28/7 V meditazione di Dossetti, ancora su Col 1, 12-20


(Ho fatto fin qui una rassegna) delle affermazioni principali dell’inno cristologico di Colossesi, senza scioglierle un poco e quindi ho fatto una cosa un po’ troppo densa, forse faticosissima da seguire e fra l’altro poi non ho neanche letto il testo e quindi adesso lo leggo insieme con voi. Lo leggo dal versetto 12: “Ringraziando con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. E’ lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto - del Figlio del suo amore, veramente - per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura, poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili, troni, dominazioni, principati e potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa, il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti per ottenere il primato su tutte le cose, perché piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza, e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli”.

Dicevo che il condensato che vi ho proposto stamane non era abbastanza sciolto. Ho aggiunto rispetto all’inno soltanto qualche citazione di Colossesi stessa, ma però senza leggerla e senza quindi illustrarla e non ho letto nessun luogo parallelo del Nuovo Testamento, appunto per limitarmi ad una prospettiva molto essenziale dell’inno nel suo complesso e nelle sue due principali articolazioni. Forse però ho ecceduto ed ora vorrei un pochino rendermi conto meglio - render conto a voi, meglio - di quelle che sono le affermazioni più evidenti e principali che possono avere ancora una attualità - tutte veramente sono affermazioni attuali non solo relative alla gnosi di Colossi ma ad ogni gnosi e particolarmente ad ogni gnosi attuale, contemporanea, operante tra di noi e talvolta forse inconsapevolmente anche in noi. Quindi, riprendiamo allora dal principio.

Il Padre – “ringraziando con gioia il Padre”. Il Padre, Dio creatore di tutto, di ogni essere - come poi dirà dopo - visibile ed invisibile, di tutto l’universo degli esseri, il quale resta ben distinto -ed è evidente in tutto l’inno - resta ben distinto da questo universo degli esseri che lui ha creato. Egli è il creatore, l’ordinatore, il fine della creazione, la quale è il risultato di un suo atto libero, anzi, di un atto che lo qualifica appunto nella sua paternità – “Padre” - di un atto quindi del suo amore paterno, di questa paternità in senso forte, esaustivo e onnicomprensivo, e insieme dolce, come indica ogni paternità. Il quale, distinto - è tutt’altro dalla creazione - ci ha però “destinati alla sua luce”, ci ha messo in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. La luce che non è tanto considerata come luce in cui abita Dio, e in cui sono immerse anche le potenze superiori, le quali qui non vengono, a questo proposito, nemmeno nominate. E’ per noi considerata sotto questo aspetto: luce dei santi, dei nostri compagni, uomini santificati da Cristo, i santi di cui parla nell’epigrafe della lettera. Non che non comprenda o escluda esplicitamente, ma considera questa luce soprattutto per questo aspetto: che noi, i santi, siamo destinati a questa luce. Però questa luce, noi sappiamo bene, che in altri luoghi del Nuovo Testamento è qualificata in un modo molto chiaro. Per esempio prendiamo la prima Lettera a Timoteo, quasi alla conclusione: “Ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo che al tempo stabilito sarà a noi rivelato, dal beato e unico sovrano, il re dei regnanti e il Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e che abita in una luce inaccessibile, che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere. A lui onore e potenza per sempre”. Dunque per mezzo del suo Figlio e nel suo Figlio ci ha destinati a questa luce, a questa luce che è però dichiarata una luce sua, che egli abita in modo inaccessibile. E allora questo è il problema. La sua signoria - del Padre creatore - è unica, assoluta, a distanza infinita e incolmabile per l’uomo e assolutamente inaccessibile per l’uomo per sé. L’uomo - è qui il punto - per quanto si concentri in se stesso e per quanto cerchi di ritrovare Dio dentro se stesso, non può accedere a questa luce inaccessibile. E con questo è già fatta giustizia, direi, di questo ritorno al centro di cui parla particolarmente Griffiths nel suo penultimo libro, quello che ha preceduto “Matrimonio fra Oriente ed Occidente” e che è “Ritorno al centro”, appunto, quella preghiera centrica che è la parola d’ordine per tanti cattolici dell’India e anche non dell’India, quella preghiera di ritorno al centro, supponendo che essa sola possa bastare per ritrovare Dio e la sua luce inaccessibile dentro di noi.

