Pico della Mirandola e l'umanesimo: file audio e testi dell'incontro guidato da Andrea Lonardo presso la chiesa di Santa Maria del Popolo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 03 /11 /2011 - 18:07 pm | Permalink | Homepage
- Tag usati:
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Mettiamo a disposizione ad experimentum per valutare l'utilizzo in futuro di files audio le registrazioni ed i testi commentati nell'incontro tenuto da Andrea Lonardo su Pico della Mirandola e l'umanesimo presso la Chiesa di Santa Maria del Popolo, il 22 ottobre 2011.

Il Centro culturale Gli scritti (3/11/2011)

Parte 1 (lezione su Pico della Mirandola e l'umanesimo: la registrazione inizia con il saluto di padre Antonio Truda, prosegue con gli avvisi e poi, a partire dal minuto 7.30, con la lezione)

Download umanesimo1.mp3.

Riproducendo "umanesimo1".


Download: Parte 1

Parte 2 (visita della chiesa di Santa Maria del Popolo)

Download umanesimo2.mp3.

Riproducendo "umanesimo2".


Download: Parte 2

TESTO DISTRIBUITO AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO

Ufficio catechistico di Roma
www.ucroma.it (cfr. anche www.gliscritti.it )

Appuntamenti dell’anno

Incontri formativi di prefettura che accompagnano la verifica sull’iniziazione cristiana

La diocesi propone ai catechisti tre incontri di formazione sui temi della verifica diocesana. Gli incontri saranno organizzati dalle diverse prefetture ed avranno per tema: 

- L’annuncio della fede e l’iniziazione cristiana. Catecumenato e itinerari di riscoperta della fede.

- Le dimensioni costitutive dell’iniziazione cristiana dei bambini e ragazzi. Comunità cristiana e famiglia.

- La pastorale del Battesimo e il ruolo educativo alla fede dei genitori fin dalla tenerissima età.

Corso sulla storia della Chiesa di Roma (V anno): Umanesimo, riforma protestante e riforma cattolica 

-Sabato 22 ottobre 2011 – 9.45-12.30 Santa Maria del Popolo: L’umanesimo e Pico della Mirandola. 

-Sabato 12 novembre 2011 – 9.45-12.30 Santi XII Apostoli: Il Cardinal Bessarione, il Concilio di Ferrara-Firenze e la caduta di Costantinopoli.

-Sabato 3 dicembre 2011 – 9.45-12.30 Cappella dei Re Magi nel Palazzo di Propaganda Fide (luogo da confermare): La scoperta dell’America e le missioni.

-Sabato 14 gennaio 2012 – 9.45-12.30 Santa Maria dell’Anima: Lutero e la riforma 

-Sabato 18 febbraio 2012 – 9.45-12.30 Chiesa del Gesù e Stanze di S. Ignazio: La riforma cattolica 

-Sabato 5 maggio 2012 – 9.45-12.30 Trinità dei Monti: La lettera a Proba di Sant’Agostino. 

1512-2012: a cinquecento anni dalla Volta della Cappella Sistina e della Stanza della Segnatura. Michelangelo, Raffaello e il Rinascimento a Roma.

-Lunedì 5 marzo 2012 – 21.00-22.30 S. Clemente: Il Quattrocento a Roma.

-Lunedì 12 marzo 2012 – 21.00-22.30 S. Maria della Pace: Raffaello. 

-Lunedì 19 marzo 2012 – 21.00-22.30 S. Pietro in Vincoli: Michelangelo.

-Lunedì 26 marzo 2012 – 21.00-22.30 La Cappella Sistina, con il Cardinale Agostino Vallini. 

Stage di formazione per catechisti dei catecumeni

Venerdì 27 gennaio ore 19.00-22.00 e sabato 28 gennaio 2012, ore 10.00-13.00 presso il Pontificio Seminario Romano Maggiore.

Giornata di spiritualità dei catechisti: catechesi nel creato. Salita al monte Gennaro, sabato 26 maggio 2012 

Viaggio di studi in Turchia

È in fase di progettazione un viaggio di studio di 9/10 giorni circa, da proporre ai catechisti della diocesi, in Turchia, per la fine di luglio 2012. Nel prossimo incontro sarà eventualmente confermata la notizia e saranno fornite le prime indicazioni

Trascrizione degli incontri degli anni precedenti

Sono disponibili on-line le trascrizioni dei primi due anni e, del III anno, gli incontri sui primi Concili (Santa Maria Maggiore), su San Gregorio Magno (oratorio di Sant’Andrea al Celio) e su San Benedetto (basilica di Santa Cecilia a Trastevere)

Gli incontri su Caravaggio (Dialoghi con Caravaggio nelle sue chiese) dovrebbero essere stampati nel corso dell’anno.

L’umanesimo e il rinascimento: un’introduzione

1/ La Chiesa di Santa Maria del Popolo, la piazza e la Porta

un tempo Porta Flaminia

Facciata esterna, sotto papa Pio IV, affidata a Michelangelo e, da lui, a Nanni di Baccio Bigio (1562-1565)

Facciata interna risistemata sotto Alessandro VII dal Bernini per l’arrivo della regina luterana Cristina di Svezia divenuta cattolica nel 1655 e, quindi, ritiratasi dal trono

da qui giunse Pico della Mirandola (1486), da qui ripartì Erasmo da Rotterdam (1509)... (ma non siamo sicuri... potrebbe essere via Trionfale)

da Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia

Alcuni giorni fa, tornando dall'Italia in Inghilterra, per non sprecare in chiacchiere banali il tempo che dovevo passare a cavallo, preferii riflettere un poco sui nostri studi comuni e godere del ricordo degli amici tanto dotti e cari, che avevo lasciato qui. Fra i primi che mi sono tornati alla mente c'eri tu, Moro carissimo. Anche da lontano il tuo ricordo aveva il medesimo fascino che esercitava, nella consueta intimità, la tua presenza che è stata, te lo giuro, la cosa più bella della mia vita.

qui giunse Lutero (1510)

qui in Santa Maria del Popolo, la Cappella Borgia (la lastra di Vannozza de’ Cattaneis fu poi portata nel portico di San Marco al Campidoglio)

2/ Umanesimo, rinascimento, medioevo

Continuità e discontinuità: concetto speculare rispetto a quello di medioevo (media aetas, media tempestas); cfr. Virgilio in Dante, Aristotele in San Tommaso d’Aquino

-incapacità di capire il “medioevo”: cfr. la grande questione del rifacimento di San Pietro, idea rinascimentale, non barocca; il nuovo coro fu iniziato da Bernardo Rossellino (l’architetto di Pienza) per Niccolò V (1447-1455)

3/ Cenni su alcune grandi questioni storiche

-la “cattività avignonese”; recupero del controllo dei vecchi confini tramite le armi (famosa è la figura del cardinale Egidio Albornoz, ad esempio, che fece costruire la Rocca di Spoleto, incaricato di recuperare la città dopo Avignone da Innocenzo VI)

-una Italia suddivisa in stati: limiti, ma anche ricchezza

da Arte, croce e delizia del Belpaese, di Antonio Paolucci a colloquio con Carolina Drago (avvenire e www.gliscritti.it )

Da cosa dipende la diversa configurazione del nostro patrimonio culturale rispetto a quello degli altri Paesi?
«L’Italia ha avuto un’altra storia. Lo Stato centrale è recente. Prima c’erano le capitali preunitarie, ognuna con la sua gloriosa storia artistica, i suoi maestri, i suoi capolavori. In Italia la modernizzazione è arrivata relativamente più tardi che altrove. Il nostro Paese non ha conosciuto le dirompenti rivoluzioni che hanno modernizzato gli altri Stati, ma hanno anche distrutto tanta parte del patrimonio, come la Riforma luterana in Germania o la rivoluzione borghese in Francia».

-le signorie

-il papato come signoria

-due esempi:

*papa Alessandro VI, Borgia

se non è chiaro il rapporto con Giulia Farnese, è certo che ebbe 4 figli da Vannozza de’ Cattaneis (Cesare detto poi il Valentino, Giovanni duca di Gandia, Jofré e Lucrezia), 3 altri figli da donne ignote – tutti e 7 prima dell’elezione pontificia – ed altri 2 da papa, Giovanni e Rodrigo

*papa Leone X

da Le Stanze di Raffaello (Musei Vaticani), di Andrea Lonardo. Un’introduzione per la visita (su www.gliscritti.it )

Leone X è il secondogenito di Lorenzo il Magnifico. Il Magnifico affidò al primogenito Piero, secondo le consuetudini dell’epoca, il compito di succedergli alla guida di Firenze, mentre avviò Giovanni (il futuro Leone X) agli studi ecclesiastici, perché facesse carriera a Roma e sostenesse dalla sede apostolica la famiglia de’ Medici, facendogli ricevere il titolo cardinalizio all’età di tredici anni. Cacciato insieme agli altri Medici da Firenze nel 1494, Giovanni, dopo un lungo viaggio per conoscere l’Europa, si trasferì stabilmente a Roma nell’attuale Palazzo Madama (la residenza dei Medici nell’urbe, che allora si chiamava Palazzo di S. Eustachio). Con la morte del fratello Piero, Giovanni divenne a tutti gli effetti il capo della famiglia Medici e da Roma iniziò ad adoperarsi per il ritorno dei Medici in Firenze. Nel 1512, indebolitisi i francesi, i Medici rientrarono nel capoluogo. Nel 1513, alla morte di Giulio II, Giovanni divenne papa con il nome appunto di Leone X. Da quel momento egli si prefisse il duplice compito di guidare la chiesa ed, insieme, di reggere le sorti di Firenze. Scelse come nuovo capo del regime fiorentino il nipote Lorenzo de’ Medici, figlio del defunto Piero, mentre affidò a Giuliano, che successivamente venne fatto dal re di Francia duca di Nemours, l’incarico di plenipotenziario per i possedimenti dello Stato pontificio. Dopo che nel 1516 morì Giuliano e nel 1519 Lorenzo, Leone X incaricò da Roma Michelangelo di recarsi a Firenze per scolpire le tombe dei due, l’odierna Sagrestia Nuova di S. Lorenzo a Firenze.

