Sei tesi per l'arte cristiana, di Crispino Valenziano

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 24 /01 /2013 - 13:05 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dalla rivista Vivens homo 7/2, 1996, 369-380, un articolo di Crispino Valenziano. Il passaggio dal testo stampato alla sua versione informatica è stato curato da Maria D’Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sezione Arte e fede. E' in corso di stampa sullo stesso tema un articolo di Andrea Lonardo dal titolo "La bellezza salverà la catechesi?  I presupposti dell'utilizzo della via pulchritudinis nella trasmissione della fede". 

Il Centro culturale Gli scritti (24/1/2013)

Indice

Introduzione

La nostra tradizione teologica recente non si è interessata più di tanto al fenomeno della creazione artistica. Eppure nell'esperienza umana essa rappresenta il momento della contemplazione e della fuoriuscita dell'uomo verso l'infinito attraverso la stessa finitezza della sua opera. Inoltre la enorme mole della testimonianza iconografica resa dalla tradizione cristiana alla fede come potrebbe non attrarre l'interesse della riflessione teologica? Infine la liturgia stessa è un'opera d'arte come costruzione incessante di simboli materializzati negli atteggiamenti delle persone, nei loro gesti, nelle parole, negli spazi in cui la comunità si raduna, negli oggetti di cui si serve, nell'atmosfera in cui essa si svolge. Dentro questo grande complesso simbolico poi, da sempre, hanno trovato posto le arti della pittura, della scultura, dell'architettura, della poesia, della danza e della musica.
«Vivens homo» si propone di orientare l'attenzione dei teologi verso questo vasto ed affascinante campo di indagine. Ne rendono testimonianza alcuni articoli già pubblicati e l'ultimo numero interamente dedicato allo studio del complesso pittorico che adorna l'intradosso della cupola del Brunelleschi a Firenze.
È quindi con interesse che la nostra rivista accoglie questa sorta di manifesto sull'arte cristiana, che Crispino Valenziano sta diffondendo e sul quale sarebbe utile che si aprisse un dibattito che coinvolgesse gli studiosi di estetica, di teologia e di storia dell'arte.

Severino Dianich

I cristiani hanno fatto arte sin dalle loro origini

Con arte essi si sono costantemente rappresentata la verità che professano e la bontà delle cose che vivono. Dall'origine a tutt'oggi in qualsiasi luogo e presso qualsiasi cultura si sono ripresentato in bellezza il messaggio che attingono dalle Scritture con rivelazione di raffinata estetica, in bellezza hanno approfondito e riflesso l'esperienza dei misteri e degli eventi salvifici con cui si è sviluppata la loro storia, in bellezza hanno celebrato Dio nei loro due millenni.

Essi hanno costantemente parlato con ogni espressione d'arte. In tutta la terra dove si sono diffusi hanno elaborato architettura d'ogni forma, scultura e pittura con ogni materia, musica e canto d'ogni ispirazione, opere e prodotti d'ogni stile e tecnica, offerti alle percezioni della sensibilità, ascolto visione e ogni altra percezione sensibile dell'uomo.

Costantemente hanno usato la comunicazione in bellezza. Essi hanno compreso che nella bellezza l'uomo comunica più e meglio, nella bellezza ripone e ritrova integralmente la propria umanità; hanno compreso che il loro Signore si celebra e si predica in bellezza più e meglio di qualsiasi altra comunicazione, e che si mentisce di lui dove di lui e della sua opera non si proclama la bellezza - così come quando non se ne proclama la bontà o la verità, né più né meno. Per la cristianità la via della bellezza è non tanto scelta di comodo quanto aderenza di necessità. Perciò il linguaggio con arte e nella bellezza è costante culturale che i cristiani privilegiano.

Le tesi seguenti procedono a spirale, l'una su l'altra l'una intorno a l'altra, per derivazioni storico-sistematiche dal fenomeno. La fenomenologia di una tale costante culturale provoca a recepire e a rilanciare l'accumulo di pensiero sull'arte che gli stessi cristiani hanno realizzato in due millenni, non meno prezioso dei capolavori con i quali ve l'hanno realizzata. Pertanto esse si propongono quasi un «manifesto» che se è di «tesi» per quanto s'appoggia a chi ad esso qui le espone (documentandole con i nostri scritti su estetica cristiana e arte per la liturgia[1]) è però statutario per quanto riferisce di preziosa tradizione debitamente accreditata (e sufficientemente indicata negli scritti citati).