Posso io risvegliarmi sino a questo punto? Proponendomi dei particolari metodi, delle tecniche o dei mezzi di concentrazione, posso io risvegliarmi sino a questo punto? Può veramente l’uomo ritrovare in sé la luce di Dio? E’ questo che la Lettera, e noi con la Lettera, neghiamo radicalmente. Questo basta già di per sé per la confutazione di ogni gnosi, di ogni gnosi almeno più coerente, in particolare mi riferisco alla gnosi della Advaita induista, cioè la gnosi dell’induismo più coerente nella sua manifestazione più sistematica, più assoluta ed esclusiva, direi, di ogni altra modalità, cioè l’essere divino indifferenziato che si trova dentro di me, al di là del mio io empirico, che dovrei trascendere appunto con queste tecniche, per ritrovare in me l’Atman, il sé divino. “Tu sei quello”, è la parola d’ordine della Advaita. “Tu sei quello”, tu sei pura apparenza nella tua realtà empirica, cioè nella tua realtà corporea e alienata, attraverso il corpo, all’ignoranza, all’inganno, alla “maya”, (…), all’inganno. Non bisogna confondere fra l’altro l’Advaita, l’induismo più coerente e più sistematico, la “non dualità” come dice il sostantivo con altre forme di induismo, meno coerenti almeno nella presentazione.

Sono magari attenuate oppure proposte come in sé sono veramente: una forma transitoria, una tappa che poi si potrà domani o si dovrà domani oltrepassare, una tappa solo, perché è più accessibile alla nostra umanità. Chiede già delle tecniche, richiede già delle modalità molto particolari ed una concezione complessiva, sistematica, che ha una sua coerenza aperta a quella che è poi l’ultimo gradino, il traguardo. Queste sono particolarmente le posizioni della (Bodhi) specialmente del Bengala che lasciano un largo spazio ancora alla possibilità di una distinzione di un io e di un tu, di un tu divino che possiamo pregare, che possiamo adorare, che possiamo anche amare, ma questo, peraltro come l’amore, è soltanto una tappa provvisoria, perché deve essere oltrepassato anche l’amore. A un certo punto non c’è più amore, perché non c’è più dono e non c’è più donatore, come si dice, “non c’è donatore, non c’è dono, non c’è donato”. “Non c’è amante, non c’è amore, non c’è amato”, c’è solo l’indifferenziato divino. Non parleranno mai di Dio, di un Dio personale, oppure lo ipostatizzeranno provvisoriamente nei diversi dei che le singole sette adorano ed amano. Gli (shivaiti), gli (…), ma si sa che queste sono soltanto posizioni transitorie, sono tappe di un cammino che richiede poi di andare oltre, di andare al divino indifferenziato. E s’è riscoperto attraverso le tecniche yoga particolarmente nel (…). Il mio sé umano empirico, è trasceso dal sé divino che è senza nome, perché senza volto, senza persona.

Dunque noi già da questo, che dicevo poco tempo fa, sappiamo bene che per sé l’uomo non può raggiungere Dio, che Dio è invisibile - la categorica affermazione di Giovanni nel prologo al versetto 18: “Dio nessuno l’ha mai visto. Il Dio unigenito che è nel seno del Padre, egli ce lo ha dichiarato”. Non “il Figlio”, come è portato dalla Vulgata, ed è passato nella nostra tradizione, ma come è nei manoscritti più attendibili, questa è la lectio difficilior, “il Dio unigenito” che è per sé una grossissima contraddizione che esplode nell’enunciazione stessa: il Dio unigenito. Ma è appunto quello che Giovanni vuole affermare, che il Dio unigenito che è nel seno del Padre e che è Dio come il Padre, egli solo ed effettivamente ce lo ha dichiarato, ce lo ha narrato, se ne è fatto l’esegeta, ci consente di penetrare nella sua profondità.

Questo troviamo detto nel versetto 13 appunto del nostro testo di Colossesi. E’ lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore. E’ il Figlio del suo amore, che ce lo ha dichiarato il Padre, che per sé abita in una luce inaccessibile. Dunque la penetrazione del Padre, è un dono della sua grazia, del suo amore amante, il Figlio. Già in questo Figlio del suo amore c’è già implicito tutto. Particolarmente noi possiamo citare, come un parallelo importantissimo, Romani 3, 21-24. Leggo tutto il tratto: “Ora, invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti. Giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo per tutti quelli che credono. E non c’è distinzione. Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione “apolutrosis”- come è qui nel testo dei Colossesi - da Cristo Gesù”.

