«Il simbolo prese la parola». Gli anelli nuziali e l'amore di cui sono segno ne La bottega dell’orefice di Andrzej Jawień/Karol Wojtyła, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 08 /04 /2012 - 12:50 pm | Permalink | Homepage
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 Riprendiamo sul nostro sito una presentazione a La bottega dell’orefice di Andrzej Jawień/Karol Wojtyła, scritta da Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (8/4/2012)

«Il simbolo prese la parola».

Così afferma perentoriamente Andrea nella prima stanza – I richiami – de La bottega dell'orefice, il poema drammatico scritto da Karol Wojtyła con lo pseudonimo di Andrzej Jawień[1].

Andrea, che sposerà Teresa e morirà poi giovanissimo dopo averle dato un figlio, spiega con versi di rara profondità e splendore:

«Le fedi che stanno in vetrina
ci dicono qualcosa con strana fermezza.
Per ora sono solo oggetti di metallo prezioso
ma lo saranno soltanto fin quando
io ne metterò una al dito di Teresa
e lei metterà l'altra al mio.

Da quel momento saranno loro a segnare il nostro destino.
Ci faranno sempre rievocare il passato
come fosse una lezione da ricordare,
ci spalancheranno ogni giorno di nuovo il futuro
allacciandolo con il passato.
E insieme, in ogni momento,
serviranno a unirci invisibilmente
come gli anelli estremi di una catena
.

Dunque non siamo entrati subito. Il simbolo prese la parola.
Lo abbiamo capito insieme nello stesso momento.
Guardando le fedi
nuziali ci ha colto una commozione silenziosa
.
È questo che ci ha fermato davanti al negozio.
Rimandavamo il momento
.

Mi sono accorto solo che Teresa serrò più forte
il mio braccio ... e questo era il nostro oggi:
l'incontro del passato con il futuro.
Ecco noi due spuntati da tanti momenti strani
come dall'abisso di fatti semplici e consueti.
Ecco noi due insieme. Ci uniamo segretamente
grazie a queste due fedi
».

Il tempo si sospende dinanzi al segno delle fedi nuziali esposte nella vetrina della bottega dell'orefice.

«Non siamo entrati subito,
ci fermò un pensiero, nato
— lo sapevamo bene — nello stesso momento
in me e in lei».

Il giovane Wojtyła riesce ad esprimere in maniera perfetta la differenza che si stabilisce in una storia di amore al momento in cui si scambiano le fedi. Non che prima l'amore non ci sia ancora, ma solo attraverso quel “rito”, quel “segno”, l'amore diviene veramente tale e si proietta verso il futuro, meglio verso un futuro che non conoscerà ritorno. Verso il dono totale che non tornerà indietro. I due fidanzati, Andrea e Teresa, lo sanno bene. È la rettitudine del loro cuore - così come del cuore di ogni persona vera che non scherzi con la vita – che glielo dice in maniera certa: quello è il momento di una svolta, di una promessa, di un impegno, di un bell'impegno.

La cultura post-sessantottina ha riso dei riti e dei segni, di quelli cristiani come di quelli comuni ad ogni uomo, volendo illudere l'uomo che tutto può essere scomposto e ricomposto a piacimento, a partire solo dalla volontà dell'uomo. Si è ritrovata così però incapace di capire e vivere appieno la realtà dell'amore. Perché l'amore ha una sua consistenza e si comunica attraverso segni. E il deridere il segno semplice della fede nuziale non conduce mai a maturare nell'amore, bensì piuttosto a perdere le coordinate per orientare il cuore e, quindi, le scelte.

Dopo che Andrea ha parlato, “qualcuno” - un misterioso narratore – incalza ne La bottega dell'orefice :

«Guarda la bottega dell'orefice. Che arte singolare.
Fare oggetti capaci
di provocare riflessioni sulla sorte umana»
.

Non è mai l'orefice – personaggio misterioso la cui decodificazione Wojtyła affida all'interpretazione dello spettatore – ad apparire in prima persona, bensì sono gli sposi a ricordare le sue parole. Andrea così testimonia dell'incontro suo e di Teresa con lui:

«Le fedi non rimasero in vetrina.
L'orefice ci guardò a lungo negli occhi.
Saggiando per l'ultima volta il prezioso metallo
diceva cose profonde. In modo sorprendente
si fissavano nella mia memoria.

