L'eccidio di Marzabotto/Monte Sole nel film «L'uomo che verrà» presentato al festival di Roma. La naturalezza agghiacciante di una barbarie sempre in agguato, di Gaetano Vallini

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 18 /11 /2012 - 14:25 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 23/10/2009 una recensione scritta da Gaetano Vallini. Insieme ad essa ripubblichiamo alcune brevi note scritte a commento del volume di Luciano Gherardi, Le querce di Monte Sole, una nota tratta dal sito del Seminario arcivescovile di Bologna sui tre preti martiri di Marzabotto/Monte Sole ed, infine, alcuni stralci di interviste allo stesso regista Giorgio Diritti, regista del film. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (19/11/2012)

1/ La naturalezza agghiacciante di una barbarie sempre in agguato, di Gaetano Vallini

Una bambina con un neonato in braccio seduta sul tronco di un albero. Lei si è salvata miracolosamente e ha salvato anche il fratellino dalla furia omicida dei nazisti a caccia di partigiani sull'appennino bolognese. Ora è lì, con quel dono prezioso, dinanzi alla sua casa violentata dalla barbarie, ormai tragicamente disabitata e nella quale restano i segni di una quotidianità repentinamente interrotta. Quest'ultima immagine svela definitivamente ciò che già si era intuito:  è quel bimbetto in fasce L'uomo che verrà che dà il titolo al bel film di Giorgio Diritti. In quel fagottino c'è il seme di una umanità che si spera nuova, alla quale è affidato il compito di ricominciare, di costruire un futuro diverso.

Un finale un poco didascalico, indubbiamente, ma quasi dovuto, viste le premesse. Diritti voleva girare un film che lasciasse qualcosa alle giovani generazioni, offrendo un contributo a mantenere vigili le coscienze affinché simili immani tragedie non abbiano a ripetersi; non a caso a un sacerdote che si rivolge a un ufficiale tedesco fa dire: "Siamo la nostra educazione". E voleva anche fosse un'occasione per ribadire la necessità del dialogo e della comprensione su una pagina controversa della recente storia italiana, quella conosciuta con il nome di strage di Marzabotto:  770 persone, tra le quali 216 bambini sotto i 12 anni, trucidate tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 alle pendici del Monte Sole dalle truppe della sedicesima divisione granatieri Reichsführer-SS, comandate dal famigerato maggiore Walter Reder. Si tratta di una pagina sulla quale ancora oggi pesano interpretazioni non libere da pregiudizi e da strumentalizzazioni politiche.

Diritti ha scelto di raccontare i fatti dalla parte delle vittime, dal punto di vista di chi subisce la Storia con la s maiuscola e ne rimane suo malgrado impigliato. Non solo. Il regista ha deciso di filtrare gli accadimenti attraverso lo sguardo innocente e spaurito di una bambina di otto anni che, pur non parlando - è muta da quando, anni prima, il fratellino più piccolo le è morto tra le braccia - racconta quanto è costretta a vedere. I suoi occhi innocenti assistono all'indicibile e restituiscono l'orrore da un'angolatura che non lo rende certo non meno insopportabile.

La storia che scorre sotto lo sguardo di Martina - una bravissima Greta Zuccheri Montanari - si svolge nell'arco di nove mesi: quelli di attesa della nascita di un altro fratellino. E inizia dall'inverno del 1943, documentando la vita dura di una famiglia di umili contadini alle prese con la normalità malata della guerra: il lavoro gramo, la fame che incombe, la difficile convivenza con gli occupanti, la schietta solidarietà che non viene mai meno neanche nei momenti bui, i pericolosi contatti con i "ribelli" della brigata partigiana guidata dal comandante Lupo. Una quotidianità - resa ancora più verosimile dall'uso del dialetto locale nei dialoghi - che poco a poco viene ulteriormente stravolta dall'incalzare del conflitto, con le incursioni dei partigiani e le conseguenti azioni di rastrellamento dei nazisti. Fino al tragico e noto epilogo.

