Bauman. Ecco perché la vita è una partita quotidiana con la morte. Un’intervista a Z. Bauman di Riccardo Staglianò

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 03 /07 /2012 - 11:36 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Il venerdì di Repubblica del 15/6/2012 un'intervista a Zygmunt Bauman di Riccardo Staglianò. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Di Bauman, vedi su questo stesso sito anche:

Su Janina Bauman, vedi Inverno nel mattino.

Il Centro culturale Gli scritti (3/6/2012)

LEEDS (Inghilterra).

Non è tanto la morte in sé a interessargli. «Solo pochi brutti momenti alla fine della vita» la liquidava Montaigne. Ma come quei titoli di coda possano tenere in ostaggio tutto il film, determinarne la trama. «Ogni evento, tranne la morte, ha una promessa scritta in inchiostro indelebile, che per quanto stampata piccola assicura: la storia continua» spiega Zygmunt Bauman, uno dei più importanti sociologi viventi, che emerge dal fumo della sua pipa appollaiato su una poltroncina di pelle verde bottiglia più o meno sua coetanea.

Lo studio dà su un giardino in fiore ed è appartenuto all’amatissima moglie Janina che sopravvive – tra i tanti altri modi – anche nell’indirizzo di posta elettronica che il professore usa per comunicare con il mondo. Sue erano le piante che il teorico della modernità  liquida amorevolmente innaffia. I poster di vecchi spettacoli teatrali. Le foto insieme. Il pensiero della sua scomparsa, nel dicembre del 2009, è l’unica kryptonite per questa superpotenza intellettuale che, a 87 anni, passa ancora cento giorni all’anno in giro per conferenze («Mi manca il confronto con gli studenti»). La macchina inesorabile del suo cervello analitico si grippa solo a nominarla. Per poi riprendersi subito, cambiando discorso: tipo insistere paternamente con l’ospite ché finisca i lamponi che ha preparato e i croissant fatti arrivare dalla pasticceria all’angolo.

Conosce il lutto, ma ciò che gli sta a cuore è la dimensione sociologica della «più finale fine di tutte, se così si può dire». Se ne è occupato in vari libri, ha accettato di girare un documentario sul tema e di parlarne con noi. Perché non è affatto una riflessione triste. Anzi.

«È la consapevolezza della fine che infonde ogni momento che la precede di un meraviglioso significato. Non tanto perché ci dà il significato ultimo della vita, quanto perché ci incita e ci costringe a riempire le nostre vite con significati. È quella consapevolezza che ci spinge a cercare nuovi inizi. La coscienza di vivere in un tempo preso a prestito che ci suggerisce di usarne ogni boccone in maniera saggia. Insomma, la vita è piena delle cose – non una di più, né una di meno – che la morte è riuscita a piantarci dentro».

Più che temerla, quindi, dovremmo esserle riconoscenti. Cicerone diceva: «Filosofare è imparare a morire». Lei è d’accordo?

«Io direi, al contrario, che a causa della presenza costante dell’idea della morte nella nostra vita, impariamo a riflettere sul suo significato. Schopehauer ci ha insegnato che senza morte non ci sarebbe filosofia. Io dico che non ci sarebbe neanche la cultura, quella trasgressione tipicamente umana alla natura, ovvero il sedimento del tentativo senza sosta di rendere la vita vivibile nonostante la consapevolezza della mortalità. È proprio la caratteristica non negoziabile della brevità del tempo a nostra disposizione, della probabilità di lasciare progetti incompiuti e cose ancora da fare, che spinge gli umani all’azione e fa volare l’immaginazione. Detto altrimenti, la cultura, che ci fornisce infiniti spunti per pensare ad altro, è il tentativo di gettare un ponte tra le due sponde, vita mortale e immortalità, e ci spinge a lasciare una traccia della nostra seppure breve visita».

La storia del pensiero si è incaricata di testare varie soluzioni per la «madre di tutte le paure», come lei ha definito la morte. Qualcuna ha funzionato meglio di altre?

