I vizi capitali: la gola, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 17 /09 /2012 - 12:49 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito il testo della relazione tenuta da Andrea Lonardo il 30/6/2012 nel corso delle Prediche sui vizi capitali tenutesi all’interno del Festival dei Due mondi di Spoleto. Per altri testi, vedi su questo stesso sito la sezione Testi di Andrea Lonardo. Vedi anche Accidia: il demone della notte, di Pierangelo Sequeri, La superbia: un super-io contro Dio, di Rino Fisichella, Lussuria: l'eros senza pienezza, di Gianfranco Ravasi. Sull’accidia, vedi anche L’accidia: il vizio nella vita spirituale e la lotta contro di esso, di Angelo De Donatis.

Il Centro culturale Gli scritti (17/9/2012)

Perché la gola è un vizio se Gesù dichiara puri tutti gli alimenti ed i cristiani mangiano con gioia ogni tipo di carne e bevono ogni tipo di bevanda? All’uomo moderno la gola non sembra neanche un vizio, poiché afferma che mangiare ciò che ci piace è una cosa naturale, abituale, senza accorgersi che questo è esattamente un portato della fede cristiana.

Il cristianesimo, infatti, è la religione che più insegna la bontà di ogni cibo, non vietandone nessuno, poiché tutto è opera di Dio e, quindi, buono. Gesù - dice il Vangelo di Marco (Mc 7,19-20) - «rendeva puri tutti gli alimenti. E diceva: “Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo”». San Paolo gli ha fatto eco anche in questo, rovesciando la sua educazione ebraica e mettendo in guardia Timoteo da coloro che avrebbero imposto «di astenersi da alcuni cibi, che Dio ha creato perché i fedeli, e quanti conoscono la verità, li mangino rendendo grazie. Infatti ogni creazione di Dio è buona e nulla va rifiutato, se lo si prende con animo grato, perché esso viene reso santo dalla parola di Dio e dalla preghiera» (1 Tm 4,3-5), invitandolo anche «a non bere soltanto acqua, ma anche vino, a causa dello stomaco e dei frequenti disturbi» (cfr. 1 Tm 5,23).

Senza il cristianesimo sarebbero impensabili i tortellini, lo speck, il Brunello di Montalcino e il Passito di Pantelleria - anche qui appaiono evidenti le radici dell’Europa! In quel meraviglioso passaggio di Marco 7 Gesù afferma che il male ha origine nel cuore dell’uomo e pertanto l’uomo non è reso impuro da ciò che mangia. Ecco le radici dell’Europa!

L’Europa è stata fatta dai filosofi, dagli scienziati, dai pittori, dai sacerdoti, ma anche dai cuochi e dalle gole. E come nelle altre discipline, così anche nell’arte culinaria il cristianesimo è stato decisivo: non si vieta nessuna bevanda e nessun cibo a priori e per questo la nostra cucina italiana ed europea ha la capacità di utilizzare ogni ingrediente, senza disprezzarne nessuno - e per questo sa poi anche apprezzare con curiosità le cucine di culture diverse, senza doverle alterare. Allora perché la gola è un vizio, se ogni cibo è da Dio? Perché è addirittura un vizio capitale? E qual è la bellezza, la grandezza, ma anche la difficoltà ed il dramma del rapporto con il cibo, al punto che la morale arriva ad occuparsene?

Cosa è un vizio?

Per rispondere è utile fare innanzitutto un passo indietro e domandarsi che cosa è un “vizio”. La fede cristiana, nella sua sapienza, afferma che un vizio non è semplicemente un gesto, ma piuttosto un atteggiamento. Vizio è qualcosa che è divenuto abituale nella nostra vita. Nel latino medioevale si dice che il vizio, così come la virtù, è un habitus. Una singola azione cattiva, pur essendo sbagliata, è pur sempre occasionale. Ma quando un atteggiamento diviene abituale, vuol dire che ha iniziato a strutturare la nostra vita. Sta creando come una “dipendenza” in noi, per usare un termine moderno.

