Un monito dalle ultime alluvioni: ridicolo idolatrare la scienza, di Giovanni Lindo Ferretti

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 07 /11 /2011 - 13:58 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire  del 6/11/2011 un articolo scritto da Giovanni Lindo Ferretti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Su Giovanni Lindo Ferretti vedi su questo stesso sito l’intervista Dal punk filosovietico al “ritorno a casa”: un’intervista a Giovanni Lindo Ferretti, di Andrea Possieri.

Il Centro culturale Gli scritti (7/11/2011)

Una giornata di pioggia è consolante dopo una lunga stagione arida. Mi dedico ai lavori di casa, di buon umore; lampi, tuoni, scrosci d’acqua mi hanno cullato nel sonno. Pioggia battente, raffiche di vento; il canale si ingrossa. Il cielo spazza e lava la terra pulendo ogni residuo della villeggiatura estiva, striglia i boschi per farli poi risplendere nei colori d’autunno. – Sì, ci voleva –. Cappello impermeabile stivali, scansati nel perdurare del secco, tornano al loro posto.

Sigillare porte e finestre, controllare gli scarichi, verificare i vecchi tetti disponendo secchi dove le gocce filtrano dalle piagne. Fare scorta di legna, candele e fiammiferi a portata di mano: se ne son viste tante e tante si sono sentite, meglio essere preparati all’occorrenza.

Un tempo ci si aiutava, ci si consolava, tra vicini ma ora i paesi sono spopolati, per lo più il fumo che fuoriesce da pochi camini garantisce che tutto va bene. Una giornata così può essere un dono: sono mesi che non leggo un romanzo. Il brutto tempo, quello che fa scappare i turisti dai monti, è il veicolo perfetto per viaggiare lontano, con la mente, tra le righe di un testo.

Un perdurante rumoreggiare in sottofondo, nessuna variazione di luce nel susseguirsi delle ore poi una tonalità plumbea avvisa che il giorno finisce. – Speriamo, preghiamo, non ci siano disgrazie – . Ogni casa, ogni borgo ha ben presente il proprio pericolo, quello che incombe, il più vicino. Da noi la strada statale ha un fronte franoso che sovrasta due tornanti; 30 anni fa venne dichiarata inagibile e si costruì una variante attraverso l’unico podere, già abbandonato, dell’alta valle: era una grande zolla di terra attaccata al monte ed è franata qualche anno fa; resta un guard rail sospeso nel vuoto a memoria e monito.

È bastato segare gli alberi cresciuti, ruspare la terra che l’aveva invaso per ritrovare intatto il vecchio tracciato tagliato nella roccia. Lo usiamo di nuovo dimenticando, volendo dimenticare, che il pericolo resta. È lo stesso di allora, è peggiorato ma quanta gioia, quanta soddisfazione, quando è stato riaperto al traffico. Il lutto è un tempo a scadere, il senso di pericolo decade in fretta nella percezione: la necessità di muoversi in macchina è inderogabile. Impossibile coniugare sicurezza e struttura geologica dei nostri monti.

Non c’è strada, sull’Appennino, che non abbia tratti a rischio. Non c’è governo al mondo, non c’è intervento possibile, che possa garantirne la sicurezza ma, molto di più, non c’è sicurezza alcuna nella vita, nel vivere. Bisognerebbe farsene ragione: la dottrina è antecedente l’educazione civica ma non si trova traccia né dell’una né dell’altra nell’insulso spettacolo che televisione e giornali inscenano ogni giorno esibendo ogni dolore, rubando a uomini e donne sempre più consenzienti l’ultimo spazio di dignità. Questa volta è andata bene sul nostro versante ma molto male di là dal valico.

Aulla è stata invasa da un’onda di acqua e fango, la Val di Vara e le Cinque Terre sono alluvionate: si contano morti, dispersi, sfollati. In tanta distruzione c’è molto da fare e qualcosa da meditare.

Primaria operazione ecologica, ecologia della mente: evitare talk show e giornalisti e non inginocchiarsi, proni, a moderne idolatrie scientiste. I secoli della nostra storia, non siamo nati nel 1945 unico spazio civile di cui si invoca memoria e nel 1861 eravamo già grandicelli, scandiscono in sequenza frane, alluvioni e terremoti devastanti.

Da sempre. La nostra ultima alluvione risale al 1972, l’ho vista bene; l’ultimo terremoto è del 1920, non c’ero ma posso indicarne le tracce sui muri di casa e ci sono volute 3 generazioni, 80 anni di lavori e fatiche, per rifarne una degna dimora. Della Val di Vara so molto meno di quello che merita e vorrei. Rimastico nomi bellissimi: Brugnato, Gotra, legati a Bobbio e ai monaci di San Colombano; Andrevenga moglie di Boniprando, signora longobarda di Velva e Zatta nell’anno 850 cedette terreni per 100 soldi a Ghiello un conquistatore franco. Stessa civiltà, stesse storie. Le Cinque Terre basta averle viste, camminate una volta, per sapere che il rischio è il loro fascino ed è fondante la loro esistenza.

Belle perché al limite dell’esistere, testimonianza di un altro vivere. Non sono nate per essere invase e farsi ammirare, in sicurezza, da frotte di turisti. Aulla è tutt’altra storia, costruita negli ultimi decenni nell’alveo del Magra confidando sul giudizio di esperti che alzano muretti a contenere le piene garantendone una scientifica gestione di bacino, è una scelta economico-politica, applaudita e di successo, pur sempre un rischio e per di più precluso alla bellezza.

C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, ci sono momenti di grazia e incombe la disgrazia. C’è un tempo per la gioia e un tempo di dolore. La forza dell’uomo, la sua grandezza, la sua dignità, ne è consapevolezza.