Dunque sappiamo - il testo di Colossesi ce lo ripete categoricamente - che tutto è avvenuto per un atto liberissimo e amante del Padre, che ama il suo Figlio, il Figlio del suo amore. Già in questa formula del versetto 13, “il Figlio del suo amore”, si delinea la possibilità che questo Figlio amato dal Padre, Figlio che è poi nelle due strofe dell’inno, il creatore e il redentore, è il Figlio del suo amore. Dice già che in Cristo si è riversato tutto l’amore di Dio e anche si lascia intravedere che da lui, dal Cristo, questo amore del Padre è traboccato sul mondo e sull’uomo. Quindi il mondo, che è pura creatura di Dio, viene distinto da Dio e separato da lui da un’infinita distanza e da un infinita alterità. Viene però attraverso l’amore che il Padre riversa sul Figlio, esso stesso fatto oggetto di un amore particolarissimo - non come pura creatura delle sue mani - ma un amore nuovo che è l’amore partecipato che il Padre porta per il Figlio e che è la ragione per cui questo mondo e questo uomo viene da lui non solo salvato, ma riammesso totalmente alla sua amicizia, al suo amore, alla sua profonda intimità. Qui troviamo un parallelo in Giovanni 3, 10-17: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato perché non ha creduto nel nome dell’unigenito figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere, ma chi opera la verità viene alla luce perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte di Dio”. Cioè l’amore gratuito di Dio ha preordinato le opere che noi possiamo fare, conformi alla sua volontà e attraverso le quali, nella sua grazia, gratuitamente ci salva. Ci ama e ci salva. Nel Figlio diletto. Anche la I di Giovanni ha concetti completamente analoghi, come sapete. I Giovanni 4, 9-10: “In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita, la luce - la stessa equivalenza - per lui. In questo sta l’amore. non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi ed ha mandato il suo figlio, come vittima di espiazione per i nostri peccati”.