Il peso di queste fedi d'oro
così disse — non è il peso del metallo.
Questo è il peso specifico dell'essere umano,
di ognuno di voi
e di voi due insieme.

Ah, il peso proprio dell'uomo,
il peso specifico d'un essere umano!
Potrebbe essere ancora più gravoso
e insieme — più inafferrabile?

È questo il peso della gravità costante
legata al nostro breve volo.
Il volo prende forma di spirale, di ellisse — la forma del
cuore...
Ah, il peso specifico dell'uomo!
Questa incrinatura, questo groviglio, questo fondo,
questo appigliarsi, quando diviene tanto difficile
distogliere il cuore, il pensiero.

E in mezzo a tutto questo — la libertà,
una libertà, talvolta follia,
la follia di libertà che si impiglia nel groviglio.
E in mezzo a tutto questo — l'amore
che sgorga dalla libertà
come una sorgente dal suolo.
Ecce homo! Non è limpido
né solenne
né semplice
semmai — misero
.

Questo, un uomo solo — e due?
e quattro, e cento, e un milione?
Moltiplica tutto questo
(moltiplica la grandezza per la debolezza)
— e avrai il risultato dell'umanità,
il risultato della vita umana.

Così parlò quello strano orefice
misurando le nostre fedi.
Poi le pulì con la pelle di camoscio,
le ripose nell'astuccio
che prima stava in vetrina,
infine cominciò ad avvolgerle in carta velina.
Ci guardava sempre negli occhi,
voleva forse sondare i nostri cuori.

Aveva ragione nel dire tutte queste cose?
Sono stati forse anche i nostri stessi pensieri?
Forse nessuno di noi due poteva
trarre le conclusioni da così vicino —
l'amore è più entusiasmo che riflessione»
.

Ed Andrea prosegue ancora nel dramma:

«Intanto l'orefice — come ho già detto — ci guardava in modo particolare. Il suo sguardo era insieme mite e penetrante. Con questo sguardo, lo sentivo, ci scrutava, scegliendo e soppesando le fedi. Poi ci ha infilato gli anelli al dito — per prova. Ho avuto l'impressione che con il suo sguardo cercasse i nostri cuori per immergersi nel loro passato. Riesce anche ad abbracciare il futuro? Calore e fermezza — ecco cosa leggevo nei suoi occhi. Il futuro è rimasto per noi ignoto, ma lo accettiamo senza perplessità. L'amore ha vinto ogni perplessità. L'amore determina il futuro».

Dopo che Teresa ha fatto eco alle sue parole ripetendole - «L'amore determina il futuro» - Andrea aggiunge, con espressioni ancora una volta notevoli:

«A un certo punto i nostri sguardi si sono incontrati — il mio e quello del vecchio Orefice. Ho avuto allora la sensazione che Lui non solo stesse sondando i nostri cuori ma che cercasse anche di versarvi dentro qualcosa. Ci siamo trovati al livello del Suo sguardo, anzi, al livello della Sua vita. La nostra intera esistenza stava davanti a Lui. Il Suo sguardo ci comunicava dei segni ma in quel momento non eravamo in grado di percepirli in tutta la loro pienezza come accadde con quelle voci, quella notte in montagna — però quei segni riuscirono a penetrare fino nel fondo dei nostri cuori. E non so come — ma ci siamo messi in cammino nella direzione indicataci perché questo filo è diventato l'ordito di tutta la nostra vita».

Si manifesta qui in maniera misteriosa la natura soprannaturale dell'orefice che versa del suo in quell'amore che si apre ad una promessa di eternità, mentre i due fidanzati ricordano il momento in cui scoprirono in montagna i primi segni del loro amore. Sarà più tardi Adamo – altro personaggio misterioso del dramma, forse un sacerdote – a dire:

«Certe volte la vita umana sembra essere troppo corta per l'amore. Certe volte invece no — l'amore umano sembra essere troppo corto per una lunga vita. O forse troppo superficiale. In ogni modo l'uomo ha a disposizione una esistenza e un amore — come farne un insieme che abbia senso?»