«La soluzione cristiana mi sembra la più efficace. Presuppone l’immortalità dell’anima e poi presenta due opzioni, l’immortalità buona e quella cattiva, il paradiso e l’inferno. Non denigra la vita terrena, anzi, dà una tremenda importanza al breve periodo in cui guadagnarci l’accesso a una delle due strade. Così facendo, ha fornito una fortunata risposta a tante domande, da quella sulla mancanza di senso della vita che ossessionava Pascal a quella circa la sua irredimibile assurdità di cui parla Camus. Se credi, insomma, il significato lo cogli».

E le soluzioni laiche, invece?

«Le definirei successi parziali. La loro differenza essenziale è che non prevedono che tutti siano benedetti o condannati a un qualche tipo di immortalità. Ci sono fondamentalmente due sistemi per conquistarsela. Io uso la metafora dei mezzi di trasporto privati e pubblici. Nel primo caso sei tu, individualmente, al volante dell’auto che ti ci porterà, facendo ricordare il tuo nome grazie all’apprezzamento dei tuoi contemporanei. Succedeva ai re, ai generali, ai grandi inventori. Poi ai pittori e agli scrittori. Ora capita anche alle celebrità, compresi i calciatori, le modelle, i serial killer. Nel secondo caso, invece, la gratitudine dei contemporanei è collettiva, nei confronti di chi appartiene a un gruppo di persone che si sono distinte per una causa importante, tipo difendere un Paese o liberarlo. I memoriali ai militi ignoti ne sono un esempio».

Lei ha scritto anche di un’altra strategia culturale, la «decostruzione della mortalità». Di che cosa si tratta?

«È un approccio sperimentato soprattutto nella fase che chiamo modernità  solida. Per rendere l’idea della morte meno terribile, si è provato a scomporla in tante parti. Una volta derubricata alla somma di mille sotto-cause diverse – cancro, cattiva alimentazione, fumo e altri comportamenti nocivi – ci si può anche, ingenuamente, illudere che neutralizzando la prima, la seconda e così via, l’esito finale si possa allontanare ad infinitum. Il sottotesto è: morire non è una condizione inevitabile, ma si viene uccisi da errori che noi o la scienza non siamo ancora riusciti a risolvere».

Questa decostruzione prevede anche una maggiore familiarizzazione con il concetto della fine?

«Sì. Sebbene quella del nostro rapporto con la morte sia la storia di un incontro mancato – con Epicuro: se c’è lei, non ci siamo noi –, abbiamo sempre più occasioni per farne esperienze surrogate. Ce ne sono di personali, ma distanti, come quando Derrida avverte: “Quando muore una persona, con lei scompare anche tutto un mondo”. Distanti e impersonali, sull’esempio del terremoto che ingoia migliaia di vite che finiscono per diventare giusto materia prima per statistiche. E infine ci sono le morti vicine e personali, se a lasciarci è il nostro partner, un familiare o un amico. Ecco, la morte è per definizione la negazione assoluta dell’esperienza, non si può toccare né immaginare. Ma questo terzo caso è l’unico che ci conduce nelle sue vicinanze. E farne la conoscenza, un certo numero di volte, è come una prova generale di quel che significherà».

Più tipica della postmodernità sarebbe invece la «decostruzione dell’immortalità». Ci spiega cosa significa?

«Invece di pensare che in futuro sia possibile sconfiggere le cause discrete di cui la morte è effetto, nella modernità liquida preferiamo accettare che il futuro – come dice la pubblicità – sia adesso. E quindi va riempito di soddisfazioni che prima tendevamo a posticipare. Costi quel che costi: per noi stessi, per il Pianeta, per il debito che lasceremo in eredità ai nostri figli. Lo slogan è: immortalità subito. Attraverso esperienze che ce ne facciano pregustare l’ebbrezza. Tipo una vacanza alla Seychelles. Vestiti (a rate) e case (con mutui subprime) che non potremmo permetterci. Droghe mai provate prima».