Prendiamo ad esempio il mentire. Si può dire una volta, per un determinato motivo, una bugia ad una persona che amiamo. Certo questo è disdicevole, ma è pur sempre un atto isolato. Ma se la persona si abitua a rifugiarsi sempre nella bugia, se si abitua a sostenere ruoli diversi a seconda delle persone che ha davanti, ecco che la situazione è ben più grave. Spesso capita di sentire una ragazza che afferma di amare il suo ragazzo perché, pur avendo lui tradito in passato altre donne, è certa che non tradirà mai lei. Perché anche se non mantiene mai la parola con i suoi amici e con i suoi colleghi di lavoro, con lei sarà diverso. Quella ragazza non comprende cosa è il “vizio”: per questo si illuderà che il suo ragazzo abbia un cuore modellabile, potendo mantenersi con lei sincero e menzognero con altri.

Lo stesso vale per la virtù. Una cosa è compiere un atto di carità, una cosa è diventare buoni. La virtù, come il vizio, struttura pian piano l’esistenza. Il vizio o la virtù sono qualcosa che camminano, che evolvono con la persona stessa.

Due esempi, uno negativo e l’altro positivo possono ulteriormente chiarificare questo.
Una grande scrittrice morta recentemente, Gitta Sereny, pubblicò uno straordinario testo che si intitola In quelle tenebre[1], nel quale racconta le sessanta ore di intervista che ottenne, in un lungo lasso di tempo, da uno dei grandi assassini nazisti, Franz Stangl, che fu il comandante del campo di sterminio di Treblinka, nel quale furono assassinati più di mezzo milione di ebrei. Stangl racconta che egli giunse a quel passo dopo una lunga serie di cedimenti sempre più gravi, che cominciarono dalla menzogna di negare di essere stato in gioventù un oppositore di Hitler, al ripudio della fede cattolica per entrare nelle SS, fino a gesti via via più atroci. Egli giunse all’abominio, rinnegando progressivamente i dettami della propria coscienza. Ecco la realtà del vizio: si giunge ad un peccato enorme non all’improvviso, bensì con una progressione di peccati che sono meno gravi, meno devastanti.

Può illuminarci anche un’esemplificazione positiva. L’habitus del bene si forma progressivamente, con tante scelte buone, belle, significative. Traggo dalla mia esperienza un fatto. Ricordo un giovane di famiglia benestante, fisicamente molto bello, intelligente e preparato. Raccontava che mai si sarebbe fidanzato con una ragazza che non lo avesse affascinato. Poi, dopo anni di un cammino di fede semplice, avendo scoperto la bellezza del servizio come catechista delle nuove generazioni, disse, come confidandosi: «Anche ora non potrei sposare una ragazza per la quale non provassi un’attrazione forte. Ma se questo aspetto passionale non fosse accompagnato da un suo desiderio di una vita altruista, piena di amicizia, aperta al servizio, so che mi annoierei. Non potrei più sopportare una persona che fosse molto bella fisicamente, ma non condividesse con me una visione della vita». Cosa era avvenuto? Tanti gesti di servizio, di condivisione, di amicizia, avevano plasmato il suo cuore, la sua visione della vita, il suo habitus, al punto da dargli un’idea di matrimonio diversa.

Questo perché non si diventa buoni in un istante, ma la bontà, la generosità, la fede, l’altruismo sono costruite di mille piccoli passi che fanno pian piano maturare. Quando la Chiesa, allora, afferma che la gola è un vizio, non intende semplicemente stigmatizzare un singolo gesto: vuole illuminare piuttosto il rischio che l’uomo entri in un vortice dove la gola diventa il dittatore, il giudice, qualcosa che orienta la vita.

Cosa è un “vizio capitale”?