Derivazioni che saggiano l'arte liturgica risalendo verso l'arte cristiana e concludono alla pregnanza conseguenziale dell'arte cristiana e dell'arte liturgica; tesi che dedichiamo all'Esamerone di Dio, creativo dal caos al Cosmos.

1. L'arte liturgica

2.1. Tesi prima

La trascendenza dell'arte liturgica è sacralità altra dalla trascendenza dell'arte in sé e per sé.

«Arte sacra» è ripetizione acritica di un luogo comune da dismettere senza rimpianti perché doppiamente equivoca nella sua accezione usuale - di equivocità che fuorvia sino a rischiare assaggi venefici di nuova gnosi -. Equivoca perché assume il sacro come una specie e non come un genere dalle molteplici specie ad esempio, «sacro» nella categorizzazione dei cristiani orientali o della Costituzione del Vaticano II sulla Liturgia non è la sacralità della vita o della morte, di un giuramento o di un avvenimento; è, invece, il «sacro/santo», quella specie di sacro che coinvolge direttamente ed esplicitamente l'aura di un interpersonale teandrico, cioè del «santo» in senso proprio. L'usuale «arte sacra» è, dunque, ripetizione equivoca onticamente. Ed equivoca perché non avverte i transfert di senso accaduti nel nostro secolo da quando «il sacro» è stato trasferito nelle attrazioni di analitica delle religioni: sacro nella dizione degli occidentali tra le due grandi guerre e oltre sino a noi, non è la sacralità di Dio che interviene personalmente nella storia cioè del Dio di Abramo d'Isacco di Giacobbe, del Dio di Gesù Cristo; è, ad esempio, il numinoso dalle turbanti caratteristiche, questa sorta di denominatore che accomuna tutti gli atteggiamenti religiosi sopra un preteso minimo comune multiplo. L'usuale «arte sacra» è, dunque, ripetizione equivoca semanticamente.

L'arte in tanto che è arte ha una sua sacralità. Cioè, si situa in una sua trascendenza che la mette a parte dalla strumentalità amorfa facendone un fine a suo modo in sé. È qualità dell'arte non contestata da nessuno. Né il fatto che la sua formatività la rende bene culturale ne intacca cotesta sacralità, poiché l'arte è affermazione perentoria delle trascendenze che «mettono a parte» in un modo o nell'altro e su di cui, anche su di esse, singoli e società impiantano normalmente le loro culture. Ma l'arte liturgica non si identifica qualificandosi per la trascendenza artistica, che pure le compete, bensì per la sua trascendenza di liturgia; la quale è trascendenza di santità. Cioè, l'arte liturgica si mette a parte dalla strumentalità amorfa in forza del suo coinvolgimento diretto ed esplicito nell'aura dell'interpersonale teandrico che è l'economia attuata dalla Santa Trinità nella pienezza dei tempi; è così che essa è formata fine in sé, centro-quasi-personale, appunto, opera d'arte. Né il fatto che la sua peculiare formatività la rende bene culturale ecclesiale ne intacca cotesta situazione identificante, poiché l'arte liturgica è affermazione perentoria del fatto che i cristiani e la Chiesa impiantano di norma la loro cultura-intercultura su trascendenza che «mette a parte» in modo strettamente caratteristico.

Tesi cristologica. Referente è il Verbo Dio che ha circoscritto la sua divinità nell'ambito della sensibilità umana; referente dello statuto d'interpersonalità teandrica nello spazio-tempo mondano e referente dello statuto di trascendenza iconica dell'opera d'arte liturgica. Sono occorsi otto secoli dalle origini affinché i cristiani e la Chiesa, faticosamente, se ne coscientizzassero con puntualità; eppure, per vicende a volte tragiche a volte banali, è coscientizzazione su di cui è tutt'ora il caso d'insistere nel recepirla e nel rilanciarla.