In questo dilemma consiste tutta la bellezza e la serietà dell'amore. L'amore e la vita nella loro interezza si debbono corrispondere, pena la perdita del senso stesso dell'amore e della vita. Ma sono in grado di farlo senza che un “orefice” versi del suo nell'amore? Ed è sempre Adamo a ricordare come il “mistero” dell'amore non si manifesti ad animi superficiali:

«Proprio questo mi costringe a riflettere sull'amore umano. Non esiste nulla che più dell'amore occupi sulla superficie della vita umana più spazio, e non esiste nulla che più dell'amore sia sconosciuto e misterioso. Divergenza tra quello che si trova sulla superficie e quello che è il mistero dell'amore — ecco la fonte del dramma».

Il valore delle fedi nuziali è intatto nella generazione della guerra – la generazione di Andrea e Teresa – mentre è meno evidente per la generazione dei loro figli. Nel dramma del giovane Wojtyła, infatti, Andrea genererà Cristoforo che si sposerà poi con Monica, nata da Stefano e Anna, la coppia della seconda stanza dell'opera – Lo sposo. Nel racconto wojtyłiano, Stefano ha ferito Anna, logorando il loro matrimonio, e per Monica, loro figlia, non è più evidente che si possa credere alla possibilità di sposarsi, non è più un'evidenza che valga la pena promettere di volere bene per sempre al suo fidanzato Cristoforo.

I due figli delle coppie delle prime due stanze dell'opera si ritrovano così anch'essi dinanzi alla bottega dell'orefice nella terza stanza del dramma - I figli. Le loro parole tradiscono un cambiamento di mentalità che, in apparenza, si è ormai determinato in maniera ineluttabile. Tutto è più difficile rispetto alla generazione precedente. Dice Cristoforo, parlando alla madre di Monica:

«Quando abbiamo messo le fedi ho sentito la tua mano tremare ...
Abbiamo dimenticato di guardare il viso del vecchio
di cui mia madre mi aveva parlato; i suoi occhi avrebbero
dovuto dirci molto.
Non è colpa nostra se non abbiamo notato niente
nel suo sguardo — e disse cose ovvie, del resto parlò poco.
Non ti meravigliare allora, mamma, che queste parole
siano passate così, senza eco
(cose note, del resto — non abbiamo avvertito in esse
nessuna grandezza),
molto di più mi hanno detto le mani tremanti di Monica
.
Ero tutto preso dalla sua commozione
e da come la vivevo io stesso, perché la sentivo pienamente
— e ho visto noi due sul fondo di questa esperienza;
credo di volerle molto bene».

E Monica prosegue:

«Eravamo presi uno dall'altro — come avremmo potuto guardarlo ...
Lui non ha fatto niente per affascinarci ...
ha preso semplicemente la misura delle nostre dita, poi
quella delle fedi,
come un qualsiasi artigiano. Non c'era traccia d'arte.
Lui non ci ha avvicinato a niente. Tutta la bellezza è rimasta
nel nostro proprio sentimento
. Non ha allargato nulla,
né ristretto
... ero completamente presa dall'amore — e mi sembra
solo da questo».

È così Teresa, madre di Cristoforo e vedova di Andrea, a dare voce al dramma che abita il cuore di Monica. La giovane ha visto la sofferenza matrimoniale dei suoi genitori, Stefano ed Anna, e dubita che un amore puro e senza fine sia possibile. Teresa, dinanzi ai due giovani che hanno avuto una reazione così diversa da quella che lei ed Andrea avevano avuto dinanzi alla bottega dell'orefice tanti anni prima, prosegue:

«Mi sono spaventata... forse il vecchio orefice
ha perso ormai la forza del suo sguardo e della sua parola?
O forse loro non sono stati in grado di recepirla,
di sentire ciò che è nascosto nelle sue parole
e nei suoi occhi? Sono forse diversi, loro?

Gli dissi — buonasera — e presto abbiamo cominciato
a parlare di matrimonio. Monica parlò subito
dei suoi genitori. Erano interiormente assenti.

L'amore di Monica nasceva fuori della loro presenza, e forse
anche contro la loro volontà — così almeno credeva lei.

