivo) familiari, sono le cose di cui ci siamo appropriati, legalmente o mentalmente. Diciamo di conoscerle. Sono divenute come le cose che un tempo ci hanno attratto con il loro splendore, il loro colore o la loro forma: ci abbiamo messo sopra le mani, e le abbiamo rinchiuse col nostro tesoro, le abbiamo fatte nostre, e facendole nostre abbiamo smesso di guardarle. Naturalmente le fiabe non sono il solo mezzo di riscoperta, la sola profilassi contro la perdita. Basta l’umiltà.[47]

L’aspetto più importante della creazione fantastica non sta così nella sua stravaganza o stranezza, ma nel suo riuscire a parlare in maniera diversa, di ciò che conta realmente:

E in effetti le fiabe trattano ampiamente, o (quelle migliori) principalmente, cose semplici o fondamentali, non toccate dalla Fantasia, che però sono rese più luminose dal loro collocamento. Perché il narratore, che si concede di “essere libero” nei confronti della Natura, può esserne l’amante, non lo schiavo. Fu nelle fiabe che io intuii per la prima volta la potenza delle parole, e la meraviglia delle cose, di cose come pietra, e legno, e ferro; albero ed erba; casa e fuoco; pane e vino.[48]

Così Tolkien rigetta l’accusa di evasione rivolta ai creatori di mondi fantastici:

Perché mai un uomo dovrebbe essere disprezzato se, trovandosi in carcere, cerca di uscirne e di tornarsene a casa? O se, non potendolo fare, pensa e parla di argomenti diversi dai carcerieri e dai muri della prigione? Il mondo esterno non è divenuto meno reale per il fatto che il prigioniero non possa vederlo. Utilizzando “Evasione” in questo modo, i critici hanno scelto la parola sbagliata, e, quel che è peggio, stanno confondendo, e non sempre in buona fede, l’Evasione del Prigioniero con la Fuga del Disertore. Allo stesso modo un portavoce di partito avrebbe potuto etichettare la fuga dalle miserie del Reich del Führer o di qualsiasi altro regime,o anche solo la sua critica, come un tradimento. In modo simile questi critici, per rendere peggiore la confusione, e attirare il disprezzo sugli oppositori, appiccicano la loro etichetta spregiativa non solo sulla Diserzione, ma anche sull’Evasione vera e propria, e su quelli che sono spesso i suoi compagni: Disgusto, Rabbia, Condanna e Rivolta. Non solo essi confondono l’evasione del prigioniero con la fuga del disertore, ma sembrerebbero preferire l’acquiescenza del collaborazionista alla resistenza del patriota. Di fronte a questo modo di pensare, basta dire soltanto: “la terra che amate è condannata” per scusare ogni tradimento, e persino per glorificarlo.[49]

La fiaba ben scritta può riportare, paradossalmente, ad un mondo più reale di quello che si impone apparentemente ai nostri occhi:

Quanto reale, quanto sorprendentemente viva, è infatti la ciminiera di una fabbrica a paragone di un olmo: povera cosa obsoleta, sogno inconsistente di chi cerca di evadere la realtà! Per parte mia, non posso convincermi che il tetto della stazione di Bletchley sia più “reale” delle nuvole. E in quanto manufatto, lo trovo meno ispiratore della leggendaria volta del cielo.[50]

La creazione fantastica non solo non incita all’evasione, ma può permettere di riandare alla bontà ed alla bellezza che la realtà del mondo primario deve ritrovare:

E’ invero un’età di “mezzi migliori per fini peggiori”. E fa parte della malattia essenziale di questi giorni – che produce il desiderio di evadere, non proprio dalla vita, ma dal nostro tempo presente, e dalla infelicità che ci siamo procurati da soli – il fatto che noi siamo acutamente consapevoli sia della bruttezza delle nostre opere, che della loro malvagità. Cosicché per noi malvagità e bruttezza sembrano essere indissolubilmente collegate. Ci riesce difficile concepire insieme il male e la bellezza. La paura per la bellissima fata che corre attraverso le età più antiche, non riusciamo quasi ad afferrarla. E, cosa ancor più allarmante: la stessa bontà è priva della bellezza che le è propria.[51]

I desideri più profondi dell’uomo, ciò che egli non deve dimenticare, trovano posto nella creazione di mondi secondari:

Vi sono desideri più profondi, come il desiderio di conversare con altri esseri viventi. E’ su questo desiderio, antico quanto il Peccato Originale, che si fonda soprattutto la capacità di parlare alle bestie e ad altre creature nelle fiabe, e soprattutto la comprensione magica del linguaggio loro proprio. Questa ne è la radice, e non la “confusione” attribuita alle menti degli uomini del passato non storico, una presunta “mancanza della percezione di ciò che separa noi stessi dalle bestie”. Un vivido senso di questa separazione è estremamente antico; ma anche la percezione che si sia trattato di una rottura: uno strano destino e una strana colpa che ci sovrastano. Le altre creature sono come altri regni con cui l’Uomo ha rotto le relazioni, e che vede ora soltanto dall’esterno e da lungi, essendo in guerra con loro, o al massimo nelle condizioni di un difficile armistizio.[52]

Ed allora ecco che la fiaba, sempre, parlerà del grande desiderio umano, che la realtà primaria può apparentemente accantonare, ma che è, invece, stabilito saldamente nel cuore dell’uomo: il desiderio della vita eterna:

Perché, di sicuro, qualsiasi tipo di costumi e di credenze intorno ai rospi e ai pozzi possa nascondersi dietro alla storia, la forma di rospo fu ed è preservata nella fiaba[53] proprio a causa del fatto che era tanto bizzarra, e il matrimonio assurdo, e a dire il vero abominevole. Anche se, naturalmente, nelle versioni che ci riguardano, gaelica, tedesca, inglese[54], non c’è di fatto nessun matrimonio tra la principessa e il rospo: il rospo era un principe incantato. Ma il punto essenziale della storia non sta nel pensare i rospi quali possibili mariti, ma nella necessità di mantener fede alle promesse (anche quelle che comportano conseguenze intollerabili), un tema che, insieme con l’osservanza delle proibizioni, corre attraverso tutto il Regno delle Fate. Questa è una delle note che suona il corno della Terra degli Elfi, e non è una nota fievole. E infine vi è il desiderio più antico e profondo, quello della Grande Evasione, l’evasione dalla Morte. Le fiabe procurano un gran numero di esempi e di forme diverse di questo desiderio – che potrebbe essere chiamato il vero spirito evasivo o (direi) fuggitivo. Ma fanno lo stesso altre storie (in particolare quelle di ispirazione scientifica), e fanno lo stesso altri studi. Le fiabe sono realizzate da uomini e non da esseri fatati. E le storie umane sugli elfi sono senza dubbio piene di Evasione dall’Immortalità. Non si può pretendere che le nostre storie si elevino sempre al di sopra del nostro livello comune. Ma lo fanno spesso. Poche lezioni vengono impartite in esse più chiaramente del fardello di questo tipo di immortalità, o piuttosto di una serie senza fine di vite, da cui il “fuggitivo” vorrebbe scappare. Perché la fiaba è particolarmente adatta a insegnare cose di questo genere, di molto tempo fa e anche di oggi.[55]

Il desiderio della vita eterna, di un bene che non si esaurisce e non viene annientato, prende nella fiaba, la forma del “lieto fine”:

La “consolazione” procurata dalle fiabe ha anche un altro aspetto oltre alla soddisfazione fantastica di antichi desideri. Di gran lunga più importante è la Consolazione del Lieto Fine. Mi arrischierei quasi ad affermare che ogni fiaba compiuta dovrebbe averlo. Quantomeno direi che la Tragedia è la vera forma del Teatro, la sua più alta funzione; ma il contrario vale per la Fiaba. Dal momento che non sembra vi sia una parola per esprimere questo opposto – lo chiamerò Eucatastrofe. Il racconto eucatastrofico è la vera forma della fiaba, e rappresenta la sua più elevata funzione. La consolazione delle fiabe, la gioia del lieto fine: o, più correttamente, della buona catastrofe, dell’improvviso “capovolgimento” felice (perché non esiste un vero finale per nessuna fiaba): questa gioia, che è una delle cose che la fiaba può produrre supremamente bene, non è in essenza né “evasiva” né “fuggitiva”. Nella sua ambientazione fiabesca – od oltremondana – è una grazia improvvisa e miracolosa: e non bisogna mai contare sul suo ripetersi. Non nega l’esistenza della discatastrofe, del dolore e del fallimento: la possibilità che ciò si verifichi è necessaria alla gioia della liberazione; essa nega (a dispetto di un gran numero di prove, se si vuole) la sconfitta finale e universale, ed è in quanto tale un evangelium, che fornisce una visione fuggevole della Gioia, quella Gioia oltre le muraglie del mondo, intensa come il dolore.
La caratteristica di una buona fiaba, del tipo più elevato o completo, è che, per quanto siano sregolati i suoi avvenimenti, per quanto fantastici o terribili le sue avventure, essa possa dare ai bambini o agli uomini che l’ascoltano, quando giunge il “capovolgimento”, un’esitazione nel respiro, un palpito ed un sobbalzo del cuore, prossimo alle lacrime (e spesso accompagnato da esse), altrettanto acuti di quelli che dà ogni altra forma di arte letteraria, e dotati di una sua qualità peculiare.[56]

L’eucatastrofe, il “rivolgimento buono e bello” porta così al tema della gioia, della capacità di gioire e di avere un fondamento per la nostra gioia. Alla conclusione del saggio, in maniera inaspettata e straordinaria, Tolkien si rivolge al racconto evangelico. In una lettera del 1944 il rapporto fra il “lieto fine” letterario e la salvezza sperimentata nella realtà della fede cristiana è evidenziato nella considerazione dei “miracoli” neotestamentari ed in quelli della storia della Chiesa, con particolare riferimento a Lourdes. Dopo aver partecipato ad una messa con “padre C.” che aveva fatto uno “splendido commento” al vangelo della domenica, quello della guarigione della donna e della figlia di Giairo, ed aveva poi raccontato alcuni miracoli di Lourdes, così scrive Tolkien raccontando i suoi sentimenti:

(Padre C. ha raccontato) la storia commovente del ragazzino afflitto da una peritonite tubercolare che non guarì e fu tristemente riportato via verso il treno del ritorno dai suoi genitori, praticamente sul punto di morte, con due infermiere che lo accudivano. Allontanandosi, il treno passò davanti alla Grotta. Il ragazzino si tirò su a sedere: “Voglio andare a parlare con quella bambina!”. Sullo stesso treno c’era una bambina che era stata guarita. E si alzò e camminò fin dalla bambina e giocò con lei; poi tornò indietro e disse “Adesso ho fame”. E gli diedero una fetta di torta e due tazze di cioccolata e un enorme panino imbottito di carne e lui mangiò tutto! (Questo nel 1927). Anche Nostro Signore aveva detto di dare qualcosa da mangiare alla figlioletta di Giairo. Così semplicemente e pianamente: perché i miracoli sono così. Sono delle intrusioni (come diciamo noi, sbagliando) nella vita quotidiana, hanno bisogno di pasti ordinari e altre cose simili.

Ma la storia del ragazzino (che naturalmente è ampiamente documentata) con la sua conclusione in apparenza triste e poi l’improvviso insperato lieto fine, mi ha profondamente commosso e ho provato quella particolare emozione che tutti proviamo, sebbene non spesso. Era diversa da ogni altra sensazione. E all’improvviso mi sono reso conto di che cosa si trattava: proprio quello che avevo cercato di scrivere e di spiegare nel saggio sulle fiabe che vorrei tanto che tu avessi letto e che anzi ti manderò. Per questa sensazione ho coniato la parola “eucatastrofe”: l’improvviso lieto fine di una storia che ti trafigge con una gioia tale da farti venire le lacrime agli occhi (che io argomentavo essere il sommo risultato che una fiaba possa produrre).

Per venire a cose meno importanti: mi resi conto di aver scritto una storia che vale con Lo Hobbit, quando leggendola (dopo che era abbastanza matura perché io me ne staccassi) provai improvvisamente in modo intenso l’emozione “eucatastrofica” all’esclamazione di Bilbo: “Le aquile! Stanno arrivando le aquile!”. [...] E nell’ultimo capitolo dell’Anello che ho appena scritto spero che noterai, quando l’avrai ricevuto (sarà presto in viaggio) che la faccia di Frodo diventa livida e Sam si convince che è morto, proprio quando Sam comincia a sperare.[57]

Nel testo Sulle fiabe il rapporto viene istituito direttamente, invece – ma i due testi sono in assoluta continuità - con il vangelo nella sua interezza, con l’intera narrazione stessa della vita del Signore Gesù, l’unica nella quale, da un lato, incontriamo una “intima consistenza della realtà”, una coerenza interna del racconto, che viene percepito come vero, ma, dall’altro, l’eucatastrofe raccontata da esso, è vera anche come storia realmente accaduta e apportante la salvezza all’uomo. Appartiene alla Creazione, l’opera di Dio ed alla Sub-creazione, l’opera dell’uomo, al Mondo primario, quello dei fatti, ed a quello secondario, quello della narrazione di ciò che è meraviglioso:

Questa «gioia» che io ho scelto come la caratteristica della vera fiaba (e del romanzo d’avventure), o come il sigillo che la contraddistingue, merita qualche ulteriore considerazione.
Probabilmente ogni scrittore, nel costruire un mondo secondario, una fantasia, ogni sub-creatore desidera in qualche misura essere un vero creatore, o spera di tracciare un disegno sulla realtà: spera che la peculiare qualità di questo mondo secondario (anche se non tutti i suoi particolari)[58] siano derivati dalla Realtà, o confluiscano in essa. Se quindi egli consegue una qualità che può ben essere sintetizzata dalla definizione da dizionario «intima consistenza della realtà», è difficile concepire come questo possa accadere, se l’opera stessa non partecipa in qualche modo della realtà. La particolare qualità della «gioia» nella Fantasia ben riuscita può quindi essere spiegata come uno sguardo improvviso alla realtà, o verità, sottesa. Non è solo una «consolazione» per i dolori di questo mondo, ma una soddisfazione, e una risposta alla domanda: «E vero?» La risposta a questa domanda che io ho dato in primo tempo era (abbastanza giustamente): «Se hai costruito bene il tuo piccolo mondo, sì: è vero in quel mondo». Ciò basta per un artista (o per la parte artistica di un artista). Ma nella «eucatastrofe» scorgiamo in una fugace visione come la risposta possa essere più ampia: può essere un bagliore o un’eco distanti dell’evangelium nel mondo reale. L’uso di questo termine offre uno spunto al mio epilogo. È una questione seria e pericolosa. Da parte mia è presuntuoso toccare un simile tema; ma se per miracolo ciò che dico ha sotto qualche aspetto una certa validità, si tratta, ovviamente, solo di una sfaccettatura di una verità inestimabilmente ricca: limitata unicamente perché è limitata la capacità dell’Uomo per cui essa fu fatta. Mi azzarderei dunque a dire che, avvicinando da questo versante la Storia Cristiana, ho avuto da gran tempo la sensazione (una gioiosa sensazione) che Dio abbia redento i suoi esseri corrotti e creatori, gli uomini, in un modo che si adatta a questo, e ad altri aspetti della loro singolare natura. I Vangeli contengono una fiaba, o una storia di genere più ampio, che abbraccia l’intera essenza delle fiabe. I Vangeli contengono molte meraviglie —peculiarmente artistiche[59], splendide, e commoventi: «mitiche» nel loro significato perfetto e autosufficiente; e, tra le meraviglie, vi è la più grande e più completa eucatastrofe che si possa immaginare. Ma questa storia è penetrata nella Storia e nel mondo primario; il desiderio e l’aspirazione della sub-creazione sono stati elevati sino al compimento della Creazione. La Nascita di Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo. La Resurrezione è l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa storia comincia e finisce nella gioia. Ha in modo preminente «l’intima consistenza della realtà». Non si è mai narrato alcun racconto che gli uomini abbiano trovato più vero di questo, e nessuno che più uomini scettici abbiano accettato come vero per i suoi propri meriti. Perché la sua Arte ha il tono in sommo grado convincente dell’Arte Primaria, cioè della Creazione. Respingerlo conduce o alla tristezza, o all’ira. Non è difficile immaginare l’eccitamento e la gioia peculiari che si proverebbero se ogni fiaba particolarmente bella si scoprisse vera in senso primario, se il suo racconto fosse Storia, senza che per questo essa dovesse perdere il significato mitico o allegorico che aveva posseduto. E non è difficile, perché non si è invitati a sperimentare e a concepire qualcosa di una qualità sconosciuta. La gioia avrebbe avuto esattamente la stessa qualità, anche se non la stessa intensità, della gioia che dà il «capovolgimento» in una fiaba: una simile gioia ha il gusto proprio della verità primaria. (In caso contrario, il suo nome non sarebbe stato gioia.) Essa guarda avanti (o indietro: la direzione di questo sguardo è priva di importanza) alla Grande Eucatastrofe. La gioia cristiana, la Gloria, è dello stesso genere; ma è preminentemente (infinitamente, se non fossero finite le nostre capacità) alta e gaia. Perché questa storia è suprema; ed è vera. L’arte ha avuto la sua verifica. Dio è il Signore, degli angeli, e degli uomini – e degli elfi. La Leggenda e la Storia si sono incontrate e fuse. Ma nel regno di Dio la presenza di ciò che è più grande non schiaccia ciò che è più piccolo. L’Uomo redento è ancora uomo. Il Racconto, la fantasia, continuano ancora, e dovrebbero continuare. L’Evangelium non ha abrogato le leggende; le ha santificate, specialmente nel “lieto fine”. Il cristiano deve ancora operare, con la mente come con il corpo, deve soffrire, sperare, e morire; ma ora può percepire che tutte le sue predisposizioni e facoltà hanno uno scopo, che può essere redento. Così grande è stata la liberalità con cui è stato trattato che ora egli può, forse, a ragion veduta supporre che nella Fantasia può effettivamente assistere al germogliare e al molteplice arricchimento della creazione. Tutti i racconti possono divenire veri; e peraltro, alla fine, redenti, possono essere così simili e così dissimili alla forma che abbiamo dato loro, come l’Uomo, finalmente redento, sarà simile e dissimile alla creatura decaduta che conosciamo.[60]

Torniamo così al punto dal quale siamo partiti in questa rapida rassegna di testi tolkieniani: l’opera del maestro inglese ed, in particolare, Il Signore degli Anelli, celebra il Padre del Figlio suo Gesù Cristo, capace non solo di creare e di salvare ciò che ha creato, ma anche di assegnare all’uomo la capacità di creare a sua volta, per farlo sentire ed essere, a sua volta, creatore e capace di opere di salvezza.