4/ La stampa, la filologia, il rapporto “umanistico” con l’antico, la lettura della Scrittura

4.1/ La stampa

-Johann Gutenberg di Magonza (1394-1399 ca.-1468), insieme all’uomo di banca Johann Fust:

Bibbia latina a due colonne detta delle 42 linee o Mazarina

-1457, Fust e il socio Peter Schöffer, dopo aver allontanato Gutenberg, stampano il Salterio, il primo testo datato

4.2/ La nuova filologia

-non solo un rapporto con l’antico, come nel medioevo, ma con l’antico filologicamente ricercato (anche se spesso a torto, cfr. ad esempio Ermete Trismegisto ed il Corpus Hermeticum che gli umanisti credono storico, mentre non lo è!)

-un esempio di filologia in positivo, la scoperta dell’ebraico: Giannozzo Manetti (1396-1459)

da Quando Pico della Mirandola studiava la qabbalah. I manoscritti ebraici della Biblioteca Vaticana, di Giulio Busi (osservatore romano, www.gliscritti.it )

Le origini della biblioteca [Vaticana], nel pieno del rinascimento, coincidono con gli inizi dell'ebraistica cristiana. Proprio allora gli umanisti tornarono a dar vita al mito della cultura trilingue, in cui l'ebraico si accostava al greco e al latino dell'eredità classica, in un progetto di sapienza universale. In un codice della Vaticana (manoscritto Ebraico 8) è contenuta quella che si può definire la data di nascita dell'interesse umanistico per la letteratura ebraica postbiblica. È una nota in cui il fiorentino Giannozzo Manetti scrive: "Domenica 21 novembre 1442 ho cominciato a studiare l'ebraico con Emanuele ebreo".

Dopo Manetti, fu Giovani Pico della Mirandola a inoltrarsi negli arcani della letteratura cabbalistica. La Vaticana conserva i preziosissimi manoscritti con le traduzioni di testi mistici eseguite per Pico dall'ebreo convertito Flavio Mitridate. Fu su questi codici che l'impaziente, giovanissimo conte della Mirandola approntò nel 1486 le Conclusiones cabbalistiche, che avrebbe voluto discutere a Roma alla presenza di Papa Innocenzo VIII. La disputa fu proibita; ma l'interesse per i misteri ebraici si diffuse, negli anni successivi, anche tra alcuni esponenti del clero.

Per il cardinale Egidio da Viterbo fu per esempio copiato il manoscritto del Targum neofiti, di cui si è già fatto cenno, e che documenta l'antichissima interpretazione della Bibbia in uso tra gli ebrei di Palestina nei primi secoli dell'era volgare.

-il Novum Testamentum di Erasmo

dalla mostra L’ignoranza delle Scritture I edizione (su www.gliscritti.it )

Il 1° marzo 1516 a Basilea fu pubblicato e messo in vendita presso l'editore Froben di Basilea, il Novum Instrumentum Omne del grande umanista Erasmo da Rotterdam. Erasmo, per la sua edizione scelse i manoscritti che gli erano più comodamente accessibili, vi apportò le correzioni che riteneva necessarie e li mandò direttamente in tipografia, dove essi furono trattati come un manoscritto qualsiasi, sul quale i compositori tipografici tracciavano con la massima disinvoltura i loro segni di richiamo. Per l'Apocalisse giovannea Erasmo non trovò a Basilea nessun manoscritto, ma ne ebbe uno in prestito dal suo amico Reuchlin. In questo manoscritto mancava la parte finale dell'Apocalisse: Erasmo risolse il problema compiendo egli stesso una retroversione dal latino in greco del passo mancante e per giunta con parecchi errori. Il volume conteneva a fronte del testo greco, una traduzione latina compiuta da Erasmo. Il difetto fondamentale di questa edizione non consiste nei molti errori che essa contiene, ma nel tipo di testo. Erasmo aveva posto a base dell'edizione codici dei secoli XII – XIII, i quali, nell'insieme, tramandavano il testo dell'età bizantina, la koiné, il “testo di maggioranza”, cioè il più recente e il peggiore dei diversi tipi di testo nei quali il Nuovo Testamento ci è giunto; e i successori di Erasmo lo seguirono per questa via. Il testo delle edizioni che si attennero a quella di Erasmo viene chiamato textus receptus. Il lavoro di studiosi quali Bengel, Wettstein e Griesbach e soprattutto di Karl Lachmann, professore di filologia classica a Berlino, il quale dichiarò la necessità di risalire al testo della Chiesa della fine del quarto secolo, porterà gradualmente all'abbandono del textus receptus. Il primo ad attuare il programma di Lachmann sarà Constantin von Tischendorf, il quale prima tradusse il codice di Efrem rescritto (sec. V) e poi effettuò la sensazionale scoperta del codice Sinaitico (sec. IV), sul quale basò la sua edizione del Nuovo Testamento. In Inghilterra Brooke Foss Westcott (professore a Cambridge e più tardi vescovo a Durham) e Fenton John Anthony Hort (professore a Cambridge), presero come base per la loro edizione il Codice Vaticano (sec. IV). L'abbandono definitivo del textus receptus avvenne nel 1898 con la pubblicazione a Stoccarda del Novum Testamentum graece di Eberhard Nestle.

4.3/ Un rapporto “umanistico” con l’antico

da Francesco Petrarca, Contra medicum, trad. di E. Di Leo, Salerno (in G. Reale - D. Antiseri, Storia della Filosofia. 2. Dall’Umanesimo a Kant, La scuola, Brescia, 1997, p. 28)

1. Le arti liberali sono la via, non la meta

Dici anzitutto che io sono privo di Logica; spero che tu non mi neghi la Retorica e la Grammatica, che sono comprese nel nome della Logica, per quanto anche ciò tu possa fare, secondo il tuo parere. Sommo esempio di ogni barbarismo, tu mi togli solo la Dialettica nella quale i tuoi sillogismi ti mostrano eccellere, e che tu chiami Logica.

 "Ecco il delitto, o giudici». Ora, se mi piacesse potrei far vedere che gli illustri filosofi irridono questa stessa Dialettica, di cui sono accusato esser privo e potrei dimostrare, come si legge in Cicerone, che di essa fecero a meno gli antichi peripatetici, chiarissima setta di filosofi. Ma, o stolto, io non ne son privo: io so che valore si debba dare a questa, che valore alle arti liberali. Ho imparato dai filosofi a non pregiare eccessivamente nessuna di esse. Pertanto, come è lodevole averle imparate, così è puerile invecchiarvi. Esse sono la via, non la meta: tranne agli erranti ed ai vagabondi che non hanno alcun porto nella vita. A te che non hai alcuna meta più nobile è meta checché trovi. Ti credi posto nel sommo grado della felicità ogni qualvolta hai composto per caso, con molta vertigine cerebrale, per tutta una notte insonne, un fragile sillogismo che non concluda niente di niente.

2. La vera filosofia è meditazione sulla morte

Il meditare profondamente sulla morte, l'armarsi contro di essa, il disporsi a disprezzarla e a sopportarla, l'affrontarla, se è necessario, dando questa breve e misera vita in cambio della vita eterna, della felicità, della gloria: ecco la vera filosofia, che alcuni dissero non essere altro che il pensiero della morte. Spiegazione questa, della filosofia, che, sebbene trovata dai pagani, tuttavia è propria dei Cristiani, i quali devono sentire e il disprezzo di questa vita, e la speranza dell'Eterno, e il desiderio della dissoluzione. Se tu, o vecchio delirantissimo, che ampollosamente ti chiami filosofo, avessi mai pensato ciò anche una volta sola in una vita così lunga, mai avresti osato chiamarti filosofo, né ti saresti fermato dove ti sei fermato, né ti venderesti turpemente per così poco denaro, avvilendo coi fatti la tua professione che innalzi con le parole.             .

3. Il valore della solitudine e la conoscenza di se stessi

La solitudine manca di molti piaceri del volgo, ma abbonda di piaceri tutti suoi: quiete, libertà, ozi. Anneo disse, ed è vero: «L'ozio senza le lettere è morte, è sepoltura dei vivi».

Certo il solitario ignorante, se Cristo non è continuamente con lui, per quanto grande possa essere lo spazio della terra che egli ha a sua disposizione, è legato senza ceppi.

Non mi meraviglio che questo genere di vita ti sia inviso. Che cosa faresti qui, se non contare le ore, e aspettare quando devi andare a cena, secondo le tue regole, e quando a letto? Non ci sarebbe alcuno che tu potessi circuire, o col quale potessi gridare; né sapresti parlare con te. Tale virtù è di pochi uomini; e in questi luoghi, lo confesso, ce n'é ben pochi o, meglio, quasi nessuno. Io, invece, per il grande amore che porto alle lettere, ci trascorro una vita così bella e così dolce, che, se tu conoscessi lo stato del mio animo, credo odieresti l'ora in cui sei nato, perché ti ha messo in una vita misera e infelice, la quale, per la speranza di poco danaro, ti cagiona grandissime angustie.

A che dunque hai parlato, miserabile vecchio? A che hai sentenziato contro di me? Amarono la solitudine i patriarchi, i profeti, i Santi, i filosofi, i poeti, i duci, gli imperatori famosissimi.

E invero chi non ama la solitudine se non chi non sa stare con se stesso? Odia la solitudine chiunque è solo nella solitudine, e teme l'ozio chiunque non fa nulla.