Tuttavia,
lo so, esso nasceva dal seme che essi avevano lasciato
in lei. —
Monica non si vergognava di questa incrinatura che da sola
si rimarginava nelle loro anime, ma in lei si ripercuoteva
ancora.

Che cosa state costruendo, ragazzi? Quale compattezza
avranno i vostri sentimenti fuori del significato delle parole
del vecchio orefice, parole attraverso cui passa il metallo
di ogni matrimonio in tutto il mondo?»

Eppure, niente è cambiato alla radice, perché non esiste amore senza la promessa che quelle fedi significano e testimoniano. Monica dovrà imparare che proprio il dolore che ha visto nei suoi genitori testimonia della verità dell'amore che quelle fedi nuziali simbolizzano. Se quelle fedi fossero semplicemente un gioco, il venir meno alla promessa non avrebbe turbato così profondamente la vita dei suoi. Proprio quella sofferenza che lei ha conosciuto è, invece, una riprova della verità benedetta della promessa nuziale, la cui rottura è dolore e morte.

Nella seconda stanza del dramma è Anna, madre di Monica, a raccontare la crisi del proprio matrimonio. Anche qui la verità delle sue parole è sconvolgente:

«Guardando agli avvenimenti degli ultimi giorni
dovevo essere sconvolta.
Li guardavo con amarezza.
L'amarezza — sapore del cibo e della bevanda
e anche sapore interiore — sapore dell'anima,
di un'anima delusa e disincantata.
Questo sapore intride, penetra tutto quello che fai,
quello che dici, o che pensi. Penetra anche il sorriso.
Ma è poi vero che ho provato delusione e disincanto?
O forse questo è il corso consueto delle cose
che la storia di due esseri umani determina?
Così almeno cerca di spiegarmelo Stefano
da quando gli ho confessato
il primo rancore che si era raggrumato in me.
Stefano mi ascoltava ma senza preoccuparsi molto
di quello che dicevo.
Così il mio rancore è aumentato ancora.
Non mi ama più — ho dovuto riconoscere —
se non si accorge più della mia tristezza.
Non riuscivo a darmi pace
e non sapevo come impedire
la crepa:
(all'inizio i suoi margini si sono fermati
ma da un momento all'altro potevano disgiungersi ancora
di più —
in ogni caso sentivo
che ormai non si sarebbero più riaccostati.)
Come se Stefano non esistesse più in me.
O forse neanch'io ero più dentro di lui?
O forse avevo soltanto la sensazione
di esistere solo in me stessa?
Come mi sentivo estranea
a me stessa!
Quasi mi fossi disabituata alle pareti del mio intimo —
era così pieno di Stefano
che senza di lui sembrava vuoto.
Ma non è forse una cosa terribile
condannare così le pareti del tuo intimo
a dare alloggio a un unico abitante
che potrà sfrattarti
e comunque cacciarti via da questo posto?

Fuori, tutto scorreva come prima.
Stefano si comportava in apparenza allo stesso modo,
ma non sapeva rimarginare la ferita
che si era aperta nella mia anima.
Non la sentiva. E non gli faceva male.
Forse non voleva avvertirla. Si chiuderà da sola?
Ma se si chiuderà da sé
finirà per dividerci, in ogni caso, per sempre.

Intanto Stefano era convinto
che non doveva contribuire alla guarigione.
Mi ha lasciato con la ferita nascosta
pensando forse: “Le passerà”.
Oltretutto era convinto dei suoi diritti,

ma io desideravo che li conquistasse ogni volta da capo.
Non volevo sentirmi un oggetto
che una volta posseduto non lo si perde più.
C'era in tutto questo dell'egoismo?
— Sicuramente facevo troppo poco
per giustificare Stefano davanti a me.
L'amore deve essere forse un compromesso?
O non deve invece nascere da una lotta
continua per l'amore dell'altro?

Lottavo per l'amore di Stefano,
pronta in ogni momento a ritirarmi
se lui non avesse capito il senso
di tutta questa lotta.

Ma riuscirò alla fine a perdonargli?
Oppure la crepa si calcificherà?
Come faticoso questo spartiacque
tra egoismo e non-egoismo.