Il Signore degli Anelli: la “creazione” della fantasia e “l’intima consistenza della realtà”

Vogliamo ora, infine, illuminati dalle considerazioni “teoriche” del maestro anglosassone, considerarne le esplicite riflessioni sulla sua stessa opera principale, Il Signore degli Anelli. Con esso Tolkien ha certamente voluto creare un mondo, a partire da quella caratterizzazione tipica di una data situazione che è il linguaggio:

Un intervistatore mi ha chiesto di che cosa trattasse il Signore degli Anelli e se era un’allegoria. E io gli ho detto che era uno sforzo di creare una situazione in cui il normale modo di salutarsi fosse elen sila lumenn omentielmo, e che questa frase era nata molto prima del libro. Di lui non ho più saputo nulla. Ma mi sono divertito immensamente e sono andato a letto veramente felice.[61]

Tolkien distingue tra quella che chiama l’ “applicabilità” che ogni vera opera ha – potremmo chiamarla anche significatività, orizzonte di senso - e l’allegoria. Il Signore degli Anelli non è allegorico, i suoi protagonisti sono reali nel loro mondo:

(Il Signore degli Anelli) non è allegorico né fa riferimento all’attualità. La storia, crescendo, ha messo radici (giù nel passato) e ha prodotto rami inaspettati: il suo tema principale però è stato imposto fin dall’inizio dall’inevitabile scelta dell’Anello quale legame con Lo Hobbit. Il capitolo cruciale, “L’ombra del passato” è una delle parti più vecchie del racconto. E’ stato scritto molto prima che i presagi del 1939 si mutassero in minacce di un disastro inevitabile, e da quel punto la storia si sarebbe sviluppata lungo le stesse linee anche se quel disastro fosse stato evitato. Le sue fonti sono cose che avevo già in mente, o in alcuni casi avevo già scritte, e poco o nulla è stato modificato dalla guerra iniziata nel 1939 o dalle sue conseguenze.[62]

Altre soluzioni possono essere trovate in accordo con i gusti di quelli che amano l’allegoria o il riferimento all’attualità. Io però detesto cordialmente l’allegoria in tutte le sue manifestazioni, e l’ho sempre detestata da quando sono diventato abbastanza vecchio e attento da scoprirne la presenza. Preferisco di gran lunga la storia, vera o finta che sia, con la sua svariata applicabilità al pensiero e all’esperienza dei lettori. Penso che molti confondano “applicabilità” con “allegoria”; l’una però risiede nella libertà del lettore, e l’altra nell’intenzionale imposizione dello scrittore.[63]

La fantasia della creazione letteraria non elimina così, nemmeno, la qualità della realtà geografica:

Io ho la mentalità dello storico. La Terra-di-mezzo non è un mondo immaginario. Il nome è la forma moderna (apparsa nel XIII secolo e ancora in uso) di midden-erd/middel-erd, l’antico nome di oikoumene, il posto degli uomini, il mondo reale, usato proprio in contrasto con il mondo immaginario (come il paese delle fate) o come mondi invisibili (come il paradiso o l’inferno). Il teatro della mia storia è su questa terra, quella su cui noi ora viviamo, solo il periodo storico è immaginario. Ci sono tutte le caratteristiche del nostro mondo (almeno per gli abitanti dell’Europa nord-occidentale) così naturalmente sembra familiare, anche se un pochino nobilitato dalla lontananza temporale.[64]

Il mio non è un mondo immaginario, ma un momento storico immaginario su una Terra-di-mezzo – che è la terra dove noi viviamo.[65]

La geografia e la storia sono aspetti ineliminabili da Il Signore degli Anelli, per un vero godimento di esso ed una sua corretta lettura:

Auden ha affermato che per me “il Nord è un luogo sacro”. Questo non è affatto vero. Alla zona a nord-ovest dell’Europa, dove io (e gran parte dei miei antenati) ho vissuto, sono affezionato, come ogni uomo è affezionato alla propria patria. Amo la sua atmosfera, e conosco la sua storia e le sue lingue più di quanto non conosca quelle delle altre parti del mondo; ma non è “sacra”, né esaurisce tutto il mio interesse e tutto il mio affetto. Nutro, per esempio, un amore particolare per il latino e, fra tutte le lingue che derivano dal latino, per lo spagnolo. Che l’affermazione di Auden non sia vera, una pura e semplice lettura delle note al mio libro lo può rivelare. Il Nord è il luogo dove si ergono le fortezze del Male. Il racconto finisce con quanto di più simile al ristabilimento di un Sacro Romano Impero con il suo centro a Roma un “nordico” potesse inventare.[66]

Tolkien ha sempre affermato che le 6 appendici del volume, gli “Annali dei Re e Governatori”, “Il calcolo degli anni”, gli “Alberi genealogici”, il “Calendario della Contea valido per tutti gli anni”, la “Scrittura e pronunzia”, le “Notizie etnografiche e linguistiche” vanno considerate come parte integrante della sua opera, non mero divertimento, ma fedele rispetto di un mondo che deve essere considerato vero.
E come agli umani non è concesso decidere in quale epoca od in quale situazione vivere, ma piuttosto è chiesto di accettare la propria, così avviene dei personaggi de Il Signore degli Anelli:

Chesterton una volta disse che è nostro dovere tenere alta la bandiera di questo mondo: ma adesso è necessario un patriottismo più sublime e più vigoroso di allora. Gandalf ha aggiunto che non sta a noi scegliere l’epoca in cui nascere, ma fare il possibile per ripararne i mali; ma lo spirito della corruzione nelle alte sfere è ormai così potente e così multiforme nelle sue incarnazioni che non sembra esserci altro da fare che rifiutarsi di venerare le teste dell’idra.[67]

In alcune lettere, con humour inglese, si scaglia contro l’abuso degli stessi nomi propri da lui creati, come quando gli viene chiesto cosa pensi della possibilità di utilizzare per delle mucche nomi dei personaggi del Signore degli Anelli:

Cara mrs.Thurston... personalmente io sono contrario a dare nomi d’uomo e nomi nobili agli animali; e in ogni caso Elrond e Glorfindel non mi sembrano personaggi idonei, perché i loro nomi, che significano “volta di stelle” e capelli d’oro”, mi sembrano inadatti... Non mi piacerebbe che questi nomi venissero dati a mucche e giovenche... Non sarebbe utile il nome della mucca preferita di Farmer Giles: Galathea... che potrebbe essere tradotto con “dea del latte”?[68]

Allo stesso modo, ma con più veemenza ancora, manifesta il suo fastidio alla notizia che un aliscafo Aquatroll, utilizzato da Calais a Dover, ha ricevuto il nome del cavallo cavalcato da Gandalf, Shadowfax:

Vorrei che il copyright potesse proteggere i nomi, così come protegge i libri. E’ stato un nome che ho fatto molta fatica ad inventare e di cui ero molto soddisfatto; e in realtà inventarlo è stato altrettanto difficile (anzi di più) che inventare una strofa di poesia. Devo dire che mi ha seccato il battesimo di quel mostruoso aliscafo con Shadowfax – senza nemmeno un “con il Suo permesso” – su cui molte lettere avevano attratto la mia attenzione (alcune indignate). Mi sto abituando a Rivendell, Loriens, Imladris, ecc. usati come nomi di case – anche se non molto più numerosi delle lettere con cui mi si chiede il permesso di usarli.[69]

Se c’è una cosa di cui Tolkien stesso deve rimproverarsi, non è la resa di questo o quel personaggio, non è la caratterizzazione dei singoli episodi, ma l’eccessiva brevità del racconto!

Il più critico dei lettori, io stesso, adesso trova molti difetti, minori e maggiori, ma non avendo per fortuna alcun obbligo di revisionare o riscrivere il libro, li passerà sotto silenzio, eccetto uno che è stato notato anche da altri: il libro è troppo corto.[70]

La verità del racconto è parte essenziale di esso. Incontriamo ancora la sua opposizione al progetto di sceneggiatura dello Zimmerman che, nel giugno 1958, gli era stata sottoposta in vista di un film tratto dal libro:

Le stagioni sono considerate con molta attenzione nell’originale. Sono descrittive e dovrebbero essere, e possono esserlo facilmente, i mezzi principali con cui l’artista indica il trascorrere del tempo. L’azione principale comincia in autunno e si snoda lungo l’inverno fino ad arrivare ad una brillante primavera: questo è fondamentale per lo scopo e il tono del racconto. L’accelerazione di tempo e spazio di Z (N.d.C. Z sta sempre per Zimmerman) distrugge tutto questo. Le sue modifiche fanno sì, per esempio, che capitiamo in una tempesta di neve mentre siamo ancora in estate. Il Signore degli Anelli può ben essere un racconto fantastico, ma si svolge nell’emisfero settentrionale della terra: le miglia sono miglia, i giorni sono giorni, e il tempo è tempo. Una compressione di questo tipo non è la stessa cosa di una necessaria riduzione o selezione delle scene e degli avvenimenti che saranno rappresentati.
Il primo paragrafo mal raffigura Tom Bombadil. Non è il padrone del bosco; e non lancerebbe mai una simile minaccia. “Vecchio birbante!” Questo è un buon esempio della tendenza generale che trovo in Z di abbassare il tono del racconto e ridurlo a fiaba per bambini. L’espressione non va d’accordo con il tono del discorso più lungo che Tom Bombadil fa in seguito; e nonostante questo sia stato tagliato, non c’è nessun bisogno di sorvolare sulle indicazioni. Mi dispiace, ma penso che il modo di presentare Goldberry sia sciocco, e che faccia il paio con “vecchio birbante”. Non ha nemmeno riscontro nel mio racconto. Non siamo in un paese fatato, ma nelle terre lungo il fiume, molto reali, in autunno. Goldberry rappresenta il cambio delle stagioni in queste terre. Personalmente penso che sarebbe molto meglio che sparisse piuttosto che apparire in modo così privo di significato.[71]

Nella sceneggiatura di Zimmerman sono mescolati e confusi due filoni che hanno una loro dignità e diversità che deve essere rispettata:

Il racconto si divide in due filoni principali: 1. Azione fondamentale, i Portatori dell’anello. 2. Azione secondaria, il resto della Compagnia impegnata in gesta “eroiche”. E’ essenziale che questi due filoni debbano essere trattati ognuno in modo coerente, sia per rendere comprensibile il racconto e sia perché sono completamente diversi come tono e come scenario. Mescolandoli insieme si rovina tutto.[72]

Ma, sopratutto, nella riduzione cinematografica proposta, l’identità dei personaggi viene modificata, introducendo a piene mani aspetti magico-fantastici che snaturano il racconto:

A Z inoltre piacciono troppo le parole ipnosi e ipnotico. Né la vera ipnosi né varianti meno scientifiche appaiono mai nel mio racconto. La voce di Saruman non era ipnotica, ma persuasiva. Quelli che lo ascoltavano non correvano il rischio di cadere in trance, ma di essere d’accordo con le sue opinioni, restando del tutto svegli. Chiunque poteva reagire, grazie al proprio libero arbitrio e in base alla propria ragione, alla sua voce mentre parlava e all’impressione che esercitava. Saruman guastava la forza della ragione. Z ha tagliato la fine del libro, compresa la morte di Saruman così come veniva descritta nel libro. In questo modo non vedo una buona ragione per farlo morire. Saruman non si sarebbe mai suicidato: aggrapparsi alla vita fino all’ultimo è la caratteristica del tipo di persona che lui era diventato. Se Z vuole sistemare Saruman (non capisco perché, visto che molti altri filoni del racconto non vengono ripresi e conclusi) Gandalf dovrebbe dire qualcosa. Saruman cade colpito da scomunica: “Dato che non vuoi venire fuori e aiutarci, starai qui in Orthanc fino a marcire, Saruman, Gli Ent ti sorveglieranno!”.[73]

Z [...] ha inserito arbitrariamente un “castello fatato” e un mucchio di Aquile, per non parlare di incantesimi, luci azzurre, e qualche irrilevante episodio di magia (come il corpo fluttante di Faramis). Ha tagliato via quelle parti della storia da cui dipendono le sue caratteristiche e la sua peculiarità, dimostrando una netta preferenza per i combattimenti; e non ha fatto alcun serio tentativo di rappresentare adeguatamente il nocciolo del racconto: il viaggio dei Portatori dell’Anello. L’ultima parte, la più importante, del racconto è stata, e non è una parola troppo forte, semplicemente assassinata.[74]

La serietà del dramma che i singoli personaggi vivono è mortificata nella riduzione dello Zimmerman:

Gandalf, per favore, non dovrebbe “borbottare”. Benché possa sembrare a volte irritabile, abbia senso dell’umorismo e assuma un atteggiamento paterno nei confronti degli hobbit, è una persona di grande autorità e grande dignità.[75]

Lasciare la locanda di notte e fuggire al buio è una soluzione impossibile delle difficoltà di questa scena (di cui mi rendo conto!). E’ l’ultima cosa che Aragorn avrebbe fatto. E’ basata su una concezione sbagliata dei Cavalieri Neri, che io prego Z di riconsiderare. Sono pericolosi quasi esclusivamente a causa della paura irragionevole che ispirano (come i fantasmi). Contro chi non li teme non possono fare molto; ma i loro poteri, e la paura che suscitano, sono enormemente aumentati dall’oscurità. Il loro re è più potente di tutti; ma non deve acquistare fin dall’inizio le dimensioni del vol. III. Là, quando Sauron gli affida il comando, acquista un’ulteriore forza demoniaca. Ma persino durante la Battaglia di Pelennor, l’oscurità si è appena rotta.[76]

La scomparsa delle tentazione di Galadriel è significativa. Praticamente tutto quello che aveva una valenza morale è sparito dalla trama.[77]

Ecco che appare più evidente ancora l’affermazione de Sulle fiabe che la creazione fantastica non è caratterizzata dalla presenza di “esseri fatati”. La solidità e la bellezza della storia narrata nella sua unicità non allegorica appartiene alla qualità dell’opera e permette il nostro godimento.