4.4/ La lettura della Scrittura

da C. M. Martini, La Sacra Scrittura nutrimento e regola della predicazione e della religione, (commento al capitolo VI della Dei Verbum), in La Bibbia nella Chiesa dopo la «Dei Verbum». Studi sulla costituzione conciliare, Paoline, Roma, 1969, pp. 157-172

Assistiamo nei secoli [dalla fine del XII secolo al comparire qua e là in Europa di alcune proibizioni sulla lettura privata della Bibbia, dovute al diffondersi di movimenti ereticali]. Troviamo così il Concilio provinciale di Oxford del 1408, che proibisce ogni traduzione della Bibbia che non avesse avuto una approvazione ufficiale. Più oltre andavano le norme stabilite in Catalogna a partire dal secolo XIII dall'autorità civile, poi riconfermate nel sec. XV e divenute leggi di Stato agli inizi del sec. XVI, sotto il regno di Ferdinando e Isabella, che stabilirono che nessuno potesse tener presso di sé alcuna versione biblica. Si trattava di disposizioni estreme, prese sotto la spinta di gravissime circostanze. Esse rimanevano inoltre locali e temporanee.

Non impedirono infatti che al tempo dell'invenzione della stampa, a partire dal 1450, la Bibbia, non solo in latino, ma anche nelle lingue volgari, fosse uno dei libri più stampati e venduti, specialmente in Germania e in Italia. Secondo ricerche fatte dal P. Vaccari, alla vigilia della riforma protestante erano in circolazione un grande numero di edizioni della Bibbia.

In Germania, tra il 1450 e il 1500 furono stampate oltre 25 edizioni della Bibbia latina e 15 in lingua volgare. In Svizzera, nella sola Basilea, si produssero 18 edizioni della Bibbia tra il 1450 e il 1500. In Italia nello stesso periodo erano uscite 27 edizioni, di cui 22 nella sola Venezia e una rispettivamente a Roma, Napoli, Brescia, Piacenza e Vicenza. Di queste 27 edizioni, 10 erano in volgare, tutte edite a Venezia: 9 edizioni della versione del Malermi, e una della versione anonima detta Bibbia d'agosto, perché pubblicata il 1° agosto 1471.

Non si può dunque sottoscrivere la frase di Lutero, pronunciata in uno dei suoi discorsi conviviali (Tischreden), il 22 febbraio 1538, secondo cui prima della sua riforma la Bibbia era «a tutti sconosciuta». «A vent'anni - dice Lutero - io non avevo ancora veduto una Bibbia». L'espressione è forse un po' esagerata, e certamente non indicativa della reale situazione di allora, se si pensa che del solo periodo 1459-1500 ci sono state conservate 5400 Bibbie stampate, che non sono se non una piccola parte delle decine di migliaia allora in circolazione. Oltre a ciò bisogna tener conto delle Bibbie manoscritte che ancora si producevano (si calcola che nel secolo XV siano stati trascritti almeno 3600 manoscritti biblici di versioni tedesche).

Bisogna inoltre ricordare le moltissime Bibbie, diremmo così, di divulgazione, che si chiamavano Bibbie istoriali, fioretti, lezionari o «Plenarien» (in Germania), specchi dell'umana salvezza, Bibbie dei poveri, che erano florilegi biblici, spesso provvisti di illustrazioni ad uso di chi sapeva leggere poco o nulla.

La Bibbia dunque, malgrado le restrizioni precedenti, era ancora abbondantemente diffusa anche tra il popolo. Con la riforma protestante tuttavia, verso la metà del secolo XVI, il regime di cautela che fino a quel momento si era espresso soltanto in restrizioni parziali, divenne universale.

4/ Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494): nella Roma pontificia per celebrare la dignità dell’uomo (la libertà non è innanzitutto politica, bensì...)

-decide di venire giovanissimo - 23 anni - a Roma per proporre alla discussione 900 tesi;

assicura che pagherà a tutti i dotti partecipanti alla disputa vitto e alloggio in Roma

-lettera ad Arnoldo di Bost (1486)

duos agnosco dominos, Christum et litteras, riconosco due signori: Cristo e le lettere

-l’idea di una pace dei filosofi, di un accordo universale di idee

-opere cabalistiche che si fece tradurre da Flavio Mitridate, protetto da papa Sisto IV, ma anche - nelle 900 tesi - Alberto Magno, San Tommaso, Franceso di Mayronnes, Duns Scoto, Enrico di Gand, Egidio Romano, Averroè, Avicenna, Alfarabi, Isaac di Narbona, Abumaron Babilonese, Maimonide, Maometto di Toledo, Avempace, Teofrasto, Ammonio, Simplicio, Alessandro di Afrodisia, Temistio, Plotino, Adelando Arabo, Porfirio, Giamblico, Proclo, Pitagora, i Teologi Caldei, Mercurio Trismegisto

-promette obbedienza al papa, anzi vuole disputare dinanzi a lui (Roma capitale dell’umanesimo!) In tutte queste tesi non presento alcunché come vero o come probabile se non nella misura in cui sia tenuto per vero o per probabile dalla santa Chiesa Romana, e dal sommo Pontefice Innocenzo VIII, suo capo benemerito; è sprovvisto di mente chi non conforma il giudizio della propria mente al suo giudizio (in E. Garin, Storia della filosofia italiana, I, Einaudi, Torino, 1966, p. 471).

-7 tesi furono poste in discussione da Innocenzo VIII tramite una commissione inquisitoria previa, poi altre 6; Pico scappa da Roma, temendo l’arresto protetto da Lorenzo il Magnifico

-chiederà il perdono pontificio che arriverà sotto Alessandro VI; il Savonarola cercherà di fargli vestire l’abito domenicano senza riuscirci; ultimi scritti anti-magici e in difesa del cristianesimo

-per l’apertura della discussione delle tesi aveva scritto l’Orazione sulla dignità dell’uomo

da Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell'uomo (Oratio de hominis dignitate)

Negli scritti degli Arabi ho letto, Padri venerandi, che Abdalla Saraceno, richiesto di che gli apparisse sommamente mirabile in questa specie di teatro che è il mondo, rispondesse che nulla scorgeva più splendido dell'uomo.
E con questo detto concorda quel famoso di Ermete: "Grande miracolo è l'uomo, o Asclepio".
Ora mentre ricercavo il senso di queste sentenze, non mi soddisfacevano gli argomenti che in gran numero molti recano sulla grandezza della natura umana: esser l'uomo vincolo delle creature, familiare a quelle superiori, sovrano di quelle inferiori, interprete della natura per l'acume dei sensi, per l'indagine della ragione, per la luce dell'intelletto, intermedio fra il tempo e l'eternità e, come dicono i Persiani, copula anzi imeneo del mondo, di poco inferiore agli angeli secondo la testimonianza di David. Grandi cose, queste, certo, ma non le più importanti, non tali, cioè, per cui possa giustamente arrogarsi il privilegio di una ammirazione senza limiti. Perché, infatti, non ammirare di più gli angeli e i beatissimi cori del cielo?
Ma alla fine mi parve di avere compreso perché l'uomo sia il più felice degli esseri animati e degno perciò di ogni ammirazione e quale sia infine quella sorte che, toccatagli nell'ordine universale, è invidiabile non solo ai bruti, ma agli astri e agli spiriti oltremondani. Cosa incredibile e meravigliosa! E come altrimenti, se è per essa che giustamente l'uomo vien proclamato e ritenuto un grande miracolo e meraviglia fra i viventi! Ma quale essa sia, ascoltate, o Padri, e benigno orecchio porgete, nella vostra cortesia, a questo mio parlare.
Già il sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato, secondo le leggi di un'arcana sapienza, questa dimora del mondo, quale ci appare, tempio augustissimo delle divinità. Aveva abbellito l'iperuranio, aveva avvivato di anime eterne gli eterei globi, aveva popolato di una turba di animali d'ogni specie le parti vili e turpi del mondo inferiore. Sennonché, recata l'opera a compimento, l'artefice desiderava che vi fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un'opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne l'immensità. Perciò, compiuto ormai il tutto, come attestano Mosè e Timeo, pensò ad ultimo a produrre l'uomo. Ma degli archetipi non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori uno ve n'era da elargire in retaggio al nuovo figlio, né dei posti di tutto il mondo uno ne rimaneva su cui sedesse codesto contemplatore dell'universo. Tutti ormai erano pieni; tutti erano stati distribuiti, nei sommi, nei medi, negli infimi gradi. Ma non sarebbe stato degno della paterna potestà venir meno quasi impotente nell'ultima opera; non della sua sapienza rimanere incerta nella necessità per mancanza di consiglio; non del suo benefico amore, che colui che era destinato a lodare negli altri la divina liberalità fosse costretto a biasimarla in se stesso.
Stabilì finalmente l'ottimo Artefice che a colui, cui nulla poteva dare di proprio, fosse comune tutto ciò che singolarmente aveva assegnato agli altri. Accolse perciò l'uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: "Non ti ho dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell'aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto appunto, secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e conservi. La natura determinata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai, da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo, perché di là tu meglio scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che tu avessi prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che sono divine".
O suprema liberalità di Dio Padre! O suprema e mirabile felicità dell'uomo a cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole. I bruti nel nascere recano seco dal seno materno, come dice Lucilio, tutto quello che avranno. Gli spiriti superni o dall'inizio o poco dopo furono ciò che saranno nei secoli dei secoli. Nell'uomo nascente il Padre ripose semi d'ogni specie e germi d'ogni vita. E secondo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. E se saranno vegetali, sarà pianta; se sensibili, sarà bestia; se razionali, diventerà animale celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. Ma se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto un solo spirito con Dio, nella solitaria caligine del Padre, colui che fu posto sopra tutte le cose starà sopra tutte le cose.

5/ Coluccio Salutati (1331-1406), Leonardo Bruni (1370-1444), Poggio Bracciolini (1380-1459), Marsilio Ficino (prete, 1433-1499)

 

da Coluccio Salutati (in G. Reale - D. Antiseri, Storia della Filosofia. 2. Dall’Umanesimo a Kant, La scuola, Brescia, 1997, p. 22)

Io, per dire il vero, affermerò coraggiosamente e confesserò candidamente, che lascio volentieri senza invidia e senza contrasto, a te e a chi alza al cielo la pura speculazione, tutte le altre verità, purché mi si lasci la cognizione delle cose umane. Tu rimani pure pieno di contemplazione; che io possa, invece, esser ricco di bontà. Tu medita pure per te solo; cerca pure il vero e godi nel ritrovarlo […]. Che io, invece, sia sempre immerso nell’azione teso verso il fine supremo; che ogni mia azione giovi a me, alla famiglia, ai parenti e – ciò che è ancor meglio – che io possa esser utile agli amici e alla patria e possa vivere in modo da giovare all’umana società con l’esempio e con le opere.