Sono stata madre. Nella stanza accanto
ogni sera si coricavano i nostri figli.
Marco, il più grande, Monica e Gianni.
Nella stanza accanto c'era il silenzio —
non si è ancora insinuata nelle loro anime
l'incrinatura del nostro amore

che mi doleva così acutamente».

Anna sarà tentata allora di trovare un altro uomo e di mettere così a tacere il suo dolore. Così racconta:

«Il primo che sfiorai passando non voltò nemmeno la testa. Camminava immerso nelle sue riflessioni. Pensava forse alle sue faccende. Poteva essere direttore di una ditta, o primo contabile di una grande impresa. Senza voltarsi disse soltanto: — Scusi —

... Scusi ...

Non cercai di fermarlo, ma ero decisa ad attirare la sua attenzione. Non capisco come sia successo ma ora volevo attirare l'attenzione di ogni uomo. Forse questo era solo un semplice riflesso della mia nostalgia, ma ero giunta alla certezza che nessuno può negarmi questo diritto ».

Anna prosegue raccontando dei suoi tentativi di distrarsi, finché è Adamo a darle la forza di tornare a guardare la verità:

«Il secondo passante incontrato ha reagito in modo diverso. Quando l'ho guardato in faccia ha colto il mio sguardo e si è fermato. Lo ha ricambiato, ha fatto due passi e ha detto: — Forse l'ho già vista, signora ... —

... Forse l'ho già vista, signora...

Ero quasi decisa a prenderlo sotto braccio. La serata era proprio calda e attraverso il fogliame color ruggine dell'ottobre filtravano tante luci. La sera, del resto, non si nota la ruggine. Forte in me era il desiderio di appoggiarmi al braccio di un uomo, e di fare con lui una passeggiata nel viale dei castagni appassiti. Lui disse ancora: — Entriamo qui, in questo locale. Due note di musica ci faranno bene ... —

... Entriamo qui in questo locale, due note di musica ci faranno bene...

E dopo? — Lui non rispose e io come se mi fossi spaventata di questo dopo. Doveva avere una moglie, della quale adesso non parlava. Di colpo capii cosa può significare l'espressione "Una donna incontrata così ...". E qualche cosa mi ha imposto di non aggrapparmi al suo braccio. Non era del resto troppo invadente. E allora ho capito ancora meglio cosa vuol dire l'espressione "Una donna incontrata così".

Non so quanti passi ho fatto e in quale direzione. Credo di aver camminato dal viale che circonda la nostra vecchia città verso questa chiesa, dove nelle nicchie stanno delle figure di santi. Ricordo che nella nicchia posteriore c'è un crocifisso, davanti al quale è sempre accesa una lampada, anche di notte. Mi sembrava di intravedere già la sua luce attraverso il vetro colorato.
Camminavo però pensando sempre alla solita cosa, come andare incontro a qualsiasi uomo. Uno passò così in fretta e così vicino con la sua borsa, da spostare l'ombrello che portavo sotto il braccio destro. Un altro si levò il cappello guardandomi con insistenza, poi svelto lo rimise in testa, l'ho udito mormorare qualcosa tipo: — No, non la conosco — e ha proseguito.

... No... non la conosco ...

Ora è il margine del marciapiede. Il ciglio. Cammino proprio sul ciglio come facevo quando ero piccola. Sapevo allora percorrere la lunga fila di pietre senza mai cadere, mai scivolare sul selciato. Questo era il nostro gioco preferito quando con le mie amichette ci rimbeccavamo più volte: «Io ho percorso la strada fino in fondo, e solo una volta sono scivolata», «E io nemmeno una volta, vedi chi è la più brava ...».
Adesso cammino di nuovo sul ciglio, non corro. I miei occhi per la verità sono asciutti ma brillano, lo so. Ecco una macchina, è molto elegante. Il finestrino leggermente abbassato. Un uomo al volante. Mi sono fermata.

(Adamo)

L'amore non è un'avventura. Prende sapore da un uomo intero. Ha il suo peso specifico. È il peso di tutto il tuo destino. Non può durare un solo momento. L'eternità dell'uomo passa attraverso l'amore. Ecco perché si ritrova nella dimensione di Dio — solo lui è Eternità. L'uomo si tuffa nel tempo. Dimenticare, dimenticare. Esistere solo un attimo, solo adesso — e recidersi dall'eternità. Prendere tutto in un momento e tutto subito perdere. Ah, maledizione dell'attimo che arriva dopo e di tutti gli attimi che lo seguono, nei quali cercherai sempre la strada per ritornare a quello già trascorso, per averlo di nuovo e, attraverso quell'attimo, tutto.