2.2. Tesi seconda

Canone unico dell'arte liturgica è la corrispondenza agiografica nella memoria ecclesiale.

Il concilio ecumenico VII, Niceno II (787), segna la soglia critica dell'approfondimento e della riflessione, delle vicende e delle coscientizzazioni nell'accumulo bimillenario di pensiero e d'opere. Ed è proprio il Niceno II che ha stabilito il canone insospettatamente unico dell'arte liturgica. Le varie rivendicazioni d'autonomia dell'arte e degli artisti, o le malcapitate vessazioni di committenti e consulenti non a sufficienza provveduti farebbero supporre a torto un diluvio di norme e strettoie; la norma è unica e unico ne è il contesto.

A Nicea la norma è stata formulata mediante il versetto 9 del salmo 47: «Come (sicut) avevamo udito, così (sic) abbiamo visto, nella (in) città del nostro Dio»; con la distintiva equazione tra Parola di Dio - «udito» dell'uomo/Icone di Dio - «vista» dell'uomo (ciò si fonda sulla cristologia e ne promana); equazione, tra parlare di Dio - ascoltare dell'uomo/epifania di Dio - contemplazione dell'uomo, artefacta non in un qualche pur geniale artificio immaginativo ma nella «città» che è la Chiesa (e ciò si fonda sulla ecclesiologia e ne promana).

La formulazione unica, poi, è stata contestualizzata, di nuovo, biblicamente: trasportando l'artista liturgico nella situazione dello scrittore ispirato, l'«agiografo»; un artefice che intenda operare per la liturgia non può che artisticamente dipingere scolpire architettare musicare inventare, parlare mostrare celebrare, il messaggio e la salvezza del nostro Dio nella sua città, egli deve attenersi al canone unico non per essere artista e operare da artista ma per essere agiografo e operare liturgicamente, poiché la frequentazione liturgica è ascolto-visione dell'inaudito-invisibile che Dio stesso dice e mostra al popolo suo. E l'artista liturgico opera per fare udire l'invisibile e vedere l'inaudito che Dio stesso dice e mostra al popolo suo.

Così, arte liturgica per eccellenza è Biblia pauperum: non Scrittura tracciata per chi non sa leggere (come superficialmente si suole ripetere) una sorta di catechismo didatticamente illustrato, ma la Scrittura ritracciata celebrativamente (la catechesi è ridondanza seconda dalla sua magnificenza artistica) la Scrittura trascritta nella sua tipologia di Antico Testamento che si chiarifica nel Nuovo, e di Nuova Alleanza che traspare nell'antica, cioè trascrizione biblica davanti a cui tutti si è illetterati e per cui il ministero degli agiografi fu dato e continua ad esser dato al popolo di Dio. L'artista liturgico profetizza omileticamente. Egli specula nella memoria ecclesiale che ascolta il passato e guarda al futuro della storia continua di salvezza.

Tesi ecclesiologica. Referente è la memoria del suo Sposo che la Chiesa coltiva nella santità, nella trascendenza immanente di lui a lei. Fu acquisizione, secondo il modulo acquisitivo anti ereticale del primo millennio cristiano, germinata nell'anti iconoclasmo; ed è germe sempre rifiorente e rifruttificante per mentalità rinnovata e opere inedite.

2.3. Tesi terza

L'arte liturgica è demiurgia sacramentale ed escatologia rivelativa.

L'arte è demiurgia ed è escatologia in sé e per sé; non foss'altro, perché l'arte-fatto in un modo o l'altro riforma sempre e dovunque lo spazio-tempo e i suoi abitatori. Però l'arte liturgica è demiurgia ed escatologia che riformano in modo sacramentale e in modo rivelativo, cioè mediante la simbolizzazione attualizzatrice del rapporto di santità, del rapporto tra la trascendenza del nostro Dio-Trinità e la sua immanenza teandrica in unione sponsale e sino alla ricapitolazione finale nel Cristo totale.

