La scoperta dell'America e gli inizi dell'evangelizzazione del “nuovo mondo”. File audio di una relazione di Andrea Lonardo presso la Cappella dei Re magi del Borromini nel Collegio di Propaganda fide

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 10 /12 /2011 - 00:37 am | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione ad experimentum per valutare l'utilizzo in futuro di files audio le registrazioni ed i testi commentati nell'incontro tenuto da Andrea Lonardo su  La scoperta dell'America e gli inizi dell'evangelizzazione del “nuovo mondo”  presso la Cappella dei Re magi del Borromini nel Collegio di Propaganda fide, il 3 dicembre 2011. Per altri files audio vedi la sezione Audio e video.

 

Il Centro culturale Gli scritti (9/12/2011)

Ascolto

Download missioni.mp3.

Riproducendo "missioni".



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ANTOLOGIA DI TESTI UTILIZZATA NELL'INCONTRO

Ufficio catechistico di Roma
www.ucroma.it
(cfr. anche www.gliscritti.it )

Indice

1/ Il Palazzo di Propaganda fide e Borromini

-Propaganda Fide è il Dicastero (Congregazione) della Santa Sede fondato nel 1622 da Papa Gregorio XV con il duplice scopo di diffondere il cristianesimo nelle zone dove ancora l'annuncio cristiano non era giunto e difendere il patrimonio della fede nei luoghi dove l'eresia aveva messo in discussione la genuinità della fede. Propaganda Fide era dunque, in pratica, la Congregazione alla quale era riservato il compito di organizzare tutta l'attività missionaria della Chiesa. Per disposizione di Giovanni Paolo II, (al fine di rendere più espliciti i suoi compiti) dal 1988 la primitiva Propaganda Fide, si chiama "Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli".

da Andrea Lonardo, Gian Lorenzo Bernini, la Fontana dei Quattro Fiumi a piazza Navona (su www.gliscritti.it )
Il Bernini lavorò alla Fontana dei Fiumi negli anni 1648-1651, su incarico di papa Innocenzo X, della famiglia Pamphilj. Il suo progetto unitario fu realizzato con l’aiuto degli scultori Giacomo Antonio Fancelli (il Nilo), Claude Poussin (il Gange), Antonio Raggi (il Danubio), Francesco Baratta (il Rio della Plata).
I fiumi sono così rappresentati:
-il Nilo
con un leone ed una palma a simbolizzare l’Africa e con gli occhi bendati ad indicare che non si conoscevano ancora le sue sorgenti
-il Rio della Plata
, con le monete d’argento che simbolizzano il colore argentino delle acque (dallo spagnolo plata=argento); è totalmente falsa la ripetuta affermazione che con il gesto della statua lo scultore volesse indicare la sua avversione contro il Borromini alludendo ad una supposta instabilità della Chiesa di S. Agnese, poiché il Borromini vi lavorerà dal 1653 al 1657, quando la Fontana dei Quattro Fiumi sarà già ultimata
-il Danubio
con un cavallo ed i fiori che richiamano le fertili pianure danubiane
-il Gange
con un lungo remo ad indicare la navigabilità del fiume
L’obelisco proviene dall’antico Circo di Massenzio. In un eccellente articolo sull’arte barocca a Roma, Lo spirito del barocco (su www.gliscritti.it ) Olivier de la Brosse, esperto dell’estetica barocca, così commenta il significato simbolico della Fontana dei quattro fiumi nell’universo barocco:
«L'umanesimo spirituale barocco sviluppa la dimensione [N.d.R. per le altre dimensioni, vedi l’articolo integrale] della missione universale che ha come corollario un senso cosmico della chiesa. Nel 1621 Gregorio XV fonda la Congregazione De Propaganda Fide, per la missione cattolica nel mondo. Il tempo delle grandi scoperte è passato e quello dell'universo finito comincia. Le relazioni politiche commerciali e quindi anche missionarie con l'America, l'Africa, l'Asia e specialmente la Cina e il Giappone sono d'ora innanzi saldamente stabilite.
Il cattolico romano sa che il centro di questo mondo cristiano è a Roma. Egli sa che la sua Chiesa, depositaria della verità, deve portare questa verità a tutte le estremità del mondo. Gli artisti illustrano questa convinzione. Si potrebbe costruire tutta una tipologia universalista a proposito della fontana dei Quattro Fiumi opera, ancora una volta, del Bernini situata in mezzo a piazza Navona, scenario barocco per eccellenza.
Questa fontana è orientata non secondo i quattro punti cardinali, ma secondo le quattro grandi direzioni intermedie, nord-ovest, nord-est, sud-ovest, sud-est. Molto evidentemente simboleggia i quattro continenti, le quattro parti del mondo conosciuto, dato che ciascun fiume che la compone scorre in una terra diversa; il Rio della Plata in America, il Nilo in Africa, il Danubio in Europa e il Gange in Asia. La fontana dei Quattro Fiumi rappresenta dunque la totalità del mondo geograficamente noto e al tempo stesso l'universalità della Chiesa.
Ma questa universalità possiede un centro indicato dall'obelisco verticale, asse della fede al quale sono sospese la tiara, le chiavi e lo stemma pontificio. L'obelisco di piazza Navona simboleggia il centro della cristianità che irradia la sua azione missionaria come raggi in quattro direzioni. Credo che si debba andare oltre: questi quattro fiumi evocano i quattro fiumi del Paradiso terrestre e quelli dell'Apocalisse. Riferiamoci ai testi. In Genesi 2, 6-15, a dire il vero, non ci sono quattro fiumi. Un solo fiume usciva dall'Eden per innaffiare il giardino e poi si divideva in quattro bracci: il Pishon che bagnava il paese di Avila, dove si trovavano l'oro e l'onice, il Ghihon che altro non è che la sorgente dell'acqua di Gerusalemme; il Tigri a oriente di Assur e infine l'Eufrate. Questi due ultimi sono il simbolo della fertilità in Mesopotamia. Vi è dunque un solo fiume della fede, un solo fiume nato dal paradiso terrestre, che però si divide per bagnare la terra intera. In Apocalisse 22, 1-2 la visione di San Giovanni è complementare: “L'Angelo mi mostrò il fiume della Vita, limpido come cristallo che zampillava dal trono di Dio e dell'Agnello. In mezzo alla piazza della città d'ambo i lati del fiume vi sono degli alberi della vita che danno dodici raccolti, uno ogni mese e le loro foglie possono guarire i pagani”.
Accogliendo il contenuto di queste due visioni e proiettandole nella pietra, l'artista riesce a simboleggiare, in una sola opera, l'unità e la diversità della Chiesa, il suo centro e la sua periferia, il suo principio di stabilità e la sua dispersione missionaria, sottolineando che tutta la fertilità data dalla grazia trova la sua ricchezza in un fiume unico che sembra avere la sua sorgente a Roma, centro del mondo, nuovo giardino dell'Eden, figura della Gerusalemme celeste».

2/ Un evento enorme

F. López de Gómara, Hispania victrix, in Nuovo Mondo. Gli spagnoli, Einaudi, Torino, 1992, p. IX
La maggiore cosa dopo la creazione del mondo, fatta eccezione per l’incarnazione e la morte di colui che lo creò, è la scoperta delle Indie
.

In Europa i nuovi alimenti: pomodori, peperoni, mais, patate, tabacco, caffè, cacao...

3/ Cristoforo Colombo

da P. Collo e P. G. Crovetto, Introduzione, in Nuovo Mondo. Gli italiani, Einaudi, Torino, 1991, pp. XV-XVI; XVIII
Per Colombo la terra è una sfera («Ho sempre letto che il mondo – terra e acqua – era sferico, nei passi dei dotti e nelle esperienze che Tolomeo, e quant’altri ne scrissero, adducevano e riferivano a conforto di ciò…», p.63). [...]
Sorprende, in un uomo di simile perizia navigatoria, la serie di certezze, inattaccabili alle prove in contrario dell’esperienza. Di aver toccato l’Oriente estremo
di Cattigara («In tutti quei luoghi che avevo toccato, vidi esser vero tutto ciò che avevo udito. Ciò m’indusse a ritenere esser così anche per la provincia di Ciguare che a detta loro dista nove giorni di marcia per terre a ponente», pp. 80-81), l’Aurea Chersoneso («per trovarsi a metà strada tra il polo e l’equatore», p.87), il Catai («Il tredici maggio giunsi alla provincia di Ma[n]go, prossima assai a quella del Cataio», p.84), l’Eden («Perché dal profondo del cuore sento trovarsi in esse il Paradiso Terrestre», p. 66). [...]
«Già dissi come per la realizzazione dell’impresa delle Indie non m’avessero giovato né ragione né matematica né mappamondi; semplicemente si compì ciò che disse Isaia» (ibid.). E appunto «dentro» le Scritture cercherà la conferma ai suoi calcoli. Là dove si fermano Tolomeo e Marino di Tiro inizia l’apocrifo di Esdra (Quarto libro, terza visione: «Il terzo giorno comandasti alle acque di raccogliersi nella settima parte della terra, mentre sei ne prosciugasti e le conservasti»), da lui parafrasato nella Rarissima: «Il mondo è poco; l’emerso ne costituisce sei parti, e solo la settima è coperta d’acqua. L’esperienza lo ha confermato e ne ho scritto in altre lettere con il conforto di passi della Sacra Scrittura». [...]

da Cristoforo Colombo, Lettera ai re (Cadice o Siviglia, 1501), in Nuovo Mondo. Gli italiani, Einaudi, Torino, 1991, p. 72
Cristianissimi ed eccellentissimi Principi: la ragione che adduco per la restituzione della Casa Santa alla Santa Chiesa militante è quella che segue: [...]
Miracolo evidentissimo volle operare Nostro Signore con questa impresa del viaggio alle Indie per animare me e altri dopo di me a quest'altra alla Casa Santa: sette anni passai qui nella Vostra Real Corte discutendo del caso con tante persone di molta autorità, esperti di tutte le arti, e alla fine convennero che tutto era vano e per questa ragione desistettero dall'impresa; dopo ci si attardò su ciò che Gesu Cristo Nostro Redentore disse, e ancor prima aveva detto per bocca dei suoi Santi Profeti.
Già dissi come per la realizzazione dell'impresa delle Indie non m'avessero giovato né ragione né matematica né mappamondi; semplicemente si compi ciò che disse Isaia. E questo è quanto qui desidero scrivere per riportarlo alla memoria delle Vostre Altezze e perché si rallegrino del resto che dirò loro di Gerusalemme con parole delle stesse autorità, nella quale impresa, se c'è fede, tengano per certissima la vittoria
.

da Cristoforo Colombo, Diario di bordo, citato in C. Prudhomme, Missioni cristiane e colonialismo, Jaca. Milano, 2007, pp. 18-19
Io, affinché ci accogliessero in grande amicizia, poiché conobbi che era gente che meglio si sarebbe data e convertita alla nostra Santa Fede con l’amore che non con la forza, detti ad alcuni di loro berretti colorati e palline di vetro che si mettevano al collo e altre bagatelle, di cui mostrarono molto piacere e ce li guadagnammo a tal punto che era meraviglia. [...]
Sono persuasi che v'è Dio nel cielo, e che noi pure siamo venuti dal cielo e assai solleciti a qualsiasi orazione che si dica loro di dire e fanno il segno della Croce. E per tal modo, le Vostre Altezze debbono risolversi a farli cristiani
, e credo che, cominciando, in breve una grande moltitudine di popoli sarà guadagnata alla nostra santa religione e inoltre acquisteranno alla Sua signoria, e ricchezze a vantaggio loro e di tutti i loro popoli, perché senza dubbio, v’è in queste terre grandissima abbondanza d’oro.