Reso intenso da una riuscita fotografia e sorretto da una sceneggiatura che solo nell'ultima parte, quella non semplice che documenta le fasi dell'eccidio, accusa qualche cedimento, L'uomo che verrà fa emergere come protagonista una comunità sulla quale si abbatte inatteso l'orrore e che aveva opposto agli occupanti nazisti una dignitosa resistenza non violenta. Una opposizione che era soprattutto rivolta interiore contro ogni sopruso e prevaricazione, un atteggiamento morale che gli attori - su tutti Alba Rohrwacher, Maya Sansa e Claudio Casadio - riescono a rendere visibile. Così come quella religiosità popolare fatta di una fede antica e di un affidamento totale che si avverte nel precipitare degli eventi, mentre le chiese diventano l'unico rifugio ritenuto inviolabile eppure violato.

Diritti - autore dell'apprezzata opera prima Il vento fa il suo giro - non prende posizione, non si chiede che cosa abbia scatenato quella furia omicida che non ha risparmiato nessuno; se si sia trattato di una rappresaglia o se sia stato parte di una strategia pianificata, oppure se i partigiani abbiano avuto responsabilità su quanto accaduto. Si limita a raccontare i fatti; una parte, per la verità. Il che però dà il senso dell'immane tragedia consumata in quei borghi montani. Niente a che vedere con le pretese revisionistiche del poco riuscito Miracolo a Sant'Anna di Spike Lee che vorrebbe documentare un'altra strage, quella di Sant'Anna di Stazzema.

L'uomo che verrà è un film rigoroso, con una lunga ricerca alle spalle, che evita i pericolosi stereotipi del genere, che non sembra una fiction, e che emoziona grazie anche ai volti di molti attori non professionisti che di quei fatti portano ancora un'eco di memoria. Un film che, senza retorica ma con pudore, racconta la naturalezza agghiacciante e inumana con la quale uomini uccidono altri uomini. Solo alla fine, forse, in quella scena conclusiva si nota un piccolo cedimento. Ma, dopo l'orrore, in qualche modo è liberatoria.

2/ Scheda dalla mostra Voci dalla Shoah sul volume di Luciano Gherardi, Le querce di Monte Sole. Vita e morte delle comunità martiri fra Setta e Reno. 1898-1944, Il Mulino, Bologna, 1986

Il testo racconta lo sterminio delle comunità montane di Monte Sole, vicino Bologna.
Fra le tante storie, il volume racconta anche quella del parroco di Casaglia.

«Elide Ruggeri racconta:

I partigiani convinsero gli uomini, giovani e vecchi, a riparare in alto nella macchia. Poi consigliarono noi donne di riunirci in chiesa, sotto la protezione del parroco. Eravamo circa un centinaio. Si unì a noi incoraggiandoci e sollevandoci un poco don Ubaldo. Era un prete coraggioso e buono.
Quando alle 9 circa arrivarono le SS sfondando la porta, capimmo che poteva accadere il peggio. Lo capimmo anche dalla disperazione del parroco. Ci fecero uscire e formarono una lunga colonna; fummo avviati con le armi puntate ai fianchi verso il cimitero a duecento metri di distanza. Era recintato e la porta di ferro chiusa. La sfondarono coi calci dei fucili e ci fecero entrare tutti nel recinto e noi ci addossammo in mucchio contro la cappella. Poi piazzarono una mitragliatrice all'ingresso e cominciarono a sparare, mirando in basso per colpire i bambini, mentre dall'esterno cominciarono a lanciare su di noi decine di bombe a mano. Durò per tre quarti d'ora circa, e smisero solo quando finì l'ultimo lamento.
Ferita restai tra i cadaveri... Con me uscirono vive altre quattro donne. Anche il prete morì. Fu fucilato sull'altare della sua chiesa e dopo averlo ucciso i nazisti spararono sulle immagini sacre e incendiarono la chiesa e le case intorno con lanciafiamme. Tre giorni dopo i tedeschi ordinarono ai civili di seppellire i cadaveri. Fecero una grande buca e li schiacciarono perché si erano irrigiditi.