È l'admirabile commercium che ci è stato manifestato, di specchio faccia a specchio: Dio creatore iconizza l'uomo ad immagine e somiglianza di sé Vivente, Dio salvatore iconizza sé ad immagine e somiglianza dell'uomo mortale, Dio santificatore iconizza l'uomo ad immagine e somiglianza del Primogenito Dio Uomo incarnato e risorto per opera dello Spirito Santo Dio Vivificante.

L'arte liturgica è la paradossale enarrazione estetica di questa ineffabilità e di questa apocalisse. Il paradosso di fare l'ineffabile, di dire l'indicibile, non si pone come impresa luciferina se, da agiografo sapiente del mistero e della sua gloria epifanica, l'artista liturgico lavora simbolicamente anche in senso tecnico semiologico. Il simbolo si addice all'artista liturgico; sia perché linguisticamente sintonico con la efficace simbolizzazione sacramentale e rivelativa propria dell'universo liturgico, sia perché anticamente adeguato alla trascrizione del mistero e della sua gloria epifanica come più e meglio al finito non è dato riguardo all'infinito.

Per l'artista liturgico il simbolo non è quindi un optional. Diciamo il «simbolo», cioè la relazione realmente connettiva del significante colore narrativo alla significata luce inenarrabile; non una qualche relazione allegorica che attinge una qualche significanza mediante semplici agganci intellettuali, senza stabilire connessioni linguistiche di antica globalità antropologica e teologica. Le allegorie, di qualsiasi consistenza, quelle sono optional; optional, anzi, che a volte (troppe volte!) non si addice all'artista liturgico, omileta-profeta della luce, e suscita reazioni logiche o inconsulte.

Tesi liturgica. Referente è luce - teologia cristiana della bellezza simbolizzazione sacramentale e rivelativa, matrice e conclusione; l'universo di grammatica e sintassi della vita cristiana nel suo culmine e fonte. Garantirsene la semantica del senso estetico è permanente condizione che determina l'autenticità e la riuscita dell'arte liturgica.

3. Verso l'arte cristiana

3.1. Tesi quarta

La santità dell'arte liturgica è l'emblematica dell'arte cristiana.

L'arte liturgica non è arte ancillarmente cultuale (la sua funzionalità al culto è la prima ridondanza della sua magnificenza propria); è poietica cultuale strutturalmente, elaborata per la liturgia, cioè avendo la liturgia a motivazione causativa formale e materiale, efficiente e finale. È in sé e per sé arte «celebrativa», cioè «frequentativa» nella vita cristiana; arte, quindi, tanto liturgicamente cultuale quanto culturalmente cristiana.

Ma non ogni opera d'arte cristiana è opera d'arte liturgica. L'opera d'arte liturgica è questa specie canonica, la specie direttamente ed esplicitamente elaborata sull'unico suo canone - il sicut/sic/in della corrispondenza stabilita nella divina economia per l'adeguazione dell'interpersonalità teandrica - è specie di quel genere che è l'arte cristiana: dell'arte che si pone con motivazione causativa di cristianità oggettualmente in ogni livello d'oggettualità; e tuttavia non con motivazione causativa di cristianità anche soggettualmente in ogni livello dell'interpersonale. Genere d'arte altro è poi l'arte religiosa, che si pone con motivazioni pure oggettualmente ridotte, o addirittura nulle, di cristianità; genere altro di cui ci occupiamo limitatamente agli eventuali residui cristiani comunque sedimentati o a volte purtroppo anche smentiti in opere, appunto, genericisticamente religiose.

Così, la qualificazione di santità, la qualificazione del «mettere a parte» in forza del suo coinvolgimento diretto ed esplicito nell'aura dell'interpersonale teandrica che è l'economia della Santa Trinità nella pienezza dei tempi, nel Verbo fatto carne e per l'opera dello Spirito, la simbolizzazione sponsale di trascendenza e immanenza dell'arte liturgica, costituisce l'emblematica eminente dell'arte cristiana.