da P. Collo e P. G. Crovetto, Introduzione, in Nuovo Mondo. Gli italiani, Einaudi, Torino, 1991, p. XVIII
Nella Carta a Santàngel, 1493, prima notizia del viaggio di Scoperta ad avere larga diffusione europea, egli redige un vero e proprio programma di sfruttamento sistematico delle Indie che giunge a collocare su uno stesso piano e infine ad assimilare spezie, prodotti della terra, oro e uomini (schiavi), a patto - aggiunge - si tratti di idolatri: «Le Loro Altezze possono vedere com'io procaccerò tutto l'oro di cui avranno bisogno, per poco che sia l'aiuto che le Loro Altezze mi daranno; e spezierie e cotone quanto le Loro Altezze comanderanno, e mastice quanto ordinassero di caricare e di qualità quale sinora non si è trovata se non in Grecia, nell'isola di Chio, e la Signoria [di Genova] lo vende al prezzo che vuole, e legno di aloe, quanto ordinassero di caricare, e schiavi quanti vorranno che se ne imbarchi, e questi saranno scelti fra gli idolatri».

da J. Dumont, La regina diffamata. La verità su Isabella la Cattolica, SEI; Torino, 2003, pp. 122-124
Colombo crede sempre di aver scoperto una parte dell’Asia [dopo la II spedizione]
, e convince ad affermarlo anche i suoi compagni: Cuba, che raggiunge nuovamente, è il continente asiatico, ma soprattutto egli rivela la sua inquietante doppiezza. Da un alto, in omaggio alla regina di Castiglia che gli ha dato le istruzioni già descritte sul buon trattamento degli indiani, fonda la prima città europea d’America battezzandola Isabella. D’altra parte, inaugura uno sfruttamento vergognoso della sua conquista, in totale contraddizione con le istruzioni ricevute da Isabella: infatti, egli installa sulle terre scoperte una semplice agenzia commerciale che ha il monopolio, in cui tutti gli spagnoli e gli europei erano dei salariati, e gli indiani degli schiavi: in questo modo è l’unico a profittarne. Un profitto elevato, in quanto la percentuale del 10% che gli è concessa sulle transazioni riguarda anche i prodotti del commercio estero degli schiavi indiani, che egli organizza in modo sistematico. Colombo infatti non teme di inviare, nel 1495, una prima nave carica di schiavi indiani, che mette in vendita in Europa: Isabella, sorpresa, fa tornare indietro la nave con i suoi indiani.
Rientrato in Spagna nel giugno 1496, dopo aver lasciato il potere sulle Antille ai fratelli Bartolomeo e Diego, avidi come lui, Colombo ha grandi difficoltà a organizzare la sua terza spedizione
. Isabella adesso si tiene in guardia, nonostante debba rispettare i poteri che gli ha concesso e abbia contribuito a costituire l’insieme dei beni e titoli che permettono a Colombo di esercitare la mano morta. Colombo, da parte sua, nel costituire il suo maggiorascato, ostenta la caratterizzazione religiosa che egli impone alla sua signoria sulle Antille, presentata come atto preliminare alla riconquista di Gerusalemme, con piena fedeltà cristiana e perfino uno slancio mistico: non si tratta però di mistica ebraica, come la interpreta erroneamente Simon Wiesenthal, ma di quel messianismo allora diffuso tra i francescani spagnoli amici di Colombo e fra i Re Cattolici stessi, come ha dimostrato Alain Milhou. Colombo si sente però rifiutato e assume, a difesa, la posa del profeta perseguitato e martire. Il delegato apostolico Boil, che ben lo ha riconosciuto, è rientrato dalle Antille disgustato da Colombo; i francescani «borgognoni» delle Antille non cessano di denunciare ai re lo sfruttamento operato da Colombo ai danni degli indiani, fino a chiedere la sua destituzione e quella dei fratelli: quanto agli spagnoli tornati con Colombo, essi diffondono ovunque il quadro poco roseo dell’abominio delle Antille.
La riserva generale nei confronti di Colombo è tale che egli ha gran difficoltà a ricostituire nuovi equipaggi, e riunire i coloni che gli servono: ci riesce soltanto ottenendo dai monarchi un ordine alla Cancelleria di Valladolid (giugno 1497) di mettere a sua disposizione alcuni condannati, affinché si imbarcassero con lui, avendo così commutata la pena. Due anni dopo il suo ritorno in Spagna, Colombo può, di nuovo, dispiegare le vele (30 maggio 1498). Oltrepassate le Canarie, la sua nuova spedizione si divide in due: una flotta si dirige verso Haiti per rinforzare l’insediamento esistente, un’altra flotta, con Colombo in persona, si dirige a sud per compiere nuove scoperte. Colombo tocca così per la prima volta la costa del continente americano propriamente detto: l’isola della Trinità, di fronte all’imbocco dell’Orinoco: l’esaltazione mistica fa dichiarare a Colombo di aver trovato il Paradiso terrestre, un Paradiso certo, sempre localizzato sulla terra ferma delle Indie orientali.
Giunto nuovamente ad Haiti, tuttavia, Colombo trova una situazione fortemente compromessa: una parte considerevole dei coloni si è ribellata a Bartolomeo Colombo, sotto la guida di Francisco Roldan, che, lo stesso anno, si era indignato per la schiavitù generalizzata. Colombo parla, in una lettera del novembre 1500, di «metà dell’isola in rivolta»
. L’anno 1499 ad Haiti è dunque caratterizzato dai bagni di sangue, in quanto i fratelli Colombo scatenano una repressione feroce, e Colombo continua a «muoversi in una mentalità puramente schiavista» (Azcona), inviando di nuovo degli schiavi indiani in Europa, perché vi fossero venduti.
Isabella, a questo punto, ne ha abbastanza: il rispetto dei poteri di Colombo non può nascondere più a lungo la vergogna della schiavitù e del massacro: nel 1499 la regina comunica che tutti quelli che hanno portato schiavi dalle Indie devono, «sotto pena di morte», ricondurli o rimandarli in America, liberi. A partire dal 1500 poi, Isabella affida nelle Antille pieni poteri d’inchiesta e di governo a due commissari degli ordini militari, Francisco de Bobadilla e Nicolas de Ovando. Il primo riconduce ad Haiti, obbedendo alle istruzioni affidategli da Isabella il 20 giugno 1500, degli schiavi indiani inviati in Europa, che egli fa liberare: non esita quindi a far arrestare Colombo, inviandolo in catene di fronte alla regina (ottobre 1500); e assume tutti i poteri, ben presto sostituito dal collega Nicolas de Ovando. Avviene così la fulminea destituzione dei «satrapi» (Carlos Pereyra): Cristoforo e i suoi fratelli, Diego e Bartolomeo.
Poco prima del Natale del 1500, Colombo può tentare una difesa di persona di fronte a Isabella, ma la regina è incrollabile: Colombo resta destituito dei suoi poteri sulle Indie (ma gli eredi saranno indennizzati), ed è sostituito da uomini di fiducia della Corona; egli potrà tutt’al più comandare una nuova spedizione, che partirà nel 1502, nel momento in cui, nelle Indie, sono già avvenute numerose scoperte che toccano davvero il continente americano, per iniziativa di brillanti marinai andalusi o baschi, compagni di Colombo nei suoi primi viaggi: Ojeda, La Cosa, Nino, Guerra, Pinzon, Lepe, ecc. Sono questi uomini, non Colombo, a scoprire la Guiana (1499), il Venezuela, il Brasile, lo Yucatan messicano, ed è sulle loro navi che giunge in America l’italiano che darà il nome al continente, Amerigo Vespucci.

da Cristoforo Colombo, Lettera a Doña Juana de la Torre, in Nuovo Mondo. Gli italiani, Einaudi, Torino, 1991, pp. 68-69
In questa, approdò a Santo Domingo il Comedador Bobadilla: io mi trovavo alla Vega e l’Adelantado a Xaragua, dove questo Adriàn aveva fatto capo, ma tutto s’era già acquietato e la terra prospera e tutti in pace. Ma il secondo giorno si proclamò governatore e nominò ufficiali e emanò ordinanze e dispose franchigie per l'oro e per le decime e più generalmente per ogni altra cosa pei successivi vent'anni, che è l'età di un uomo e [pubblicò] che veniva a rimunerare fino all'ultimo armato, ancorché molti non avessero assolto compiutamente ai loro doveri, fino a quel giorno; e disse pubblicamente come dovesse inviare i miei fratelli incatenati in Castiglia, come fece, e aggiunse che né io né persona della mia schiatta avremmo potuto tornare mai più in quelle terre, dicendo di me mille cose disoneste e villane. E questo accadde il secondo giorno da che lui era approdato, come ho già detto, e trovandomi io lontano da lì, senza aver avuto notizia di lui né della sua venuta.

4/ Le tre correnti: Ginés de Sepúlveda (1490-1572), Bartolomé de Las Casas (1484-1566) e Fran­cisco de Vitoria (1483-1546).

da G. Martina, Evangelizzazione e inculturazione, in G. Martina – U. Dovere (a cura di), Il cammino dell’evangelizzazione. Problemi storiografici, Il Mulino, Bologna, 2001, pp. 17-19
Si affermano presto tre correnti, quasi tradizionali nella chiesa: ne ricordiamo solo gli esponenti più noti e significativi, Ginés de Sepúlveda (1490-1572), Bartolomé de Las Casas (1484-1566) e Fran­cisco de Vitoria (1483-1546)
.
Sepúlveda, laico, mai sacerdote, è il fine umanista
, avvezzo a vivere fra grandi, a lodarli e a cercarne la benevolenza: è il rappresentante di quell'integrismo che costituisce non una caratteristica del cristianesimo, ma una sua "costante", un certo modo di sentire e vivere il cristianesimo lontano dai princìpi evangelici, ma presente nella storia della Chiesa nell'età medievale, moderna e contemporanea. La guerra cruenta contro gli indigeni americani, l'uso della coazione per la loro conversione, erano non solo inevitabili, ma necessari e giusti, fecondi. Sepulveda difese queste idee nel Democrates primus (1533), nel Democrates secundus: de justis belli causis (rimasto manoscritto per tre secoli), nella Apología del libro sobre las causas justas de la guerra (1550).
Las Casas, domenicano, è il campione della libertà degli indios
, cui ha dedicato l'intera vita, il combattente indomito contro il male. Irruente, non sempre obiettivo, talora unilaterale, largamente sconfitto in un primo momento, Las Casas con le sue opere (Brevissima relación de la destrución de las Indias, del 1552, e la Historia de las Indias, edita solo nel 1876), con la sua attività indefessa di polemista e di vescovo, costituisce l'esatta antitesi di Sepúlveda e l'indispensabile richiamo ai valori evangelici essenziali.
Vitoria, visto forse con diffidenza da Carlo V, giudicato come troppo moderato da Las Casas, spazzò via i residui delle tesi ierocratiche medievali, ammise l'eventua­lità di un'ignoranza invincibile della vera religione e quindi la possibilità della salvezza per gli indios, negò la legittimità della maggior parte delle guerre di conquista, salvo casi eccezionali, sostenne l'ingiustizia della schiavitù, tracciò la strada su cui si potevano avviare i politici del tempo. Le sue Releciones (de Indis, de jure belli), pubblicate già allora in modo discutibile e solo di recente in edizione più critica, fanno di lui il vero maestro del diritto internazionale moderno, il maestro della scuola di Salamanca con Soto, Cano, Ledesma...: l’ispiratore di una serie di leggi ispano-americane (le Leyes de Indias), che tentarono di adattare i princìpi alla realtà. La sua fama purtroppo è stata oscurata dall’olandese Huig Van Groot (Grozio) e dall’italiano Alberico Gentili.