Il Signore degli Anelli: gli hobbit - e l’uomo - dinanzi al male

Gli esseri fantastici che sono stati creati dalla fantasia di Tolkien non rappresentano che se stessi, ma, insieme, ci fanno guardare con occhi nuovi alle qualità ed al destino dell’essere uomo:

Verso la metà della III Età appaiono gli hobbit. La loro origine è sconosciuta (persino a loro stessi) perché sono sempre sfuggiti all’attenzione dei più grandi, o alla gente civilizzata con le sue registrazioni, e nemmeno loro ne tenevano, tranne vaghe tradizioni orali, finché non sono emigrati dai confini di Mirkwood.... Gli hobbit, naturalmente, sono una branca della razza umana (non degli elfi o dei nani) – per cui le due varietà, hobbit e uomini, possono vivere pacificamente insieme (come a Bree) e sono chiamati il Grande Popolo ed il Piccolo Popolo. Sono completamente privi di poteri sovrumani, ma sono rappresentati come più vicini alla natura (alla terra e alle altre cose viventi, piante e animali) e, straordinariamente dal punto di vista umano, privi di ambizione o di brama di ricchezza. Sono stati rappresentati come piccoli (alti poco più della metà della normale statura umana, ma man mano che gli anni passano si rimpiccioliscono) in parte per sottolineare la piccineria del provinciale terra terra, benché senza la meschinità o la crudeltà di Swift, ma soprattutto per far risaltare, in creature di così piccola forza fisica, l’eroismo sorprendente e inaspettato che ogni uomo dimostra quando messo alle strette.[78]

Tolkien rivendica anche qui la passione per la lingua, all’origine della sua creazione. Ma quei nomi, quelle parole, esprimono la passione per la vita:

Alla base c’è l’invenzione dei linguaggi. Le “storie” furono create per fornire un mondo ai linguaggi e non il contrario. Per me, prima viene il nome e poi la storia...
Una volta scribacchiai “hobbit” su un foglio bianco di qualche noiosa composizione scritta agli inizi degli anni Trenta. Passò qualche tempo prima che scoprissi a che cosa si riferiva!...

Naturalmente ci sono certe cose e certi temi che mi toccano in modo particolare. Le relazioni fra “nobile” e “semplice” (o comune, volgare), per esempio. Trovo specialmente interessante la nobilitazione dell’ignobile. Sono (ovviamente) innamorato delle piante e soprattutto degli alberi, e lo sono sempre stato; e i maltrattamenti che l’uomo infligge loro per me sono altrettanto difficili da sopportate dei maltrattamenti inflitti agli animali.[79]

La lingua di espressione dei personaggi è creata ex novo, ma il riferimento agli studi filologici anglosassoni di Tolkien è sempre presente:

A proposito, Sam non è l’abbreviazione di Samuel ma di Samwise (in inglese antico sta per “sciocco”), così come il nome di suo padre Gaffer (Ham) sta per Hamfast o Stayathome in inglese antico.[80]

Per quanto riguarda Sam Gamgee, sono del tutto d’accordo con quello che dici, e non mi sognerei di cambiargli il nome senza la tua approvazione; ma lo scopo del cambiamento era proprio quello di far risaltare la comicità, la paesanità e se vuoi l’inglesità di questo gioiello tra gli hobbit. Se mi fosse venuto in mente fin dall’inizio avrei dato a tutti gli hobbit nomi molto inglesi adatti alla contea.[81]

Gli Hobbit sono al centro della narrazione. Con essi tutta l’attenzione viene concentrata sulla reazione di coloro che sono i piccoli, gli “umili”, dinanzi ai grandi rivolgimenti e, sopratutto, dinanzi al dispiegarsi del male:

Comunque io stesso mi ero accorto del valore degli hobbit, solida terra sotto i piedi del romanzo, e in grado di essere nobilitati e di diventare eroi molto più lodevolmente di quelli tradizionali: nolo heroizari è una buona partenza per un eroe, come nolo episcopari per un vescovo. Non che io sia un “democratico” nel senso corrente del termine; tranne per il fatto che credo, per parlare in termini letterari, che siamo tutti uguali di fronte al Grande Autore, qui deposuit potentes de sede et exaltavit humiles.[82]

Il punto di vista degli hobbit è quello che viene proposto al lettore. E questo punto di vista è antropocentrico:

Ma così come i primi racconti erano visti attraverso gli occhi degli elfi, quest’ultima grande storia, che dal mito e dalla leggenda scende alla terra, è vista soprattutto attraverso gli occhi degli hobbit: in questo modo, in effetti, diventa antropocentrica. Ma attraverso gli hobbit, e non gli uomini, perché l’ultima storia deve chiarire del tutto un tema ricorrente: il posto che nelle “politiche mondiali” occupano gli atti di volontà imprevisti e imprevedibili, e le buone azioni di chi apparentemente è piccolo, poco eroico e dimenticato invece dai saggi e dai grandi (sia buoni che malvagi). La morale conclusiva (dopo il primo simbolismo dell’Anello, cioè il desiderio di potere che cerca di diventare oggettivo attraverso una forza e un meccanismo fisici e inevitabilmente anche attraverso le menzogne) è ovvia: senza l’alto e il nobile il semplice e il volgare è destinato a rimanere tale; e senza il semplice e volgare il nobile e l’eroico non hanno senso.[83]

L’angolo di visuale degli hobbit è così simile a quello dell’uomo, di ogni uomo, che così Tolkien può scrivere al figlio:

Bé, eccoti qua: uno hobbit in mezzo allo Urukhai. Conserva nel cuore la tua hobbitudine, e pensa che tutte le storie sono così quando ci sei in mezzo. Tu sei dentro una storia molto grande![84]

Proprio questa “normalità” non eroica degli hobbit, porta Tolkien ad indicare in Sam – e non in Frodo – la tipicità hobbit. E’ per questo che il tema della famiglia appare in Sam:

Dato che ho cercato di affrontare la “vita di tutti i giorni”, che sia pur calpestata dai grandi avvenimenti e dalla politica mondiale risorge sempre mai doma, ci sono anche storie d’amore o amore in forme diverse, che nello Hobbit sono completamente assenti. Ma la più nobile storia d’amore, quella di Aragorn con la figlia di Elrond, Arwen, è solamente accennata come se fosse risaputa. L’ho raccontata da un’altra parte, nella breve storia di Aragorn e Arwen Undomiel. Penso che il semplice, rustico amore di Sam e della sua Rosie sia assolutamente essenziale per lo studio del suo [dell’eroe principale] personaggio, e per il collegamento fra vita quotidiana (respirare, mangiare, lavorare, procreare) e le ricerche, i sacrifici, le giuste cause e “la nostalgia per gli elfi”, e la pura bellezza. Ma non voglio dire più niente, né difendere il tema dell’amore infelice di Eowyn e del suo primo amore per Aragorn.[85]

E, prima di terminare il romanzo, già ne descrive il finale, incentrandolo su Sam, tornato alla “nobiltà” delle sue occupazioni ordinarie:

Certo Sam è il personaggio più compiuto, il successore del Bilbo del primo libro, il vero hobbit. Frodo non è così interessante, perché deve essere di nobili sentimenti, e ha una vocazione. Il libro probabilmente finirà con Sam. Frodo naturalmente sarà troppo nobilitato e rarefatto per aver portato a termine la grande Ricerca, e andrà verso Occidente con tutte le grandi figure; ma S. si stabilirà nella Contea e si occuperà del giardino e della locanda.[86]

Il cosciente rifiuto della allegoria e la scelta della narrazione creativa sono evidenti nell’affermazione della individualità, della “personalità” di ogni hobbit:

Evidentemente ho reso l’orrore veramente orribile, e questo mi dà grande soddisfazione; perché ogni romanzo che consideri le cose seriamente deve avere in sottofondo paura e orrore, se vuole raffigurare, per quanto remotamente o in modo rappresentativo, la realtà, e non essere pura evasione. Ma ho fallito se non sembra possibile che semplici hobbit possano aver a che fare con queste cose. Credo che non esista orrore pensabile che queste creature non possano superare, per una grazia (che qui appare in forme mitologiche) combinata con un rifiuto della loro natura e della ragione in caso di necessità fino al compromesso o alla sottomissione. Ma nonostante questo, che Rayner non sospetti l’ “allegoria”. C’è una morale, suppongo, in ogni storia che valga la pena di essere raccontata. Ma non è la stessa cosa. Persino la battaglia tra oscurità e luce (come lui la chiama, non io) per me è solamente una particolare fase della storia, un esempio dei suoi modi, forse, ma non il Modo; e gli attori sono individui: ognuno di loro, naturalmente, contiene l’universale, altrimenti non vivrebbero affatto, ma non si rappresentano mai come universali.[87]

Il male contro cui gli hobbit lottano è ben conosciuto all’uomo. Tolkien ne scrive al figlio Christopher, che sembra amare con predilezione particolare:

Naturalmente, come hai già scoperto, una delle scoperte che si fanno lungo il cammino è che sotto apparenze spaventose spesso si nascondono delle qualità. Urukhai è solamente un prodotto dell’immaginazione. Non ci sono veri Uruks, cioè gente resa cattiva per volontà del loro creatore; e non c’è molta gente così corrotta da non poter essere redenta (benché temo che si debba ammettere che ci sono creature umane che sembrano incorreggibili a meno di uno speciale miracolo, e che di queste persone esiste una concentrazione particolarmente elevata in Germania e in Giappone – ma sicuramente questi infelici paesi non ne hanno il monopolio: io ho incontrato persone simili, o ho creduto di incontrarle, anche nella verde e piacevole campagna inglese). Sono molto ansioso di sapere che cosa ne pensi. Questo libro è diventato sempre più indirizzato a te, così la tua opinione conta più di quella di qualsiasi altro[88].

L’incontro/scontro con il male, rivela come la nostalgia del Paradiso perduto, dell’Eden, sia reale e come l’uomo, in fondo, sappia che qualcosa di spaventoso e di innaturale è avvenuto nella creazione:

Per quanto riguarda l’Eden: penso che la maggior parte dei cristiani, tranne quelli molto semplici e incolti o quelli protetti in altro modo, siano stati incalzati per alcune generazioni da sedicenti scienziati, e abbiano finito per cacciare la Genesi in uno sgabuzzino della loro mente, come un mobile non più di moda, un po’ vergognandosi di averlo ancora per casa, sai, quando gente giovane e brillante viene a farti visita.

Ma, in parte come sviluppo del mio stesso pensiero sulle mie linee e sul mio lavoro (tecnico e letterario), in parte per il contatto con C.S.L., e non da ultimo in seguito alla ferma mano dell’Alma Mater Ecclesia che mi guida, io ora non mi sento né imbarazzato né dubbioso per quanto riguarda il mito dell’Eden. Non ha, naturalmente, lo stesso valore storico del Nuovo Testamento, che è praticamente un documento contemporaneo, mentre la Genesi è separata da non sappiamo quante tristi generazioni esiliate dalla Caduta, ma sicuramente c’era un Eden su questa infelicissima terra. Noi tutti ne abbiamo nostalgia, e lo intravediamo costantemente: tutta la nostra natura nella sua forma migliore e meno corrotta, più gentile e più umana, è impregnata della sensazione di “esilio”.

Quanto più riusciamo ad andare indietro, tanto più la nostra mente è piena di pensieri di sibb, pace e buona volontà, e del pensiero della loro perdita. Non potremo più riaverlo, non ce lo restituirà il pentimento, perché è una spirale e non un circolo chiuso; potremo avere qualcosa di simile, ma su un piano più elevato. Proprio come (per fare un paragone con un esempio minore) il cittadino pentito gusta di più la campagna del semplice contadino, ma non potrà diventare un vero uomo di campagna, è contemporaneamente qualcosa di più e qualcosa di meno (meno “terragno” comunque).[89]

E’ a causa della caduta – che pure mai viene descritta ne Il Signore degli Anelli, perché la storia è ambientata prima che inizi la rivelazione di Dio all’uomo, che nasce il desiderio di vincere la morte e, con esso, il ricorso al Potere e poi alla Magia ed alle Macchine che ne sono la conseguenza. E, se si vuole veramente affrontare il male, non basta lottare contro i suoi derivati, ma bisogna riandare alla radice, bisogna tornare al principio, incontrando la paura di morire e la caduta:

Comunque tutto questo... è per lo più legato alla Caduta, alla Morte, e alla Macchina. Alla Caduta inevitabilmente, e questo motivo si presenta in numerosi aspetti. Alla Morte, specialmente perché condiziona l’arte e il desiderio creativo (o come dico io, sub-creativo) che non sembra avere una funzione biologica, ma sembra anzi lontano dalle soddisfazioni della nostra ordinaria vita biologica, con cui, nel nostro mondo, di solito c’è un conflitto. Questo desiderio all’inizio si sposa ad un amore appassionato del mondo reale primario, e poi si riempie del senso di morte, e ne resta tuttavia insoddisfatto. Ha varie possibilità di caduta. Può diventare possessivo, legato alle cose fatte a «sua immagine», il sub-creatore desidera essere Dio e Signore della sua creazione privata. Si ribellerà contro le leggi del Creatore — specialmente contro la morte. Queste cose (una o tutte) porteranno a desiderare il Potere, per rendere la volontà efficace più rapidamente, e si arriva così alla Macchina (o alla Magia). Con quest’ultima io intendo l’uso che si fa di mezzi esterni (apparatus) invece che lo sviluppo dei poteri interiori o talenti; o anche l’uso di questi talenti con lo scopo corrotto di dominare: imporsi con la forza sul mondo reale o su altre volontà. La Macchina è la forma moderna più lampante di questa volontà di potenza, benché sia molto più simile alla Magia di quanto generalmente non si voglia riconoscere...

Il Nemico nelle sue forme successive è sempre “per sua natura” legato al puro Dominio, e così il Signore della magia e delle macchine; ma il problema che questo male spaventoso può, come di solito avviene, nascere da un’origine apparentemente buona, il desiderio di cambiare in meglio il mondo e gli altri, velocemente e secondo i programmi del benefattore, è un motivo ricorrente...

Elrond simboleggia la saggezza antica e la sua Casa rappresenta la tradizione – la conservazione con memoria di tutte le tradizioni buone, sagge e belle. Non è una scena d’azione, ma di riflessione. Quindi il posto viene visitato prima che le azioni o le avventure comincino. Si potrà rivelare sulla strada giusta (come nello Hobbit); ma potrebbe anche essere necessario prendere, da lì, una direzione del tutto inaspettata. Così, necessariamente, nel Signore degli Anelli, essendosi rifugiato da Elrond per sfuggire al male che lo inseguiva, quando l’eroe parte prende una direzione totalmente nuova: per andare ad affrontare il male dall’origine.[90]

Il Signore degli Anelli: il Dio unico e la sua “grazia”

Il mondo de Il Signore degli Anelli è così un mondo al cospetto di Dio, dopo la caduta, anche se Dio stesso non viene mai nominato. Ed è un mondo monoteista, ma che non ha ancora ricevuto la rivelazione del Cristo e, quindi, non può conoscerla:

L’unica critica che mi ha seccato è che “non ha religione” (e “non ci sono donne”, ma questo non conta, e poi non è neanche vero). E’ un mondo monoteista di “religione naturale”. Lo strano fatto che non ci siano templi, chiese, o riti e cerimonie religiose, fa semplicemente parte del clima storico descritto. Verrà spiegato a sufficienza se (come ora sembra probabile) il Silmarillon e altre leggende della Prima e della Seconda Età saranno pubblicate. Io sono comunque un cristiano; ma la Terza Età non era un mondo cristiano.[91]

Tolkien contesta così chiunque cerchi di identificare allegoricamente la presenza di Cristo ne Il Signore degli Anelli. Cristo verrà nel mondo, ma, al tempo del racconto, non è ancora venuto. Nessuno dei personaggi del racconto ha la santità del Cristo:

Mi hanno particolarmente interessato le Sue osservazioni su Galadriel... Penso che sia vero che per quanto riguarda il suo personaggio devo molto all’insegnamento e all’immagine cristiana e cattolica di Maria, ma in realtà Galadriel stava facendo penitenza: in gioventù era stata uno dei leader della ribellione contro i Valar (i guardiani angelici). Alla fine della Prima Età rifiutò orgogliosamente il perdono o il permesso di tornare. Venne perdonata a causa della sua resistenza alla definitiva e fortissima tentazione di prendere l’Anello per se stessa.[92]

E ancora:

L’uso di earendel nel simbolismo cristiano anglosassone come araldo della venuta di Cristo, vero sole, è completamente estraneo al mio racconto. La Caduta dell’uomo appartiene al passato ed è fuori scena; la Redenzione dell’uomo appartiene al lontano futuro. Noi viviamo in un’epoca in cui i saggi sanno che esiste l’Unico Dio, Eru, ma Egli non è avvicinabile se non dai, o attraverso i, Valar, benché Egli non venga ricordato nelle preghiere (silenziose) di chi discende dai Numenoreani.[93]

Semmai è il male presente nel racconto che, misteriosamente, rimanda ad un male più grande che un giorno il Cristo affronterà:

Una fonte remota dei versi di Jack potrebbe essere questa: ricordo che Jack mi raccontò una storia su Brightman, il famoso studioso ecclesiastico, che era solito sedere in silenzio nella stanza comune senza dire mai nulla tranne che in rare occasioni. Jack disse che una sera c’era stata una discussione sui draghi e che alla fine si sentì la voce di Brightman che diceva: “Io ho visto un drago”. Silenzio. “Dove è successo?”, gli fu chiesto. “Sul Monte degli Ulivi”, disse lui. Ricadde nel silenzio e per tutta la vita non spiegò mai che cosa aveva voluto dire.[94]

Solo l’unicità di Dio, il monoteismo, non direttamente il cristianesimo, è il chiaro orizzonte de Il Signore degli Anelli (vedremo solo alla fine come il cristianesimo sia presente, invece, sotto la figura della “grazia”):

Si tratta, direi, di una “mitologia monoteista, ma sub-creativa”. Non si verifica l’incarnazione dell’Unico, di Dio, che in effetti resta lontano, oltre il mondo, e accessibile solamente ai Valar o Governatori. Questi hanno il ruolo di divinità, ma sono spiriti creati, creati originariamente che hanno scelto di scendere nel mondo. Ma è l’Unico che possiede l’autorità decisiva, e (così sembra a chi è calato nel tempo) si riserva il diritto di intervenire nella storia: questo causa delle situazioni svincolate dalla conoscenza dei fatti del passato, ma che essendo reali diventano parte del passato (una definizione possibile di “miracolo”).[95]

E poiché Dio è unico, non c’è un principio divino del male, ne Il Signore degli Anelli, non c’è un sistema dualista che contempli due principi originari di pari entità. La forza del male nasce dalla libertà degli esseri finiti e creati, ma nessuna creatura è dall’origine cattiva in sé per volontà dell’unico Dio:

Elfi e uomini sono rappresentati come biologicamente affini nella storia, perché gli elfi nel mio piccolo mondo rappresentano alcuni aspetti degli uomini, e le loro doti e i loro desideri, incarnati. Hanno possibilità e poteri che anche noi desidereremmo avere, e la bellezza e il rischio e il dolore che si accompagnano al possesso di queste cose si leggono nella loro storia. [...]
Sauron naturalmente non era “malvagio” in origine. Era uno “spirito” corrotto dal Primo Signore delle Tenebre (il primo subcreatore ribelle) Morgoth. Gli venne offerta una possibilità di pentirsi, quando Morgoth venne sconfitto, ma non poté affrontare l’umiliazione di ritrattare e di implorare il perdono; e così il suo temporaneo sembrare buono e benevolo terminò in una ricaduta peggiore, finché non diventò il maggior rappresentante del Male nelle epoche successive. Ma all’inizio della Seconda Età era ancora bellissimo d’aspetto, o meglio poteva assumere una bellissima forma visibile – e non era ancora del tutto malvagio, così come non tutti i riformatori che vogliono affrettare la ricostruzione e la riorganizzazione sono completamente malvagi, anche prima che l’orgoglio e la brama di imporre la loro volontà li divori...

La sofferenza e l’esperienza (e forse l’Anello stesso) hanno dato a Frodo una maggior perspicacia; e Lei leggerà nel capitolo I del Libro VI le parole a Sam: “L’Ombra che li ha allevati sa solo imitare, non sa fare, creare cose nuove da sola. Non credo che abbia generato gli orchi, non fece che rovinarli e depravarli”. Nelle leggende dei Giorni Antichi si ipotizzava che il Diavolo avesse soggiogato e corrotto alcuni dei primi elfi, prima ancora che avessero sentito parlare delle “divinità” e meno ancora di Dio.[96]

O ancora, contro una lettura dualista de Il Signore degli Anelli:

Riguardo al Signore degli Anelli, non posso affermare di essere un teologo tanto istruito da poter dire se la mia concezione degli orchi sia eretica o no. Non mi sento in obbligo di far combaciare la mia storia con la teologia cristiana ufficiale, benché in realtà io abbia voluto essere in armonia con il pensiero e le credenze cristiane, cosa che viene esplicitamente asserita da qualche parte... dove Frodo afferma che gli orchi in origine non erano malvagi. Noi crediamo questo, suppongo, di tutte le razze umane e le specie e le stirpi, benché alcune appaiano, sia come individui che come gruppi, per lo meno a noi, impossibili da redimere[97].

Tolkien rifiuta così le critiche di chi lo accusa di aver fatto i “cattivi” troppo cattivi – ma, come vedremo, anche quella corrispettiva di aver dipinto i “buoni” come solo buoni; essi, infatti, non possono giungere a salvezza senza l’intervento di una “grazia” che vada oltre le loro forze.
Il dualismo è attaccato frontalmente ancora più chiaramente negando direttamente a Sauron ogni dignità divina, ogni illusione di essere sullo stesso livello di Dio, pur se a Lui opposto:

Nella mia storia non esiste il male assoluto. Non penso nemmeno che esista, a meno che non sia lo Zero. Non penso, comunque, che una creatura razionale possa essere completamente malvagia. Satana cadde. Nel mio mito Morgoth cadde prima della Creazione del mondo fisico. Nella mia storia Sauron raffigura quanto di più vicino esista alla totale malvagità. Ha percorso la stessa strada di tutti i tiranni: cominciando bene, in quanto pur desiderando un ordine che rispondesse alla sua conoscenza, dapprima considerava anche il benessere (economico) degli altri abitanti della Terra. Ma andò più lontano dei tiranni umani per quanto riguarda l’orgoglio e la brama di dominio, essendo in origine uno spirito immortale (angelico)[98]. Nel Signore degli Anelli il conflitto fondamentale non riguarda la libertà, che tuttavia è compresa. Riguarda Dio, e il diritto che Lui solo ha di ricevere onori divini. Gli Eldar e i Numenoreani credevano nell’Unico, nel vero Dio, e consideravano un abominio la venerazione di qualunque altra persona. Sauron desiderava essere un Dio-Re e i suoi servitori lo consideravano tale[99]; se avesse vinto, avrebbe preteso onori divini da tutte le altre creature razionali e il potere temporale assoluto sul mondo intero.[100]

In una delle sue lettere più lunghe riassume tutta la mitologia, che si dispiega nel Silmarillion e difende la tesi che un’unica divinità governi il creato. E’ proprio a motivo del monoteismo che ancor più si evidenzia il male nella creatura che vuole prendere il posto di Dio:

C’è un’unica divinità; Dio, Eru Iluvatar. Ci sono le prime creature, esseri angelici, di cui quelli più legati alla Cosmogonia risiedono (per amore e per scelta) all’interno del mondo, come Valar o divinità, o governatori; e ci sono le creature incarnate e razionali, elfi e uomini, che hanno status e natura simile ma diversa.

Potrebbe trattarsi o meno di un’eresia, se questi miti fossero da considerarsi come descrizioni della reale natura degli uomini nel vero mondo: non lo so. Ma il presupposto del mito è che la morte – la limitatezza della vita umana – non è una punizione per la Caduta, ma un aspetto biologico (e quindi anche spirituale, dato che corpo e spirito sono strettamente legati) della natura dell’uomo. Il tentativo di sfuggire alla morte è sbagliato perché innaturale, e sciocco perché la morte è il dono di Dio (che gli elfi invidiano), una liberazione del tempo che consuma. La morte, vista come punizione, è considerata con attitudine diversa: con paura e riluttanza. Un buon Numenoreano invece moriva di propria spontanea volontà, quando sentiva che era tempo di andarsene...

E questo tipo di verità negativa era caratteristico dell’Occidente e di tutta l’area che ricevette l’influenza Numenoreana: il rifiuto di venerare qualsiasi “creatura”, e soprattutto nessun “Signore delle Tenebre” o demone satanico, Sauron, o qualsiasi altro, era tutto quello che arrivavano a fare. Non avevano (immagino) nessuna preghiera di richiesta da elevare a Dio; ma conservavano l’abitudine al ringraziamento.[101]

O, ancora, in maniera più estesa, nel primo capitolo, dal titolo Dell’inizio dei giorni, nel Quenta Silmarillion, dove si evidenzia che tutta la creazione è opera dell’Unico, di Dio:

Ora tutto è stato detto sulla Terra e sui suoi sovrani all'inizio dei giorni, e prima che il mondo divenisse quale l'hanno conosciuto i Figli di Iluvatar[102]. Gli Elfi egli Uomini sono infatti i Figli d'Iluvatar; e poiché non compresero appieno quel tema attraverso il quale i Figli entrarono nella Musica, nessuno degli Ainur osò aggiungere alcunché al loro modo d'essere. Per questo i Valar sono i loro parenti più che i loro antenati, e i loro capitani più che i loro padroni; e sebbene sempre, nei loro rapporti con gli Elfi e con gli Uomini, gli Ainur abbiano tentato di costringerli quando essi non si lasciavano guidare, di rado questo si è volto al bene, per quanto buono fosse l'intento. Gli Ainur hanno intrattenuto rapporti soprattutto con gli Elfi, giacché Iluvatar li fece più simili per natura agli Ainur, ancorché minori per potenza e per statura; agli Uomini egli concesse invece doni strani.
Si dice infatti che, dopo la partenza dei Valar, vi fu silenzio e che... Iluvatar sedette da solo a pensare. Poi egli parlò e disse: "Ecco, io amo la Terra, la quale sarà la dimora per i Quendi e per gli Atani! Ma i Quendi saranno le più leggiadre di tutte le creature terrene, e possederanno e concepiranno e produrranno più bellezza di tutti i miei Figli; e godranno della maggiore beatitudine di questo mondo. Agli Atani però concedo un dono nuovo". Volle dunque che i cuori degli Uomini indagassero oltre il mondo e che in questo essi mai trovassero pace; ma che possedessero la virtù di dare forma alla propria vita, tra le potenze e i casi del mondo... Uno di questi doni di libertà consiste nel fatto che i figli degli Uomini abitano solo per breve tempo nel mondo vivente e che non sono vincolati a esso, e che lo lasciano presto, per andare dove gli Elfi non sanno. Gli Elfi, invece, rimangono sino alla fine dei giorni, e il loro amore per la Terra e per tutto il mondo è quindi più unico e più intenso, e con il trascorrere degli anni sempre più malinconico. Gli Elfi infatti non moriranno fino a che il mondo non morirà, a meno che non vengano uccisi o non si struggano di dolore (e a entrambe queste morti apparenti essi sono soggetti); né l'età ne indebolisce le forze, a meno che non si stanchino di diecimila secoli; e, se muoiono, vengono accolti nelle aule di Mandos a Valinor, da cui con il tempo possono tornare. Ma i figli degli Uomini muoiono davvero e abbandonano il mondo; per questo sono detti gli Ospiti, ovvero gli Stranieri. La morte è il loro destino, il dono d'lluvatar, che, con il consumarsi del Tempo, persino le Potenze invidieranno. Ma Melkor ha gettato la propria ombra sulla morte e l'ha confusa con la tenebra, e dal bene ha tratto il male, e la paura dalla speranza. Tuttavia, nei tempi antichi, a Valinor i Valar dichiararono agli Elfi che gli Uomini parteciperanno alla Seconda Musica degli Ainur.

Dinanzi all’unicità di Dio, sempre presente, anche se mai nominato ne Il Signore degli Anelli, si stagliano le figure degli hobbit. Tolkien scrive, in maniera sintetica, che Il Signore degli Anelli è un racconto hobbit-centrico, è la narrazione della santificazione, della nobilitazione degli umili:

Naturalmente, ma questo non c’entra con la mia storia, elfi e uomini sono solamente due diversi aspetti dell’umanità, e rappresentano il problema della morte così come viene vista da persone finite ma consapevoli e di buona volontà. In questo mondo mitologico elfi e uomini sono affini nelle loro forme incarnate, ma nel rapporto dei loro spiriti con il mondo rappresentano esperimenti diversi, ognuno dei quali ha il suo naturale sviluppo e le sue debolezze. Gli elfi rappresentano l’aspetto artistico, estetico e puramente scientifico della natura umana ad un livello più elevato di quanto non si possa in realtà trovare negli uomini. Cioè: hanno un amore infinito nei confronti del mondo fisico, e il desiderio di osservarlo e di capirlo per la propria e l’altrui salvezza — in quanto realtà derivata da Dio così come loro stessi derivano da Lui — e non come materiale che può essere utilizzato per acquistare potere. Essi possiedono anche elevate capacità artistiche o «subcreative». Sono inoltre immortali. Non «per l’eternità», ma all’interno del mondo creato, finché questo dura. Se uccisi, perché la loro forma incarnata viene ferita o distrutta, non sfuggono al tempo, ma rimangono nel mondo, benché disincarnati, oppure rinascono. Tutto questo finisce per diventare un grave fardello man mano che le epoche si allungano, specialmente in un mondo in cui esistono malizia e distruzione (non ho parlato della forma mitologica che il Male o la Caduta degli Angeli prendono in questa storia). Il cambiamento in quanto tale non viene rappresentato come male: costituisce lo sviluppo della storia e rifiutarlo va, naturalmente, contro il disegno di Dio. Ma la debolezza degli elfi è quella di rimpiangere il passato e di accettare malvolentieri i cambiamenti: come se un uomo dovesse odiare un libro molto lungo, e desiderasse fermarsi sul suo capitolo preferito. Per questo caddero in parte preda degli inganni di Sauron: desideravano del potere sulle cose come stavano (che è tutt’altra cosa rispetto all’arte) perché il loro desiderio di conservare diventasse realtà: per fermare il cambiamento, e mantenere tutte le cose sempre fresche e belle. I Tre Anelli non vennero rovinati, perché questi oggetti erano buoni, sia pure limitatamente, garantivano la guarigione dai danni prodotti dal male, così come arrestavano il cambiamento; e gli elfi non desideravano dominare gli altri, e nemmeno piegare il mondo ai loro desideri. Ma con la caduta del potere i loro deboli sforzi di preservare il passato fallirono. Non c’era più niente per loro nella Terra-di-Mezzo, se non stanchezza. Così Elrond e Galadriel partirono.
Gandalf è un caso a parte. Lui non è quello che ha fatto o che ha portato originariamente l’Anello — ma l’Anello gli è stato consegnato da Cirdan, perché gli facilitasse i suoi compiti. Gandalf stava ritornando, avendo esaurito il suo compito, a casa, nella terra dei Valar. Attraversare il mare non è morire. La mitologia è centrata sugli elfi. In base ad essa c’era dapprima un vero paradiso terrestre, dimora e regno dei Valar, che faceva parte della terra fisica. In nessun punto della storia o della mitologia si verifica l’incarnazione del Creatore. Gandalf è una persona «creata»; benché è probabile che fosse uno spirito che preesisteva nel mondo fisico. Il suo ruolo di «stregone» è il ruolo di un angelo o di un messaggero dei Valar o Governatori: aiutare le creature razionali della Terra-di-Mezzo a resistere a Sauron, che ha poteri troppo grandi per loro se rimanessero privi di aiuto. Ma dato che secondo questa storia o mitologia il potere — quando domina o cerca di dominare la volontà e la mente degli altri (tranne che siano privi di ragione) — è considerato malefico, questi «stregoni » si incarnarono in figure compatibili con la Terra-di-Mezzo, e così soffrirono pene fisiche e spirituali. Per la stessa ragione, correvano anche gli stessi rischi che correvano tutti gli esseri incarnati: il rischio di «cadere», di peccare, se preferisce. Per loro il peccato principale era quello dell’impazienza, che poteva provocare il desiderio di forzare gli altri verso il loro destino finale positivo, e in questo modo inevitabilmente avrebbero imposto la loro volontà. Fu questo il peccato di fronte al quale Saruman soccombette. Gandalf no. Ma la situazione peggiorò così sensibilmente con la caduta di Saruman, che i «buoni» furono costretti a compiere grandi sforzi e grandi sacrifici. Per questo Gandalf affrontò e sopportò la morte; e tornò indietro o fu mandato indietro, come dice lui stesso, con poteri ancora maggiori. Ma benché questo possa far venire in mente i Vangeli, non è proprio la stessa cosa. L’incarnazione di Dio è qualcosa di immenso, infinitamente più grande di qualsiasi cosa io osassi scrivere. Qui mi occupo soltanto della morte come parte della natura, fisica e spirituale, dell’uomo, e con speranza senza garanzie. Ecco perché considero la storia di Arwen e Aragorn come la parte più importante delle Appendici; fa parte della storia principale, ed è piazzata lì, solo perché non poteva essere inserita nel racconto principale senza distruggerne la struttura: che era stata programmata come hobbit-centrica, cioè, fondamentalmente, come uno studio della nobilitazione (o santificazione) degli umili.[103]

Se la vita degli hobbit al cospetto di Dio e del senso della vita è il cuore dell’opera ecco che – affermazione straordinaria – il tema de Il Signore degli Anelli non è il potere e la lotta contro di esso, ma il desiderio di eternità, essenziale in ogni cuore, come già abbiamo visto nel brano tratto dal Quenta Silmarillion:

Penso che nemmeno il potere, o il dominio, sia il vero nocciolo della mia storia. Fornisce il pretesto per una guerra, ed è qualcosa di sufficientemente scuro e minaccioso da sembrare, all’epoca, di somma importanza, ma è per lo più una cornice che permette ai personaggi di mostrarsi per quello che sono. Il tema centrale per me riguarda qualcosa di molto più eterno e difficile: morte e immortalità: il mistero dell’amore per il mondo in una razza destinata a lasciarlo e apparentemente a perderlo; l’angoscia nei cuori di una razza destinata a non lasciarlo, finché il suo intero ciclo nato dal male non sia completo.[104]

L’assoluta importanza della persona e dell’amore che le è legato, “esige” la domanda sulla sua immortalità o sulla sua transitorietà - “Il che è come dire che il racconto è stato scritto da un uomo”, tanto l’amore alla vita propria e altrui è così radicale nei cuori:

Se mi venisse chiesto, direi che il racconto non tratta in realtà del potere e del dominio: due cose che si limitano ad avviare gli avvenimenti; tratta della morte e del desiderio di immortalità. Che è come dire che il racconto è stato scritto da un uomo![105]

Il Signore degli Anelli indirizza ad una concezione di immortalità che non sia mera sopravvivenza, ma che si caratterizzi, proprio per un peculiare incontro con Dio come donatore e dono:

Benché sia stato solo leggendo il libro (con un atteggiamento critico) che sono diventato consapevole della predominanza del tema della morte. (Non che ci sia qualche messaggio originale in questo tema: gran parte delle opere artistiche e del pensiero degli uomini è influenzato da questo problema). Ma di sicuro la morte non è un Nemico! Io ho detto, o intendevo dire, che il “messaggio” riguardava il terribile pericolo di confondere la vera immortalità con la longevità senza limite. La libertà dal tempo e l’aggrapparsi al tempo. La confusione è opera del Nemico, e una delle cause principali del disastro umano. Paragoni la morte di Aragorn con quella di uno Spettro dell’Anello. Gli elfi definiscono la morte il dono di Dio (agli uomini).La loro tentazione è diversa: una pigra malinconia, appesantita dalla memoria, che li conduce a tentare di fermare il tempo.[106]

Di nuovo nessuna allegoria è lecita, ma, piuttosto, invece, la considerazione di quell’orizzonte religioso che caratterizza la vita umana, nella prospettiva cristiana:

Dato che ho intenzionalmente scritto un racconto costruito su certe idee “religiose”, ma che non è un’allegoria di queste (o di qualcosa d’altro), e non le cita apertamente, meno ancora le diffonde, non mi allontanerò da quella strada e non mi avventurerò in disquisizioni teologiche, per le quali non sono portato. Ma potrei dire che se il racconto tratta di “qualcosa” (oltre che di se stesso), questo qualcosa non è, come tutti sembrano supporre, il “potere”. La ricerca del potere è solo il motivo che mette in moto gli avvenimenti, ed è relativamente poco importante, penso. Il racconto riguarda principalmente la morte, e l’immortalità; e le scappatoie: la longevità e la memoria.[107]

L’assoluta originalità della persona umana è esaltata nello svolgersi del racconto. Le circostanze svariate e diverse fanno maturare ed emergere aspetti sopiti o insospettati dei personaggi, come avviene nella vita degli uomini:

Un uomo non è soltanto un seme che si sviluppa secondo uno schema definito, bene o male in base alla sua situazione o ai suoi difetti in quanto esemplare della sua specie; un uomo è allo stesso tempo un seme e per certi versi anche un giardiniere, nel bene o nel male. Io sono colpito da come lo sviluppo del carattere possa essere il prodotto in un’intenzione consapevole, della volontà di modificare tendenze innate nella direzione desiderata; in alcuni casi il cambiamento può essere grande e definitivo. Ho conosciuto un paio di uomini e donne che possono benissimo essere definiti come “fatti da sé” in questo senso, così come diciamo che si sono fatte da sé quelle persone che hanno raggiunto influenza e posizione grazie alla propria volontà e ai propri sforzi, senza l’aiuto della ricchezza o della posizione sociale ereditate. In ogni caso, io personalmente trovo la maggior parte della gente imprevedibile in situazioni particolari di emergenza.[108]

Il viaggio, nella vita reale e ne Il Signore degli Anelli, manifesta e modifica il cuore degli uomini e degli hobbit:

Tuttavia anche senza un nobile motivo la gente cambia (o meglio rivela le sue qualità latenti) durante i viaggi: questo è un fatto che si può osservare tutti i giorni e che non ha bisogno di essere spiegato simbolicamente.[109]

Anche da questo punto di vista si conferma ciò che già abbiamo visto: la negazione della possibilità di una lettura “politica” dell’avventura di Frodo e Sam. Solo la centralità dell’uomo e la sua disponibilità a servire gli altri uomini è prospettiva adeguata all’opera di Tolkien:

Non approvo l’uso della “politica” in un simile contesto; mi sembra falso. Per me è chiaro che il dovere di Frodo era umano, non politico. Lui naturalmente ha pensato per prima cosa alla Contea, dato che le sue radici erano là, ma la ricerca aveva come obiettivo non tanto il mantenimento di questa o quella politica, come la mezza repubblica mezza aristocrazia della Contea, bensì la liberazione di tutta l’umanità (N.di Tolkien stesso: Umani: questa categoria -essendo una storia fantastica - include naturalmente gli elfi e tutte le creature dotate della facoltà di parola).da una malefica tirannia – compresa la gente, come gli orientali e Haradrin, che era ancora asservita al tiranno.[110]

Porre al vertice l’uomo vuol dire, come conseguenza necessaria, affermare che esistono valori intangibili. Partire dall’uomo non vuol dire cadere nel soggettivismo, ma, al contrario, essere radicati in una prospettiva morale capace di indicare il bene ed il male. Il bene esige, obbliga, e l’uomo deve porsi al suo servizio e, per opporsi al male, sono richiesti sacrificio e coraggio:

Se il conflitto è veramente fra cose giuste o sbagliate, positive o negative, allora la giustezza o la bontà di un lato non può essere provata o stabilita in base alle affermazioni dell’altro lato; deve dipendere da valori e convinzioni che stiano al di sopra e siano indipendenti dal conflitto in atto. Un giudice deve stabilire cos’è giusto e cos’è sbagliato in base a principi che ritiene validi in tutti i casi. Solo così, la giustizia resterà proprietà inalienabile della giusta parte e giustificherà sempre la sua causa.[111]

Giungiamo ora al punto culminante della riflessione di Tolkien sulla sua stessa creazione letteraria – e così della nostra ricerca sul suo pensiero. Il male, pur nato semplicemente dalla libertà dei diversi personaggi ed, in particolare di Sauron, si oggettivizza come realtà potente e tendente ad assimilare tutto a sé. Non è facile, per lo stesso Tolkien, spiegare come sia possibile opporsi alla forza dilagante del male. Non nel senso che questa lotta conduca alla disperazione ed alla inattività passiva, generata dalla paura e dalla certezza dalla sconfitta, ma piuttosto perché questa opposizione non può essere compresa che come “grazia”:

Come era stato possibile sconfiggere Sauron se questi aveva l’Unico Anello? A questa domanda, e alle sue implicazioni, risponde La Caduta di Numenor, che non è ancora pubblicata, ma che per il momento non posso far uscire. Non si può pretendere troppo dall’Unico Anello, perché naturalmente è solo un elemento mitico, anche se il mondo descritto nel racconto è concepito in termini più o meno storici. L’Anello di Sauron è solo uno dei vari espedienti mitici, per concentrare la vita o il potere in qualche oggetto, suscettibile quindi di venire preso o distrutto con risultati disastrosi per chi gli ha trasferito il suo potere. Se dovessi spiegare filosoficamente questo mito, o quanto meno l’Anello di Sauron, direi che si tratta di un espediente mitologico per rappresentare una verità: che la potenza (o forse meglio la potenzialità) per essere esercitata e per produrre risultati deve essere esteriorizzata e in questo modo esce (in maggiore o minor grado) dal diretto controllo della persona. Un uomo che desidera esercitare il «potere» deve avere dei soggetti, su cui esercitarlo, diversi da se stesso. Ma poi dipende da loro.[112]

Già la prima sconfitta di Sauron avviene per un intervento di Dio, per un intervento non delle forze dell’uomo, impari, ma di un disegno “celeste”:

Sauron venne sconfitto la prima volta grazie ad un miracolo: un intervento diretto del Dio Creatore, che ha cambiato la fisionomia del mondo, quando a Lui si rivolsero i Manwë.... Benché venisse ridotto a «uno spirito pieno d’odio portato dal vento dell’oscurità» non penso che ci si debba stupire di fronte a questo spirito che si portava via l’Unico Anello, da cui ormai dipendeva in larga parte il suo potere di dominare le menti. Che Sauron stesso non sia stato distrutto dall’ira dell’Uno non è colpa mia: il problema del male, e quello della sua apparente tolleranza, è un problema eterno per tutti quelli che si occupano delle cose del nostro mondo. Anche l’indistruttibilità degli spiriti dotati di libero arbitrio, persino da parte del loro stesso Creatore, è un’altra inevitabile caratteristica, se uno crede nella loro esistenza o solo finge di credervi ai fini del racconto.
Sauron, evidentemente, era «confuso» per il disastro e indebolito (avendo impiegato una quantità enorme di energia per corrompere Numenor). Aveva bisogno di tempo per ristabilirsi fisicamente e per riguadagnare il controllo di chi gli era originariamente soggetto. Venne attaccato da Gil-Galad ed Elendil prima che la sua dominazione fosse completamente ristabilita.[113]

Molto di più, la grazia è vero agente ne Il Signore degli Anelli, sebbene, volutamente, Tolkien abbia omesso e tagliato ogni riferimento diretto alla fede cristiana:

Penso di sapere esattamente che cosa intendi con dottrina della Grazia; e naturalmente con il tuo riferimento a Nostra Signora, su cui si basa tutta la mia piccola percezione di bellezza sia come maestà sia come semplicità. Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica; all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. Questo spiega perché non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo la “religione”, oppure culti o pratiche, nel mio mondo immaginario. Perché l’elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo. Tuttavia detto così suona molto grossolano e più presuntuoso di quanto non sia in realtà. Perché a dir la verità, io consciamente ho programmato molto poco.[114]

La grazia si manifesta nella immotivata misericordia di Frodo verso Gollum. Questo evento di bontà – quando tutto richiederebbe, invece, una soluzione violenta contro di lui – rivelerà la sua decisività quando Frodo stesso non sarà in grado di portare a compimento la sua missione ed essa giungerà a buon termine, proprio perché Gollum è ancora vivo e, cercando di impadronirsi dell’anello strappandolo a Frodo, di fatto lo farò precipitare là dove era stato forgiato:

Gollum per me è solo un “personaggio” – una figura immaginata – che garantiva che la situazione si sarebbe svolta in un certo modo sotto diverse sollecitazioni, com’era probabile che avrebbe fatto (c’è sempre un elemento difficilmente calcolabile in ogni individuo reale o immaginario: altrimenti lui/lei non sarebbe un individuo ma un «tipo»). Cercherò di rispondere alle Sue domande specifiche. La scena finale della Ricerca ha quella forma semplicemente perché avendo considerato la situazione, e i caratteri di Frodo, Sam, e Gollum, quegli avvenimenti mi sembravano credibili da un punto di vista meccanico, morale e psicologico. Ma, naturalmente, se desidera una riflessione più profonda, dirò che all’interno del tipo di storia, la «catastrofe » esemplifica (per un aspetto) le parole familiari: «Perdona i nostri nemici come noi perdoniamo chi ci ha offeso. Non indurci in tentazione, ma liberaci dal male».
«Non indurci in tentazione ecc.» è la richiesta più dura e meno spesso considerata. L’idea, all’interno della mia storia, è che nonostante ogni avvenimento e ogni situazione abbiano (almeno) due aspetti: la storia e lo sviluppo dell’individuo (è qualcosa da cui possiamo ricavare del bene, del bene definitivo, per lui stesso, o non riuscirci), e la storia del mondo (che dipende dalle sue azioni per il suo stesso bene) — ci sono tuttavia situazioni anormali in cui uno può trovarsi.
Situazioni «sacrificali» le chiamerei: cioè posizioni in cui il «bene» del mondo dipende dal comportamento di un individuo in circostanze che gli richiedono sofferenza e sopportazione oltre la norma — inoltre, può succedere (o sembra, dal punto di vista umano) che richiedano una forza fisica e morale che lui non ha: in un certo senso lui è votato al fallimento, condannato a cadere in tentazione oppure a cedere alla pressione contro la sua «volontà»: questo va contro ogni scelta che lui potrebbe fare o avrebbe fatto se libero, non sotto costrizione.
Frodo era in una posizione simile: una trappola apparentemente ben congegnata: una persona dai grandi poteri probabilmente non avrebbe potuto resistere tanto a lungo alla brama di accrescere il proprio potere attraverso l’Anello; una persona di minor potere non avrebbe potuto sperare di resistere alla decisione finale. (Già Frodo si era dimostrato restio a cercare dì danneggiare l’Anello prima dì mettersi in viaggio, ed era incapace di consegnarlo a Sam.)
La Ricerca: era destinata a fallire in quanto parte del piano per la salvezza del mondo, ed era anche destinata a finire disastrosamente in quanto storia del percorso del goffo Frodo verso la nobilitazione, la sua santificazione. Sarebbe fallita se il solo Frodo fosse stato coinvolto. Lui «tradì» — e io ho ricevuto una lettera feroce, che diceva che avrebbe dovuto essere giustiziato come traditore e non lodato. Mi creda, non è stato che dopo aver letto questa lettera che mi sono reso conto dell’attualità di questa situazione. Eppure è scaturita molto naturalmente dalla mia trama concepita nelle sue grandi linee nel 1936. Io non avevo certo previsto che prima che il racconto fosse pubblicato saremmo entrati in un’epoca buia in cui le tecniche di tortura e di distruzione della personalità avrebbero rivaleggiato con quelle di Mordor e dell’Anello e che ci saremmo trovati di fronte al problema concreto di uomini onesti e di buona volontà costretti a diventare apostati e traditori.
Ma a questo punto la salvezza del mondo e la salvezza dello stesso Frodo vengono raggiunte grazie alla sua precedente pietà e capacità di perdonare le offese. In qualunque momento una persona prudente avrebbe detto a Frodo che Gollum l’avrebbe certamente tradito (non del tutto “certamente”. La goffa fedeltà di Sam alla fine spinse Gollum sull’orlo del precipizio, proprio mentre stava per pentirsi), e alla fine avrebbe potuto derubarlo. Aver pietà di lui, proibire che venisse ucciso, era una follia, o l’esempio della convinzione mistica nel valore della pietà e della generosità anche se si fossero dimostrate disastrose nel nostro mondo. Gollum lo derubò alla fine e lo ferì — ma per una «grazia», l’ultimo tradimento avvenne in un momento particolare quando quell’azione malvagia era la più benefica che qualcuno avrebbe potuto fare per il bene di Frodo! Grazie ad una situazione creata dalla sua capacità di perdonare, Frodo si salva, e viene sollevato del suo fardello. Giustamente gli sono stati accordati gli onori più alti. — dato che è chiaro che né lui né Sam hanno mai nascosto il corso degli avvenimenti. Non mi interessa indagare su quale debba essere il giudizio definitivo circa Gollum. Sarebbe come voler indagare la mente degli dei, come dicevano nel Medioevo. Gollum era degno di compassione, ma ha perseverato fino alla fine nella malvagità, e il fatto che questa si sia trasformata in bene, non è certo merito suo. Il suo meraviglioso coraggio e la sua sopportazione, grandi come quelli di Frodo e di Sam se non più grandi, di creatura votata al male, erano portentosi, ma non certo onorevoli.
Temo che, qualunque siano le nostre convinzioni, dobbiamo affrontare il dato di fatto che esistono persone che cedono alla tentazione, respingono le possibilità di salvarsi o redimersi, e appaiono quindi «condannabili». La loro «condannabilità» non è misurabile nell’ambito del macrocosmo (dove può anche rivelarsi positiva). Ma noi che siamo tutti nella stessa barca non dobbiamo arrogarci il compito di giudicare. Il dominio dell’Anello era troppo forte per l’animo meschino di Smeagol. Ma lui non avrebbe dovuto affrontarlo se non fosse diventato una specie di ladro quando l’Anello attraversò la sua strada. C’era bisogno che gli attraversasse la strada? C’è bisogno che qualcosa di pericoloso attraversi la nostra strada? Si potrebbe trovare una risposta a queste domande cercando di immaginare Gollum che supera la tentazione. La storia sarebbe stata molto diversa! Temporizzando, non fissando la sua volontà ancora non interamente corrotta sul bene quando discute con se stesso nella caverna dei rifiuti, Gollum divenne più debole in vista dell’ultima possibilità quando l’affetto appena nato per Frodo venne soffocato fin troppo facilmente dalla gelosia di Sam davanti al covo di Shelob. Dopo di che fu perduto.[115]

Proprio il “fallimento” di Frodo, diventa allora lo snodo decisivo de Il Signore degli Anelli. Egli non può, da solo, portare a termine la missione:

Pochi (anzi per quanto riguarda le lettere ricevute solo Lei e un altro) hanno osservato o commentato il “fallimento” di Frodo. E’ un punto molto importante. Dal punto di vista del narratore della storia gli avvenimenti sul Monte Fato nascono semplicemente dalla logica del racconto fino a quel punto. Non erano stati deliberatamente elaborati né previsti finché non sono accaduti. Ma innanzitutto, era diventato chiaro che Frodo dopo tutto quello che era successo sarebbe stato incapace di distruggere volontariamente l’Anello. Riflettendo sulla soluzione dopo averla scritta, penso che sia centrale nell’ambito dell’intera teoria della vera nobiltà e del vero eroismo che il libro illustra.