Tutti questi testi insistono, come vedete, sul fatto che in Cristo l’amore del Padre si è esteso a noi tutti, divenuti suoi figli adottivi, e ci ha amato con l’amore col quale ama il Figlio, ma sempre attraverso un riscatto ed una redenzione che nella lettera ai Colossesi è proposto proprio come centro di tutto l’inno. Questo Figlio dell’amore di Dio è venuto nel mondo, si è fatto uomo, anzi si è fatto carne per la semplicissima ragione che ha voluto redimere quello che assumeva e doveva redimere e doveva assumere per redimere. Quindi ha assunto un corpo, anzi considerato nella sua umana fragilità di carne è divenuto anche in questa realtà sua carnale, amato dal Padre, con un amore unificato ed unificante, e che si estende a tutti gli uomini nella loro individualità di spirito e di anima, di anima e di corpo. Quindi c’è anche questo, ci dice che non è possibile mettersi dal punto di vista della gnosi. Il corpo, il corpo come il mondo visibile, che è nella gnosi sempre una prigione ed un carcere, non è una componente tanto meno retta del nostro essere, ma è sempre qualche cosa di basso e di oscuro, di alienante, che implica quindi separazione da Dio, già per sé, o separazione dall’essere divino, già per sé e che deve essere trasceso per poter essere in qualche modo - completamente trasceso - perché il sé veramente libero dell’uomo possa identificarsi con il sé di Dio. Ne parlavamo a tavola, mi pare di questa realtà, - ah! ieri sera - della logica che c’è inevitabilmente nei suicidi sia degli indù sia dei (…). L’ultima realizzazione dell’uomo è precisamente quella di distruggere il proprio corpo e di andare, attraverso questa distruzione del proprio corpo, oltre, nella liberazione totale, del suo spirito divino e di identificarsi con l’atman, con il sé di Dio. Quindi anche il corpo. E la Lettera ai Colossesi lo precisa, in quanto dice (bisogna che ci metto un segno, perché la devo cercare continuamente ): “Ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione e la remissione dei peccati. Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura, perché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili”. Tra quelle visibili dobbiamo anche comprendere il nostro corpo e tra quelle invisibili dobbiamo comprendere anche, come poi dice subito dopo, gli esseri intermedi, le potenze, i troni, le dominazioni, i principati. “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui ed in vista di lui”. Tutte le realtà quindi sono state create in Cristo e tutte le realtà sono state redente in Cristo. Nella seconda parte dell’inno - abbiamo già visto stamane - si continua questa affermazione simmetrica. Quindi le profondità degli abissi dell’invisibile che gli gnostici vogliono conoscere, non vanno tanto cercate nel profondo dell’uomo, ma in Cristo. In Cristo! In lui tutte le cose visibili ed invisibili sono state create, in lui tutte le cose visibili ed invisibili sono redente, in lui tutte le cose visibili ed invisibili sono da noi attingibili. In particolare non c’è nell’uomo, per sé, una scintilla di luce, una possibilità di salvezza, né questa salvezza è nell’uomo, né va cercata dall’uomo negli esseri superiori intermedi, nei quali l’uomo che non è redento in Cristo continua ad essere schiavo e sottomesso – (come appare) poi dal resto della Lettera che lo dice chiaramente, (in) tutta la parte relativa agli elementi del mondo. Ma tutto e ogni cosa consiste in Cristo, perché - e ritorniamo alla affermazione fondamentale del versetto 19 – “piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza”. Ogni pienezza è ripresa poi dal versetto 9 del cap. II della lettera, quando troviamo quella affermazione sconvolgente per sé: “E’ in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità”. Somatikos! Le due cose vengono ad essere congiunte. L’essere divino Dio, creatore e ordinatore e fine di tutte le cose, per sé inaccessibile, ha abitato in pienezza in un corpo umano e quindi ha reso questo corpo umano il vaso reale, non apparente solo, reale nella pienezza della divinità e l’immagine del Dio invisibile si è fatto visibile ai nostri occhi, attingibile dalle nostre mani, come dice Giovanni, e quindi udibile e visibile dal nostro spirito e attraverso di lui e in lui vedendo la gloria di Dio noi stessi siamo stati glorificati. Totalmente, anche nel corpo, il quale invece di essere una prigione, diventa esso stesso mezzo, oggetto e mezzo insieme, di questa redenzione totale e di questa accessibilità, di questa via aperta all’uomo attraverso il corpo di Cristo sacrificato e glorificato. Tutto, questa possibilità e questa libertà e questa franchezza, questa parresia, ci è data a noi nel corpo e nello spirito di Cristo Gesù. Talmente che diventiamo come dice non la nostra lettera, ma la lettera agli Efesini 3, 6, cioè: “I gentili sono chiamati in Cristo Gesù a partecipare alla stessa eredità” e lo dice con una sola parola, “ad essere con-corporei, ad essere partecipi nella promessa per mezzo del Vangelo”. L’effetto di tutto questo è particolarmente la sicurezza e la parresia, la franchezza, la libertà. La facilità di questa impresa, per sé inaccessibile all’uomo, è particolarmente illustrata nell’epistola agli Ebrei, in vari luoghi, 4, 14-16: “Poiché dunque abbiamo un grande sommo sacerdote che ha attraversato i cieli, Gesù Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa come noi, escluso il peccato”.

Fra l’altro questo ci libera da ogni schifo o da ogni reazione nei confronti del nostro corpo - vedremo, sappiamo dal complesso del Nuovo Testamento che lo dobbiamo assoggettare e che lo dobbiamo rendere morto, ma per un’altra ragione, non per una sua sostanziale metafisica impurità. Infatti “non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato da lui stesso provato in ogni cosa come noi escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno”. “Accostiamoci”: è proprio la parola opposta a quella che si diceva in principio leggendo la Lettera a Timoteo. La “fos aprositon”, la luce inaccessibile, qui diventa accessibile e noi dobbiamo andare con fiducia verso di essa. Possiamo e dobbiamo andare con fiducia verso di essa. 7, 25, sempre dell’epistola agli Ebrei: “Perciò egli, invece – 24 - poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta perché può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere in loro favore”. Dio che era inaccessibile, per sé, rispetto all’uomo per sé, diventa nel Cristo accessibile e anzi noi dobbiamo andare verso il trono della grazia con non una facilità ovvia, banale, ma con una sicurezza che possiamo avere e ricavare soltanto da Cristo e avere il lui. Noi possiamo leggere anche, sempre nello stesso senso, Ebrei 10, 22: “Accostiamoci con cuore sincero - sempre lo stesso verbo - in pienezza di fede, con il cuore purificato dalla cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura - qui si accenna al battesimo che ritroviamo poi tale e quale nell’epistola ai Colossesi - manteniamoci senza vacillare la promessa della nostra speranza perché è fedele colui che ha promesso”. E poi finalmente, credo, si debba vedere della lettera agli Ebrei soprattutto alcuni versetti conclusivi dell’ultima parte del cap. 12. Leggendolo dal versetto 18: “Voi infatti non vi siete accostati a qualche cosa di tangibile, né a fuoco ardente né a oscurità (tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole. Voi vi siete accostati al monte di Sion e alla città del Dio)

Vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti portati alla perfezione e al mediatore della nuova alleanza e al sangue dell’aspersione dalla voce più eloquente di quella di Abele”. E (questa è perciò) quella situazione a cui allude la lettera ai Romani nel cap. VIII, specialmente al versetto 23 - tutto il capitalo ottavo nella nuova vita dello Spirito è rileggibile attraverso questa visione della lettera ai Colossesi, ma in particolare il versetto 23: “Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto. Essa non è la sola, ma anche noi che possediamo le primizie dello Spirito gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”. Quindi tutto l’uomo, anima e corpo è destinato a condividere la condizione del suo capo e mediatore, il Cristo Gesù che, glorificato nella sua anima e nel suo corpo, ha aperto la via dell’accesso a Dio, dell’accesso a Dio intero per l’uomo, già oggi e poi pienamente domani, dopo la nostra morte quanto allo spirito, e poi domani, nell’indomani che tutti attendiamo, quello della resurrezione dei morti, nella adozione totale, anche nel nostro corpo, alla filiazione di Dio.

Però ricordiamo ancora che abbiamo appreso stamane e che dobbiamo continuamente avere sott’occhio che questo accesso non è ovvio, non può essere banale, non è neanche pacifico per sé, ma è sempre un dramma e un trauma, un dramma e un trauma. Un trauma supremo del mondo e dell’uomo, avvenuto già in questo mondo e radicato nella nostra storia attraverso quell’evento supremamente drammatico e supremamente traumatico che è avvenuto sulla croce e che è la ricapitolazione definitiva e la krisis, il giudizio, del mondo e della nostra storia.

Giovanni 15, versetto 18: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo. Poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi ho detto. Un servo non è più grande del suo padrone, se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi, se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra, ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato. Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato, ma ora non hanno scusa per il loro peccato. Chi odia me, odia anche il Padre mio. Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun altro ha mai fatto non avrebbero alcun peccato. Ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio. Questo perché si adempisse la parola scritta nella loro Legge: mi hanno odiato senza ragione”. E poi Giovanni 16, ai versetti 8 e 9: “E quando il Consolatore sarà venuto, Egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Quanto al peccato, perché non credono in me; quanto alla giustizia perché vado al Padre mio e non mi vedrete più; quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è già stato giudicato”. Quindi il giudizio del mondo mondano, del mondo che non accoglie il Cristo e che odia lui e che quindi non può non odiare il Padre, avviene già nell’atto della sua croce e col mondo è già giudicato il principe, il dio di questo mondo, con tutte le sue potenze e tutti i suoi accoliti per così dire. E’ già condannato. Già condannato! E l’uomo che prima ne era schiavo e che ne è schiavo, ecco qui ogni volta che crede di rendere culto a queste potenze inferiori o intermedie con osservanze che non sono più prescritte e che sono segno della non libertà che invece abbiamo, col quale Cristo ci ha liberato, ogni volta che noi rendiamo culto a queste potenze o agli elementi del mondo, anche senza volerlo e senza saperlo, sentendoci ancora legati da osservanze da cui Iddio una volta per tutte nello Spirito ci ha liberati, ogni volta che noi facciamo questo ricadiamo sotto le potenze, non siamo più liberi e non abbiamo più accesso con franchezza e libertà al trono di Dio. Magari sotto pretesto di religiosità, di osservanze che mostrano la nostra consegna. E’ una consegna che peraltro ci libera della libertà che già abbiamo avuto in Cristo. Questo l’epistola, lo ricava, lo dice esplicitamente nel seguito. Ma tutto questo deriva dal fatto che non ci affidiamo più alla libertà che in Cristo ci è stata data e ci sentiamo ancora condizionati da qualche cosa che crediamo di dover accettare per aver accesso proprio a ciò che è il mondo invisibile, mentre al contrario che aprirci a questo accesso, ce lo preclude. Questo è nella logica delle premesse che l’inno del I capitolo di Colossesi ci fa vedere che sarà poi esplicitato successivamente.


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