-Leonardo Bruni, come Salutati alternatamente a Firenze ed a Roma, riflette sull’agire dell’uomo e sul suo “piacere”

-così Poggio Bracciolini, segretario di Martino V

- Marsilio Ficino propone una struttura dell’Essere indubbiamente di tipo gerarchico (Dio, angelo, anima, copro, qualità), di chiara derivazione platonica, ma introduce una centralità dell’uomo impensabile nel platonismo antico: l’anima umana è legame e cemento dell’intero Universo.

6/ Niccolò da Cusa o Nicola Cusano (cardinale di San Pietro in Vincoli, 1400 o 1401-1464)

-De docta ignorantia II, 11
La terra che non può essere centro dell’universo, non può esser neppur priva di ogni movimento [...] Siccome non è possibile che il mondo sia racchiuso tra un centro corporeo ed una circonferenza, esso rimane inconoscibile, in quanto il suo centro e la sua circonferenza sono Dio.

da Andrea Lonardo, San Pietro in Vincoli su www.gliscritti.it

Ben prima di Copernico, egli riapre così la discussione sul rapporto tra il sole e la terra. Cusano sostiene a livello filosofico che, poiché Dio è infinito, non ci può essere un centro al di fuori di Lui, perché Dio stesso è Lui il centro dell’universo, ma, essendo Dio infinito, non esiste un centro dell’infinito. Le sue riflessioni proseguono indicando che pianeti e stelle non sono fatte di materia perfetta, ma corruttibili e che sono tutte in movimento, compresa la terra. Già nel 1444 aveva aperto queste prospettive di riflessione.
Egli è innovativo anche in merito alla famosa donazione di Costantino. Quando il Cusano venne inviato a partecipare al Concilio di Basilea, scrisse il De concordantia catholica, affrontandovi anche il tema del rapporto fra latini e greci, oggi diremmo fra cattolici ed ortodossi (siamo negli anni in cui Costantinopoli sta per cadere sotto l’assalto dei Turchi e l’imperatore ed il patriarca di Costantinopoli cercano disperatamente appoggi in occidente, perché una crociata vada ad aiutarli).
In questo testo si occupa anche della famosa donatio costantiniana e la dichiara falsa, già dieci anni prima di Lorenzo Valla.

7/ Lorenzo Valla (1407-1457)

-studia a Roma, se ne allontana e briga poi per venire a lavorare presso la Curia pontificia; ottiene ciò che desidera e muore come Canonico lateranense (la sua tomba è ancora visibile nella prima cappella del transetto di destra di San Giovanni in Laterano!)

dall’Apologia ad Eugenio IV, in Lorenzo Valla, Scritti Filosofici e religiosi, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2009, pp. 433-434 e 453-454

Ho scritto di grammatica, della lingua latina, di logica, di retorica, di diritto civile, di filosofia e di altre cose, criticando i secoli passati e molti autori viventi. I miei nemici non potendo vincermi nella disputa e non osando scrivere contro i miei libri, a causa delle cose che sembravano riferirsi alla religione hanno condannato anche quelle che dalla religione erano lontanissime, affinché non osassi pronunciare nemmeno una parola contro di loro, anzi addirittura non parlassi affatto. Ma come può accadere che io non. parli mai più degli studi o parli diversamente da come penso? Spingendo al colmo la loro follia mi hanno costretto a giurare che avrei riconosciuto quelle cose di mia propria convinzione, ciò che non poteva accadere. E, non contenti di questa pena, aspettavano avidamente la mia rovina, che si erano ripromessi di ottenere ad ogni costo. Grande, o Sommo Pontefice, grande è lo stimolo dell'invidia, grande la collera che nasce dall'essere superati dagli altri e per giunta dai più giovani, grande l'odio contro coloro che, forniti di una singolare abilità, proponendo apertamente e semplicemente dei buoni insegnamenti, costituiscono un rimprovero ed una condanna per gli ignoranti. Come al passaggio di cani di razza forte e generosa e di altri nobili animali da ogni parte si mettono a latrare i cani plebei, così i miei nemici, sebbene grandi e potenti, si sono scagliati contro di me come botoli contro un orso. Credimi, in coscienza, Sommo Pontefice, essi si sono proposti di rovinarmi non per amore della religione, della quale sono nemici, non per reverenza alla virtù, della quale mai hanno avuto sentore, non in nome dell'onore, che hanno sovvertito anche negli altri, ma per invidia, per dolore, per malanimo. [...]

Ma sento che, oltre a ciò, essi (che cosa non sono capaci di fare uomini malvagi e ostili, e contro un assente?), quando mi hanno accusato di fronte a te nei giorni passati, mi hanno imputato il delitto di aver scritto contro la tua dignità ai padri del Concilio di Basilea, di aver chiesto da quella parte dei benefici, e di essermi dichiarato tuo nemico. Poiché queste cose, Padre beatissimo, non entrano nella causa della fede, concedimi, di grazia, di riservarle ad un altro discorso, anche perché non sembri che tu, giudice nella causa altrui, lo sia pure nella tua. In quello avrò larga possibilità di parlare della mia innocenza, della perfidia dei miei nemici, delle tue lodi. Se invece in questa orazione io, non dico sviluppassi, ma solo facessi cenno delle tue lodi, sembrerei fare offesa alla mia causa. Voglio essere esente non solo dal sospetto di voler adulare ma anche da quello di voler implorare qualsiasi altra cosa, se non questa sola, che tu mi restituisca alla mia posizione primitiva e alla reputazione che godevo, come ha fatto l'ottimo re per quanto ha potuto: se ho peccato, che tu mi spieghi il mio errore e poi, secondo la tua clemenza, mi imponga una pena più mite di quanto la colpa non comporti, tanto più che di pene ne ho già scontate abbastanza e a sufficienza. Per questa tua misericordia prometto che la tua Santità trarrà da me, a cagione dei miei studi, non dico dell'utilità, poiché ciò è sopra le mie forze, non della gloria, poiché la gloria tua non può essere aumentata dalle lodi né diminuita dalle detrazioni, ma qualche piacere.

L. Valla, Apologia ad Eugenium ,V, in Opera omnia, a cura di E. Garin, Bottega d’Erasmo (in G. Reale - D. Antiseri, Storia della Filosofia. 2. Dall’Umanesimo a Kant, La scuola, Brescia, 1997, pp. 29-30)

1. La difesa di Epicuro

Risponderò per prima cosa in difesa di Epicuro, cioè di un greco, quindi in difesa dei Latini, infine sulla consuetudine cristiana. E per quanto concerne Epicuro mi sembra che dovunque i vostri abbiano un atteggiamento simile, quando vi lasciate indurre in un errore così grave e ritenete che altro sia il termine di "piacere" che si trova in Epicuro, altro il termine "letizia" che si trova in Aristotele, dato che così lo hanno tradotto i barbari. Poiché se Aristotele non condanna ogni letizia, non dico niente altro, la causa è vinta: infatti chi approva la letizia non condanna neppure il piacere giacché, almeno nei suoi scritti, questi due termini sono uno solo. Presso di noi invece differiscono come il genere e la specie.

2. Il duplice significato della parola “voluptas" presso i Latini

Ma voi dite: il latino è un termine vergognoso. Più vergognoso è però chi mentisce e accusa falsamente. Chi infatti ve lo ha insegnato? Per trascurare tutte le altre testimonianze, Cicerone traduce sempre con "voluptas" quel nome, sia nei testi di Aristotele che di Platone e degli altri. E perché sappiate cosa mai significhi questo e qual termine così li definisca (De finibus, II, 4, 13): nessuna parola rende meglio hedoné che piacere. A questo termine tutti coloro, in qualunque luogo, che sanno parlare latino attribuiscono due sensi, la gioia dell'animo che nasce da una soave commozione, e il godimento del corpo. Non sarà, invero, piacere quel diletto di cui godiamo per la liberalità, la misericordia, per un'opera condotta egregiamente a termine, per essere sfuggiti al pericolo, a una disgrazia, a una malattia ed altre simili cose?

Mi è difficile intendere in che differiscano questi due nomi; e chi lo nega è senz'altro un illetterato ma se lo dice anch'egli, anche la vita eterna sarà piacevole.

3. Il vero piacere è beatitudine e consiste nel servire Dio

Ma, dicono, questo nome non conviene, né si addice a chi parla cristianamente; si addice di più il termine “fruizione” che sostituite a quello, quasi che "fruire" non si possa e si soglia intendere anch'esso in un senso turpe, e "fruizione" non sia un termine insolito e, per così dire, un frutto senza dolcezza che non solo non si trova mai nelle selve degli eruditi, ma neppure negli orti del nuovo e del vecchio testamento, mentre invece troviamo "piacere" ed anzi frequentemente e tra gli alberi nel luogo più ameno. Addurrò una testimonianza non falsa, come fate voi che dite «dalla volontà della carne» invece che «dal piacere». Leggiamo infatti al principio del Genesi: «Dio aveva piantato all’inizio il paradiso del piacere», e questo passo è ripetuto, e molto dopo è chiamato «paradiso di Dio» (Gen. II, 8; II, 15; III, 23; III, 24). Orsù dunque incriminiamo pure il nome o la dignità del piacere al quale mai cosa è stata attribuita tanta dignità ed onore? Certo a nessun'altra, non alla scienza, non alla virtù, non alla potenza, non a nessuna delle altre cose che pure si sogliono lodare e desiderare; che dobbiamo dunque pensare del piacere se non che sia la beatitudine e di coloro che la perseguono cosa possiamo augurare se non che non la raggiungano mai e che lascino a me la loro parte, seppure la meritano? Tralascio ciò che disse David: «Li abbeveri al torrente del tuo piacere» (Psalm., XXXV, 9); ed Ezechiele parlando del paradiso nomina «i pomi del piacere» (Ezech., XXXI, 9; 16; 18).