(Le menti semplici) non percepiscono la complessità di qualsiasi data situazione nel tempo, in cui un ideale assoluto è calato. Tendono a dimenticare quello strano elemento del mondo che noi chiamiamo pietà o compassione, che è un requisito indispensabile nel giudizio morale (dato che è presente nella natura divina). E’ tipico di Dio, nel suo aspetto più elevato. Per i giudici finiti con una conoscenza imperfetta deve portare all’uso di due diversi metri di moralità. A noi stessi dobbiamo proporre l’ideale assoluto senza compromessi, dato che noi non conosciamo i limiti della nostra forza naturale (più la grazia) e se non tendiamo all’obiettivo massimo, cadremo senz’altro più in basso del limite che riusciremmo a raggiungere. Per quanto riguarda gli altri, nei casi in cui sappiamo abbastanza per dare un giudizio, dobbiamo applicare un metro di giudizio mitigato dalla compassione: cioè, dato che siamo in grado di farlo senza quell’inevitabile pregiudizio che abbiamo nel giudicare noi stessi, dobbiamo valutare i limiti della forza altrui e soppesarla in relazione alla forza di circostanze particolari.
Non penso che il fallimento di Frodo sia stato un fallimento morale. All’ultimo momento la pressione esercitata dall’Anello aveva raggiunto il massimo – nessuno avrebbe potuto resistergli, certo non dopo averlo posseduto a lungo, mesi di tormento sempre più grande, soprattutto perché Frodo era esausto e affamato. Frodo aveva fatto tutto quello che avevo potuto, non si era certo risparmiato (come strumento della Provvidenza) e aveva creato una situazione in cui l’obiettivo della sua ricerca avrebbe potuto essere raggiunto. La sua umiltà (con cui aveva iniziato il compito) e le sue sofferenze vennero giustamente ricompensate dall’onore più alto; e l’aver esercitato la pazienza e la compassione nei confronti di Gollum gli fecero meritare la Pietà: il suo fallimento si trasformò in vittoria.
Noi siamo creature finite, limitate per quanto riguarda i poteri della struttura corpo-spirito sia nell’azione sia nella capacità di sopportazione. Il fallimento morale può essere dichiarato, io penso, solamente quando gli sforzi e la capacità di sopportazione di un uomo si fermano al di sotto dei suoi limiti, e il biasimo diminuisce quanto più ci si è avvicinati a questi limiti. Qui non si considera la «grazia», cioè il rafforzamento dei nostri poteri in quanto strumenti della Provvidenza. Frodo aveva ricevuto la «grazia»: prima quando rispose alla chiamata (alla fine del Consiglio) dopo aver resistito a lungo; e in seguito, quando ha resistito alla tentazione dell’Anello (in momenti in cui rivelare che lo possedeva sarebbe stato fatale) e quando ha sopportato paura e sofferenze. Ma la grazia non è illimitata, e nell’economia divina sembra per lo più limitata a quanto basta per portare a compimento il compito assegnato ad uno strumento in date circostanze. Tuttavia, penso che si possa osservare sia nella storia sia nell’esperienza della vita di tutti i giorni, che alcuni individui sembrano venirsi a trovare in posizioni « sacrificali»:
situazioni o compiti che per essere portati a compimento richiedono poteri superiori ai loro massimi limiti, superiori anche ai massimi limiti di qualsiasi creatura incarnata del mondo fisico — dove un corpo può essere distrutto o talmente mutilato da influenzare la mente e la volontà. Il giudizio su casi simili dovrà allora dipendere dai motivi e dalla disposizione d’animo con cui la persona è partita e dovrà valutare le sue azioni alla luce della massima potenzialità dei suoi poteri, lungo tutta la strada fino al punto di rottura.
Frodo intraprese la sua ricerca per amore — per salvare il mondo che conosceva dal disastro a sue spese, se fosse riuscito; e inoltre con un atteggiamento di totale umiltà, riconoscendosi completamente inadeguato di fronte a quel compito. Il suo vero compito era solamente quello di fare quello che poteva, di cercare di trovare una strada, e di andare tanto lontano quanto gliel’avrebbe permesso la forza della sua mente e del suo corpo. Lui fece questo. Io non considero il venir meno della sua mente e della sua volontà sotto la pressione demoniaca e dopo lungo tormento come un fallimento morale più di quanto non considererei tale il venir meno delle sue forze fisiche — se, diciamo, fosse stato strangolato da Gollum o sepolto sotto il crollo di un masso. Questo sembra essere anche il giudizio di Gandalf e Aragorn e di tutti quelli che vennero a sapere la storia completa del suo viaggio. Sicuramente Frodo non avrebbe taciuto nulla! Ma quello che Frodo stesso pensava degli avvenimenti è tutta un’altra faccenda....[116]

Frodo non è un eroe, non è il concentrato del bene. Egli sarebbe non solo destinato a fallire, ma anzi a divenire lui stesso operatore di male, se un Altro non intervenisse, al di là delle forze del piccolo hobbit, servendosi della stessa bontà che Frodo aveva precedentemente avuto verso il suo nemico, verso Gollum, a cui aveva fatto “grazia”:

Per caso, ho appena ricevuto un’altra lettera che parla del fallimento di Frodo. Pochi sembrano essersene accorti. Ma seguendo la logica della trama, era un avvenimento chiaramente inevitabile. E di sicuro è un episodio molto più significativo e reale del finale di una fiaba in cui l’eroe vince sempre. E possibile che i buoni, persino i santi, si trovino di fronte ad un potere malvagio troppo grande da superare con le loro sole forze. In questo caso la causa (non l’«eroe») vince, perché grazie al fatto che loro hanno praticato la pietà, la compassione e il perdono delle offese si è creata una situazione tale che capovolge tutto ed evita il disastro. Gandalf l’aveva sicuramente previsto... Naturalmente, non intendeva dire che si deve essere compassionevoli, perché in seguito potrà tornare utile: in questo caso non si tratterebbe di pietà o di compassione, che sono genuine solamente quando sembrano contrastare ogni convenienza. Non sta a noi prevedere il futuro! Ma abbiamo la certezza che bisogna essere straordinariamente generosi, se si vuole sperare in una straordinaria generosità che ci permetta di sfuggire alle conseguenze dei nostri errori e delle nostre follie. E questa clemenza a volte capita nella vita.
Frodo meritava tutti gli onori perché ha utilizzato ogni briciola della sua forza fisica e mentale, e questa è stata sufficiente a portarlo fino al punto stabilito, non oltre. Pochi altri, probabilmente nessun altro della sua epoca, si sarebbe spinto a tanto. A quel punto prese il sopravvento l’altro potere: lo Scrittore della Storia (e non alludo a me stesso) «l’unica persona sempre presente che non è mai assente e mai viene nominata» (come ha detto un critico)....[117]

Vogliamo concludere questa rassegna di testi tolkieniani con un’ultima osservazione che ci riporta ancora più profondamente al mondo religioso di Tolkien. Rispondendo alla proposta di sceneggiatura per un film scritta dallo Zimmerman nel giugno 1958 – risposta che già abbiamo avuto modo di considerare – il nostro autore si sofferma a considerare come sia stato totalmente frainteso il senso del “lembas”, del “pane del viandante”, necessario per il lungo viaggio di Frodo e di Sam, che lo Zimmerman aveva caratterizzato come “cibo concentrato”:

Lembas, “il pane del viandante”, viene definito “cibo concentrato”. Come ho già detto, non mi va assolutamente che il mio racconto venga spinto verso lo stile e le caratteristiche dei contes des fées o delle fiabe francesi. Ma non mi va nemmeno che si avvicini alla “scientifizzazione”, di cui quell’espressione è un esempio. Entrambe le cose sono estranee al mio racconto. Non stiamo esplorando la luna o qualche altro posto ancor più improbabile. Nessuna analisi in nessun laboratorio scoprirebbe nel lembas proprietà chimiche superiori a quelle di altri pani di farina bianca. Ho commentato questa espressione in quanto indica una certa attitudine. E’ senza dubbio casuale; e niente del genere (spero) andrà a finire nel dialogo vero. Nel libro il lembas ha due funzioni. E’ un “mezzo” o un espediente per rendere credibili le lunghe marce con poche provviste, in un mondo in cui, come ho detto, le miglia sono miglia. Questo è relativamente importante, ma ha un significato più importante, che si può chiamare pur con qualche esitazione “religioso”. Questo si rivela in seguito, specialmente nel capitolo Monte Fato.[118]

Ecco che questo “pane” non di questa terra, non è solo richiesto dalle esigenze interne del racconto, ma diviene quasi annuncio di un altro pane di cui l’uomo ha bisogno per vivere – ciò che l’esegesi cristiana “tipologica” chiamerà appunto con il nome di “tipo” ad indicare quelle figure che si sveleranno come anticipo della realtà di Cristo alla sua venuta. Quel “pane” assomiglia alla manna data al popolo nel deserto in marcia verso la Terra promessa, ai pani con i quali Elia si nutre per avere forza ed arrivare all’Oreb. Quel pane non è l’eucarestia, ma ne è “figura”, presentimento, pre-annuncio. E’ un cibo non “magico”, ma “pur con qualche esitazione religioso” che ripropone la realtà di una grazia superiore all’uomo, senza la quale egli “non può fare nulla”.
Là dove la debolezza dell’uomo sembrerebbe impedire ogni verosimile speranza, in quel pane possiamo vedere come una profezia – non dimentichiamo che siamo in un tempo pre-cristiano! – della futura economia sacramentale che avrà al suo centro il “pane del cammino”.

Appendice I: Il cattolicesimo di J.J.R.Tolkien
di Giovanni Ricciardi

Mettiamo a disposizione on-line sul nostro sito, in appendice allo studio di Andrea Lonardo, un articolo ed una intervista di Giovanni Ricciardi apparsi sul numero di gennaio 2004 della rivista 30Giorni, con i titoli Una gran bella favola, e nulla più e Amici, ma su strade diverse, disponibili sul sito della stessa rivista. I due testi permettono, con la ricchezza dei dati biografici, di comprendere ancor più la centralità della fede cattolica in J.R.R.Tolkien. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione, se la presenza di questi testi sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

Il Centro culturale Gli scritti (22.10.2006)

Per più di vent’anni, dal 1939 al 1962, un gruppo di professori universitari ebbe l’abitudine di ritrovarsi ogni martedì in un tranquillo pub di Oxford, l’Eagle and Child. Erano gli Inklings, un circolo letterario allora piuttosto informale, ma destinato a grandi fortune: il cinema li immortalò nel celebre Viaggio in Inghilterra del 1994[119]. Due personalità emersero tra loro: Clive Staples Lewis e John Ronald Reuel Tolkien. Il primo raggiunse la fama a partire dagli anni Quaranta per una serie di libri di successo, tra cui le Lettere di Berlicche, gustoso epistolario tra un diavolo apprendista e il suo più esperto precettore sui modi più raffinati per tentare gli uomini. Tolkien sarebbe divenuto celebre dal 1954, grazie al Signore degli Anelli, il romanzo più venduto e discusso del Novecento: oltre 100 milioni di copie dalla pubblicazione a oggi, senza contare la colossale versione cinematografica di Peter Jackson, il cui terzo episodio è in questi giorni nelle sale di tutto il mondo.

Lewis e Tolkien si conobbero nel 1926 al Merton College di Oxford. Erano entrambi giovani professori della facoltà di Lettere. Lewis, brillante e affabile, proveniva dalle file dell’alta borghesia protestante dell’Ulster. Dichiaratamente agnostico, convisse a lungo con una donna divorziata molto più grande di lui, Janie Moore, conosciuta durante la guerra quando lui aveva 18 anni e lei 45.

Tolkien, più schivo e riservato, aveva quattro figli, nati dal matrimonio con Edith Bratt. Era vissuto in ristrettezze fino all’approdo a Oxford, e anche allora lo stipendio riusciva a malapena a coprire le spese di una famiglia numerosa. Inoltre, caso raro per un docente universitario nell’Inghilterra di quegli anni, era diventato un cattolico devoto e fervente, grazie all’esempio della madre e del tutore, il padre oratoriano Francis Xavier Morgan.

La fede di Mabel

Tolkien era rimasto orfano di padre in tenera età. La giovane madre, Mabel Suffield, si era dovuta appoggiare economicamente alla famiglia d’origine per via della magra eredità lasciata dal marito. Quando però nel 1900 chiese improvvisamente di entrare nella Chiesa cattolica, il padre John, rigido metodista, non volle perdonare alla figlia un passo per lui incomprensibile. La donna, rimasta sola e priva di ogni sostegno, si trovò improvvisamente in estrema povertà. La situazione si aggravò quando Mabel contrasse il diabete nel 1904 e, priva di cure, si spense nel giro di pochi mesi. Ronald aveva allora undici anni.

«Quando penso alla morte di mia madre» scriveva Tolkien nel 1965 al figlio Michael «stremata dalle persecuzioni, dalla povertà e dalle conseguenti malattie, nello sforzo di trasmettere a noi ragazzi la fede, e quando ricordo la minuscola camera da letto che dividevamo, affittata nella casa di un postino di Rednal, dove lei morì tutta sola, troppo malata per ricevere l’estrema unzione, trovo molto duro e amaro il fatto che i miei figli si allontanino dalla Chiesa. Naturalmente Canaan sembra diversa a quelli che l’hanno raggiunta provenendo dal deserto; e gli ultimi abitanti di Gerusalemme possono sembrare spesso degli sciocchi o delle canaglie, o peggio. Ma “in hac urbe lux solemnis” mi è sempre sembrato vero».

La famiglia di Tolkien divenne così l’Oratorio dei Padri di san Filippo Neri. Qui Mabel aveva incontrato il buon padre Morgan, che era stato il suo direttore spirituale. Prima di morire, nel timore che i figli fossero ricondotti nell’alveo protestante, lo aveva nominato tutore dei Tolkien fino al compimento della maggiore età.

Ronald trovò in lui un precettore esigente ma premuroso, col quale nacque, negli anni, un rapporto di profonda amicizia. Il sacerdote provvide a fargli terminare gli studi, fino all’approdo alla facoltà di Lettere, e a educarlo alla fede e ai sacramenti: «Mi sono accostato con amore all’eucarestia fin dall’inizio» scriveva nel 1941 «e con la grazia di Dio non me ne sono mai distaccato».

Vennero poi l’esperienza della guerra, il matrimonio, una rapida e brillante carriera accademica, l’incontro con Lewis.

Conversione e dissidio

A Oxford, Tolkien trascorreva molto tempo con l’amico, nelle stanze del college o in lunghe passeggiate serali. Lewis, incuriosito dalla religiosità di Tolkien, tornava spesso a porgli domande sulla fede. Poi, inaspettatamente, nel 1931, giunse alla conclusione di essere approdato al cristianesimo[120]. Sulle prime, Tolkien ne fu felice – anche se Lewis tornò al protestantesimo irlandese dei suoi padri – ma la conversione dell’amico, alla lunga, piantò anche il seme del loro dissidio.