da Franco Cardini, La spada e il Vangelo da Cortés a Guadalupe. Non solo conquista (su www.gliscritti.it )
Non c'è dubbio che la conquista ispano-portoghese dell'America meridionale sia coincisa con l'avvio di un lungo periodo di schiavizzazione e di stragi. Ma gli ingredienti fondamentali di una politica di massacro, per poterla definire genocida, sono la sistematicità e l'intenzionalità. Va riconosciuto che ciò non accadde nei vicereami che la corona di Spagna stabilì nel Nuovo Mondo all'indomani della conquista del Messico da parte di Hernan Cortés, tra 1519 e 1521, e del Perù da parte del più feroce Francisco Pizarro, tra 1531 e 1534, mentre tra 1535 e 1537 Almagro sottometteva la Bolivia, tra 1535 e 1538 Quesada conquistava la Colombia, nel 1544 Orellana esplorava il Rio delle Amazzoni e tra 1540 e 1554 Valdivia giungeva in Cile. [...]
Cortés vinse la sua guerra contro gli aztechi militarizzando indios che, come i vicini tlaxlaltechi, odiavano i loro oppressori.

da Ginés de Sepúlveda, Democrates
Con perfetto diritto gli spagnoli comandano su questi barbari del Nuovo mondo
e delle isole adiacenti, i quali, per senno, ingegno, virtù ed umanità sono tanto inferiori agli spagnoli quanto i bambini agli adulti e le donne agli uomini; c'è infatti fra questi tanta differenza quanto quella fra genti selvagge e crudeli e genti clementissime, fra i prodigiosamente intemperanti ed i contenuti e moderati, e, direi quasi, fra scimmie e uomini.

da Bartolomé de Las Casas, Historia de las Indias, citato in G. Tosi, La teoria della schiavitù naturale nel dibattito sul Nuovo Mondo (1510-1573). “Veri domini” o “servi a natura”?, Divus Thomas, ESD, Bologna, 2002, p. 242
[Era la IV domenica di Avvento, il 21 dicembre del 1511, quando il frate domenicano Antonio Montesino (Antón Montesino o Antón de Montesinos) tenne il sermone sull'isola di Hispaniola - oggi divisa tra Haiti e la Repubblica Dominicana - a nome della comunità domenicana, ivi arrivata un anno prima]
Sono salito su questo pulpito, io che sono la voce di Cristo nel deserto di questa isola, per farvi conoscere una cosa
e perciò conviene che la ascoltiate con una attenzione speciale, perché questa voce sarà la più nuova che avete mai ascoltato, e la più aspra e dura e anche la più spaventosa e pericolosa che mai avete pensato di ascoltare [...]. Questa voce afferma che tutti voi siete in peccato mortale e in esso vivete e morite, a causa della crudeltà e tirannia che usate contro queste genti innocenti. Ditemi: con che diritto e con che giustizia mantenete questi indios in una servitù così crudele e orribile? Con quale autorità avete mosso guerre così detestabili a queste genti che vivevano nelle loro terre in forma mansueta e pacifica, di tal forma che avete consumato un numero infinito di esse con morti e stragi mai viste? Come li mantenete tanto oppressi e stanchi, senza dargli da mangiare e nemmeno curarli delle loro malattie, di tal modo che muoiono, o meglio li ammazzate, con i lavori eccessivi che gli imponete per ritirare e acquisire sempre più oro ogni giorno? E che cura avete di insegnargli la dottrina cristiana in modo che conoscano il loro Dio e Creatore, siano battezzati, ascoltino la messa, rispettino la domenica e le feste comandate? Non sono essi uomini? Non hanno anime razionali? Non siete obbligati ad amarli come voi stessi?.

da Bartolomé de Las Casas, Brevissima relación de la destrución de las Indias, 1552, in Nuovo Mondo. Gli spagnoli, Einaudi, Torino, 1992, pp. 62-63
Dell’isola Española
L’isola Española [...] fu la prima dove giunsero i cristiani e iniziarono le stragi e le devastazioni di quelle genti, e la prima a essere distrutta e spopolata, cominciando col prendere agli indi le donne e i figli per farsi servire e per farne malvagio uso, e a mangiare i cibi che questi si procuravano con il sudore e la fati­ca
, non contentandosi di ciò che gli indi offrivano loro di buon grado, ciascuno secondo le proprie possibilità, che sempre sono modeste, poiché gli indi non sono soliti possedere più di quanto gli abbisogna e che possono procurarsi con poco lavoro, e ciò che è sufficiente per un mese a tre famiglie di dieci persone ciascuna, un cristiano se lo mangia e lo sciupa in un giorno. Dopo tante altre prepotenze e violenze e vessazioni, gli indi cominciarono a capire che quegli uomini non dovevano essere venuti dal cielo; e alcuni cominciarono a nascondere le provviste, altri le mogli e i figli, e altri andarono sui monti per sfuggire a quella gente cosi dura e terribile. I cristiani li colpivano con schiaffi e pugni e li bastonavano, fino a che non riuscivano a catturare i signori dei villaggi. E ciò giun­se a tal punto di temerarietà e impudenza che un capitano cristiano violentò la stessa moglie del più grande di quei signori, sovrano dell'intera isola. Da quel momento gli indi cominciarono a cercare il modo di cacciare i cristiani dalle loro terre: si misero in armi, che però sono estremamente fragili e di poca offesa e resistenza e ancor meno atte alla difesa (per cui tutte le loro guerre sono poco più che giochi di canne e di bambini); i cristiani, coi loro cavalli, le spade e le lance, cominciarono allora a compiere stragi e crudeltà inimmaginabili. Entravano nei villaggi e facevano a pezzi tutti, come se fossero agnelli negli ovili, senza risparmiare bambini e vecchi, e squartando le donne, pregne o puerpere.
Facevano scommesse su chi sarebbe riuscito a tagliare in due un uomo con un solo fendente, a tagliargli la testa con un solo colpo di azza, oppure a sventrarlo.

dalle Leggi di Burgos (1512-1513) in G. Tosi, La teoria della schiavitù naturale nel dibattito sul Nuovo Mondo (1510-1573). “Veri domini” o “servi a natura”?, Divus Thomas, ESD, Bologna, 2002, p. 242
La giunta deliberò che i nativi delle Indie erano sudditi liberi della Corona, non potevano essere derubati dei loro averi se non in caso di ribellione o altre condanne, dovevano essere istruiti nella fede e potevano essere obbligati a lavorare, con moderazione e in cambio di un salario
. La giunta sollevò difficoltà, tuttavia, a tradurre in leggi precise quanto determinato, il che promosse un supplemento di documentazione, sino a che si concordò che, data l'inclinazione degli indios all'ozio e ad altri vizi, era opportuno non concedere loro la libertà pratica bensì tenerli sotto tutela della encomienda e di trasferirli in zone vicine a quelle dove vivevano i bianchi, in modo da favorire in loro l'assimilazione dei costumi spagnoli.

dal Requerimiento, in G. Tosi, La teoria della schiavitù naturale nel dibattito sul Nuovo Mondo (1510-1573). “Veri domini” o “servi a natura”?, Divus Thomas, ESD, Bologna, 2002, pp. 243-244 
I. Da parte di Sua Maestà Don Ferdinando, Re di Castiglia etc... [...]. Yo, Pedrarias Dávila, suo servitore, messaggero e capitano, vi notifico e vi faccio sapere, come meglio posso, che Dio, nostro Signore, uno e eterno, ha creato il cielo e la terra e un uomo e una donna, da cui voi, noi e tutti gli uomini del mondo furono e sono discendenti e procreati, [così come] tutti quelli che dopo di noi verranno [...].
II. Di tutte queste genti, Dio nostro Signore, incaricò uno, che fu chiamato San Pietro, affinché fosse signore e superiore di tutti gli uomini del mondo, e a lui ubbidissero tutti; e fosse il capo di tutta la stirpe umana, in qualsiasi luogo gli uomini abitassero e stessero [...], e gli diede tutto il mondo per suo dominio (señorio) e giurisdizione.
III. Egli ordinò di porre la sua sede a Roma, come luogo atto per reggere il mondo; ma gli permise anche di poter stare e di porre la sua sedia in qualsiasi altra parte del mondo; e giudicare e governare tutte le genti, cristiani, mori, ebrei, gentili e di qualsiasi altra setta o credenza fossero.
VI. Uno dei passati Pontefici, che è succeduto a San Pietro su quella sedia e nella dignità che ho detto, come signore del mondo, ha fatto la donazione di queste isole e terre ferme del mare Oceano ai Cattolici Re di Spagna che erano allora Don Fernando e Donna Isabella, di gloriosa memoria, e ai suoi successori in questi regni, nostri signori, con tutto ciò che in queste terre vi è, secondo quando è contenuto in certi scritti che sono stati redatti su ciò e che potete vedere se volete. Cosicché, le Loro Altezze sono re e signori di queste isole e terre ferme in virtù della cosiddetta donazione [...].
VII. Pertanto, riconoscete la Chiesa come signora e superiora dell'universo mondo, e il sommo pontefice chiamato papa, in nome di lei e le Loro Altezze, al suo posto, come signori e superiori e re e regina delle isole e terre ferme, in virtù della suddetta donazione. Consentite e fate sì che questi padri religiosi vi dichiarino e predichino quanto sopra detto.
VIII. Se così farete, farete bene e farete inoltre ciò a cui siete tenuti e obbligati; e le Loro Altezze, ed io in suo nome, vi riceveranno con tutto l'amore e la carità, e lasceranno le vostre mogli, figli e beni liberamente senza schiavitù, affinché di esse e di voi stessi facciate liberamente tutto ciò che volete e ritenete opportuno. E non vi costringeranno a farvi cristiani, a meno che voi, informati della verità, vi vogliate convertire alla nostra santa fede cattolica, come hanno fatto quasi tutti gli abitanti delle altre Isole. Ed oltre a questo, le Loro Altezze vi concederanno molti privilegi ed esenzioni, e vi faranno molti altri doni.
IX. Se non lo farete e con malizia perderete tempo, vi garantisco che, con l'aiuto di Dio, io mi metterò poderosamente contro di voi e vi farò guerra in tutti i luoghi e in tutti i modi in cui potrò, e vi sottometterò al giogo e all’obbedienza della Chiesa e alle Loro Altezze; e prenderò le vostre persone, le vostre mogli e i figli e li farò schiavi. E li venderò come tali e disporrò di loro come le Loro Altezze comanderanno. Prenderò i vostri beni, e vi farò tutto il male e tutto il danno che potrò, in quanto vassalli che non obbediscono e non vogliono ricevere il loro signore, resistendogli e andandogli contro. E dichiaro che le morti e i danni che da ciò si produrranno siano da imputare a voi, e non alle Loro Altezze né a me né a questi cavalieri che sono venuti con me.