Lucia Sabbioni aggiunge qualcosa che ci sembra degno di rilievo:

La mattina del 29 settembre, abbandonammo la casa e ci rifugiammo nella chiesa di Casaglia che era già piena di sfollati e di contadini. Il parroco don Ubaldo Marchioni stava officiando la Messa, quando poco dopo entrarono i tedeschi dicendoci di uscire sul sagrato...

Sembra doversi escludere che don Ubaldo in circostanze simili potesse celebrare la Messa; tuttavia l'indicazione della Sabbioni, allora quattordicenne, lascia presumere legittimamente che non si limitasse, come dice la Benni, a “consumare” le ostie, ma in cotta e stola celebrasse per l'ultima volta il rito della Comunione eucaristica, che nelle circostanze assunse il valore di un viatico collettivo prima della strage.... E morì rivestito delle insegne sacerdotali».

3/ I tre sacerdoti "martiri" di Monte Sole, don Ferdinando Casagrande (1914-1944), don Giovanni Fornasini (1915-1944), don Ubaldo Marchioni (1914-1944). Dal sito del Seminario arcivescovile di Bologna

Il 18 ottobre 1998 il card. Giacomo Biffi ha aperto a Marzabotto il processo canonico per la beatificazione dei sacerdoti don Ferdinando Casagrande, don Giovanni Fornasini e don Ubaldo Marchioni.

L’odio della guerra che ha sconvolto i nostri monti nell’autunno del ‘44 li ha strappati dalla terra perché li ha trovati tra il gregge che il Vescovo aveva loro affidato. Il loro ministero sacerdotale è stato breve (don Ferdinando era stato ordinato prete nel 1938, don Giovanni e don Ubaldo nel 1942), ma intensissimo, perché la situazione in cui si sono venuti a trovare ha chiesto loro un grande impegno nel portare quella speranza e carità che solo Dio può dare.

Possiamo dire che essi hanno speso la maggior parte della loro vita preparandosi in Seminario a donare la vita. Per tutti e tre un cammino lungo di 11, 12 e 13 anni, che li ha resi pronti a morire insieme al gregge, così come ha preparato i loro compagni a lavorare con fatica e amore per la ricostruzione morale e spirituale di comunità divise e lacerate dal dolore.

Mons Luciano Gherardi, compagno di Seminario di don Giovanni e don Ubaldo, dedica un capitolo del suo libro "Le Querce di Monte Sole", per presentare il cammino di quegli anni. Da queste pagine emerge una esperienza formativa estremamente ricca e capace di preparare uomini fedeli a Cristo e attenti alle domande della gente.

La prima tappa é il Seminario delle Capanne, ai 600 metri di altezza sopra Porretta Terme. La sostanza di quelle prime giornate è dentro, ricorda Mons. Gherardi, riaffiorano volti, parole, impressioni indelebili, scalate su un triplice registro: la fede, la cultura e l’ambiente. Tre e uno. Spesso si pregava camminando, e la natura era un libro aperto... Trasparenza e spontaneità erano la norma. Ed é rimasta. L’aver condiviso il pane e il sale in quel collegio-seminario ha valso un vincolo che gli anni, anziché affievolire, approfondiscono nella nostalgia di una stagione preziosa: noi delle Capanne.

Nell’ottobre del 1932 fu inaugurato il nuovo seminario diocesano di Villa Revedin. Inizialmente quelli delle Capanne si sentirono un po’ fuori scala, ma di grande ricchezza fu la scoperta della diocesi, con i suoi aspetti solenni e quelli feriali. Chi più incise in quegli anni su di noi furono i padri dell’anima. Si chiamavano secondo la tradizione seminaristica direttori spirituali... Erano uomini liberi e liberanti, cresciuti ad una grande scuola che risaliva all’epoca post-tridentina e che si riconosceva nella figura di mons. Vincenzo Tarozzi. .. Furono soprattutto gliinterpreti dell’ "ineffabile" a guidare le giovani generazioni fin dentro le emergenze della storia, attraverso un insegnamento e un modello di vita che divenne viatico nella tormenta. Esperti della preghiera, del silenzio, della carità, ci insegnarono a pagare di persona...