(Anna)

Mi fermai e fissai il modello della macchina, il finestrino, l'uomo. Mi ricordo di quando Stefano diceva: «Amore, un giorno comprerò la macchina, viaggeremo belli e distinti per paesi sconosciuti». L'uomo mi guardò. Mi avvicinai. Lui abbassò il finestrino. La sua voce era calda e profonda quando disse: — Signora, vuole accomodarsi? —

Signora, vuole accomodarsi? ...

Mi indicò il posto accanto a sé. Subito dopo avrebbe acceso il motore. Saremmo partiti. Avremmo fatto un viaggio in paesi sconosciuti. Mani maschili posate sul volante. Ci si può appoggiare leggermente a questo braccio che fa srotolare il nastro dell'asfalto. Dopo — le luci dall'alto ... Sarò di nuovo qualcuno. Lui ripete ancora una volta queste parole.

... Signora, vuole accomodarsi? ...

(Anna)

Sì, lo desidero, lo desidero tanto.

Infatti ho messo già la mano sulla maniglia. Bisognava solo spingere. All'improvviso ho sentito la palma di un uomo sulla mia. Ho alzato lo sguardo. Accanto a me c'era di nuovo Adamo. Vedevo la sua faccia. Era stanca: tradiva commozione. Adamo mi guardava diritto negli occhi. Non diceva niente. Teneva solamente la mano sulla mia. A un tratto disse: — No.

(Adamo)
No».

Nel dramma Anna, sembra pian piano prendere coscienza che era sbagliato far ricadere ogni colpa sul suo sposo Stefano:

«Tu credi che io sia giunta a rassegnarmi?
Il senso della sproporzione non è sparito in me del tutto.
Non potevo, non posso accostare queste due facce,
non possono per me diventare una.

Si è prosciugato in me l'antico amore di fanciulla per
quest'uomo,
come una fonte che non può sgorgare due volte dalla terra.
Cercavo però di capire, di credere in lui, in un ordine,
in un'armonia delle cose, anche in quelle della mia vita
.
Poi — non lo disprezzavo più, non portavo più rancore,
questo terribile rancore per una vita distrutta proprio
da lui.

Ho cominciato a cercare la colpa anche in me. C'era.
Non troncavo più i discorsi. Ho smesso di tacere per
umiliarlo.
Non so se lui sia cambiato. Ma è diventato meno
invadente
.
Anche per lui, penso, la mia presenza è diventata più
sopportabile.
Non ci allontaniamo più uno dall'altro con la velocità
crescente
di prima. Adesso sembra che tutto si sia fermato.
Viviamo l'uno per l'altro? Non credo. Più per i ragazzi.

Monica è la più difficile. In lei abbiamo distrutto di più .
Adesso se ne va. Credo che sia troppo presto
— e porterà con sé la convinzione della colpa dei suoi genitori
(ma qui ci fa torto, forse).

Che lo Sposo dovesse avere la faccia di Stefano — adesso
lo capisco.
Ma sono rimasta una di quelle vergini stolte, alle quali è
mancato l'olio,
la mia lampada arde appena e per farlo
sfrutta ogni minima fibra della mia anima».

Soprattutto prende coscienza di come le scelte sue e di suo marito incidano su quelle dei figli e di Monica in particolare e questa scoperta le cambia lo sguardo. Nel suo tentativo di capire cosa sia successo, Anna ha un incontro memorabile con l'orefice, al quale vorrebbe restituire la sua fede nuziale, che ritiene ormai insignificante:

«Spesso passavo di qui.
Facevo questa strada tornando dal lavoro
(la mattina invece prendevo una scorciatoia).
Prima però non badavo
a questa bottega.
Ma da quando
il nostro amore si è spezzato
più di una volta mi sono fermata a guardare
le fedi d'oro
— i simboli dell'amore umano e della fedeltà coniugale.
Ricordavo come, tempo prima, questo simbolo mi parlava
quando l'amore era innegabile,
quando era un inno cantato
con tutte le corde del cuore.
Poi le corde a poco a poco ammutolivano
e nessuno sapeva più accordarle.
Io credevo che il colpevole fosse Stefano —
non riuscivo a trovare colpa dentro di me.
La vita si trasformava sempre di più
nella pesante coesistenza di due
che occupavano sempre meno posto uno nell'altro.
Ora rimane solo l'insieme dei doveri,
un insieme convenzionale e mutevole,
sempre più spoglio
del puro sapore dell'entusiasmo.
E così poco ci unisce, così poco.