da Bartolomé de Las Casas
Perniciosissima è sempre stata la cecità che hanno avuto coloro cui è affidato il governo delle Indie. Ed è ben vero quello che si dice: l'applicazione delle disposizioni e delle ordinanze relative alla conversione e alla salvazione di quelle genti è stata sempre, per quel che concerne le opere e gli effetti conseguenti, rimandata e posposta, anche se con finte parole si è preteso e simulato il contrario. Tale offuscamento ha raggiunto il colmo quando sono state escogitate, comandate e messe in pratica certe intimazioni da fare agli indiani, con le quali si ingiunge loro di adottare la fede e di rendere obbedienza ai re di Castiglia, pena la guerra a fuoco e a sangue, la morte e la schiavitù. Come se il figlio di Dio, che si è pur sacrificato anche per ognuno di loro, col dire, a proposito della sua legge, euntes docete omnes gentes, avesse ordinato di fare tali ingiunzioni agli infedeli che vivono pacifici e tranquilli nelle loro terre; come se avesse comandato che poi, senza predicazione alcuna né dottrina, se questi non si fossero piegati subito a osservarla e non si fossero dati corpo e anima alla signoria di un re mai visto né conosciuto, a un re dai sudditi e dai messaggeri tanto crudeli, spietati e orribilmente tirannici [...]
E una cosa assurda, stolta, degna d'ogni ludibrio e vituperio: dell'inferno. Questo tristo e sventurato governatore veniva dunque con istruzione di fare le dette intimazioni repugnanti, irrazionali e ingiustissime. E per darvi maggiore legalità egli, o per esso qualche brigante che a ciò delegava, si conduceva in questa maniera.

da papa Paolo III, Sublimis Deus (1537)
A tutti i fedeli cristiani che leggeranno questa lettera salute e benedizione apostolica. Il Dio sublime tanto amò la razza umana che creò l’uomo in maniera tale che non solamente potesse partecipare del bene di cui godono le altre creature, ma fosse anche dotato della capacità di arrivare a raggiungere il bene supremo invisibile ed inaccessibile e di contemplarlo faccia a faccia; e per quanto l’uomo, in accordo con la testimonianza delle Sacre Scritture, sia stato creato per godere della felicità della vita eterna che nessuno può conseguire se non attraverso la fede in Nostro Signore Gesù Cristo, è necessario che possieda le doti naturali e la capacità per ricevere questa fede; e chiunque di tali doti sia provvisto deve essere capace di ricevere la stessa fede. Né è credibile che esista alcuno con così poco intendimento da desiderare la fede e tuttavia essere privo delle facoltà necessarie per ottenerla. Dunque Gesù Cristo, che è la verità stessa che non ha mai errato né può errare, disse ai predicatori della fede da lui prescelti per quel compito :”Andate ed insegnate a tutte le genti”. A tutti, disse, senza eccezione, posto che tutti sono capaci di essere istruiti nella fede; la qual cosa vedendo il nemico del genere umano, che si oppone sempre alle buone opere per portare gli uomini alla distruzione, provando invidia verso il genere umano, inventò un metodo fino ad allora inaudito per impedire che la parola divina di salvezza fosse predicata alle genti per la loro salvezza e incitò alcuni dei suoi accoliti, che per compiacerlo si trovarono ad affermare che gli indios occidentali e meridionali ed altre genti di cui abbiamo recente conoscenza, con il pretesto che ignorano la fede cattolica, debbono essere sottoposti alla nostra obbedienza come se fossero animali e li ridussero in servitù, obbligandoli con tante sofferenze come quelle che si usano con le bestie.
Noi che, sebbene indegni, esercitiamo sulla terra le veci di Nostro Signore e che con tutte le forse cerchiamo di portare all’ovile del suo gregge quanti ci sono stati affidati e che sono fuori dal riparo affidato alla nostra cura, consideriamo tuttavia che gli stessi indios, in quanto uomini veri quali sono, non solo sono capaci di ricevere la fede cristiana, ma, come ci hanno informato, anelano sommamente la stessa; e, desiderando di rimediare a questi mali con metodi opportuni, facendo ricorso all’autorità apostolica determiniamo e dichiariamo con la presente lettera che detti indios e tutte le genti che in futuro giungeranno alla conoscenza dei cristiani, anche se vivono al di fuori della fede cristiana, possono usare in modo libero e lecito della propria libertà e del dominio delle proprie proprietà; che non devono essere ridotti in servitù e che tutto quello che si è fatto e detto in senso contrario è senza valore; [allo stesso modo dichiariamo] che i detti indios ed altre genti debbono essere invitati ad abbracciare la fede in Cristo a mezzo della predicazione della parola di Dio e con l’esempio di una vita edificante, senza che alcunché possa essere di ostacolo.
Data in Roma, l’anno 1537, anno III del nostro pontificato

da papa Paolo III, all’arcivescovo di Toledo
Volendo frenare le azioni vergognose di tali malvagi uomini ed assicurarci che gli indiani non siano impediti con ingiurie e privazioni, rendendo ciò più difficile, d'abbracciare la fede di Cristo, Noi vi affidiamo il compito e ingiungiamo con la presente lettera alla Vostra prudenza, zelo ed esperienza in queste e altre questioni. Noi abbiamo particolare fiducia che, sia personalmente che per mezzo degli altri, Voi aiutate tutti i suddetti indiani con l'appoggio di una protezione effettiva nelle faccende riferite in precedenza, e Vi ingiungiamo di proibire rigorosamente a tutti, singolarmente e collettivamente, di qualsiasi dignità, posizione, rango o preminenza siano, di trarre in schiavitù in alcun modo i suddetti indiani, o di privarli in alcuna guisa dei loro domini, sotto pena, così agendo, di incorrere nella scomunica latae sententiae, da cui potranno essere assolti solo da Noi stessi o dal Pontefice di Roma regnante in quel tempo, eccetto che se fossero in punto di morte ed avessero fatto precedentemente ammenda.

5/ Uno sguardo sulla realtà teologica dell'incontro fra il vangelo e le culture. Tre atteggiamenti complementari: accogliere, rifiutare, portare a compimento

dalla conferenza di Joseph Ratzinger in occasione dell’incontro dei vescovi della FABC (Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche), Hong Kong, 2-6 marzo 1993 (anche su www.gliscritti.it).
Possiamo constatare che la storicità di una cultura, il suo movimento attraverso il tempo, comprende il suo essere aperta.
Una singola cultura non vive solamente la propria esperienza di Dio, del mondo e dell’uomo. Piuttosto, necessariamente, incontra sulla sua via altre culture con le loro esperienze tipicamente differenti, e deve confrontarsi con esse.
Così, una cultura approfondisce e raffina le proprie intuizioni e valori, nella misura in cui è aperta o chiusa, internamente vasta o stretta. Questo può portare ad una profonda evoluzione della sua primitiva configurazione culturale e questa trasformazione non può in nessun modo essere definita alienazione o violazione. Una trasformazione ben riuscita è spiegata dall’universalità potenziale di tutte le culture, che diventa concreta in una data cultura attraverso l’assimilazione delle altre e la sua interna trasformazione.
Un tale procedimento può anche risolvere l’alienazione latente dell’uomo dalla verità e da se stesso, che una cultura può albergare. Può significare la Pasqua di salvezza di una cultura: mentre sembra morire, la cultura realmente nasce, ritrovando pienamente se stessa per la prima volta.
Per questo motivo noi non dovremmo più parlare di "inculturazione", ma di incontro di culture o "inter-culturalità", se vogliamo forgiare una nuova espressione. Infatti l’inculturazione presume che la fede, liberata dalla cultura, sia trapiantata in un’altra cultura religiosamente indifferente, dove due soggetti, sconosciuti l’uno all’altro, si incontrano e si fondono.
Ma questo modo di concepire l’incontro della fede con le culture è anzitutto artificiale e irrealistico, perché, con l’eccezione della civiltà moderna tecnologica, non esiste una fede senza cultura o una cultura senza fede. È difficile immaginare come due organismi, estranei l’uno all’altro, possano diventare improvvisamente un insieme coerente in un trapianto che arresta lo sviluppo di ambedue. Invece, se è vero che le culture sono potenzialmente universali e aperte l’una all’altra, l’inter-culturalità può portare a una fioritura di nuove forme. [...]
Ne consegue che ogni elemento che in una cultura esclude questa apertura e scambio va giudicato come una deficienza di quella cultura, poiché l’esclusione degli altri va contro la natura dell’uomo. Il segno della nobiltà di una cultura è la sua apertura, la sua capacità di dare e di ricevere, che le permetta di essere purificata e di diventare più conforme alla verità e all’uomo. [...]
In verità, la storia della fede in Israele incomincia con la chiamata di Abramo: "Esci dalla tua terra, dalla tua stirpe e dalla casa di tuo padre" (Gen 12, 1): incomincia con una rottura culturale. Questa rottura con la sua storia precedente, questo andare oltre segnerà sempre l’inizio di una nuova epoca nella storia della fede.
Ma questo nuovo inizio si manifesta come un potere risanante e capace di attirare a sé tutto quello che è umano, tutto ciò che viene realmente da Dio. "Quando sarò elevato da terra, attirerò a me tutti gli uomini" (Gv 12, 31): queste parole del Signore risorto si applicano anche qui. La croce è prima di tutto rottura, espulsione, elevazione dalla terra, ma proprio per questo diventa un nuovo centro di attrazione magnetica, che orienta la storia del mondo verso l’alto e raduna gli uomini divisi.
Chiunque entra nella Chiesa deve essere cosciente di entrare in un soggetto culturale con la sua inter-culturalità che s’è sviluppata nella storia con molteplici manifestazioni. Non si può diventare cristiani senza un certo "esodo", una rottura con la precedente vita in tutti i suoi aspetti. La fede non è una via privata a Dio, essa conduce dentro al Popolo di Dio e nella sua storia. Dio ha legato se stesso ad una storia che ora è anche la sua e che noi non possiamo rifiutare. Cristo resta uomo in eterno, egli conserva il suo corpo nell’eternità. Essendo uomo e avendo un corpo, inevitabilmente questo include una storia e una cultura, una particolare storia e cultura, lo vogliamo o no.
Noi non possiamo replicare l’avvenimento dell’incarnazione per accontentare noi stessi, nel senso di rimuovere la carne di Cristo e offrirgliene un’altra. Cristo rimane Se stesso, col Suo vero corpo. Ma Egli ci attira a sé.