La Chiesautilizza il termine “vizi capitali” - l’espressione è antica, già presente in San Gregorio Magno, in San Cassiano, fino a San Tommaso d’Aquino - per indicare che alcuni vizi ne portano con sé altri, che alcune scelte di fondo non restano circoscritte, come si potrebbe pensare superficialmente, ma piuttosto pian piano ne coinvolgono altre. Vizi “capitali”, proprio perché sono come un caput, un’origine, che genera via via conseguenze a cascata. Dall’esperienza di infinite storie di santi e di peccatorila Chiesa ha imparato che esistono vizi che sono come padri di altri vizi, di altri peccati.

Anche se il paragone non è preciso, per intravedere l’importanza di tutto questo si può fare riferimento a quanto hanno scoperto le scienze umane, a partire dalla psicoanalisi. Sulla scia di Freud, di Reich e di altri autori, si può ipotizzare che l’arrestare lo sviluppo psichico della persona allo “stadio orale” - a quella fase della crescita del bambino nel quale egli prova piacere nel mettere ogni cosa in bocca, quasi a possederla oralmente - genererà, proprio perché non è semplicemente un’abitudine fisica ma implica una mancata assunzione del principio di realtà, una serie di tratti della persona come l’insaziabilità, l’incapacità di godere e di essere felici, la difficoltà ad essere lieti della vita così come si presenta. E ancora una instabilità che oscillerà tra momenti depressivi e successivi periodi di facile esaltabilità.

L’atteggiamento verso l’assunzione di ciò che è esterno cammina di pari passo con la maturazione del cuore e dell’anima. Così come il rapporto con il cibo non è indipendente dall’accettazione serena dell’esistenza, bensì ne è come uno specchio - si pensi solo all’anoressia ed alla bulimia.

Ma questo rapporto fra un vizio capitale, in particolare la gola, e le sue conseguenze, si manifesta ancor più nell’esperienza quotidiana. Due esempi estremi lo dimostrano: quello del bambino e quello dell’adulto. Quando i bambini hanno di fronte un cibo o una bevanda dei quali hanno voglia, non si arrestano davanti al divieto dei genitori, ma piangono e si disperano per ottenerli, utilizzando il meccanismo del pianto che fa sentire in colpa l’adulto. Il bambino piangendo manifesta il suo dolore e lo ingrandisce a dismisura quasi a mandare il messaggio che se non riceverà ciò che desidera la sua sofferenza sarà impossibile da sopportare e lo condurrà a “morire” di infelicità. Dinanzi a quel pianto a dirotto il genitore che non ha chiaro cosa vuol dire educare penserà di non poter negare la felicità al suo bambino e si lascerà convincere.

Il genitore, invece, che avrà ben chiaro che per rendere in futuro felice il suo bambino è necessario spezzare questo meccanismo di illusione, riesce a sostenere serenamente il “no” che deve dire, tranquillizzando pian piano il bambino. Ma per sostenere quel “no” deve sapere che suo figlio non è infelice per la mancanza di quel cibo che sembra desiderare in maniera così compulsiva. Deve sapere che quel cibo non renderà felice suo figlio: ed, in effetti, se pure glielo porgesse, dopo poco tempo il bambino comincerebbe a piangere con la stessa intensità per un altro bisogno apparente.

Piuttosto il genitore deve pian piano condurre suo figlio a comprendere che non potrà mai essere felice se si preoccuperà di avere tutto e trascurerà di domandarsi cosa ha da donare agli altri: dovrà pian piano mostrare che un bambino che non regala niente ai suoi compagni non potrà mai vivere una giornata piena e felice. Dovrà insomma aiutarlo a regolare l’esigenza di cibo per fargli scoprire che esistono vie di felicità più duratura, come la dimensione spirituale del dono.   