Allora mi vennero in mente le fedi
che ancora portiamo al dito
io e lui.
Così una volta, tornando dal lavoro,
e passando vicino all'orefice,
mi sono detta — si potrebbe vendere,
perché no, la mia fede
(Stefano non se ne accorgerebbe,
non esistevo quasi più per lui.
Forse mi tradiva — non so,
perché anch'io non mi occupavo più della sua vita.
Mi era diventato indifferente.
Forse, dopo il lavoro, andava a giocare a carte,
dalle bevute tornava molto tardi,
senza una parola, e se ne gettava là una
rispondevo col silenzio).

Quella volta allora decisi di entrare.
L'orefice guardò la vera,
la soppesò a lungo sul palmo
e mi fissò negli occhi. E poi
decifrò la data
scritta dentro la fede.
Mi guardò nuovamente negli occhi e la pose sulla bilancia...
poi disse: “Questa fede non ha peso,
la lancetta sta sempre sullo zero
e non posso ricavarne nemmeno
un milligrammo d'oro.
Suo marito deve essere vivo — in tal caso
nessuna delle due fedi ha peso da sola
— pesano solo tutte due insieme.
La mia bilancia d'orefice
ha questa particolarità
che non pesa il metallo in sé
ma tutto l'essere umano e il suo destino”.

Ripresi con vergogna l'anello
e senza una parola fuggii dal negozio
— penso che lui mi abbia seguito con lo sguardo».

È ancora Adamo a ricordare che l'amore umano ha una misura divina. E che questa misura non è semplicemente uno scomodo obbligo, bensì è sorgente di grazia e fecondità, che sgorga dall'incontro divino con l'amore non amato, che pure si conferma come amore:

«Quella sera vidi Anna di nuovo. Dopo tanti anni l'incontro con lo Sposo era ancora vivo in lei. Anna ha imboccato la strada dell'amore che completa. Bisognava arrivare al completamento donando e ricevendo in proporzioni differenti da prima. La crisi avvenne proprio tanti anni fa, in quel buio. Allora tutto sembrava naufragare. Un nuovo amore poteva nascere solo dall'incontro con lo Sposo. Ciò che Anna sentì all'inizio non fu che sofferenza. Col tempo si è calmata a poco a poco. Ciò che invece si andava formando era inafferrabile e del tutto privo del sapore del vero amore. Forse arriverà il momento in cui tutti e due cominceranno ad assaporare il nuovo ... In ogni caso Anna è già più vicina a questo momento di quanto non sia Stefano.
La causa di tutto questo sta nel passato. Là era lo sbaglio... Voglio dire che la gente si lascia trascinare dall'amore come se fosse un assoluto, anche se mancano le misure dell'assoluto. La gente segue la propria illusione, senza cercare d'innestare questo amore nell'Amore che ha una tale misura. Non hanno neanche il sospetto di questa necessità perché sono accecati non tanto dalla forza del sentimento quanto dalla mancanza d'umiltà. È una mancanza d'umiltà verso quello che dovrebbe essere l'amore nella sua vera essenza. Questo pericolo diminuisce se ne siamo coscienti. In caso contrario — il pericolo è incombente; l'amore cede sotto il peso della realtà quotidiana.
Come mi faceva pena, Anna, quella sera di tanti anni fa. Come mi faceva pena Stefano. Avevano già tre bambini che crescevano (più di tutti ne ha risentito Monica). Mi facevano una pena terribile — molto di più di quanto ho patito per Andrea al momento del nostro commiato al fronte quando lui partì per la sua posizione; disse allora — non tornerò. Non mi rimase altro che portare questa notizia alla vedova e all'orfano. Cercai in tutti i modi di sostituirmi al padre invece del quale non mi è stato concesso di morire.
Certe volte la vita umana sembra essere troppo corta per l'amore. Certe volte invece no — l'amore umano sembra essere troppo corto per una lunga vita. O forse troppo superficiale. In ogni modo l'uomo ha a disposizione una esistenza e un amore — come farne un insieme che abbia senso?