da Bernardino de Sahagún, Historia general de las cosas de la Nueva España, in Nuovo Mondo. Gli spagnoli, Einaudi, Torino, 1992, pp. 188-190
L'ultimo giorno di questo mese si celebravano feste molto solenni in onore del dio chiamato Xipe Tótec, e anche in onore di Huitzilopuchtli. Durante questi festeggiamenti sacrificavano tutti i prigionieri, uomini, donne e bambini. Prima di ucciderli, si eseguivano le seguenti cerimonie.
La vigilia della festa, dopo mezzogiorno, quelli che dovevano morire incominciavano un solenne
areito [cerimonia] e vegliavano tutta la notte, nella casa chiamata calpulco. Qui strappavano loro i capelli del centro della nuca, ed erano soliti estrarre sangue dalle orecchie dei prigionieri per offrirlo agli dèi. Questa cerimonia avveniva accanto al fuoco e nel cuore della notte. All'alba li portavano sul luogo dove li dovevano sacrificare, che era il tempio di Huitzilopuchtli. Lì i ministri del tempio li uccidevano [...] e li scorticavano tutti. E per questo chiamavano la festa tlacaxipehualiztli, che significa «scorticatura degli uomini », e le vittime erano chiamate xipeme oppure tototecti. Il primo termine vuol dire «scorticato»; il secondo, «i morti in onore del dio Tótec».
I padroni dei prigionieri li consegnavano ai sacerdoti che si trovavano di sotto, ai piedi del cu [tempio], e questi li trascinavano per i capelli, ciascuno tenendo il suo, su per la scalinata. E se qualcuno si rifiutava di salire, veniva trasportato fin dove si trovava il ceppo di pietra su cui doveva essere ammazzato. I sacerdoti strappavano loro il cuore e, offrendolo come si è detto prima, lo gettavano giù per la scalinata, dove si trovavano altri sacerdoti intenti a scorticare gli altri. Questo si faceva nel cu di Huitzilopuchtli. [...]
Il sacerdote principale di quella festa, che si chiamava
yohuallahua, si sedeva al posto d'onore, dato che spettava a lui il compito di estrarre i cuori di quelli che venivano sacrificati. E, stando sempre seduti, gli indi cominciavano a suonare i flauti, i corni e le conchiglie, a fischiare e a cantare. Quelli che cantavano e suonavano portavano appoggiati sulle spalle vessilli fatti di piume bianche, infila­te su lunghe aste, e se ne stavano seduti in ordine intorno alla pietra, un po' più lontani dei sacerdoti. Stando quelli seduti, si avvicinavano uno alla volta coloro che avevano dei prigionieri da sacrificare. Ciascuno trascinava il suo prigioniero per i capelli sino alla grande pietra del sacrificio. Lì i sacerdoti gli davano da bere il vino del luogo, il pulcre, e appena il prigioniero riceveva la coppa di pulque [liquore ottenuto dalla fermentazione dell’agave], la sollevava verso oriente, poi verso settentrione, poi a occidente e infine a mezzogiorno, come avesse voluto offrirla alle quattro parti del mondo. Compiuti questi gesti, beveva, non direttamente dalla coppa, bensì succhiando attraverso una cannuccia cava. Dopo di che si avvicinava un sacerdote con una quaglia, e le mozzava la testa, strappandogliela di fronte al prigioniero che doveva morire. Sempre lo stesso sacerdote prendeva lo scudo del prigioniero e lo sollevava in alto, e poi gettava dietro di sé la quaglia alla quale aveva strappato la testa. Fatto questo, facevano salire il prigioniero sulla pietra rotonda, che era fatta come una mola da macinare. Arrivava allora un sacerdote o ministro del tempio, che indossava la pelle di un orso, il quale era come il padrino di quelli che lì dovevano venir sacrificati. Prendeva una corda, che usciva da un buco nel centro della pietra e con essa legava in vita il prigioniero. Poi gli dava una spada di legno, alla quale al posto delle lame erano state incollate delle piume di uccello sui bordi, e anche quattro bastoni di pino con i quali doveva difendersi cercando di colpire i suoi avversari.
Intanto il padrone del prigioniero, dopo averlo lasciato sulla pietra, se ne tornava al suo posto, dal quale, mentre ballava, poteva osservare quello che capitava all'uomo che aveva catturato.
Poi, quelli che si erano preparati a lottare, uno alla volta iniziavano il combattimento con il prigioniero. Qualche prigioniero, che era valoroso, stancava i quattro che lottavano con lui e che non riuscivano a vincerlo. Allora arrivava un quinto, che era mancino e usava la mano sinistra come fosse la destra. Questi riusciva a vincerlo, gli toglieva le armi, e lo buttava a terra. Subito sopraggiungeva quello che era detto yohuallahua, gli apriva il petto e gli strappava il cuore.
Qualche volta i prigionieri, non appena si vedevano legati alla pietra, perdevano il coraggio e le forze: come sonnambuli, senza volontà, prendevano le armi, ma si lasciavano subito vincere, e veniva loro strappato il cuore sulla pietra
.
Altre volte c'erano prigionieri che svenivano; non appena si vedevano legati alla pietra, si buttavano a terra senza prendere nessun’arma, dimostrando di non desiderare altro che venire subito uccisi
. Allora li afferravano e li buttavano di spalle sul bordo della pietra. Colui che era chiamato yohuallahua gli apriva il petto e gli strappava il cuore, lo offriva al sole e lo buttava nel recipiente di legno. E poi un altro sacerdote prendeva una canna cava e la metteva nel buco da cui gli avevano estratto il cuore, e la immergeva nel sangue; e, immersala più volte, offriva quel sangue al sole. Quindi, versatolo in un recipiente con i bordi guarniti di piume, lo consegnava al padrone del prigioniero. Nello stesso recipiente era contenuta una canna, ornata di piume e con essa il padrone faceva il giro delle varie stazioni [degli altari], per rendere omaggio a tutte le statue degli dèi conservate nei templi e nei calpules. A ognuna di queste porgeva la canna bagnata di sangue, come per dare ad assaporare il sangue del suo prigioniero. Adempiva a questo rituale, coperto dei suoi piumaggi e di tutti i suoi gioielli.

cfr. recenti ritrovamenti a Trujillo, presso la Huaca della Luna;
cfr. il Signore di Sipán, nei pressi di Chiclayo (dipartimento di Lambayeque). Nei suoi pressi sorge una imponente piramide edificata dai Moche (sec. III-VIII d.C.), dove un nobile è stato sepolto con due servitori e due donne (forse una moglie ed una concubina, uccisi con lui), unitamente ad un guardiano che aveva i piedi mozzati.

-i due grandi imperi degli Incas e degli Aztechi
cfr. la Gran Ruta Inca (El Capaq Ñan), una strada che correva dall’odierna Quito (Ecuador) a La paz (Bolivia) avendo Cuzco come “ombelico”

-le apparizioni della Madonna di Guadalupe

La Vergine apparve quattro volte a San Juan Diego Cuauhtlatoatzin a partire dal 9 dicembre 1531 parlandogli in nahuatl (o azteco) e chiedendogli di andare dal vescovo di Città del Messico Juan de Zumárraga e dirgli di erigere un tempio dedicato a lei. Sul suo mantello (tilma) miracolosamente si impresse l’immagine della Madonna.

Virgen Morena o Morenita, ha al petto il fiore con quattro petali, il Nahui Ollin, simbolo del Quinto Sole, centro dell’universo divino per la cosmologia messicana.

6/ L'estremo oriente 

dalle "Lettere" a sant'Ignazio di san Francesco Saverio, sacerdote (Lett. 20 ott. 1542, 15 gennaio 1544; Epist. S. Francisci Xaverii aliaque eius scripta, ed. G. Schurhammer I Wicki, t. I, Mon. Hist. Soc. Iesu, vol. 67, Romae, 1944, pp. 147-148; 166-167)
Abbiamo percorso i villaggi dei neofiti [nella parte meridionale dell'India nella zona della costa della Pescheria], che pochi anni fa avevano ricevuto i sacramenti cristiani. Questa zona non è abitata dai Portoghesi, perché estremamente sterile e povera, e i cristiani indigeni, privi di sacerdoti, non sanno nient'altro se non che sono cristiani. Non c'è nessuno che celebri le sacre funzioni, nessuno che insegni loro il Credo, il Padre nostro, l'Ave ed i Comandamenti della legge divina. Da quando dunque arrivai qui non mi sono fermato un istante; percorro con assiduità i villaggi, amministro il battesimo ai bambini che non l'hanno ancora ricevuto. Così ho salvato un numero grandissimo di bambini, i quali, come si dice, non sapevano distinguere la destra dalla sinistra. I fanciulli poi non mi lasciano né dire l'Ufficio divino, né prendere cibo, né riposare fino a che non ho loro insegnato qualche preghiera; allora ho cominciato a capire che a loro appartiene il regno dei cieli. Perciò, non potendo senza empietà respingere una domanda così giusta, a cominciare dalla confessione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnavo loro il Simbolo apostolico, il Padre nostro e l'Ave Maria. Mi sono accorto che sono molto intelligenti e, se ci fosse qualcuno a istruirli nella legge cristiana, non dubito che diventerebbero ottimi cristiani. Moltissimi, in questi luoghi, non si fanno ora cristiani solamente perché manca chi li faccia cristiani. Molto spesso mi viene in mente di percorrere le Università d'Europa, specialmente quella di Parigi, e di mettermi a gridare qua e là come un pazzo e scuotere coloro che hanno più scienza che carità con queste parole: Ahimè, quale gran numero di anime, per colpa vostra, viene escluso dal cielo e cacciato all'inferno! Oh! se costoro, come si occupano di lettere, così si dessero pensiero anche di questo, onde poter rendere conto a Dio della scienza e dei talenti ricevuti! In verità moltissimi di costoro, turbati da questo pensiero, dandosi alla meditazione delle cose divine, si disporrebbero ad ascoltare quanto il Signore dice al loro cuore, e, messe da parte le loro brame e gli affari umani, si metterebbero totalmente a disposizione della volontà di Dio. Griderebbero certo dal profondo del loro cuore: "Signore, eccomi; che cosa vuoi che io faccia?" (At 9, 6 volg.). Mandami dove vuoi, magari anche in India. 