La stessa dinamica in cui il bisogno del momento sembra assorbire ogni ulteriore fame la ritroviamo nell’adulto. In un testo straordinario scritto da Clive Staples Lewis, Le lettere di Berlicche[2] la vita è vista con gli occhi del nemico di Dio cioè del diavolo - nelle Lettere dialogano in realtà due diavoli, uno di rango superiore di nome Berlicche ed uno di rango inferiore di nome Malacoda che viene istruito dal primo su come si debba impedire ad un ateo di avvicinarsi a Dio. Nella prima lettera si racconta di un uomo che improvvisamente cominciò a porsi la domanda sull’esistenza di Dio. Malacoda, nella sua ingenuità, ritiene di dover intervenire suggerendo che Dio in realtà non esiste. Ma Berlicche, molto più esperto, lo rimprovera: «Ricordati che [l’uomo] non è, come te, un puro spirito. Non essendoti mai fatto uomo (Ah! quell’abominevole vantaggio del Nemico!) tu non puoi capire come gli uomini siano schiavi dell’urgenza delle cose ordinarie. [...] Senza perder tempo colpii quella parte che in lui era più di ogni altra sotto il mio controllo, e suggerii che era giunto ormai il tempo di andare a fare un po’ di colazione». Il Nemico è ovviamente Dio, dal punto di vista di Berlicche.

Egli invita Malacoda a non discutere con l’uomo sulla verità, perché discutere di Dio lo porterebbe già più vicino alla fede: meglio distrarlo con l’urgenza immediata della sua fame. Lo conduce, insomma, attraverso la gola, alla dimenticanza della fede.

Una fame ed una sete insaziabili, attesa di infinito

In fondo, la gola ci rivela che siamo così affamati ed assetati che potremmo divorare il mondo intero e non trovare mai serenità. Ogni uomo porta con sé un’insaziabilità che può essere solo il segno o di una condizione maledetta o dell’esser stati fatti per qualcosa di più grande del mondo intero. Lo ricorda un episodio del Vangelo di Giovanni, l’incontro di Gesù con la donna samaritana. Si parla prima di un’acqua che non disseta mai - Gesù fa notare alla donna che sempre dovrà tornare a bere a quel pozzo. Si tocca poi il tema dell’amore - la samaritana ha già avuto cinque mariti e nemmeno il sesto la soddisfa pienamente: perché l’amore non basta mai? Si discute infine del luogo in cui adorare Dio, si discute insomma di teologia - e nemmeno la certezza che Dio si è rivelato a Gerusalemme e non in Samaria disseta pienamente. Solo al termine Gesù rivela alla donna che la sua sete di «un’acqua viva, di una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (cfr. Gv 4) è in realtà ricerca dell’Atteso, del Messia, e che ora Egli è qui. D’altronde Lui stesso non è andato in cerca in città, come i suoi discepoli, di un pane da mangiare perché «il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34).

Il brano della samaritana interroga la nostra gola. Di cosa abbiamo realmente fame? Perché il nostro animo non è mai sazio? Perché il nostro cuore non è mai pienamente dissetato? Di cosa abbiamo sete veramente? Con la gola il nostro corpo avverte di non bastare a se stesso, sente un bisogno di prendere la realtà e di assumerla, di assaggiarla, di toccarla, di gustarla. Ma quando questa fame e questa sete diverranno gioia? Dobbiamo imparare che la nostra fame è il vestito di un esigenza più grande: noi siamo fatti per l’Infinito.

Ecco allora perché Tommaso D’Aquino, nella Summa Teologica, sottolinea il fatto che il vizio della gola porta con sé una serie di vizi affiliati, una serie di atteggiamenti negativi: «abbiamo tra le figlie della gola l’ottusità della mente nell’intendere come l’allegria sciocca, il multiloquio, la scurrilità, l’immondezza [...] Il peccato di gola consiste in un disordine della concupiscenza che distoglie dal fine ultimo!»[3] (art. 2)

Il vizio della gola lascia credere all’uomo che gli basterebbe saziare lo stomaco, per stare in pace. Così tra le figlie della gola abbiamo l’ottusità della mente nell’intendere. Un’ottusità da prendere in senso reale, perché quando una persona è sazia di cibo non ha più la prontezza di intendere, ma molto più da leggere in profondità: saziare il bisogno immediato rende l’uomo meno agile a capire che cosa la mente cerca davvero, a cosa il cuore realmente anela.