Eppoi questo insieme non può essere mai chiuso in se stesso. Deve essere aperto perché da un lato deve influire sugli altri esseri, dall'altro riflettere sempre l'Essere e l'Amore assoluto. Deve rifletterli almeno in qualche modo.
È questo anche il senso ultimo delle vostre esistenze:
Teresa!
Andrea!
Anna!
Stefano!

e anche delle vostre:
Monica!
Cristoforo!...»

Chiude il dramma prima Teresa che dice:

«Adamo ci ha nominati tutti, uno dopo l'altro. Ha taciuto
il suo nome.
È stato una specie di denominatore comune di noi tutti,
portavoce insieme e giudice.
Silenziosamente ci affidavamo al suo pensiero, alla sua analisi, al suo cuore.
Tutto quello che è stato, che è passato, oppure si è
trasformato lentamente
in un altro insieme.
Era difficile staccare il pensiero e il cuore dai giovani:
Monica e Cristoforo di nuovo rispecchiano in qualche modo
l'Essere e l'Amore assoluto.
In qual modo? Ecco una domanda che rimane sempre aperta
(Lo specchio nel quale una volta vedemmo con Andrea
il nostro prossimo futuro — non c'era più).
Ah, l'orefice ha già chiuso il negozio. E loro se ne sono andati.
Sanno almeno che cosa essi stessi rispecchiano? Non vale
forse la pena di seguirli?
In fin dei conti hanno i propri pensieri...
Torneranno qui, torneranno di sicuro. Se ne sono andati
solo per un attimo, per pensarci su;
perché — creare qualcosa che rispecchi l'Essere e
l'Amore assoluto
è forse la cosa più straordinaria che esista!
Ma si campa senza rendersene conto».

Infine è Stefano a riconoscere una possibilità nuova, proprio a partire dal desiderio di sua figlia Monica di voler bene a Cristoforo. Come padre, era rimasto aperto allo stupore del desiderio di amore che vedeva nei figli. Sono essi adesso ad insegnargli qualcosa sull'amore ed egli diviene capace di assumersi nuovamente la propria responsabilità – è evidente come nel dramma del giovane Wojtyła giochi l'incrocio delle relazioni d'amore marito-moglie e genitori-figli in un intreccio vitale nel quale mai una delle due prospettive dimentica l'altra:

«Neanche io capivo che cosa stesse dicendo Adamo, e anche Teresa, la madre di Cristoforo. Ancora prima, Anna, aveva quasi confessato ad Adamo gli ultimi anni della sua vita. Quando finì di parlare dello Sposo che doveva avere il mio volto, portò subito il discorso su Monica. Questo l'ho capito meglio: Monica vuole lasciarci a qualsiasi costo. Ma perché, perché? Francamente non capisco che cosa vuol dire rispecchiare l'Essere e l'Amore assoluto — ma se Monica vuole tanto lasciarci allora so con tutta certezza che lo vuole perché noi, io e Anna, lo rispecchiamo così male. Questo l'ho capito chiaramente. È questo che mi ha addolorato di più.

In quel momento — per la prima volta in tanti anni — ho sentito il bisogno di dire qualcosa in cui si aprisse tutta la mia anima. Volevo dirlo proprio a Anna (questa sarebbe stata forse una prova di autoaccusa, o meglio — una prova della spartizione della colpa tra noi due —).

Tuttavia mi sono avvicinato a lei, le ho posato una mano sul braccio (da tempo, da molto tempo non lo facevo più) e le ho detto queste parole:
che peccato, che peccato che da tanti anni non ci siamo
sentiti più come due ragazzi,
Anna, Anna quante cose abbiamo perduto per questo!».

Note

[1] La Bottega dell'orefice fu pubblicata nel 1960 sul numero 78 della rivista mensile «Znak».