Ma perché, potrebbe dirmi qualcuno, ti sei preso il compito di lodarlo? [...] Io, invero, santissimo padre, come ho testimoniato nella mia stessa opera, non mi occupo del nome; lo si chiami come si vuole o piacere o fruizione o diletto, o gioia, o felicità e beatitudine, purché la cosa risulti evidente e sia chiaro ciò che mi ero proposto di provare, che non v’è nessuna vera virtù se non nel servir Dio; e ciò perché non ci possano insultare i sostenitori dei gentili, i quali, vogliono che vi fossero vere virtù in coloro che non pensavano di aver ricevuto le loro anime da Dio né credevano che da Dio fossero stati stabiliti premi e punizioni per i meriti dei vivi o dei morti.

Dove sono coloro che dicono che io ho un cattivo atteggiamento nei confronti della fede? Io che ho sempre combattuto assiduamente per essa e che anche adesso, se è lecito dire la verità, combatto in sua difesa sì che i miei accusatori debbono dirsi nemici della fede e io difensore.

8/ Leon Battista Alberti (prete, 1404-1472, muore a Roma)

-l’Alberti era sacerdote e, come molti altri sacerdoti dell’epoca, pagava un altro prete che celebrasse le messe nella propria parrocchia per potersi dedicare più liberamente al lavoro di architetto ed alla scrittura

-...vedendo la Cupola del Brunelleschi

Chi mai sì duro o sì invido che non lo­dasse Pippo architetto vedendo qui struttura sì grande, erta sopra e' cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e' popoli toscani, fatta senza alcuno aiuto di travamenti o di copia di legname, quale artificio certo, se io ben iudico, come a questi tempi era incredibile potersi, così forse appresso gli antichi fu non saputo né conosciuto?

-Pertanto così mi pare da credere sia l'uomo nato, certo non per marcire giacendo, ma per stare facendo [...]; l'uomo nacque non per attristarsi in ozio, ma per adoprarsi in cose magnifiche et ampie, colle quali e' possa piacere e onorare Iddio in prima, et per avere in se stesso come uso di perfetta virtù, così fructo di felicità.
Come confesseremo noi non essere più nostro che della, fortuna quel che noi con sollecitudine e diligentia delibereremo mantenere o conservare? Non è potere della fortuna, non è, come alcuni sciocchi credono, così facile vincere chi non voglia essere vinto. Tiene giogo la fortuna solo a chi gli si sottomette.

9/ Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469-1536; prete, poi con dispensa; il papa gli offre il cardinalato nel 1535)

dall’Elogio della follia (1511)

1. Qualsiasi cosa dicano di me i mortali - non ignoro, infatti, quanto la Follia sia portata per bocca anche dai più folli - tuttavia, ecco qui la prova decisiva che io, io sola, dico, ho il dono di rallegrare gli Dèi e gli uomini. Non appena mi sono presentata per parlare a questa affollatissima assemblea, di colpo tutti i volti si sono illuminati di non so quale insolita ilarità. D'improvviso le vostre fronti si sono spianate, e mi avete applaudito con una risata così lieta e amichevole che tutti voi qui presenti, da qualunque parte mi giri, mi sembrate ebbri del nettare misto a nepènte degli Dèi d'Omero, mentre prima sedevate cupi e ansiosi come se foste tornati allora dall'antro di Trofonio. Appena mi avete notata, avete cambiato subito faccia, come di solito avviene quando il primo sole mostra alla terra il suo aureo splendore, o quando, dopo un crudo inverno, all'inizio della primavera, spirano i dolci venti di Favonio, e tutte le cose mutando di colpo aspetto assumono nuovi colori e tornano a vivere visibilmente un'altra giovinezza. Così col mio solo presentarmi sono riuscita a ottenere subito quello che oratori, peraltro insigni, ottengono a stento con lunga e lungamente meditata orazione. [...]

50. Meno mi devono i poeti, che pure appartengono apertamente alle mie schiere, libera schiatta come sono, secondo il proverbio, tutti presi dall'impegno di sedurre l'orecchio dei pazzi con autentiche sciocchezze e storielle risibili. Fidando in questi mezzi, mirabile a dirsi, promettono immortalità e divina beatitudine a se stessi e anche agli altri. A costoro soprattutto sono legate Filautìa [amore di se stessi] e Kolakìa [adulazione], che da nessun'altra stirpe mortale ricevono un culto altrettanto schietto e costante. [...]

Nella stessa schiera rientrano quelli che aspirano a fama immortale pubblicando libri. Mi devono tutti moltissimo, ma in particolare coloro che imbrattano i fogli con autentiche sciocchezze. Gli eruditi, infatti, che scrivono per pochi dotti, e che non rifiutano per giudici né Persio né Lelio, a me non sembrano punto felici, ma piuttosto degni di pietà, perché senza posa si arrovellano a fare giunte, mutamenti, tagli, sostituzioni. Riprendono, limano; chiedono pareri; lavorano a una cosa anche per nove anni, e non sono mai contenti; a così caro prezzo comprano un premio da nulla quale è la lode, e lode di pochissimi, per di più: la pagano con tante veglie, con tanto spreco di sonno - il sonno, la più dolce delle cose! - con tanta fatica, con tanto sacrificio.

Aggiungi il danno della salute, la bellezza che se ne va, il calo della vista, o addirittura la cecità, la povertà, l'invidia degli altri, la rinuncia ai piaceri, la senescenza precoce, la morte prematura; e chi più ne ha, più ne metta. Il sapiente crede che ne valga la pena: mali sì gravi in cambio del plauso di uno o due cisposi. Quanto più felice il delirio dello scrittore mio seguace quando, senza starci punto a pensare, solo col modico spreco di un po' di carta, seguendo l'ispirazione del momento, traduce prontamente in scrittura tutto quanto gli passa per la testa, anche i sogni, sapendo che più sciocche saranno le sciocchezze che scrive, e più troverà consenso nella maggioranza, cioè in tutti gli stolti e ignoranti. Che importa il disprezzo di tre dotti, ammesso che le leggano? e che peso può avere il giudizio di così pochi sapienti, se a contrastarlo c'è una folla così sconfinata? Ma ancora più avveduti si rivelano coloro che pubblicano, spacciandoli per propri, gli scritti altrui e valendosi dell'apparenza trasferiscono sulla propria persona una gloria che è frutto del faticoso impegno d'altri; fidano su questo, che se anche saranno accusati di plagio, tuttavia, per qualche tempo, avranno tratto vantaggio dall'inganno.

Vale la pena di vedere come sono soddisfatti di sé quando la gente li elogia, quando li segna a dito nella folla: "E lui! lo scrittore famoso!"; quando i loro libri stanno in mostra in libreria, quando in cima a ogni pagina si leggono quei tre nomi, soprattutto se stranieri e con un sapore di magia. Ma cosa sono poi, buon Dio, se non dei nomi? E quanto pochi saranno a conoscerli, se si pensa a quant'è grande il mondo; e meno ancora, poi, saranno a lodarli, perché anche gli ignoranti hanno gusti diversi. Che dite degli stessi nomi, non di rado fittizi e tratti dai libri degli antichi? Chi si compiace di chiamarsi Telemaco, chi Steleno o Laerte; chi Policrate e chi Trasimaco, tanto che ormai potremmo benissimo chiamarli camaleonte o zucca, oppure indicare i libri con le lettere dell'alfabeto, secondo l'uso dei filosofi.

Eppure più di tutto diverte vederli, sciocchi e ignoranti come sono, impegnati a scambiare con altri, sciocchi e ignoranti come loro, lettere e versi elogiativi, encomi. In questi scambi di lodi, chi diventa un Alceo e chi un Callimaco; chi è superiore a Cicerone e chi più dotto di Platone. A volte, per accrescere nella gara la loro fama, creano un avversario, e "il pubblico, incerto, non sa quale partito prendere", finché ne escono tutti vittoriosi e lasciano il campo da trionfatori.

I saggi ridono di queste cose come di solenni sciocchezze, e tali sono. Chi lo nega? Ma intanto, per merito mio, quelli se la godono e non scambierebbero i loro trionfi neppure con quelli degli Scipioni. Gli stessi dotti, del resto, mentre ridono divertendosi un mondo e godono della follia altrui, contraggono anch'essi con me un gran debito; né possono negarlo, se non sono proprio degl'ingrati. [...]

57. Già da un pezzo i sommi pontefici, i cardinali ed i vescovi hanno preso con impegno a modello il genere di vita dei prìncipi, e con un successo forse maggiore. Certo, se uno riflettesse sul significato della veste di lino, splendida di niveo candore, simbolo d'una vita senza macchia; e pensasse a quello della mitra a due punte riunite in un solo nodo, a indicare una perfetta conoscenza del Vecchio e del Nuovo Testamento; o delle mani coperte dai guanti, segno della purezza, immune da ogni umano cedimento, con cui vengono somministrati i sacramenti; se si chiedesse che vuol dire il pastorale, simbolo della cura estrema con cui si veglia sul proprio gregge; che cosa la croce che precede indicando la vittoria su tutte le umane passioni; se, dico, uno riflettesse a queste cose, e a molte altre del genere, che vita sarebbe la sua, piena di malinconie e di affanni! Bene fanno quelli che pensano soltanto ad ingozzarsi, e la cura del gregge, o la rimettono a Cristo medesimo, o la scaricano su coloro che chiamano fratelli o vicari. Del significato del loro nome di vescovi neppure si ricordano: vescovo vuol dire fatica, preoccupazione, sollecita premura. Vescovi sono sul serio nell'arraffare quattrini: in questo la loro vigilanza è tutta occhi.