da una Lettera di San Francesco Saverio a Giovanni III, re del Portogallo (Cochín, 26 gennaio 1549)
Signore
1. Io non scrivo a V.A. le oppressioni e i maltrattamenti che si fanno a coloro che sono cristiani convertiti alla nostra santa fede, poiché viene laggiù il Padre Frate Giovanni Villa de Conde, il quale parlerà a V.A. in tutta verità. VA. lo deve ringraziare molto per le tante fatiche che in questi luoghi dell'India egli ha accettato per servizio di Dio e per sgravio della coscienza di V.A.: infatti, i travagli fisici che il Padre Frate Giovanni ha sopportato in questi luoghi dell'India, quantunque siano molti, grandi e continui, non sono comparabili con le sofferenze dello spirito nel vedere il maltrattamento che i capitani e gli amministratori fanno a coloro che sono convertiti di recente, invece di aiutarli: sono davvero insopportabili, ed è quasi un martirio l'aver pazienza nel vedere distruggere ciò che con tanta fatica ha guadagnato.
2. Qui abbiamo come notizia sicura che il re di Ceylon scrive a V.A. grandi esagerazioni sui servigi che egli rende a V.A. Sappia per certo che a Ceylon Dio ha un grande nemico nel re. E questo re è protetto e fa tutto il male che può solo con il favore di V.A. Questa è la verità e mi rincresce scriverlo, poiché infine qua temiamo, per l'esperienza del passato, che egli debba essere più favorito da V.A. che non i frati che stanno in Ceylon. E finalmente l'esperienza mi ha insegnato che V.A. non è potente in India per accrescere la fede di Cristo, ma è solo potente per portar via e possedere tutte le ricchezze terrene dell'India.
3. V.A. mi perdoni che io le parli tanto chiaro, poiché a questo mi obbliga l'amore disinteressato che le porto, presentendo quasi il giudizio di Dio che le si rivelerà all'ora della sua morte e al quale nessuno puoi sfuggire per potente che sia.
Io, o Signore, poiché so quello che qua avviene, non ho alcuna speranza che verranno eseguiti in India gli ordini e i provvedimenti che Ella ordinerà in favore della cristianità
. Ed è per questo che, quasi fuggendo, io vado in Giappone onde non perdere più tempo come in passato. Il Padre Frate Giovanni reca alcuni appunti sui cristiani derelitti del Capo di Comorín: V.A. sia un padre per loro, dato che è morto Miguel Vaz, loro vero padre.
4. Un Vescovo d’Armenia, di nome Jacopo Abuna, che da quarantacinque anni serve in questi luoghi Dio e V.A., è un uomo assai vecchio, virtuoso e santo, ma al tempo stesso non favorito né da V.A. né da quasi tutti quelli dell'India. Dio gli renda mercede, poiché Egli stesso lo vuole soccorrere senza servirsi di noi come mezzo per consolare i suoi servi. Qua egli è soccorso solamente dai Padri di san Francesco; e dai Padri è tanto aiutato che più non si potrebbe e, se non fosse per loro, il buono e santo vecchio si sarebbe già addormentato nel Signore.
V.A. gli scriva una lettera con molto amore, ordinando in un capitolo della stessa lettera di raccomandarlo ai governatori, agli amministratori e ai capitani di Cochín perché gli facciano l'onore e l'accoglienza che merita quando verrà a chiedere qualche cosa. Non scrivo questo a V.A. perché il Vescovo ne abbia necessità, dato che la carità dei Padri dell'Ordine di san Francesco, con lo zelo di carità che essi hanno, provvederà largamente ai suoi bisogni. Piuttosto V.A. deve scrivergli raccomandandogli molto di prendersi l'incarico di raccomandarlo a Dio, poiché ha più necessità V.A. di essere favorito dal Vescovo nelle preghiere, di quanto il Vescovo abbia necessità del favore materiale di V.A. Egli ha sopportato molte fatiche con i cristiani di San Thomé ed ora, nella sua vecchiaia, è assai obbediente ai costumi della santa Madre Chiesa di Roma. Nelle lettere che V.A. scriverà ai Padri dell'Ordine di san Francesco, può scrivere insieme ad esse una lettera con molti riconoscimenti per questo Vescovo.
5. Nostro Signore faccia sentire a V.A., dentro la Vostra anima, la Sua santissima volontà e le conceda la grazia per adempierla perfettamente, così come godrebbe di averla compiuta nell'ora della morte, quando starà rendendo conto a Dio di tutta la sua vita passata; e questa ora arriverà più presto di quanto V.A. pensi. E a questo deve essere preparato, poiché i reami e le signorie hanno un termine e finiscono. Sarà una cosa nuova, mai successa a V.A., il vedersi privato, nell'ora della morte, dei suoi reami e signorie per entrare in altri reami dove gli sarà una cosa nuova l'esser mandato, il che Dio non voglia, fuori dal paradiso.
Da Cochín, ai 26 di gennaio del 1549.
[scritto di mano del Saverio] Servo inutile di Vostra Altezza
Francesco

7/ Dove i missionari non dovettero fare i conti con i “laici”

7.1/ Le Filippine e l'evangelizzazione in un paese senza “ricchezza”

da La primavera missionaria all’inizio dell’età moderna, di J. Glazik, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, pp. 714-715
Gli evangelizzatori non trovarono quasi nessuna resistenza tra gli abitanti delle isole che professavano un primitivo animismo. Soltanto nei principati islamici di Jolo e di Mindanao nel sud dell’arcipelago si oppose una barriera ai loro sforzi.
Considerata dal punto di vista del metodo, la missione delle Filippine occupa un posto a parte nella storia delle missioni e del patronato spagnolo
. La causa va ricercata nella situazione particolare delle Filippine entro l’impero coloniale spagnolo. Le isole potevano essere raggiunte soltanto attraverso il Messico. Ciò rendeva talmente difficile il commercio con la madrepatria che esso passò del tutto in secondo piano rispetto all’attività missionaria. I missionari sembrano essersi resi conto di questa situazione di privilegio e ne profittarono per evitare o impedire gli errori che erano stati fatti in America. Quello che là non era riuscito a un Las Casas, qui poté essere realizzato. Non vi furono né schiavitù, né lavoro forzato. I missionari si presentarono come protettori degli indios e seppero difenderli dalle sopraffazioni dei bianchi. I riguardi e la mitezza con cui vennero trattati gli indigeni non mancarono di produrre il loro effetto. I Filippini rimasero fedeli alla Spagna e ai loro missionari, insieme ai quali per cinquant’anni difesero l’impero coloniale contro tutti gli attacchi dei maori, dei cinesi e degli olandesi.
Il risultato di tale lavoro fu una nuova nazione cattolica: l’unica nell’Estremo Oriente!
[...] Nel 1611 i domenicani fondavano il collegio di S. Tommaso d’Aquino, che nel 1645 fu elevato al grado di università. L’immediata conseguenza di questo intenso lavoro formativo fu che ben presto si ebbero sacerdoti del luogo, i quali con l’andar del tempo presero in mano quasi la metà delle parrocchie.

7.2/ Le Riduzioni

da Alessandro Scurani, Le «riduzioni»: una pagina di storia missionaria, Civiltà cattolica 138 (1987) 129-136
Il modello adottato dai gesuiti nel Paraguay deriva da quello previsto dai decreti reali che, basandosi sulle esperienze dei primi conquistatori, indicavano la necessità di riunire gli indigeni in villaggi vicini a quelli degli spagnoli
, affinché questi potessero avere a disposizione la mano d'opera indigena da adibire ai lavori manuali che gli spagnoli si rifiutavano di eseguire. Era previsto che in ciascuno di questi villaggi dovesse esserci un sacerdote che si dedicasse all'evangelizzazione degli indigeni. Le riduzioni si estesero così in tutta l'America iberica, sia spagnola, sia portoghese.
L'originalità delle riduzioni fondate dai gesuiti nel Paraguay, a differenza di quelle preesistenti al loro esperimento, è data da quattro caratteristiche fondamentali. 1) Le riduzioni non sono costruite in funzione delle città spagnole, ma, al contrario, sono tenute lontane da esse per evitare i cattivi esempi e le minacce degli europei. Per decreto reale a questi ultimi non era consentito l'ingresso nelle riduzioni. 2) Il lavoro degli indigeni è realizzato interamente, o quasi, dentro la medesima riduzione e a favore di tutta la comunità. 3) Il lavoro di evangelizzazione è costante e completo, perché non solo la vita religiosa, ma anche quella sociale, politica ed economica è guidata dai gesuiti. 4) La situazione geografica delle riduzioni dei guaranì facilitano le relazioni reciproche tra i diversi villaggi, in modo tale che l'organizzazione interna della Compagnia di Gesù istituisce un superiore unico per l'insieme di esse. La loro autonomia non era però totale, perché politicamente dipendevano dai governatori di Asunción e di Buenos Aires, spiritualmente dipendevano dai vescovi delle stesse città e dai superiori centrali dei gesuiti, economicamente dipendevano dalle città ispanoamericane e perfino dall'Europa, dato che, anche al momento della loro massima espansione, le riduzioni non riuscirono mai a produrre tutto ciò di cui avevano bisogno. Questa sia pure relativa autonomia suscitò ostilità negli encomenderos - i responsabili spagnoli ai quali venivano affidati gruppi di indios perché li facessero lavorare a proprio vantaggio -; sollevò invidie in altri ecclesiastici; continua a suscitare diffidenza negli storici fino a oggi. Ma i gesuiti sapevano quello che volevano: se c'era una cosa che nuoceva alla diffusione del cristianesimo tra gli indiani di America era la presenza, accanto ai missionari, di altri europei mossi da interessi diversi da quelli puramente religiosi. La presenza di governatori, soldati, mercanti, l'esempio delle loro atrocità, avidità, ingiustizie, erano il maggior ostacolo alla conversione degli indios; impediva loro - salvo poche stupende eccezioni - di abbracciare il cristianesimo…
I gesuiti costruirono riduzioni su un'area vastissima, che va dall'Argentina settentrionale alla Bolivia. Non tutte sopravvissero. La maggior parte si concentrò nelle zone impervie dell'alto Paranà e dei suoi affluenti, a nord delle grandi rapide e cascate, abitate dai guaraní. Ancor oggi restano i ruderi imponenti di varie di esse. Altre divennero il primo nucleo di autentiche città. La prima sorse nel 1610. Ne seguirono altre lungo tutto il '600 e la prima metà del '700, con nomi sonanti di santi e madonne: Beata Vergine della Candelora, Sant'Ignazio Guazù, Santa Rosa da Lima, San Giacomo, Sant'Anna, Loreto, Sant'Ignazio Mini, Corpus Domini, Gesù, Trinità, San Giuseppe, San Carlo, Santi Apostoli, Concezione, Santa Maria Maggiore, San Francesco Saverio, Santi Martiri, San Nicola, San Luigi, San Lorenzo, San Michele, San Giovanni Battista, Sant'Angelo, San Tommaso, San Francesco Borgia, Santa Croce, San Gioachino, Santo Stanislao. Di rado avevano nomi indigeni: Ytapuá, Yapeyu. Nel 1731, al massimo della loro espansione, riunivano complessivamente 141.242 indios. Gli inizi furono difficili, perché per rendere possibile l'evangelizzazione degli indios bisognava prima «ridurli». Il raggruppamento di popolazioni abituate a vivere sparpagliate su un vasto territorio poneva seri problemi per la loro alimentazione. Sulle prime, gli indios si mostravano diffidenti nei confronti dei missionari europei. Li osservavano a lungo, sospettosi, prima di avvicinarli. Un fascino enorme esercitava su di loro la musica, la pittura, il coraggio e il disinteresse. Si entusiasmavano facilmente, come i bambini, e, quindi, erano incostanti, imprevidenti. [...]
Tra il 1628 e il 1638 le riduzioni furono assalite a più riprese dai razziatori di schiavi provenienti da São Paulo, i cosiddetti paulisti o mamaluchi. I gesuiti si videro costretti a creare un vero e proprio esercito, con il quale difendere la vita e i beni dei loro neofiti