Per questo parlare del vizio della gola non vuol dire demonizzare l’uomo che mangia, ma anzi aiutarlo a capire che egli è in cerca di una gioia più grande. E nell’esperienza del cercare di ingurgitare la realtà non ci si deve limitare al cibo: possiamo riempire anche il nostro armadio di vestiti, la nostra libreria di libri, la nostra casa di persone, il nostro profilo facebook di contatti... E se la via della vita fosse invece quella della ricerca della verità e del dono di noi stessi?

La fame di Adamo ed Eva: mangiare rendendo grazie al Creatore

Come, però, non disprezzare il cibo, pur sapendo che non è esso ad essere l’ultima radice  della gioia? Per rispondere vale la pena tornare alla rivelazione di Dio ad Israele. In Genesi l’uomo appare fin dall’inizio come una creatura alla quale Dio comanda di mangiare. Ma Adamo è allo stesso tempo l’unico essere che ha la possibilità di prendere cibo rendendo grazie. Egli non solo è tratto dalla terra una volta per tutte - Genesi gioca con il termine adam, che si potrebbe tradurre con “terrestre”, “terroso”, “polveroso” perché tratto min adamah, cioè “dalla terra”, “dalla polvere” - ma deve ogni giorno prendere dei frutti della terra e mangiarne.

Egli non ha la vita una volta per tutte, bensì la riceve sempre di nuovo in dono dallo stesso Creatore che tutto ha fatto perché l’uomo potesse servirsene. La bellezza di ogni pasto è quella di ripresentare continuamente il “mistero” dell’uomo e della sua esistenza di creatura sempre ricreata. Il «pane quotidiano» non si può così assumere una volta per tutte, ma come la manna deve scendere nuovamente ogni giorno.

Il cibo è allora non “cosa”, ma “dono”. Non semplice oggetto di cui appropriarsi, bensì esperienza di vita ricevuta. Il vizio della gola ha la sua radice proprio nella dimenticanza del “miracolo” del cibo e della vita che ne deriva. Il filosofo danese Soeren Kierkegaard ha scritto nel suo Diario: «La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani». È una descrizione impietosa della condizione dell’uomo che non si dirige più da nessuna parte, che ha smarrito la propria origine e semplicemente sopravvive mangiando.

In due modi complementari Genesi 1 e 2 ricordano la peculiarità dell’uomo. Nel I capitolo l’uomo è creato nel sesto giorno, alla fine di tutte le opere, nel II capitolo all’inizio di tutto, prima di ogni altra creatura. In questi due modi la Bibbiadice l’assoluta bellezza dell’uomo: in Genesi 1 egli giunge per ultimo come l’essere più “buono”, in Genesi 2 l’uomo è fatto per primo come colui in vista del quale tutto verrà all’esistenza - ben prima di Galilei la Bibbia ha sempre saputo che i sei giorni della creazione non debbono essere presi alla lettera! In maniera altrettanto complementare il I capitolo dice che solo l’uomo è creato «ad immagine e somiglianza di Dio», mentre il II ricorda che Dio «soffiò un alito di vita» solo nell’uomo.

Proprio nel modo di prendere cibo appaiono il primato dell’uomo e la sua natura insieme spirituale e materiale, poiché egli è indissolubilmente corpo e anima. Nessun animale prega prima di mangiare. Alle bestie non è dato né di bestemmiare, né di ringraziare. Esse semplicemente vivono, divorandosi a vicenda. L’uomo può riferire a Dio anche il cibo o rifiutarsi di farlo, riconoscendo il dono ed il “sacrificio” della creazione che gli viene offerta.

La tradizione ebraica ha fatto della benedizione il cuore della sua relazione con Dio e della sua testimonianza nel mondo. Dice una magnifica benedizione che si recita al mattino: «Benedetto Tu o Signore Dio nostro Re del Mondo, che hai creato l’uomo con sapienza, e vi hai creato fori e canali. È chiaro e noto davanti al Tuo trono che se uno di questi si chiudesse o si aprisse nessuna creatura potrebbe resistere neppure per poco tempo. Benedetto Tu o Signore, medico di ogni creatura e meraviglioso artefice». Questa preghiera esprime la gratitudine per il buon funzionamento del corpo umano, riconoscendone insieme la precarietà che sempre necessita della forza divina.