66. Per non dilungarmi all'infinito cercherò di riassumere per sommi capi. Se la religione cristiana sembra avere qualche parentela con la follia, con la sapienza non ha proprio nulla a che fare. Desiderate averne una prova? Guardate in primo luogo al fatto che bambini, vecchi, donne e anime semplici godono più degli altri delle funzioni religiose, e perciò, per puro istinto, sono sempre i più vicini agli altari. Vedete inoltre che i primi fondatori della religione, con mirabile slancio, scelsero le vie della semplicità, mentre furono nemici acerrimi delle lettere.

Infine non c'è pazzo che sembri più pazzo di coloro che una volta per sempre siano stati conquistati in pieno dal fuoco della carità cristiana: a tal punto sono prodighi dei loro beni, trascurano le offese, tollerano gli inganni, non fanno distinzione tra amici e nemici, hanno orrore del piacere; digiuni, veglie, lacrime, fatiche, ingiurie, sono il loro nutrimento; per nulla attaccati alla vita, desiderano solo la morte; per dirla in breve, sembrano affatto insensibili alle esigenze del senso comune, come se il loro animo vivesse altrove, e non nel loro corpo. E che altro è questo se non follia? Non dobbiamo dunque meravigliarci se gli Apostoli sembrarono ubriachi di vino dolce, se Paolo sembrò pazzo al giudice Festo.

Comunque, visto che una volta tanto ho vestito la pelle del leone, andrò più in là mettendo in chiaro un'altra cosa: quella beatitudine che i cristiani cercano di conquistare a così caro prezzo, altro non è se non una forma di follia e di stoltezza. [...]

67. [...] Anche se questa felicità sarà perfetta solo quando le anime, ripresa l'antica veste corporea, riceveranno il dono dell'immortalità, gli uomini pii, dato che la loro vita è tutta una meditazione di quella vita immortale, e quasi una sua immagine, possono talvolta pregustare qualcosa, una sorta di anticipazione di quel premio. Si tratta di una goccia da niente in confronto a quella fontana di eterna felicità, ma che vale molto di più di tutti i piaceri corporei, anche se potessimo farli convergere tutti in un punto solo. A tal punto la sfera dello spirito è superiore al corpo, e quella dell'invisibile al visibile. Questa certo è la promessa del Profeta: "l'occhio non vide, l'orecchio non udì, non penetrarono nel cuore dell'uomo le cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano". Questa è la parte della follia che il passaggio da una vita all'altra non toglie, ma porta a perfezione. Quelli che hanno potuto parteciparne - pochissimi invero - sono còlti da un turbamento che alla follia è vicinissimo; fanno discorsi incoerenti, proferendo parole strane e senza senso; e poi, all'improvviso, mutano completamente d'espressione. Ora alacri, ora depressi; ora piangono, ora ridono, ora sospirano; insomma sono davvero del tutto fuori di sé. Appena rientrano in se stessi dicono di non sapere dove sono stati, se nel corpo o fuori del corpo; di ignorare se erano svegli o addormentati; di non sapere che cosa hanno udito, che cosa hanno detto, che cosa hanno fatto; hanno solo dei ricordi che sembrano filtrare attraverso il velo della nebbia o del sogno. Una sola cosa sanno: di essere stati al colmo della beatitudine quando erano in quello stato. Perciò piangono per essere tornati in senno, e soprattutto desiderano di essere in eterno in preda a quel genere di follia. Hanno appena pregustato la felicità futura!

 

da Erasmo da Rotterdam, Il pugnale del soldato cristiano, in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, p. 6

Prima di tutto devi tenere ben presente che la vita degli uomini non è altro che una perpetua campagna militare. Ne è testimone Giobbe, il soldato più forte e invincibile che ci sia mai stato. E di gran lunga sbaglia la gente comune, che questo mondo ingannatore tiene occupata con frodi allettanti, e che si rilassa stoltamente, come se la guerra fosse finita. È stupefacente con quanta tranquillità essa viva, non altrimenti che se si trovasse in uno stato di pace perpetua - e quanto placidamente dorma tra due guanciali, mentre siamo attaccati da eserciti di vizi armati fino ai denti, e siamo vittime di trucchi e insidie di ogni genere. Guarda: diavoli sciagurati sono all' erta per cogliere il momento di attaccarti dall'alto. Furbi, maliziosi, ostili e armati, tengono sotto tiro le nostre menti con frecce incendiarie e avvelenate, dal colpo più preciso di quelli di Ercole o di Cefalo, cui si può opporre solo il robusto scudo della fede. Questo mondo ci assale da tutte le parti; esso, come dice Giovanni, è fondato completamente sui vizi, e perciò odia Cristo e ne è odiato. E non usa certo un unico sistema di attacco. A volte, infatti, nei momenti difficili, colpisce le mura dell'animo con un pesante ariete, come in un assalto alla luce del sole. A volte, tenta di spingerci al tradimento con magnifiche quanto vane promesse. A volte scava di nascosto delle gallerie, salta fuori inaspettatamente e ci piomba addosso di sorpresa mentre fiduciosamente sonnecchiamo. Infine, anche dal basso, quel viscido serpente che fin dall'inizio ha distrutto con l'inganno la nostra pace, ora mimetizzato nel verde dell'erba, ora rimpiattato nelle sue caverne, avvolto in centinaia di spire, insidia continuamente il calcagno della donna che è in noi e che già una volta ha corrotto.

da Erasmo da Rotterdam, Il pugnale del soldato cristiano, in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, pp. 13-14

Ma adesso dirò sommariamente che chi deve combattere con i sette popoli, Cananei, Cetei, Amorrei, Ferezei, Gergezei, Etei e Jebusei, cioè con l'intero esercito dei vizi, e soprattutto i sette capitali, deve preparare essenzialmente due armi: la preghiera e la conoscenza. Paolo, che ci esorta a pregare ininterrottamente, ci vuole sempre armati in questo senso. Una preghiera pura porta i nostri sentimenti in cielo, cioè in una rocca inaccessibile; la conoscenza munisce l'intelletto di sane opinioni: in questo modo esse si sostengono a vicenda. Quella prega, ma questa suggerisce per cosa pregare; la fede e la speranza ti aiutano a pregare con ardore e, come dice Giacomo, senza dubitare; la conoscenza ti insegna a pregare in nome di Gesù, cioè a chiedere cose sane. Perfino i figli di Zebedeo si sentirono rispondere: «Voi non sapete ciò che vi chieggiate». Dunque, da un lato la preghiera va benissimo, in quanto si dialoga con Dio, ma la conoscenza non è meno necessa­ria. In fuga dall'Egitto, non so quanta strada puoi fare senza la guida di Mosè ed Aronne. Aronne, posto a capo delle cose sacre, simboleggia la preghiera. Mosè significa la conoscenza della Legge.

da Erasmo da Rotterdam, Il pugnale del soldato cristiano, in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, pp. 14-15

Credimi, fratello carissimo all'animo mio, nessun assalto del nemico è così violento, nessuna tentazione è così forte, che un appassionato studio delle Sacre Lettere non possa respingere facilmente; nessuna avversità è tanto nera che esso non la renda tollerabile. Ma perché io non sembri un interprete troppo audace (per quanto, potrei appoggiarmi a grandi autori), quale immagine potrebbe adombrare la scienza della legge santa meglio che la manna? Anzitutto, nel fatto che essa non viene dalla terra, ma dal cielo, puoi cogliere la differenza tra gli scritti umani e quelli divini: infatti tutti gli scritti sacri sono divinamente ispirati e hanno Dio per autore. Che la manna sia una specie di polvere, simboleggia l'umiltà della Parola, che nasconde grandi misteri sotto parole poco più che volgari. Il fatto che sia candida significa che, mentre nessuna dottrina umana è esente da qualche macchia, solo la dottrina di Cristo è completamente pura, luminosa e autentica. Il fatto che sia leggermente dura e pungente simboleggia il mistero nascosto sotto la lettera. Se si tocca la superficie, anzi la buccia, cosa c'è di più duro e sgraziato? Avevano assaggiato appena il rivestimento della manna quelli che dicevano «Questo discorso è duro, e chi può ascoltarlo?». Tira fuori il senso spirituale, ed ecco che non c'è niente di più dolce e succulento. Infine, «manna» in ebraico vuol dire «cos’è questo?» Il che si adatta perfettamente anche alla Sacra Scrittura, che non contiene niente di ozioso: neanche una virgola che non sia degna di analisi, che non sia degna della domanda «cos'è questo?».

da Erasmo da Rotterdam, Il pugnale del soldato cristiano, in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, p. 26

Dunque, l'uomo è un animale stupefacente, fatto di due, anzi tre parti diversissime tra loro, con un'anima che lo fa simile a un nume e un corpo che lo fa simile a un animale bruto. Il nostro corpo, peraltro, è inferiore sotto tutti i riguardi a quello degli altri animali bruti; quanto all'anima, invece, siamo a tal punto capaci di divinità che ci è possibile sorvolare perfino le menti angeliche e diventare una cosa sola con Dio. Se non ti fosse stato aggiunto un corpo, saresti un dio: se non ci fosse stata inserita quest’anima, saresti una bestia. Queste due nature così diverse tra loro il grande artefice le aveva legate in armoniosa concordia, ma il serpente, nemico della pace, le ha divise in sterile discordia, di modo che ormai non possono né dividersi senza il massimo tormento né vivere insieme senza una continua guerra. Come si suol dire, ciascuno dei due lupi in lotta tiene l'altro per l'orecchio e ad entrambi si adatta l'arguta battuta «Non posso vivere con te, né senza di te».

da Erasmo da Rotterdam, Il pugnale del soldato cristiano, in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, pp. 44.45.47.50

Regola prima. Poiché la fede è l'unica via d'accesso a Cristo, bisogna che la prima regola sia che tu impari a conoscere il meglio possibile lui e il suo spirito tramite le Scritture che ci sono state tramandate. E bisogna che tu creda, ma non solo a parole, non freddamente, non pigramente e dubbiosamente - come fa la maggior parte dei cristiani - ma con tutto il cuore, e che ti stabilisca fermamente nel profondo dell' animo, che non c'è neanche una virgola in quelle Scritture che non riguardi urgentemente la tua salvezza. Non farti influenzare dal vedere che una buona parte degli uomini vive come se il cielo e !'inferno fossero favole da vecchiette, per spaventare o allettare i bambini.