La via commerciale alla trascendenza, per così dire. Montaigne, che pure aveva fatto della morte il punto focale della sua riflessione, amava citare Seneca quando raccomandava di concentrarsi sul presente e dedicargli una totale attenzione. È così facile?

«Montaigne è un pensatore che mi è molto caro. Erede di una lunga tradizione stoica, proponeva soluzioni non applicabili a tutti. No, non è per niente facile. A me piace la riflessione filosofica, ho sempre trovato consolazione nelle letture, ma da sociologo mi rendo conto che è una cura buona solo per ristrette minoranze».

Ai non «eletti», invece, che cosa consiglia per sopportare il pensiero quotidiano che i nostri giorni hanno una scadenza incerta sul quando, ma non sul se?

«Il mio mestiere non è dare ricette. Io osservo come gli uomini convivano con questo peso, e come da secoli non se ne lascino schiacciare. E qui torna in gioco la cultura che fornisce infiniti modi per tenerci occupati, in maniere tali che non ci resti neppure il tempo da dedicare a quest’idea. Oltremodo offensiva perché è l’unico problema per cui non esiste soluzione. Da questo punto di vista, la modernità  liquida ci viene in soccorso. Prima la nostra identità, il lavoro, la famiglia erano scelti una volta per sempre. Una volta stabiliti ci si poteva dedicare alla speculazione, cose ultime incluse. Oggi invece la ricerca di identità è un processo senza fine. Ci si reinventa di continuo, sia professionalmente che sentimentalmente. E ciò ha sia il vantaggio di non lasciarci troppo tempo per la riflessione escatologica, sia quello di averci fatto provare un gran numero di morti e rinascite simboliche che contribuiscono a un’ulteriore familiarizzazione con la fine».

Lei ha avuto una lunga vita, ricchissima di soddisfazioni e di affetti. Quale molla la spinge a mettersi ancora alla scrivania ogni mattina?

«Non ho trucchi particolari, né ho cambiato atteggiamento con l’età. Sono troppo occupato per starci troppo a pensare. Un momento drammatico, per me, sarebbe svegliarmi e non avere niente da fare. Contemplare un deserto lungo ventiquattr'ore. Invece, giorno dopo giorno, apro gli occhi alle 4 o alle 5 con la consapevolezza di tanti obblighi inadempiuti, risposte da dare, problemi nuovi da investigare».

Ma il futuro per lei, oggi, cosa significa? Le sue figlie? I nipoti? Il prossimo libro?

«Il futuro, come ha spiegato il mio amico logico Robert Kowalski, per definizione non esiste: quando lo incontriamo è già presente. Siamo noi a crearlo, sottovalutando però la più imprevedibile delle variabili, ovvero l’essere umano. Il nostro Il futuro in realtà non esiste. Quando lo incontriamo è già diventato presente. Siamo noi a crearlo, sottovalutando però la più imprevedibile delle variabili, ovvero l’essere umano. Il nostro campo da gioco comprende due sottoinsiemi. Da una parte c’è il fato, una serie di condizioni date su cui niente possiamo, come la circostanza che sia nato a Poznán e che un certo giorno, a una tal ora, abbia incontrato mia moglie. Ma, dall’altra, è pur sempre il carattere che ci fa prendere delle decisioni all’interno di queste condizioni. Siamo condannati a scegliere. Anche ad Auschwitz, sebbene con un margine assai angusto, si poteva farlo. Per questo sono molto cauto su tutto ciò che riguarda una proiezione in avanti nel tempo. Ciò detto, le mie figlie sono certo importanti, ma quel che potevo fare, volente o nolente, per influenzare le loro vite l’ho già fatto. Per il resto, il mio futuro si è certamente ristretto. Prima pianificavo in termini di anni, oggi penso a rispondere alle sue domande stamattina, fare un’intervista con una tv coreana nel pomeriggio e sapere che questo mese starò a casa una decina di giorni prefissati. Ogni piano su tempi più lunghi sarebbe sciocco».