E nell’esperienza cristiana il rendimento di grazie ebraico prosegue. Di contro alle varie correnti ecologiste o vegetariane, si può affermare che tutti i santi hanno mangiato con gusto, cibandosi anche di carne: come San Francesco, capace del miracolo di farsi ascoltare dagli uccelli, segno che ogni creatura doveva sottomettersi al Vangelo, ma capace anche di mangiare carne ben cucinata!

Il disadattamento dell’uomo, segno del desiderio di Dio

In un recente incontro del Cortile dei Gentili il filosofo francese Fabrice Hadjadj ricordava quanto fosse banale considerare l’uomo semplicemente come la più evoluta delle creature, perché la più adattabile: «Alcuni dicono che l’affermazione dell’uomo, nel corso dell’evoluzione, sarebbe dovuta alla sua maggiore capacità di adattarsi al mondo. Eppure l’uomo sembra, al tempo stesso, un grande disadattato: invece di vivere pacificamente secondo l’istinto, cerca un senso, decifra il mondo come se fosse una foresta di simboli, desidera un al di là, un al di là non necessariamente come un altro mondo, ma come un modo di penetrare nel segreto di questo mondo, di intenderlo nel suo mistero, di bere alla sua fonte». E continuava affermando: «Noi possiamo riprendere qui un verbo inventato da Dante, e dire che l’uomo è fatto per “trasumanarsi”». 

All’uomo non basta il cibo del mondo intero: egli deve comprendere perché vale la pena mangiare e cosa fare della vita che si riceve ad ogni pasto. Il Nemico vorrebbe invece tutto ridurre a fame terrena, perché Dio e l’amore siano dimenticati. Vorrebbe che il cibo fosse solo “cosa”, e non “segno”. Nelle tentazioni, Gesù risponde al diavolo: «Non di solo pane vivrà l’uomo». Certo l’uomo vivrà anche di pane, ma non sarà esso a bastargli. Gesù insegna così a privarsi del cibo, proprio per lasciar emergere quella “fame” che abita nel profondo del cuore.

Appare subito evidente che il rischio di ridurre tutto a gola non appare solo nella vita individuale: quanto le grandi ideologie del XX secolo hanno illuso generazioni intere che bastasse saziare le pance per avere “uomini nuovi”!

Recentemente è stato Benedetto XVI a ricordare, invece, che anche chi è povero avverte l’insopprimibile fame di Dio: «l’anima africana e anche l’anima asiatica restano sconcertate di fronte alla freddezza della nostra razionalità [occidentale]. È importante dimostrare che da noi non c’è solo questo. Non è giusto pensare che la cultura puramente razionale, grazie alla sua tolleranza, abbia un approccio più facile alle altre religioni. Ad essa manca in gran parte “l’organo religioso” e con ciò il punto di aggancio a partire dal quale e con il quale gli altri vogliono entrare in relazione. Perciò dobbiamo mostrare che proprio per la nuova interculturalità, nella quale viviamo, la pura razionalità sganciata da Dio non è sufficiente».

Il vizio della gola in Dante

Dante, sommo poeta, ha saputo con i suoi versi incomparabili mostrare la bassezza dell’uomo che riduce la sua vita all’ingurgitare. Già Cerbero, che scortica e trangugia brandelli del corpo dei dannati del terzo cerchio, è un essere a cui basta gettare del cibo perché si calmi - si racqueta poi che ‘l pasto morde (Inferno VI, 29).