«Per il fatto di aver trovato Dio» scrive Michael White, biografo di Tolkien, «ed essere diventato un credente, Lewis immediatamente si buttò nel ruolo dell’apologeta cristiano, ruolo che lo rese famoso molto oltre Oxford. Con una fretta che Tolkien considerava indecorosa, Lewis aveva pubblicato Le due vie del pellegrino (1933). Poi fra il 1940 e il 1941, durante il servizio nella contraerea, scrisse Le lettere di Berlicche, che uscirono a puntate su una rivista cristiana e che, quando divennero un libro, pubblicato nel 1942, ebbero un successo internazionale». Lewis divenne in breve un “campione” della “pubblicistica” cristiana: «Dalla fine degli anni Quaranta» scrive White «e in tutti gli anni Cinquanta, Lewis scrisse una lunga serie di libri di grande successo commerciale ognuno molto diverso dall’altro, usando una varietà di generi, ma in cui saltava sempre fuori il tema sottostante di servirsi dell’allegoria per esporre il suo punto di vista religioso».

Tolkien rimproverava a Lewis questa “sovraesposizione mediatica” della conversione. Gli sembrava sconveniente farne la “chiave” di un successo letterario. E infatti nelle opere di Tolkien la fede non è mai esplicitamente messa a tema. Emerge invece chiaramente nelle lettere scritte ai figli soprattutto durante la Seconda guerra mondiale. Come quella indirizzata a Christopher, impegnato al fronte, l’8 marzo 1944: «Se non riesci a raggiungere la pace interiore, e a pochi è dato raggiungerla (men che mai a me) nelle tribolazioni, non dimenticare che l’aspirazione a raggiungerla non è inutile, ma un atto concreto. Mi dispiace di doverti parlare così e in modo così incerto. Ma non posso fare niente di più per te, carissimo […]. Se già non lo fai, prendi l’abitudine di pregare. Io prego molto (in latino): il Gloria Patri, il Gloria in excelsis, il Laudate Domino, il Laudate pueri Dominum (a cui sono particolarmente affezionato), uno dei salmi domenicali; e il Magnificat; anche la Litania di Loreto (con la preghiera Sub tuum praesidium). Se nel cuore hai queste preghiere non avrai mai bisogno di altre parole di conforto».

Del resto, se gli Inklings e il rapporto con Lewis furono letterariamente uno stimolo importante per Tolkien, è anche vero che le sue storie nacquero anche come un atto d’amore verso i figli, che ne furono i primi destinatari. Quando il primo libro di Tolkien, Lo Hobbit, fu dato alle stampe nel 1937, la fiaba era stata già raccontata “oralmente” ai bambini parecchi anni prima. A quel tempo Lewis era già uno scrittore di successo. Anche il romanzo di Tolkien ebbe un buon gradimento, e l’editore gli chiese un seguito della storia, quello che poi sarebbe divenuto Il Signore degli Anelli.

Non celebra Lucifero

Lewis lodò Lo Hobbit con recensioni lusinghiere, ma l’amicizia tra i due non era più quella di un tempo. A Tolkien non piaceva soprattutto la strana influenza che su Lewis esercitò sempre più pesantemente, dalla fine degli anni Trenta in poi, un nuovo membro degli Inklings, lo scrittore Charles Williams. «Membro devoto della Chiesa d’Inghilterra» scrive White, «Williams era contemporaneamente affascinato in maniera ossessiva dal misticismo e dall’occulto. Faceva parte di un famoso gruppo iniziatico come l’Ordine dell’Aurora dorata di cui era membro il famigerato Aleister Crowley [il fondatore del satanismo moderno, ndr], ma la domenica andava in chiesa a pregare».

La produzione letteraria di questi membri del gruppo aveva per Tolkien qualcosa di ambiguo. Le loro storie, sulla scia della tradizione favolistica moderna, erano pericolosamente attratte dal fascino dell’esoterico e dell’occulto. Mentre Tolkien continuava, faticosamente, a scrivere, il rapporto con l’amico si andava incrinando ormai definitivamente. Il Signore degli Anelli, che ebbe una lunghissima gestazione, fu letto alle riunioni degli Inklings solo fino a un certo punto. Negli anni Cinquanta Tolkien non le frequentava quasi più.

Quando infine il libro fu pubblicato nel 1954, il successo fu subito inaspettatamente travolgente. Da allora a oggi se ne è scritto moltissimo. Disprezzato dalla maggior parte dei critici letterari, bollato in Italia come un pasticciato revival di antiche saghe celtiche, amato alla follia da schiere di lettori in tutto il mondo, Il Signore degli Anelli non è solo un romanzo fantastico, ma un vero e proprio poema epico in prosa. Un’opera che divide i suoi ammiratori incondizionati dai suoi feroci detrattori. Vi si sono voluti vedere i significati più diversi: Tolkien è stato di volta in volta figlio dei fiori, fascista, nostalgico del Medioevo. Ma rifuggì sempre da questo tipo di interpretazioni: «Io penso che le storie fantastiche» scrisse «abbiano un loro modo di rispecchiare la verità, diverso dall’allegoria, o dalla satira (quand’è elevata), o dal “realismo”, e per alcuni versi più potente. Ma prima di tutto la storia fantastica deve riuscire come racconto, divertire, piacere, e anche commuovere a volte, e sempre nell’ambito delle credenze (letterarie) del suo mondo immaginario. Riuscire a ottenere tutto questo è stato il mio obiettivo principale».

Vale la pena però di riportare il giudizio che del romanzo diede, nell’introduzione all’edizione italiana, Elémire Zolla, mettendo a confronto la saga di Tolkien con la tradizione della fiaba moderna e contemporanea: «Una differenza sottile e radicale, come fra la notte e il giorno, discrimina Tolkien, segnatamente da Graves, Williams e Powys: egli non cerca la mediazione tra male e bene, ma soltanto la vittoria sul male. I suoi draghi non sono da assimilare, da sentire in qualche modo fratelli, ma da annientare». In tutti codesti moderni favolisti, «sempre si assiste a una calata negli inferi non per debellarli ma per farsi contagiare, sì da ricevere una diabolica energia. […] In breve, ci si ritrova nell’atmosfera consueta, moderna, erotica, intrisa di confusioni, androgina, che fu inaugurata da Blake, che è stata nella scorsa generazione formulata da Jung. […] Il fascino che sprigiona da Tolkien proviene dal suo completo ripudio di quella tradizione sinistra. La sua fiaba non celebra il consueto signore delle favole moderne, Lucifero».

«L’unica grande cosa da amare sulla terra»

Quando il gesuita Robert Murray gli scrisse d’aver trovato la sua storia profondamente cattolica, nonostante Dio non fosse nominato neppure una volta, Tolkien ne fu immensamente consolato: «Mio caro Rob, mi ha specialmente rallegrato quello che tu hai detto […] e hai rivelato persino a me stesso alcune cose del mio lavoro. Penso di sapere esattamente che cosa intendi con dottrina della Grazia; e naturalmente con il tuo riferimento a Nostra Signora, su cui si basa tutta la mia piccola percezione di bellezza sia come maestà sia come semplicità. Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica; all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. […] Perché a dir la verità, io consciamente ho programmato molto poco; e dovrei essere sommamente grato per essere stato allevato (da quando avevo otto anni) in una fede che mi ha nutrito e mi ha insegnato tutto quel poco che so». Quella fede Tolkien cercò in tutti i modi di custodire e lasciare in eredità ai figli. Due di loro, John e Priscilla, scelsero la vita religiosa.

In vecchiaia, con la notorietà e la fortuna economica, tentò in tutti i modi di preservare la privacy. Aveva conosciuto il successo ma perduto molte amicizie; aveva conservato l’unione con Edith, anche se a prezzo di incomprensioni e difficoltà. «Mi sono innamorato di tua madre» scrisse una volta a Christopher «quando avevo circa diciotto anni. Profondamente, come si è dimostrato – anche se naturalmente difetti di carattere e di temperamento hanno fatto sì che spesso io sia sceso al di sotto dell’ideale che mi ero proposto». Del resto, «solo un uomo molto saggio, arrivato al termine della sua vita, potrebbe esprimere un equo giudizio su quale persona, fra tutte, avrebbe fatto meglio a sposare! Quasi tutti i matrimoni, anche quelli felici, sono errori: nel senso che quasi certamente (in un mondo migliore, o anche in questo, pur se imperfetto, ma con un po’ più di attenzione) entrambi i partner avrebbero potuto trovare compagni molto più adatti. Ma la vera anima gemella è quella che hai sposato. Di solito tu scegli ben poco: lo fanno la vita e le circostanze (benché, se c’è un Dio, queste non sono che i Suoi strumenti o la Sua manifestazione)».

Negli ultimi tempi si tormentava temendo di essere stato un cattivo padre. E tuttavia sapeva di aver sempre cercato di comunicare ai figli ciò che per lui era l’essenziale: «Al di là di questa mia vita oscura, tanto frustrata» scriveva a Michael, «io ti propongo l’unica grande cosa da amare sulla terra: i Santi Sacramenti. Qui tu troverai avventura, gloria, onore, fedeltà e la vera strada per tutto il tuo amore su questa terra, e più di questo: la morte. Per il divino paradosso che solo il presagio della morte, che fa terminare la vita e pretende da tutti la resa, può conservare e donare realtà ed eterna durata alle relazioni su questa terra che tu cerchi (amore, fedeltà, gioia), e che ogni uomo nel suo cuore desidera».

Appendice II: Amici, ma su strade diverse.
Intervista di Giovanni Ricciardi allo scrittore Saverio Simonelli

Stando al suo biografo Humphrey Carpenter, Tolkien, cattolico praticante, ebbe una parte non trascurabile nella conversione di Lewis al cristianesimo. Diversi nel carattere, negli atteggiamenti, i due scrittori e animatori del circolo degli Inklings lo furono anche negli esiti umani e letterari, e finirono col tempo per dividersi. Quel cenacolo di studiosi fu però anche un luogo di dibattito e di confronto sui temi della fede, cui gli interlocutori contribuivano partendo da esperienze diverse, alcune di esse, come avvertì a un certo punto lo stesso Tolkien, irriducibili e inconciliabili tra loro. Ne parliamo con Saverio Simonelli, giornalista e scrittore, che nel 2002 ha dedicato a Tolkien un saggio, edito da Frassinelli (Tolkien: il Signore della fantasia), e torna ora in libreria con una nuova fatica dedicata al mondo letterario del narratore inglese (Gli anelli della fantasia: viaggio ai confini dell’universo di Tolkien, Frassinelli, 2004).

Tolkien ebbe un ruolo nella conversione di Lewis. Tuttavia le due esperienze di fede furono profondamente diverse. Perché?

SIMONELLI: Lewis è un convertito che abbraccia la fede non per una folgorazione di vita, o per aver visto esempi concreti di vita cristiana, ma perché, alla fine di un suo studio amoroso e sentimentale del Medioevo, gli sembrò, intellettualmente, l’unica scappatoia che rendesse plausibile la “materia” del suo studio. Lewis era talmente innamorato di quella letteratura, fortemente improntata ai contenuti religiosi e allegorici della Scolastica, che, a un certo punto, arrivò a concludere che l’assunto filosofico alla base di queste opere era vero. Quindi, l’approccio di Lewis al cristianesimo, pur se esistenziale, è sempre fortemente intellettuale e poetico. Tolkien ha un atteggiamento, direi, diametralmente opposto.

Qual è la differenza?

SIMONELLI: La posizione inequivocabilmente cattolica di Tolkien è tutta nella percezione del sacramento come una cosa reale, nel suo confessarsi tutte le volte che si accostava alla comunione. Nelle lettere al figlio Christopher durante la Seconda guerra mondiale, mentre questi era al fronte, ripete sempre: mi raccomando, frequenta i sacramenti, recita almeno un’Ave Maria al giorno, e quando puoi, vai in una chiesa francese; non importa se non capisci quello che dicono, se trovi confusione, preti che tirano su col naso e bambini che strillano, ma frequenta il sacramento. E non bisogna dimenticare che Tolkien si è accostato al cattolicesimo grazie alla testimonianza della madre. Ha visto le sue sofferenze, il ripudio da parte dei parenti per la sua conversione. Non ha avuto cioè un approccio “spiritualeggiante” alla fede, mentre per Lewis, per quanto possa essere stata reale la sua conversione, il cristianesimo resta una metafora intellettuale.

Tolkien rimprovera a Lewis questo approccio?

SIMONELLI: Non esplicitamente. Ma nelle loro discussioni c’è sempre un punto in cui i due opposti atteggiamenti confliggono. Una sera, ad esempio, durante uno degli incontri degli Inklings venne fuori il tema della cremazione. Il fratello di Lewis, non capendo perché la Chiesa cattolica fosse contraria, pone la questione a Tolkien. Tolkien risponde che il corpo è tempio dello Spirito Santo e per questo non può essere distrutto. «Ma devi ammettere che è un tempio abbandonato» gli replica Lewis. «Ma questo significa forse che è giusto distruggerlo? Se una chiesa deve essere abbandonata per un qualunque motivo, tu non la farai saltare immediatamente in aria e neppure la raderai al suolo appiccandole fuoco». «Lo faresti» risponde Lewis «per impedire che venisse usata, diciamo, dai comunisti? In quel caso preferiresti vederla distrutta?».

Qual è il punto di conflitto fra i due atteggiamenti?

SIMONELLI: Quello di Lewis è un ragionamento perfettamente plausibile dal punto di vista intellettuale. Se la chiesa è un simbolo, tanto vale che sia tu stesso a distruggerla per evitare che, cadendo nelle mani del nemico, diventi un simbolo negativo. Ma Tolkien risponde: «No, non lo preferirei». «E perché no?» domanda il fratello di Lewis. Tolkien allora porta un altro esempio: «Se tu sapessi che un calice sta per essere usato da uno stregone, come in quella storia di Williams, per questo considereresti tuo dovere distruggerlo?». Lewis dice: «Penso di sì». E Tolkien: «Allora saresti mentalmente colpevole se lo facessi. Il tuo compito è soltanto quello di riverirlo». Perché questa risposta? Perché, comunque, per Tolkien, il calice rimane qualcosa in cui c’è stato il sangue di Cristo, vero, reale, e nessun uomo può distruggerlo. Invece, per chi ha un approccio più che altro simbolico-intellettuale, occorre impedire che qualcun altro usi quel simbolo. Per Tolkien, tu devi fare il tuo dovere di cristiano, che è onorare quel calice. Il resto non sta a te.
 
Questa differenza di approccio alla fede coinvolgeva anche altri membri degli Inklings?

SIMONELLI: Coinvolgeva senza dubbio anche Charles Williams, per il quale, a un certo punto, Lewis prese un’autentica “cotta” intellettuale, che nasceva dalla stessa predilezione, dalla loro totale identificazione nelle fonti della letteratura inglese. Una volta Lewis lo prese come docente incaricato a Oxford per alcune lezioni: in una di queste Williams parlò del Comus di Milton, un’opera allegoricamente votata all’esaltazione della purezza, della castità: e svolse il tema in un modo talmente esauriente che Lewis ne rimase conquistato. Ma, in Williams, e qui sta il punto, osserviamo una percezione, sempre molto intellettuale, di aspetti del cristianesimo.

Quale fu il rapporto tra Tolkien e Williams?

SIMONELLI: «Ero e rimango del tutto indifferente verso il modo di pensare di Williams» scrisse Tolkien nel 1965: «Lo conobbi soltanto come amico di Lewis. Ci trovammo reciprocamente simpatici, ci piaceva chiacchierare insieme, ma a livelli più profondi o più elevati non avevamo niente da dirci». Anche dal punto di vista letterario, Tolkien non apprezzava i racconti “spirituali” di Williams, proprio per quest’approccio poetico, sentimentale. Quelli che per Williams erano soltanto “simboli cristiani”, e che per Tolkien erano reali, erano una giustificazione per un’avventura intellettuale. Invece per Tolkien, essendo qualcosa di radicato nella vita, quei misteri non potevano essere neppure detti. C’è in lui qualcosa della riverenza medievale di fronte all’ineffabilità delle cose profonde. Questa è la differenza fondamentale. Invece Lewis era completamente, follemente “innamorato” di Williams. Arrivò addirittura a descriverlo come un angelo: «Per la prima volta nelle strade di Oxford è passato un angelo». Ma Tolkien sapeva bene a che cosa collegare la parola angelo e rimaneva interdetto. E, in effetti, Williams, anglicano praticante, ebbe, come molte altre figure inglesi, approcci con la Golden Dawn.

Di cosa si trattava?

SIMONELLI: Era una sorta di loggia, cui apparteneva anche il poeta irlandese Yeats. La si potrebbe definire una riunione di “spiriti eletti”, che credevano di integrare la dottrina cristiana attraverso una sorta di rivelazione personale, che ciascuno di loro riteneva di avere, chi attraverso i mezzi della poesia, chi attraverso la visione. Non dimentichiamoci che Yeats attribuisce una delle sue ultime opere alla scrittura automatica della moglie. È una visione iperspiritualista, con delle componenti di gnosi. Anche se nessuno di questi rifiuta l’idea di un Cristo incarnato, tuttavia la integra attraverso questa libera ricerca di carattere fortemente intellettuale, che affascinava uno come Williams. Invece Tolkien ha un approccio non dico crudo, ma certo eminentemente più realista, e non soltanto alla fede, ma anche proprio all’organizzazione della vita.