[...]

Regola seconda. Per prima cosa, dunque, non bisogna dubitare delle promesse divine. In secondo luogo, intraprendi la strada della salvezza senza dubbi, senza paure, ma con fermezza, di tutto cuore, con animo fiducioso e, per dir cosi, gladiatorio, pronto a sacrificare per Cristo ciò che possiedi, e anche la vita. Il pigro vuole e non vuole. Il regno dei cieli non si accosta a chi sbadiglia; al contrario, ama essere preso con la forza, e sono gli impetuosi che lo conquistano. Mentre ti affretti verso di esso, non farti frenare dall'amore per le cose che ti sono care, dalle tentazioni del mondo, dagli affari domestici. La catena delle preoccupazioni di questo mondo va spezzata, se non si può sciogliere.

[...]

Regola terza. Non deve però distoglierti dalla via della virtù il fatto che essa sia dura e amara, sia perché essa impone di rinunciare alle comodità di questo mondo, sia perché ci obbliga a combattere contemporaneamente contro tre insidiosissimi nemici, la carne, il diavolo e il mondo. Proponiti come terza regola di non prendere minimamente in considerazione, sull'esempio dell’Enea di Virgilio, tutti i terrori e i fantasmi che ti assalgono all’improvviso, come fossi alle porte stesse dell'Inferno.

[...]

Regola quarta. Ma perché la tua strada per la felicità sia più sicura, prefiggiti come quarta regola di avere Cristo come unico scopo di tutta la tua vita al quale unicamente indirizzare i tuoi interessi, i tuoi sforzi, il tuo riposo e le tue attività. Tieni per certo che Cristo non è una parola vuota, ma nient’altro che carità, semplicità, pazienza, purezza, in breve, tutto quello che egli ha insegnato.

da Erasmo da Rotterdam, Paraclesis, ovvero esortazione allo studio della filosofia cristiana, in Erasmo da Rotterdam (1516, insieme all’edizione del NT), Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, pp. 128-129

Mi dispiace dovere adesso, per prima cosa, rinnovare una vecchia lamentela: vecchia, ma, ahimé!, fin troppo giusta. E non so se sia mai stata più giusta di oggi, quando, mentre i mortali si dedicano con tanta passione ai loro studi, la sola filosofia di Cristo è addirittura derisa da certi cristiani, dalla maggior parte di essi è trascurata, e solo da pochi viene studiata - ma con indifferenza, per non dire con ipocrisia. Eppure, in tutte le altre discipline create dall'ingegno umano non c'è niente di cosi recondito e nascosto che non sia stato esplorato dalla sagacità dell'intelletto, niente di tanto difficile che non sia stato compreso grazie a un lavoro incessante. Perché allora accade che noi, che pure ci chiamiamo tutti col nome che ci viene da Cristo, non ci dedichiamo a quest'unica filosofia con l'animo che essa merita? Platonici, Pitagorici, Accademici, Stoici, Cinici, Peripatetici, Epicurei conoscono profondamente i principi della propria scuola, e li sanno a memoria, e per essi combattono, pronti a morire piuttosto che tradire l'insegnamento del proprio maestro. E noi, perché non dimostriamo una fedeltà anche maggiore al nostro fondatore e maestro Cristo? Chi non troverebbe assurdo che un seguace di Aristotele ignorasse il pensiero di quel filosofo sulle cause dei fulmini, sulla materia elementare, sull'infinito? Eppure, queste sono cose che non rendono felici a saperle, né infelici a ignorarle. E noi, che siamo stati iniziati e avvicinati a Cristo in tanti modi e con tanti sacramenti, non riteniamo disonorevole ignorare una dottrina che garantisce a tutti una felicità certissima? Ma a che serve ingrandire qui polemicamente l'argomento, quando è empio e folle il fatto stesso di paragonare Cristo con Zenone o Aristotele, e la sua dottrina con le loro - per parlare educatamente - formulette? Attribuiscano pure ai capi della loro setta quello che possono o che vogliono: questo è senza dubbio l'unico maestro venuto dal cielo, il solo che abbia potuto, essendo l'eterna sapienza, insegnare certezze; il solo a impartire insegnamenti salvifici, unico autore dell'umana salvezza; il solo ad essere assolutamente coerente con tutto ciò che ha insegnato; il solo che può mantenere tutto ciò che ha promesso. Se ci arriva qualcosa dai Caldei o dagli Egizi, bramiamo ardentemente di conoscerlo proprio perché viene da un mondo a noi estraneo, e l'arrivare da lontano fa parte del suo valore. Spesso sulle fantasie di un poveruomo, per non dire di un impostore, ci tormentiamo ansiosamente, non solo senza alcun frutto, ma con grande spreco di tempo - per non dir di peggio (sebbene sia già gravissimo non ottenere nessun risultato). Ma come mai una curiosità di questo genere non stuzzica l'animo dei Cristiani, che sanno benissimo che la loro dottrina non viene dall'Egitto o dalla Siria, ma dal cielo stesso? Perché non riflettiamo tutti che è necessario sia uno straordinario, mai visto, genere di filosofia quello per predicarci il quale colui che era Dio si è fatto uomo, colui che era immortale si è fatto mortale, colui che era nel cuore del Padre è sceso in terra? È necessario che sia qualcosa di grande, di nient'affatto comune, qualsiasi cosa sia, ciò che è venuto a insegnarci quel maestro tanto ammirevole, dopo tante scuole di filosofi e tanti insigni profeti. Perché, qui, non conosciamo, analizziamo, discutiamo, con pia curiosità, ogni singola cosa? Soprattutto visto che questo genere di sapienza - tanto esimio da rendere una volta per tutte stolta tutta la sapienza di questo mondo - lo si può attingere, come da limpidissime fonti, da questi pochi libri, con fatica di gran lunga minore di quella che costa attingere da tanti volumi spinosi, da tanto immensi e contraddittori commenti di interpreti la dottrina aristotelica - per non aggiungere con quanto maggior frutto. Qui infatti non è necessario avvicinarsi muniti di tante angoscianti dottrine. Il viatico è semplice e accessibile a chiunque, purché si abbia un animo pio e disponibile, e soprattutto dotato di fede semplice e pura. Perché tu sia docile, otterrai grandi risultati in questa filosofia. E lei che ci fornisce lo spirito maestro, che non si offre tanto volentieri quanto agli animi semplici.

da Erasmo da Rotterdam, Paraclesis, ovvero esortazione allo studio della filosofia cristiana, in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, pp. 130-131

Io dissento infatti totalmente da coloro che non vorrebbero che il popolo leggesse le Sacre Scritture tradotte in volgare, come se Cristo avesse insegnato cose cosi astruse da poter essere capite solo da un gruppetto di teologi, o come se la massima sicurezza della religione cristiana consistesse nell'essere ignorata. Può darsi che sia opportuno tenere nascosti i segreti dei re: ma Cristo vuole che i suoi siano divulgati il più possibile. Vorrei che qualsiasi donnetta leggesse il Vangelo, leggesse le epistole di Paolo. E magari questi scritti fossero tradotti nelle lingue di tutti i popoli, in modo da essere letti e capiti non solo dagli Scoti e dagli Iberni, ma anche dai Turchi e dai Saraceni! Il primo passo sta senza dubbio nell’impararli in un modo qualsiasi. Va bene: molti ne rideranno, ma alcuni ne faranno tesoro. Mi piacerebbe che il contadino ne cantasse dei passi mentre guida l’aratro, e il tessitore mentre guida la spola, e che il viandante ingannasse la noia del viaggio con le storie della Scrittura. Tutte le conversazioni di tutti i cristiani dovrebbero basarsi su di essa. Noi siamo infatti quali sono i nostri discorsi quotidiani. Ciascuno capisca ed esprima ciò che può. Chi resta indietro non invidi chi gli sta avanti, e questi dia una mano a chi gli sta dietro, non lo scoraggi. Perché restringiamo a pochi un'attività che è di tutti? E infatti illogico che, mentre sono allo stesso modo comuni a tutti i cristiani il battesimo (prima professione della filosofia cristiana), poi tutti gli altri sacramenti e infine la promessa dell'immortalità, solo i dogmi siano stati relegati nelle mani di un gruppetto di persone, che oggi si chiamano comunemente teologi o monaci, ma che, pur essendo una parte minima del popolo cristiano, vorrei fossero migliori della fama che hanno. Temo infatti che tra i teologi se ne possano trovare di quelli che si discostano molto dal titolo che hanno, e cioè che discutono di cose terrene e non di cose divine. E che fra i monaci non se ne trovino molti che professino la povertà e il disprezzo del mondo insegnatici da Cristo, invece che la morale del mondo. Per me è un vero teologo colui che sappia insegnare - non con sillogismi contorti ad arte, ma con l'atteggiamento, con l’espressione del volto e degli occhi, con la sua stessa vita - che le ricchezze vanno disprezzate; che il cristiano non deve contare sulle sicurezze di questo mondo, ma deve affidarsi al cielo; che l'ingiuria non va restituita; che bisogna benedire chi ci maledice e fare del bene a chi ci fa del male; che i buoni vanno amati e aiutati tutti come le membra dello stesso corpo, e i cattivi tollerati, se non possono essere corretti; che coloro che vengono spogliati dei loro beni, che vengono scacciati dalle loro proprietà, che piangono, sono beati e non spregevoli; che la morte, non essendo altro che il passaggio all'immortalità, è desiderabile anche per le persone pie. Se qualcuno, ispirato da Cristo, predicasse, inculcasse ed esortasse a cose come queste, sarebbe un vero teologo anche se fosse uno zappatore o un tessitore. E se qualcuno le sostenesse con 1'esempio della sua condotta, questi sarebbe un grande Dottore. Su quale sia l'intelletto degli angeli può forse discutere sottilmente anche un non cristiano, ma persuadere gli uomini che in questo mondo dobbiamo condurre una vita angelica, questo è veramente il compito di un teologo cristiano. E se qualcuno strillasse che queste sono affermazioni volgari e sempliciotte, non avrei altro da rispondere se non che queste volgarità le ha insegnate prima di tutto Cristo, che su di esse hanno insistito gli apostoli e che ce le hanno tramandate schiere di autentici cristiani e di insigni martiri. Questa filosofia, che a loro sembra illetterata, ha sottomesso alle proprie leggi i massimi principi della terra ed un ben noto numero di regni e popoli, cosa che non era riuscita a fare né la forza dei tiranni, né la dottrina dei filosofi. Non voglio certamente oppormi, se coloro che hanno raggiunto la perfezione vogliono discutere nei loro circoli di codesta sapienza per pochi. Ma sarà una consolazione per l'umile volgo dei cristiani sapere che tali sottigliezze gli apostoli, ammesso che ne fossero a conoscenza (e questo non intendo stabilirlo io), certo non le insegnarono.