Ma è l’intera descrizione che atterrisce. Per una sorta di similitudine con la loro vita terrena, nel girone dei golosi tutto è squallore, tutto è poltiglia informe in cui si sguazza. Esistono pene maggiori, ma nessuna è così triste: hai sì fatta pena, che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente (Inferno VI, 47-48). Lì il Poeta incontra Ciacco i cui gesti finali dicono tutto di chi è caduto nel vizio della gola. Egli ha il capo che guarda a terra, come un cieco, incapace di vedere la vita: e poi chinò la testa: cadde con essa a par de li altri ciechi (Inferno VI, 92-93). E proprio quel Ciacco inizierà a predire a Dante le lotte intestine di Firenze e l’esilio che lo raggiunse nel 1301 mentre era ambasciatore a Roma. Le fazioni della città dopo lunga tencione verranno al sangue (Inferno VI, 64-65). Il cibo si muta da benedizione in maledizione, poiché per il possesso della città tutti combatteranno.

Dante rinnova così il messaggio biblico: il cibo è fatto non solo per essere consumato, bensì per essere condiviso. Proprio l’arte della cucina è una delle espressioni alte della cultura umana. Essa coniuga la raffinatezza della preparazione e l’esaltazione del gusto degli ingredienti con la fraternità che il cibo è capace di creare, quando diviene espressione di amore.

Il cibo e la logica del dono

Enzo Bianchi, priore di Bose, ha scritto con acume: «Davvero la cucina e la tavola sono l’epifania dei rapporti e della comunione. Del resto, il cibo è come la sessualità: o è parlato oppure è aggressività, consumismo; o è contemplato e ordinato oppure è animalesco; o è esercizio in cui si tiene conto degli altri oppure è cosificato e svilito; o è trasfigurato in modo estatico oppure è condannato alla monotonia e alla banalità. Il cibo cucinato e condiviso - il pasto - è allora luogo di comunione, di incontro e di amicizia: se infatti mangiare significa conservare e incrementare la vita, preparare da mangiare per un altro significa testimoniargli il nostro desiderio che egli viva».

In fondo il cibo ripresenta la logica del piacere che Dio ha posto nel creato. Il piacere, proprio perché non basta a se stesso, domanda un senso che lo abbracci. Il piacere è come un indicatore di trascendenza. Nel suo rapido scomparire reca implicita la domanda su cosa sopravviva al suo straordinario, ma fuggevole passaggio. Se dopo un gesto sessuale, resta accresciuta la tenerezza, la fedeltà, il desiderio di accogliere i figli che verranno, ecco che quel piacere non si tramuterà in maledizione, bensì maturerà in bellezza e significato. Così se la bontà del cibo è abbracciata dall’amicizia delle persone con cui lo si è condiviso e dal ringraziamento a Dio che lo ha donato, ecco che quel piacere non verrà eliminato, bensì raggiungerà la sua perfezione.

Il vizio della gola dimentica, invece, proprio quelle relazioni vitali che danno significato al cibo. E la pratica del digiuno ha valore di esercizio perché ritrovino spazio la fede e la carità, le sole capaci di “sfamare” l’uomo.

Il digiuno viene proposto come obbligatorio in alcuni tempi liturgici, ma a volte è la serietà della vita ad imporlo, per farci scoprire ciò che veramente vale. Mi piace concludere in proposito con una commovente testimonianza dell’allenatore della Nazionale di Calcio Italiana che ha appena disputato gli Europei, Cesare Prandelli, cristiano. Giunto alla Roma lasciò la panchina dopo poco tempo. E rispondeva, a chi gli domandava in un’intervista perché lo avesse fatto, raccontando la storia di sua moglie, malata di tumore e bisognosa delle sue cure: «Manuela voleva stare a casa. Facemmo un patto, le dissi che se le cure fossero state invasive sarei stato ogni minuto al suo fianco. Era lei la mia priorità. La sua vita era la mia vita. Tornai a Orzinuovi. Molti si sorpresero, per me invece fu una scelta naturale. Il calcio a volte ha paura della normalità».

Note al testo

[1] G. Sereny, In quelle tenebre, Milano, Adelphi, 1994.

[2] C.S. Lewis, Le lettere di Berlicche, Milano, Jaca, 1990.

[3] S.Th., II, II, q. 148.