In quali aspetti della vita di Tolkien emerge di più questo atteggiamento?

SIMONELLI: Tolkien aveva quattro figli. Sicuramente, anche se era un accademico, dedito alle lettere, il rapporto di condivisione profonda che aveva con i figli non poteva non nascere da uno scambio di vita che passasse anche per le cose quotidiane, più banali. È bellissimo rileggere, in una lettera indirizzata al figlio, un punto in cui dice: «Nel rapporto tra un padre e un figlio da qualche parte ci deve essere un po’ di aeternitas», un piccolo mattoncino che è poi destinato, chissà, a svilupparsi in un’altra dimensione. Che non è però la dimensione spiritualeggiante, gnosticheggiante, ma qualcosa che deriva dall’aver fatto un tratto di strada insieme, a contatto di gomito, nella vita. Il finale del Signore degli Anelli a questo proposito è fondamentale. Mentre gli eroi del racconto tornano dalla loro avventura, Tolkien commenta: «Non dissero nulla, ma ognuno traeva conforto dalla presenza dell’altro sulla lunga strada verso casa». È l’immagine del cristiano, il conforto dall’avere vicino qualcuno che posso guardare negli occhi, che posso toccare.


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J.R.R.Tolkien e Il Signore degli Anelli


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Note

[1] J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.229.

[2] Da una lettera a Michael Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pagg.442-443.

[3] Dalla lettera a Christopher Tolkien del 31 maggio 1944, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.98.

[4] Proprio C.S.Lewis è stato, comunque, colui che, credendo a Il Signore degli Anelli man mano che Tolkien glielo raccontava nella fase di gestazione, ha convinto Tolkien a portare a termine l’opera, come Tolkien stesso ci ricorda: Primo comunicato dall’iscritto di Longbottom... Il debito impagabile che io ho nei suoi confronti (N.d.R. di C.S.Lewis) non è tanto un’influenza come la si intende di solito, quanto il puro incoraggiamento. A lungo è stato il mio unico pubblico. Solo lui mi ha messo in testa l’idea che la mia roba poteva essere qualcosa di più di un divertimento privato. Se non fosse stato per il suo interessamento e per l’incessante bramosia di saperne di più non avrei mai portato a termine Il Signore degli Anelli (dalla lettera del 12 settembre 1965 alla T.S.A. (Tolkien Society of America), in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.407).

[5] C.S.Lewis.

[6] Roy Cambell, poeta, combattente nella guerra di Spagna (aveva - racconta Tolkien – salvato in un primo momento a Barcellona alcuni carmelitani che erano poi stati, invece, lo stesso massacrati dai “rossi”), convertitosi al cristianesimo.

[7] Dalla lettera a Christopher Tolkien del 6 ottobre 1944, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.112.

[8] In questa città una luce solenne.

[9] Dalla lettera a Michael Tolkien del 9-10 gennaio 1965, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.398.

[10] Dalla lettera del 1 novembre 1963 a Michael Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.380.

[11] Dalla lettera a Christopher Tolkien del 22 agosto 1944, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pagg.106-107.

[12] Dalla lettera del 20 maggio 1969 a Camilla Unwin, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.449-450.

[13] Dalla lettera dell’8 febbraio 1967 a Charlotte e Denis Plimmer, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.425.

[14] Dalla lettera del 9 giugno 1941 a Michael Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.64.

[15] Dalla lettera del 25 luglio 1938 alla Ruetten & Loening Verlag, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.45.

[16] Dalla lettera del 9 dicembre 1943 a Christopher Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.72.

[17] Dalla lettera del 30 gennaio 1945 a Christopher Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.126.

[18] Dalla lettera del 23-25 settembre 1944 a Christopher Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.108.

[19] Dalla lettera con l’indicazione Septuagesima 1948 a C.S.Lewis, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.146.

[20] Dalla lettera del 14 maggio 1944 a Christopher Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.94.

[21] Dalla lettera del 6-8 marzo 1941 a Michael Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.56-63.

[22] Da un abbozzo di lettera a C.S.Lewis, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.69.

[23] Dalla lettera del 7 luglio 1944 a Christopher Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.102.

[24] dalla lettera del 9 giugno 1941 a Michael Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.64.

[25] Anglosassone: “Il consiglio del padre a suo figlio”.

[26] Dalla lettera del 8 gennaio 1944 a Christopher Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.77.

[27] Dalla lettera del 30 aprile 1944 a Christopher Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.88.

[28] La conferenze fu tenuta all’interno di un ciclo di interventi in memoria di Andrew Lang, all’Università di St.Andrews l’8 marzo 1939. Edita la prima volta nel 1947, fu poi ripubblicata, insieme alla storia Leaf and Niggle, nel 1964 (è quest’ultima edizione che è stata tradotta in italiano nel volume J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000 ).

[29] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.167.

[30] (N. di Tolkien stesso) A parte in pochi casi, come nelle collezioni di racconti gallesi o gaelici. In queste raccolte, le storie sulla “famiglia delle fate”, o Shee-folk, sono a volte distinte dai racconti popolari che riguardano meraviglie d’altro genere. In questa accezione “racconto di fate” (fairy-tale) o “credenza sulle fate” (fairy-lore) sono usualmente brevi relazioni circa l’apparizione di esseri fatati, o circa la loro intromissione negli affari degli uomini. Ma questa distinzione è un prodotto delle traduzioni.

[31] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.173.

[32] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pagg.211-212.

[33] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.176.

[34] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.177.

[35] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.213.

[36] (N. di Tolkien stesso) Nel caso delle storie e di altri racconti infantili, vi è pure un altro fattore. Le famiglie più ricche assumevano delle donne che accudissero i bambini, e le storie venivano da queste bambinaie, che qualche volta erano a contatto con racconti rustici e tradizionali, dimenticati dalle classi più elevate. E’ da molto tempo che questa sorgente si è estinta, in ogni caso in Inghilterra; ma un tempo ebbe una certa importanza. Non vi è comunque alcuna prova che i bambini siano specialmente indicati come destinatari di questo folklore in via di estinzione. Allo stesso modo (o meglio) alle bambinaie si sarebbe potuto lasciare anche il compito di scegliere i quadri e il mobilio.

[37] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.195.

[38] E’ la famosa frase del poeta S.T.Coleridge (1772-1834), autore della nota Ballata del vecchio marinaio (1798), ed è tratta dal suo De Anima Poetae del 1816: “That willing suspension of disbelief for the moment, which constitues poetic faith” (cap.14) (n.d.c.).

[39] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.197.

[40] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.199.

[41] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.200.

[42] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.204.

[43] Ciò non è vero di tutti i sogni. In alcuni di essi, la Fantasia sembra aver parte. Ma si tratta di un fatto eccezionale. La Fantasia è un’attività razionale, non irrazionale.

[44] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.206.

[45] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.214.

[46] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.214.

[47] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.215.

[48] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.217.

[49] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.218.

[50] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.220.

[51] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.222.

[52] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.223.

[53] O nel gruppo di storie analoghe.

[54] The Queen who sought drink from a certain Well and the Lorgann (Campbell, Popular Tales of the West Highlands, n. XXIII); Der Frosckönig; The Maid and the Frog.

[55] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pag.224.

[56] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pagg.224ss.

[57] Dalla lettera del 7-8 novembre 1944 a Christopher Tolkien, J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.115. Nel testo c’è anche una curiosa annotazione biblica di Tolkien: P. si è divertita in particolare all’osservazione che a San Luca, essendo un dottore, non piaceva il suggerimento che la povera donna era troppo malridotta per loro, così lui ha mitigato quel passaggio.

[58] Perché i dettagli possono non essere tutti quanti ‘”veri”: è raro che l’ “ispi­razione” sia così forte e durevole da far lievitare tutto l’impasto, e da non la­sciare qualcosa che sia mera “invenzione” che ne è invece priva.

[59] L’arte è qui nella storia stessa piuttosto che nel modo di raccontarla: per­ché l’Autore della storia non fu l’evangelista.

[60] Da J.R.R.Tolkien, Sulle fiabe, in J.R.R.Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pagg.227ss.

[61] Dalla lettera del 21 febbraio 1958 a Christopher Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.298.

[62] J.R.R.Tolkien, Prefazione alla seconda edizione de Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano, 2004, pag.21.

[63] J.R.R.Tolkien, Prefazione alla seconda edizione de Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano, 2004, pagg.21-22.

[64] Dall’abbozzo di una lettera a W.H.Auden, in risposta alla sua recensione del 22 gennaio 1956, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.351.

[65] Dall’abbozzo di una lettera a W.H.Auden, in risposta alla sua recensione del 22 gennaio 1956, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.358.

[66] Dalla lettera dell’8 febbraio a Charlotte e Denis Plimmer, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.422.

[67] Dalla lettera del 16 novembre 1969 ad Amy Ronald, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.451.

[68] Dalla lettera del 30 novembre 1972 a Mrs. Meriel Thurston, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.360.

[69] Da una lettera del 2 agosto 1964, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.359.

[70] J.R.R.Tolkien, Prefazione alla seconda edizione de Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano, 2004, pag.21.

[71] Dalla lettera del giugno 1958 a Forrest J.Ackerman, sulla sua sceneggiatura per il film tratto dal Signore degli Anelli, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.363.

[72] Dalla lettera del giugno 1958 a Forrest J.Ackerman, sulla sua sceneggiatura per il film tratto dal Signore degli Anelli, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.367.

[73] Dalla lettera del giugno 1958 a Forrest J.Ackerman, sulla sua sceneggiatura per il film tratto dal Signore degli Anelli, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.368.

[74] Dalla lettera del giugno 1958 a Forrest J.Ackerman, sulla sua sceneggiatura per il film tratto dal Signore degli Anelli, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.361.

[75] Dalla lettera del giugno 1958 a Forrest J.Ackerman, sulla sua sceneggiatura per il film tratto dal Signore degli Anelli, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.362.

[76] Dalla lettera del giugno 1958 a Forrest J.Ackerman, sulla sua sceneggiatura per il film tratto dal Signore degli Anelli, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.363.

[77] Dalla lettera del giugno 1958 a Forrest J.Ackerman, sulla sua sceneggiatura per il film tratto dal Signore degli Anelli, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.366.

[78] Dalla lettera a Milton Waldman, probabilmente della fine del 1951, ma non datata, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.180. La lettera ha l’intenzione di dimostrare la coerenza del Silmarillion e del Signore degli Anelli e descrive – in 10.000 parole – l’intero mondo immaginario di Tolkien.

[79] Dalla lettera del 1955 alla Houghton Mifflin Co., in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.248.

[80] Dalla lettera del 31 maggio 1944 a Christopher Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.97.

[81] Dalla lettera del 28 luglio 1944 a Christopher Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.103.

[82] Dalla lettera del 7 giugno 1955 a W.H.Auden, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.244.

[83] Dalla lettera della fine del 1951 a Milton Waldman, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.182.

[84] Dalla lettera del 6 maggio 1944 a Christopher Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.91.

[85] Dalla lettera della fine del 1951 a Milton Waldman, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.182.

[86] Dalla lettera del 24 dicembre 1944 a Christopher Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.122.

[87] Dalla lettera del 31 luglio 1947 a Sir Stanley Unwin, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.139.

[88] Dalla lettera del 12 agosto 1944 a Christopher Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.105.

[89] Dalla lettera del 30 gennaio 1945 a Christopher Tolkien, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.126.

[90] Dalla lettera della fine del 1951 a Milton Waldman, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pagg.166-175.

[91] Dalla lettera del 1955 alla Houghton Mifflin Co., in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.248.

[92] Dalla lettera del 25 gennaio 1971 a Mrs. Ruth Austin, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.458.

[93] Dagli abbozzi per una lettera a Mr. Rang, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.426.

[94] Dalla lettera del 20 febbraio 1968 a Walter Hooper, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.437.

[95] Dall’abbozzo di una lettera non datata, probabilmente del gennaio o febbraio 1956 (probabilmente), a Michael Straight, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.263.

[96] Dall’abbozzo di una lettera del settembre 1954 a Peter Hastings, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.215.

[97] Dalla lettera del 12 maggio 1965 a W.H.Auden, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.399.

[98] (N. di Tolkien stesso) Della stessa specie di Gandalf e di Saruman, ma di livello molto più alto.

[99] (N. di Tolkien stesso) In seguito ad un triplice inganno: 1. A causa della sua ammirazione nei confronti della Forza era diventato seguace di Morgoth e sprofondò con lui negli abissi del male, diventandone l’agente principale nella Terra-di-mezzo. 2. Quando Morgoth venne sconfitto dai Valar, Sauron negò di essere suo alleato; ma solo per paura; non andò a presentarsi di fronte ai Valar e non cercò il loro perdono e rimase nella Terra-di-mezzo. 3. Quando scoprì che tutte le altre creature razionali ammiravano la sua conoscenza e quanto fosse facile influenzarle, il suo orgoglio non ebbe più limiti. Alla fine della Seconda Età assunse la posizione di rappresentante di Morgoth. Alla fine della Terza Età (benché fosse più debole di prima) affermò di essere Morgoth redivivo.

[100] Dall’abbozzo di una lettera a W.H.Auden, in risposta alla sua recensione del 22 gennaio 1956, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.356.

[101] Dall’abbozzo di una lettera al gesuita Robert Murray del 4 novembre 1954, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pagg.233-234.

[102] N.d.C. Per facilitare la comprensione del brano ricordiamo che Iluvatar è Dio, i Valar e gli Ainur sono una sorta di angeli, i Quendi sono gli Elfi, gli Atani gli Uomini, Melkor è il maligno e Valinor una sorta di paradiso.

[103] Dall’abbozzo di una lettera non datata, probabilmente del gennaio o febbraio 1956 (probabilmente), a Michael Straight, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.263.

[104] Dall’abbozzo di una lettera dell’aprile 1956 a Joanna de Bortadano, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.278.

[105] dalla lettera del 17 novembre 1957 a Herbert Schiro, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.296.

[106] Dalla lettera del 10 aprile 1958 a C.Ouboter, Voorhoeve en Dietrich, Rotterdam, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.302.

[107] Dalla lettera del 14 ottobre 1958 a Rhona Beare, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.315.

[108] Dall’abbozzo di una lettera a W.H.Auden, in risposta alla sua recensione del 22 gennaio 1956, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.352.

[109] Dall’abbozzo di una lettera a W.H.Auden, in risposta alla sua recensione del 22 gennaio 1956, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.353.

[110] Dall’abbozzo di una lettera a W.H.Auden, in risposta alla sua recensione del 22 gennaio 1956, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.353.

[111] Dall’abbozzo di una lettera a W.H.Auden, in risposta alla sua recensione del 22 gennaio 1956, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.356.

[112] Dalla lettera del 14 ottobre 1958 a Mrs.Rhona Beare, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.266.

[113] Dalla lettera del 14 ottobre 1958 a Mrs.Rhona Beare, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pagg.267-268.

[114] Dalla lettera del 2 dicembre 1953 a Robert Murray S.J., in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.195.

[115] Dall’abbozzo di una lettera non datata, probabilmente del gennaio o febbraio 1956 (probabilmente), a Michael Straight, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.263.

[116] Da abbozzi di lettere del settembre 1963 a Mrs. Eileen Elgar, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.366.

[117] Dalla lettera del 27 luglio 1956 ad Amy Ronald, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.286.

[118] Dalla lettera del giugno 1958 a Forrest J.Ackerman, sulla sua sceneggiatura per il film tratto dal Signore degli Anelli, in U.Killer (a cura di), Antologia di J.R.R.Tolkien, Rusconi, Milano, 1989, pag.366.

[119] N.d.C. Sul film Viaggio in Inghilterra - e sulle vicende biografiche di C.S.Lewis e di sua moglie, rappresentate nel film, vedi, su questo stesso sito l’articolo Letture da Diario di un dolore di C.S.Lewis di d.Andrea Lonardo nella sezione Approfondimenti,

[120] N.d.C. Sulla conversione di C.S.Lewis al cristianesimo, vedi, sempre su questo stesso sito nella sezione Approfondimenti, Il sacrificio di Cristo ed il suo significato nella narrazione allegorica di C.S.Lewis, ora sugli schermi nella versione cinematografica di Andrew Adamson Le cronache di Narnia: il Leone, la Strega e l’Armadio di Andrea Lonardo.


[Approfondimenti]