Dal momento che l’ha citata, e che questa stanza è tappezzata di suoi ricordi, due anni e mezzo fa lei ha perso sua moglie. Abbandonando per un attimo la teoria, come si sopravvive a un evento del genere?

(L’inarrestabile eloquio del professore si arresta. Chiude gli occhi. Riaccende la pipa). «È un’esperienza molto privata, non voglio condividerla. So bene che viviamo in una società confessionale, ma io non mi ci trovo bene. Posso solo dire che lei è ancora con me. Le sue ceneri sono al piano di sopra, nel mio studio. La sua immagine è la prima che vedo quando accendo il computer all’alba. Riesco, in qualche modo, a vivere ancora con lei. Conversiamo, e non perché sia pazzo, ma perché è il modo in cui abbiamo vissuto insieme per sessantadue anni e probabilmente non finirà mai. Mi spiace, ma è tutto quel che posso dire».

Nell’Arte della vita scrive che noi umani «dobbiamo scegliere obiettivi che siano (almeno nel momento in cui li scegliamo) ben oltre la nostra portata. Dobbiamo tentare l’impossibile». Mi viene in mente l’ormai celebre discorso di Steve Jobs agli studenti di Stanford in cui li invitava a non accontentarsi mai. È una spinta trascendente rispetto alla mortalità o il viatico per un’insoddisfazione perenne?

«Non so tracciare un confine netto. Ho molti lettori giovani, e ciò mi fa gran piacere. Ma non tutti possono essere Jobs o Zuckerberg. Non riuscirei a ricavarne una teoria scientifica, però ritengo che ogni essere umano abbia un mondo fatto specificamente per lui, che calza a pennello con il suo carattere e le sue aspettative. Il problema più grande è che la maggior parte di noi lo cerca nei posti sbagliati. Da qui la tragedia dell’infelicità. Condivido molto quello che disse una volta Wolfgang Goethe: “Ho vissuto una vita molto felice ma non ricordo una singola settimana che lo sia stata”. C’è un grande malinteso sul fatto che sia una condizione costante. Si tratta invece di liberarsi, volta per volta, di nuove infelicità».

Superare in continuazione ostacoli, insomma. Il filosofo Martin Heidegger sostiene che ci accorgiamo delle cose soltanto quando qualcosa in loro non va. È così anche per la vita e c’è un modo per ovviare a questa pericolosa disattenzione?

«Non deve sorprendere. La familiarità finisce per diventare invisibilità. Se le cose stanno sempre al loro posto, non te ne accorgi. Se il rasoio con cui ti fai la barba è dove deve essere, non ci pensi. Lo stesso accade col martello. So dove trovarlo e non mi è mai venuto in mente di interrogarmi sulla martellità, per così dire. Tranne quando si rompe. Solo allora capisco che deve essere di certe dimensioni e di un certo peso per funzionare a dovere. Finiamo per non notare le cose routinariamente obbedienti alle nostre abitudini. È l’elemento che, tra l’altro, distrugge un certo numero di coppie. Smettono di sorprendersi, non si vedono più. Per questo una piccola crisi ogni tanto può salvare da questo ben più letale destino di oblio».

Meglio qualche scossa per evitare di addormentarsi alla guida e andarsi a schiantare. Ma nella vita di tutti i giorni che cosa può salvarci? A quale molla dobbiamo fare appello per mettere, ogni santo giorno, un piede giù dal letto?

«Non c’è bisogno di sforzarsi troppo. Viviamo nel culto delle novità, con cui la modernità liquida ci sorprende quotidianamente. Siamo attaccati ai nostri oggetti, ma ciò non ci impedisce di buttarli nel cestino non appena un nuovo modello esce. È un sistema piuttosto intelligente per espungere l’idea della mortalità dalla nostra agenda quotidiana: ci sono così tanti eventi che non resta posto per altro. Ma l’effetto collaterale, ed è un problema che sento molto, è che oltre alla morte stiamo smettendo di pensare anche a tutti i valori di lungo termine, dal Pianeta alle generazioni future. E questo è un alto prezzo che paghiamo per liberarci dal giogo della fine».