A Villa Revedin i seminaristi furono guidati da mons. Cesare Sarti. Anche fisicamente era un gigante. Colto, austero, misurato, aveva l’animo di un fanciullo. La sua biblioteca, immensa per quell’epoca, era inversamente proporzionale al guardaroba. Fragilissimo di salute, spesso insonne, sprigionava un’energia straordinaria. Ci educava attraverso le omelie, il colloquio personale, gli incontri periodici della congregazione mariana

Nell’ottobre del ‘35 scesero in città, in Piazza Umberto, per il liceo, dove ai Bolognesi si unirono i seminaristi della Romagna. Se Sarti era lo staretz, Tubertini fu l’amico, il fratello, il padre dell’anima. Nella vita seminaristica versò la calda pastoralità maturata a contatto con la comunità periferica di Villanova. Le adunanze della congregazione mariana divennero occasione per conoscere, attraverso gli "Acta diurna", redatti da Guido Gonnella nell’ "Osservatore Romano", la vita del mondo e formare un giudizio critico nei confronti del regime.

L’ultima tappa é al seminario teologico di via dei Mille. Agli studi teologici sono affiancate numerose attività: i "gruppi del vangelo" e "la scuola diocesana di catechesi", il teatro, il circolo missionario. Alla domenica le prime esperienze pastorali come educatori e catechisti: Fornasini a Casaralta, Marchioni agli Alemanni.

Nel 1942 arrivò finalmente l’ordinazione presbiterale; gli impegni pastorali allontanarono fisicamente i compagni, ma non nel cuore. Il giorno di Pasqua del 1942 avevano infatti fondato "la società o repubblica degli illusi", il cui statuto si apre così: "Noi siamo i seguaci di Colui che il mondo cieco ha chiamato il più grande illuso della storia, Cristo Gesù". Il motto: "Contro corrente" Il programma: "Vivere ogni giorno la prima Messa. L’anima eroica e tormentata della nostra classe non deve invecchiare. Ogni cosa sottratta all’amore di Cristo è sottratta alla vita". In appoggio al programma si organizzarono in nuclei di zona, "i raggi", che si estendevano a ventaglio e permettevano una più agevole comunicazione. Don Fornasini e don Marchioni formavano il "raggio di Sperticano".

Non hanno sottratto nulla all’amore di Cristo, e per questo sono per noi un raggio che illumina il nostro cammino di Seminario e ci invita a viverlo con intensità. E’ qui che essi hanno imparato che nessuno ci può privare della vera vita, se non la mancanza di amore per Cristo che ci chiama a spenderci per i fratelli.

4/ Stralci da interviste a Giorgio Diritti

Da un’intervista di Luca Pellegrini a Giorgio Diritti (L’Osservatore Romano, 23/10/2009)

Per la gente di quel tempo e di quelle zone era così. La quotidianità era impregnata di fede popolare, il rapporto con Dio faceva parte della vita d'ogni giorno, il senso e l'affidamento a Dio erano una delle autentiche gioie della vita. Credo, però, che ci fosse anche un poco di rassegnazione, come spesso trovo oggi. Dovremmo essere meno rassegnati e più combattivi, assumendo la responsabilità matura di dover portare al mondo non solo la Buona Novella, ma anche i buoni fatti.

Da un’intervista di Valerio Varesi a Giorgio Diritti (Repubblica, 12/1/2011)

Ne L'uomo che verrà c'è un altro bimbo minacciato da un nemico ben più temibile del freddo, ma salvato dalla commovente ostinazione della sorellina. “Credo - riprende Diritti - che la nostra società abbia smarrito questa ostinazione a perpetuare la vita come un valore assoluto. L'abbiamo sostituita con la banalità del consumismo”.