da Erasmo da Rotterdam, Paraclesis, ovvero esortazione allo studio della filosofia cristiana, in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, pp. 132-133

E cos’altro è la filosofia di Cristo, che egli stesso so chiama rinnovamento, se non l'istituzione di una natura buona? Peraltro, sebbene nessuno l'abbia insegnata più radicalmente e più efficacemente di Cristo, nei libri dei pagani si possono trovare molte cose che si accordano con questa dottrina. Non c'è mai stata nessuna scuola filosofica cosi grossolana da insegnare che il denaro rende l'uomo felice, nessuna tanto impudente da porre il bene supremo negli onori e piaceri volgari che ci attirano tanto. Gli stoici videro che nessuno è sapiente se non è buono e che non c'è nulla di veramente buono e onorevole fuori dalla vera virtù, niente di ripugnante o malvagio al di fuori della turpitudine, che è una sola. Che l'ingiuria non va compensata con l'ingiuria lo insegna in molti modi il Socrate di Platone; e poi che, essendo l'anima immortale, coloro che passano a una vita più felice, sicuri di un'onesta vita passata, non vanno compianti; e inoltre che l'anima va staccata con ogni mezzo dalle passioni del corpo e indirizzata a cose che sono vere anche se non si vedono. Che non possa esserci per noi niente di piacevole che non sia in qualche modo spregevole, eccetto la virtù, lo scrive Aristotele nella Politica. Che nella vita dell'uomo non possa esserci niente di piacevole senza un animo conscio della propria innocenza, dal quale, come da una fonte, scaturisce il vero piacere, lo dice anche Epicuro. E che dire del fatto che gran parte di questa dottrina molti l'hanno sostenuta con il proprio esempio, soprattutto Socrate, Diogene ed Epitteto? Ma quelle stesse cose, che Cristo tanto più pienamente ha insegnato e praticato, non è stupefacente che i cristiani le ignorino, le trascurino, o addirittura le deridano?

da Erasmo da Rotterdam, Paraclesis, ovvero esortazione allo studio della filosofia cristiana, in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, p.134

Perché preferiamo imparare la sapienza di Cristo dagli scritti degli uomini piuttosto che da Cristo stesso? Lui che ha promesso che sarebbe stato con noi sempre, fino alla fine dei secoli, mantiene la promessa soprattutto con questi scritti, nei quali ancora oggi vive, respira, parla, direi quasi più efficacemente di quando viveva con gli uomini. I Giudei vedevano e udivano meno cose di quelle che tu vedi e ascolti negli scritti evangelici, purché tu ci metta occhi e orecchie tali da poterle distinguere.

Insomma, che storia è questa? La lettera di un amico la conserviamo, la baciamo, ce la portiamo dietro, la leggiamo e rileggiamo: e ci sono migliaia di cristiani che, pur essendo dotti, non hanno mai letto in tutta la loro vita i libri evangelici e apostolici. I maomettani custodiscono gelosamente i loro dogmi, i Giudei ancora oggi studiano Mosè nel testo originario. Perché noi non rendiamo lo stesso onore a Cristo? Coloro che seguono San Benedetto conservano, mandano a mente, si imbevono della sua regola, che pure fu scritta da un uomo, e da un uomo quasi ignorante, per gente ignorante. Gli agostiniani sono ferratissimi sulla regola del loro fondatore. I francescani adorano i poveri insegnamenti del loro Francesco, li accolgono incondizionatamente, in qualsiasi posto del mondo si spingano li portano con sé, e non si sentono sicuri se non hanno in seno quel libretto. Perché essi tributano a una regola scritta da un uomo più di quanto i cristiani in generale tributano alla propria regola, che Cristo ha trasmesso a tutti, a cui tutti egualmente si sono legati col battesimo, e che insomma - per quante tu ne voglia aggiungere - è la più sacra di tutte?

da Erasmo da Rotterdam, La preparazione alla morte (1533), in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, p.435

Quando tu, che sei un uomo illustre più per la tua religiosità che per i doni della sorte, mi chiedi di aggiungere alle opere che ho già scritto per te una dissertazione, anche breve, su come ci si debba preparare alla morte, mi chiami al fine ultimo della filosofia cristiana. Essa è infatti come l'ultimo atto della commedia della vita umana, dal quale dipende l'eterna felicità dell'uomo, o la sua eterna condanna. In essa si svolge il supremo conflitto con quel nemico che, se sconfitto, frutterà al soldato di Cristo un eterno trionfo, se vincitore un' eterna ignominia. D'altra parte, ero già totalmente immerso in questo problema quando la tua richiesta è venuta, per casi dire, a spronarmi in corsa.

da Martin Lutero, Il servo arbitrio. Risposta a Erasmo, Claudiana, Torino, 1993, pp. 78-80 e 416

Per affermazione (tanto per non giocare con le parole) intendo l’aderire costantemente a una dottrina, affermarla, confessarla, difenderla e sostenerla fino in fondo con perseveranza; né, credo, quel termine ha altro significato nei classici latini o nel nostro uso odierno. Inoltre mi riferisco a quelle cose che devono essere affermate, ovvero che ci sono state tramandate per via divina nella Sacra Scrittura. Non c'è del resto bisogno che Erasmo o qualsiasi altro maestro venga a insegnarci che nelle cose dubbie, inutili e non necessarie le affermazioni, le dispute e le contese sono non solo stolte ma addirittura empie; Paolo le condanna infatti in più di un luogo [I Tim. 1,4; II Tim. 2,23; Tito 3,9]. Né, credo, intendi qui riferirti a questo genere di cose, a meno che, come un oratore da strapazzo, tu non voglia alludere a una cosa e trattarne invece un'altra, oppure, per una follia degna di uno scrittore empio, tu ritenga l'articolo del libero arbitrio una questione dubbia o non necessaria.

Si tengano dunque lontano da noi cristiani gli scettici e gli accademici; ci stiano invece vicini coloro che sostengono la fede con un' ostinazione ancora più grande di quella degli stoici. Quante volte, mi chiedo, l'apostolo Paolo sollecita la plerophoría [I Tess. 1,5], cioè la più certa e convinta affermazione della coscienza? Nel capitolo 10 dell'epistola ai Romani la chiama confessione: «Con la bocca si fa confessione per essere salvati» [Rom. 10,10]. E Cristo dice: «Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io riconoscerò lui davanti al Padre mio» [Mt. 10,32]. Pietro comanda di rendere ragione della speranza che è in noi [I Pie. 3,15]. Che bisogno c'è di molte parole? Nulla per i cristiani è più noto e familiare dell'affermazione. Togli le affermazioni e hai tolto il cristianesimo. Lo Spirito Santo è dato ai cristiani dal cielo affinché glorifichi Cristo [Giov. 16,14] e lo annunzi fino alla morte; e cos’altro vuol dire fare affermazioni se non morire per la confessione e l'affermazione? Lo Spirito infine fa affermazioni soprattutto per irrompere nel mondo intero e convincerlo del peccato [Giov. 16,8], quasi sfidandolo a battaglia. E Paolo comanda a Timoteo di riprendere e di insistere anche fuor di tempo [II Tim. 4,2]. Che bello spettacolo darà invece quel predicatore che non creda con certezza né affermi con tenacia tutto ciò per cui ammonisce gli altri! Naturalmente lo manderei ad Anticira.

Ma il più stolto di tutti sono di gran lunga io, che perdo tempo e parole in una questione più chiara del sole. Quale cristiano può mai sopportare che le affermazioni siano disprezzate? Questo non significherebbe altro che negare in un sol colpo l'intera religione e pietà, oppure affermare che la religione, la pietà e tutti i dogmi non sono nulla. Come puoi dunque affermare di non aver gusto per le affermazioni e di preferire questa disposizione d’animo a quella opposta? [...]  

Ora, essendo un uomo, è facile che tu non intenda correttamente e non esamini con la dovuta attenzione le Scritture o i detti dei padri, sotto la cui guida credi di aver raggiunto la meta. Ciò è ben chiaro quando scrivi di non voler affermare nulla, ma di aver fatto soltanto dei confronti. Chi penetra fino in fondo una questione e la intende correttamente non scrive in questo modo. Io invece in questo libro NON HO FATTO DEI CONFRONTI, MA HO AFFERMATO E AFFERMO; e non voglio lasciare a nessuno il compito di esprimere un giudizio, ma consiglio a tutti di prestare obbedienza. Voglia il Signore, del quale tratta questa discussione, illuminarti e fare di te un vaso a suo onore e gloria. Amen.

10/ San Tommaso Moro (1477 o 1478-1535)

11/ La stanza della segnatura/biblioteca di Giulio II