Ma i più vedevano nell'esperimento gesuitico una smentita alla teoria del «buon selvaggio», all'immagine culturale di un'America come luogo dei sogni perduti dagli europei
. Sospettarono di poca attendibilità le descrizioni circa i vizi degli indiani, immaginarono speculazioni e losche manovre politiche sotto la parvenza innocente della conquista religiosa. La quale, del resto, tradiva la vera identità degli indios, strumentalizzandoli a fini non religiosi.
Voltaire fu quanto mai esplicito a questo proposito. Faceva dire a Candido: “E' cosa ammirevole quel governo. Il reame ha più di trecento leghe di diametro, è diviso in trenta province e Los Padres possiedono tutto e il popolo nulla: capolavoro della ragione e della giustizia. A parer mio questi Padres sono cosa assolutamente divina: lì fanno guerra al re di Spagna e al re di Portogallo e in Europa li confessano; lì uccidono gli spagnoli e a Madrid li mandano in cielo: questo m'incanta”. E insinuava che l'Ordine si fosse molto arricchito con le riduzioni, contrapponendo a questa evangelizzazione dettata da interesse e da sottile calcolo politico dei gesuiti quella del tutto disinteressata, pura e santa dei quaccheri a vantaggio degli indigeni del Nord America. [...] Era pure falso che le riduzioni fossero diventate strumento politico-economico per l'arricchimento dell'Ordine. Il successo dell'impresa dipendeva anzi in gran parte dal palese disinteresse dei Padri. Del resto i Generali stessi della Compagnia di Gesù avevano comandato, sotto minaccia di pene severissime, che nessuno, suddito o superiore, potesse “prendere alcuna cosa dai magazzini e dai fondi pubblici e disporre di esse non per il popolo, anche quando si trattasse di elemosine e di opere pie”
Del grande regno dei gesuiti nel Paranà, con i suoi 141.242 abitanti, tutto era finito nel 1767. Nel 1750 spagnoli e portoghesi firmarono il trattato di Madrid, che prevedeva una rettifica dei confini tra i rispettivi possedimenti. Secondo la nuova demarcazione ben sette riduzioni, per un totale di circa centomila indios, venivano a cadere in territorio portoghese. Per loro significava la fine. A Lisbona imperava l'onnipotente Pombal, il nemico numero uno dei gesuiti. Ma anche presso le altre corti europee incominciava a spirare aria ostile nei confronti dell'Ordine, considerato nemico del progresso e della ragione illuministica.
Nel 1752 giungeva a Buenos Aires il padre Lope Luis Altamirano, mandato dal padre Generale dei gesuiti come visitatore delle riduzioni, con pieni poteri per quanto concerneva l'applicazione del trattato dei confini. Gli indios tentarono di opporsi all'applicazione del trattato con azioni di resistenza che però non avevano alcuna possibilità di riuscita. Una simile resistenza non si verificò nel seguito degli eventi, quando i gesuiti furono espulsi dai territori nei quali sorgevano le riduzioni. Nel 1758 i gesuiti venivano cacciati dal Portogallo, nel 1764 dalla Francia, nel 1767 dalla Spagna, nel 1768 dal regno delle due Sicilie e da Malta. La Compagnia di Gesù si avviava così verso la soppressione, avvenuta per ordine del papa Clemente XIV il 21 luglio 1773. Le riduzioni furono affidate a domenicani e francescani.

da Hugo Storni, in Virgilio Fantuzzi, “Mission” di Roland Joffé, Civiltà Cattolica, 137 (1986), pp. 362-366
Lo svolgimento dato al finale del film si riferisce ai fatti verificatisi in due occasioni distinte. Una fu l'espulsione dei gesuiti dalle riduzioni, che avvenne nel 1768 per ordine di Carlo III re di Spagna. In quella circostanza non si verificò nessuna lotta o battaglia tra indios e spagnoli. Arrivato l'ordine, i gesuiti obbedirono com'era normale a quei tempi di fronte a un ordine del re. Neppure gli indios si opposero, anche su consiglio degli stessi gesuiti
. L'altra circostanza fu quando si vollero obbligare gli indios ad abbandonare sette riduzioni, ora in territorio brasiliano, perché sorgevano in una regione destinata alla Corona del Portogallo dall'accordo tra Portogallo e Spagna firmato a Madrid nel 1750. In una località chiamata Caaybaté, attualmente nel Brasile del sud, si scontrarono l'esercito ispanoportoghese, forte di 1700 uomini, e un numero uguale di indios guaraní ai quali non si può dare il nome di esercito, perché mancavano di capi e di equipaggiamento. Caddero 1311 indios, 152 furono fatti prigionieri e gli altri fuggirono nella vicina foresta. In tutto questo i gesuiti non ebbero parte attiva, anche se in seguito furono accusati da entrambe le parti. Gli europei li incolparono di aver incitato gli indios alla rivolta. Questi ultimi invece rinfacciavano loro di essersi venduti al nemico.
Il solo combattimento terrestre e navale che la storia delle riduzioni ricordi si svolse molti anni prima, nel 1641, in una località lungo il fiume Uruguay, e perciò senza alcuna relazione con le cascate dell'Iguazù, tra l'Argentina e il Brasile. In quel caso una formazione armata fu assalita e vinta da un intervento degli indios guidati dai gesuiti. Circostanze simili si verificarono quando il p. Diego de Alfaro, che qualcuno ha ricordato in questi giorni, fu assassinato dai razziatori mentre cercava di difendere gli indios. In quel tempo i gesuiti non facevano che obbedire agli ordini del re in difesa degli indigeni.

da G. Tosi, La teoria della schiavitù naturale nel dibattito sul Nuovo Mondo (1510-1573). “Veri domini” o “servi a natura”?, Divus Thomas, ESD, Bologna, 2002, p. 250
Questo esperimento di evangelizzazione pacifica [l’esperimento di Vera Paz] voleva mostrare la validità pratica del trattato di Las Casas De unico vocationis modo e fu diretto dallo stesso Las Casas e da un folto gruppo di confratelli Domenicani. Essi ottennero che in una vasta area del Guatemala, chiamata Vera Paz, e che apparteneva alla diocesi del Chiapas, non fosse permesso l'ingresso dei soldati o degli encomenderos ma solo ai missionari. L'esperimento incontrò una forte opposizione da parte degli spagnoli, ma continuò grazie all'appoggio delle ordinanze regali ed ebbe un iniziale successo, contro tutte le aspettative negative. Esso continuò anche dopo che, nel 1547, Las Casas fu obbligato dai suoi "fedeli" ad abbandonare la diocesi del Chiapas. Nel 1556 l'esperimento pacifico ebbe una fine violenta e brutale: gli indios si sollevarono, sembra per opera dei caciques e degli sciamani della religione tradizionale che si sentivano esautorati, e, con l'appoggio di tribù vicine, non ancora "pacificate", mossero guerra; uccisero tutti i Frati (più di trenta) e gli indigeni convertiti e distrussero le chiese e i centri abitati. L'esercito spagnolo non intervenne in soccorso dei Frati allegando cinicamente il rispetto della proibizione reale di avere rapporti con gli indigeni e di entrare nel loro territorio.

8/ Uno sguardo prospettico e retrospettivo: la nascita dell’“America Latina”, non la distruzione di un mondo

8.1/ Non così nelle zone conquistate dagli inglesi

da L. Hanke, La lucha por la justicia en la conqusita de América, Madrid, 1988 (1949), pp. 22-23, citato in G. Tosi, La teoria della schiavitù naturale nel dibattito sul Nuovo Mondo (1510-1573). “Veri domini” o “servi a natura”?, Divus Thomas, ESD, Bologna, 2002, p. 31
Altre potenze che ebbero colonie nel Nuovo Mondo non si preoccuparono eccessivamente delle questioni teoriche. Non apparve nessun protettore degli indios nelle colonie inglesi o francesi d’America. I puritani consideravano gli indios come selvaggi maledetti che era giusto distruggere e rendere schiavi [...] Ci furono certo alcuni protettori degli indios, come John Eliot in Massachussets e Roger Williams in Rhode Island, ma non li si può comparare con giustizia con i missionari spagnoli.

8.2/ Non così dove giunsero i portoghesi

da G. Tosi, La teoria della schiavitù naturale nel dibattito sul Nuovo Mondo (1510-1573). “Veri domini” o “servi a natura”?, Divus Thomas, ESD, Bologna, 2002, p. 31
-I portoghesi avevano già iniziato un ambizioso progetto di scoperte fin dagli inizi del secolo XV volto alla ricerca di un passaggio ad Oriente per le Indie, processo che culminerà con la circumnavigazione dell’Africa e l’arrivo in India, Cina e Giappone, e che rimase per lungo tempo prioritario rispetto alle terre del Nuovo Mondo.
-I portoghesi erano interessati soprattutto a impiantare centri costieri per favorire questo commercio e, con eccezione di Goa e di alcune parti della costa del Brasile, non iniziarono subito un processo di colonizzazione.
-In Brasile, i portoghesi non trovarono inizialmente oro e ricchezze naturali abbondanti né civilizzazioni avanzate come quelle dell’America Spagnola e iniziarono la colonizzazione in tempi più tardi e con modalità diverse.
-I portoghesi ottennero il monopolio della tratta degli schiavi negri dell’Africa, questione questa che diventò centrale nelle colonie portoghesi e nell’America del Nord ed ebbe meno importanza nelle colonie spagnole.

8.3/ Così invece dove giunsero gli spagnoli: la nascita dell'“America latina”

da J. H. Elliott, Imperi dell’Atlantico. America britannica e America spagnola, 1492-1830, Einaudi, Torino, 2010, pp. 598-599
A questa civiltà [l’impero spagnolo nel sud America], che col passare delle generazioni diventava sempre più complessa dal punto di vista etnico, davano coesione la chiesa e lo stato, una religione e una lingua comuni, la presenza di un’élite di ascendenza spagnola e un insieme di presupposti imprescindibili riguardo al funzionamento dell’ordine politico e sociale, come riformulato e articolato dai neoscolastici spagnoli del XVI secolo.
La loro concezione organica di una società regolata da Dio, che aveva come scopo il raggiungimento del bene comune, era inclusiva, piuttosto che escludente
. Di conseguenza, alle popolazioni indigene dell’America spagnola venne concesso almeno un piccolo spazio nel nuovo ordine politico e sociale. Aggrappandosi, come fu loro permesso, alle opportunità religiose, giuridiche e istituzionali, individui e comunità riuscirono a stabilire diritti, ad affermare identità e a modellare un nuovo universo culturale nato sulle rovine di quello che si era irreparabilmente frantumato con gli sconvolgimenti della conquista e dell’occupazione europea.
Dopo un non facile periodo di coabitazione, i coloni inglesi, che dovevano fronteggiare una popolazione indigena dispersa e maldisposta a offrirsi come manodopera, scelsero di adottare un metodo escludente piuttosto che inclusivo, usando i sistemi già sperimentati in Irlanda. I loro indiani, diversamente da quelli degli spagnoli, vennero messi ai margini delle nuove società coloniali, o ne furono espulsi. Quando i coloni seguirono l’esempio iberico e si rivolsero agli africani per soddisfare le loro esigenze di manodopera, lo spazio concesso agli schiavi dalla legge e dalla religione fu ancora più limitato che nell’America spagnola.
Sebbene il rifiuto di includere gli indiani e gli africani all’interno della società da loro immaginata avrebbe poi lasciato una terribile eredità alle generazioni future, ciò diede ai coloni inglesi maggiore libertà di manovra nel conformare le realtà a ciò che avevano immaginato. Senza lo stimolo di integrare la popolazione indigena nelle nuove società coloniali, avevano minore bisogno di scendere a compromessi simili a quelli che le società dell’America spagnola erano state costrette ad accettare. Nello stesso tempo, c’era meno bisogno che il governo imperiale mettesse in atto meccanismi esterni di controllo come quelli adottati dagli spagnoli per dare stabilità e coesione sociale a società che, da un punto di vista razziale, erano eterogenee.

Colonie, in America spagnoli meglio degli inglesi, una recensione di Marco Unia a John H. Elliott, Imperi dell’Atlantico (da Avvenire anche su www.gliscritti.it )
«Scrivere la storia comparativa comporta dei movimenti che non sono diversi da quelli che servono per suonare la fisarmonica. Le due società paragonate sono spinte l’una verso l’altra, ma solo per essere di nuovo separate. Le somiglianze, dopo tutto, si dimostrano non così forti come parevano a prima vista; e si scoprono differenze nascoste al primo sguardo».
Con queste parole John H. Elliott illustra la propria opera che mette a confronto la storia degli imperi britannici e spagnoli d’America, seguendone lo sviluppo dalle origini al declino, in un arco temporale che copre quatto secoli, dal XV al XIX. Il metodo comparativo è utilizzato per sottolineare la rilevanza dei retroterra culturali e delle condizioni ambientali nel determinare la storia di questi imperi.
Portando alla luce la dialettica tra ambiente geografico d’insediamento e cultura d’appartenenza dei coloni Elliott confuta numerosi luoghi comuni sulla colonizzazione d’oltreoceano, in primo luogo la famosa 'leggenda nera', da secoli utilizzata per spiegare i diversi destini del Nord e del Sud America. La leggenda, nata nei primi anni della conquista spagnola dell’America e sostenuta dagli ambienti protestanti anticattolici e dall’illuminismo, presentava l’impero spagnolo d’oltremare come un miscuglio di indolenza, arretratezza e superstizione, a cui contrapporre le colonie britanniche contrassegnate dallo 'spirito di perseveranza' e dalle libertà civili e religiose.
Questo schema è oggetto della revisione di Elliott che individua caratteristiche peculiari della colonizzazione spagnola – quali le ricchezze minerarie delle zone conquistate e la densità di popolazione indigena – che spiegano l’approccio verso le civiltà precolombiane e i territori di cui presero possesso. Lo storico non contesta l’impatto devastante della conquista per le comunità indigene sudamericane e i crimini di cui si macchiarono singoli avventurieri, ma avversa una visione banalizzante che fa della colonizzazione ispanica un puro atto di razzia, trascurando l’impegno esecutivo e legislativo esercitato dalla corona spagnola per far rispettare i diritti delle popolazioni indigene.
L’impero spagnolo dimostrò inoltre capacità inclusive nei confronti degli indigeni e una predisposizione alla creazione di società miste superiori a quella delle colonie britanniche. Lo stesso spirito di evangelizzazione che animava gli spagnoli e che viene spesso citato come l’ombrello ideologico utilizzato per coprire i massacri è interpretato da Elliott sotto una luce diversa: in quanto popoli da convertire gli indigeni vennero trattati come persone libere e la presenza dei missionari garantì una forma di protezione, seppure parziale, contro lo sfruttamento indiscriminato, come testimonia l’opera di Bartolomé de Las Casas.
Il paragone con le colonie britanniche del Nord America sullo specifico tema del rapporto con gli indigeni è sorprendente: la paura della degenerazione culturale fu tanto forte tra i puritani da far considerare gli indiani come i «Cananei della Bibbia, razza degenerata che minacciava d’infettare il popolo eletto di Dio». Il saggio di Elliott narra con precisione di dettagli quello che fu e continua ad essere il più grande incontro con il radicalmente 'altro' nella storia dell’umanità, un contatto foriero di trasformazioni epocali che continuano a segnare la storia mondiale.

dalle Conclusioni di Puebla, 1979, in G. Martina, Evangelizzazione e inculturazione, in G. Martina – U. Dovere (a cura di), Il cammino dell’evangelizzazione. Problemi storiografici, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 20
Se è cosa certa che la Chiesa nel suo lavoro di evangelizzazione dovette sopportare il peso di fallimenti, di alleanze con i poteri terreni
, di una visione pastorale incompleta e della forza distruggitrice del peccato, ... l'evangelizzazione è stata molto più potente delle ombre che purtroppo l'hanno accompagnata nel contesto storico vissuto.

Appendice su John Henry Newman (per le referenze vedi la sezione Maestri dello Spirito)

da John Henry Newman
Eppure mentre guardavo e vedevo eseguire tutti gli atti cristiani, esporre il Santissimo Sacramento, e donare la benedizione, ricordandomi di essere in chiesa, potevo solo pronunciare con molta perplessità le mie stesse parole, ‘Come devo chiamarti, luce dell’immenso occidente, o detestabile sede dell’errore?’ , - e sentire la potenza della parabola della zizzania - chi può separare la luce dalle tenebre se non la Parola creatrice che profetizzò la loro unione? E così sono costretto a lasciare la questione, non riuscendo a vedere come uscirne.

da Brigitte Maria Hoegemann
A proposito dei giovani seminaristi visti a Roma, Newman commenta: “Provo molto affetto per i piccoli monaci di Roma, sembrano così innocenti e intelligenti, poveri ragazzi”. E, ancora, quando parla dei “figli di tutte le nazioni e lingue” che vengono educati a
Propaganda Fide “per scopi missionari” (273, 279). Nonostante la sua convinzione, maturata sin dall’età di quindici anni, che il Signore lo aveva chiamato alla vita celibe per essere libero di diventare Sua proprietà per il bene di molti (APO, 140-141), e nonostante egli ricordi nell’Apologia di aver avuto presto rispetto per la legge apostolica del celibato conservata nella Chiesa Romana, il suo commento giocoso “poveri ragazzi” sembra implicare una critica.

da una presentazione di Luce gentile
Luce gentile
è una famosa preghiera composta da John Henry Newman in un momento decisivo del cammino della sua vita, quando nel 1833, ancora anglicano, rifletteva sulle decisioni da prendere di ritorno in nave dalla Sicilia in Inghilterra, appena ripresosi da una grave malattia (il testo completo è in R. La Delfa - A. Magno - a cura di - Luce nella solitudine. Viaggio e crisi di Newman in Sicilia, Ila Palma, Palermo 1989).

Luce gentile
Lead Kindly Light…
Conducimi tu, luce gentile,
conducimi nel buio che mi stringe,
la notte è scura, la casa è lontana,
conducimi tu, luce gentile.

Tu guida i miei passi, luce gentile,
non chiedo di vedere assai lontano,
mi basta un passo, solo il primo passo,
conducimi avanti, luce gentile.

Non sempre fu così, te non pregai
perché tu mi guidassi e conducessi,
da me la mia strada io volli vedere,
adesso tu mi guida, luce gentile.

Io volli certezze, dimentica quei giorni,
purché l’amore tuo non m’abbandoni,
finché la notte passi tu mi guiderai
sicuramente a te, luce gentile.

da John Henry Newman
Nulla mi ha aperto gli occhi sull’unità della Chiesa quanto la presenza, ovunque vada, del suo divin Fondatore
. - Tutti i luoghi sono come uno solo. Mentre gli amici che ho lasciato a Maryvale godono della Sua presenza e Lo adorano a Maryvale, Lui è anche qui (254).

da J. Ratzinger
Non esito a dire che la verità sta al centro della sua ricerca spirituale: la coscienza è centrale per lui perché lo è la verità. In altre parole: la centralità del concetto di coscienza in Newman deriva dalla centralità del concetto di verità, e solo in base ad essa si può comprendere. La dominanza dell’idea di coscienza non significa che Newman rappresenti una sorta di filosofia o teologia soggettivistica del XIX secolo, opposta alla neoscolastica “oggettivistica”. Certo, il soggetto trova in lui un’attenzione che nella teologia cattolica non aveva più conosciuto forse dal tempo di Agostino; ma è un attenzione nella linea di Agostino, non in quella della filosofia soggettivistica moderna. Quando fu eletto cardinale Newman confessò che la sua intera vita era stata una battaglia contro il liberalismo. Potremmo aggiungere: anche contro il soggettivismo cristiano che trovò nel movimento evangelico del suo tempo, benché questo gli avesse donato il primo stadio del suo continuo cammino di conversione (Cielo e terra. Riflessioni su politica e fede, p. 32).

dal "discorso del biglietto" - per la nomina a cardinale - pronunciato da da John Henry Newman il 12 maggio 1879 a Palazzo della Pigna a Roma e riportato integralmente due giorni dopo sulla prima pagina de L'Osservatore Romano
Per trenta, quaranta, cinquant'anni ho cercato di contrastare con tutte le mie forze lo spirito del liberalismo nella religione. Mai la santa Chiesa ha avuto maggiore necessità di qualcuno che vi si opponesse più di oggi, quando, ahimé! si tratta ormai di un errore che si estende come trappola mortale su tutta la terra; e nella presente occasione, così grande per me, quando è naturale che io estenda lo sguardo a tutto il mondo, alla santa Chiesa e al suo futuro, non sarà spero ritenuto inopportuno che io rinnovi quella condanna che già così spesso ho pronunciato. Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo cui non c'è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro, e questa è una convinzione che ogni giorno acquista più credito e forza. È contro qualunque riconoscimento di una religione come vera. Insegna che tutte devono essere tollerate, perché per tutte si tratta di una questione di opinioni. La religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e una preferenza personale; non un fatto oggettivo o miracoloso; ed è un diritto di ciascun individuo farle dire tutto ciò che più colpisce la sua fantasia. La devozione non si fonda necessariamente sulla fede. Si possono frequentare le Chiese protestanti e le Chiese cattoliche, sedere alla mensa di entrambe e non appartenere a nessuna. Si può fraternizzare e avere pensieri e sentimenti spirituali in comune, senza nemmeno porsi il problema di una comune dottrina o sentirne l'esigenza. Poiché dunque la religione è una caratteristica così personale e una proprietà così privata, si deve assolutamente ignorarla nei rapporti tra le persone. Se anche uno cambiasse religione ogni mattina, a te che cosa dovrebbe importare? [...] Non dimentichiamo che nel pensiero liberale c’è molto di buono e di vero; basta citare, ad esempio, i principi di giustizia, onestà, sobrietà, autocontrollo, benevolenza che, come ho già notato, sono tra i suoi principi più proclamati e costituiscono leggi naturali della società. È solo quando ci accorgiamo che questo bell’elenco di principi è inteso a mettere da parte e cancellare completamente la religione, che ci troviamo costretti a condannare il liberalismo. Invero, non c’è mai stato un piano del Nemico così abilmente architettato e con più grandi possibilità di riuscita. E, di fatto, esso sta ampiamente raggiungendo i suoi scopi, attirando nei propri ranghi moltissimi uomini capaci, seri ed onesti, anziani stimati, dotati di lunga esperienza, e giovani di belle speranze.