L'una non sta all'altra in gradualità ascensiva, ma l'arte liturgica sta all'arte cristiana in informatività discensiva: ogni opera d'arte cristiana respira della sovraeminente arte liturgica come ogni spiritualità cristiana vive nel flusso radicale della sovraeminente spiritualità liturgica. Lì è allora il medesimo Spirito di santità Santo e Santificatore che influisce sintatticamente o asintatticamente, quando vuole e dove vuole, sulle grammatiche e sulle semantiche d'ogni artista che entri nel circolo della proclamazione e della realizzazione cristiana.

Tesi pneumatologica. Referente è la poietica «spirituale» della stessa vita cristiana, che non si esaurisce nell'azione liturgica anche se ha nella liturgia il suo culmine e fonte. Si tratta di maturazioni innescate da tutte e quattro le Costituzioni del concilio Vaticano II sulla Liturgia sulla Parola di Dio sulla Chiesa e sulla Chiesa nel Mondo; provocate dalla loro interazione che, tra l'altro, denuncia le insufficienze del capitolo VII (e VI) della Sacrosanctum concilium su «L'arte sacra» (e «La musica sacra») Costituzione che precedette la Lumen gentium, la Dei Verbum, la Gaudium et spes, e ne rimase datata.

3.2. Tesi quinta

La naturalità nell'arte cristiana è qualità altra dalla naturalità nell'arte in sé e per sé.

Le non-ricezioni nell'età carolingia e oltre della dottrina conciliare del Niceno II hanno gravato sul pensiero e sulle opere d'arte del mondo cristiano il perire della connivenza sinergica d'Oriente e Occidente. L'Oriente ne ha rischiato l'atrofia della riuscita e l'Occidente il fallimento dell'autenticità - malgrado i capolavori eccelsi e innumerevoli sia orientali sia occidentali -.

L'Oriente però ha raffinato una simbolizzazione teologica, una teologia della luce, che è modello estetico cristiano inarrivato, né rileva soltanto dalla sua cultura e dalla sua peculiare spiritualità ma è modello poietico per la cristianità in assoluto; mentre l'Occidente ha costatato che ogni stile, ogni tecnica e ogni ispirazione d'arte può, dunque deve, proclamare e celebrare in Gesù Cristo per lo Spirito Santo le meraviglie di Dio.

La connivenza sinergica eclissata nel secondo millennio ritorna certamente ad attivarsi nel terzo millennio dell'era cristiana. L'apporto della cultura occidentale nelle sue diverse componenti è domani la sperimentazione antropologica della naturalità. L'Occidente ha sperimentato, di seguito all'umanesimo rinascimentale, sia l'orizzontalismo della naturalità desacralizzatore più o meno parmenideo o kantiano, sia il protezionismo della naturalità sacralizzatore più o meno platonico o cusaniano, sia la progrediente dinamica della naturalità visore più o meno medievale o contemporaneo. Quale che sia la naturalità nell'arte in sé e per sé, essa vi rimane statica relativamente al nostro assunto; ma nell'arte cristiana autentica e riuscita essa può, deve, essere rappresentazione espressione comunicazione di uno status che nello spazio-tempo è mobile della mobilità influitagli dalla Sopranatura graziosa e provvidente: trasfigurazione progressiva della creazione dinamica dall'«in principio» all'eschaton.

Dio iconizza l'uomo ma da parte sua l'uomo iconizza Dio in se stesso e nella propria opera, dalla verità con bontà in bellezza. L'arte cristiana conosce e partecipa il gemito e la sofferenza delle doglie del parto che scuote la natura spettacolare intorno a noi e la nostra propria natura in noi, così come ne conosce e partecipa l'entrata nella libertà della gloria dei figli di Dio. In altri termini, la demiurgia sacramentale e l'escatologia rivelativa dell'arte liturgica toccano oggettualmente tutte le forme dell'arte cristiana; e come in informatività discensiva esse delineano l'orizzonte onnicomprensivo d'ogni forma d'arte cristiana, perché la natura spettacolare e umana stanno oramai nell'ascissa e nella coordinata del tempo e dello spazio tra la Pasqua e la Parusia, così in connivenza ascensiva l'impazienza della naturalità può, deve, iconizzarsi sin nell'arte liturgica in connaturalità con noi che possediamo già le primizie dello Spirito eppure non ancora la redenzione del nostro corpo.

Per l'arte cristiana il dramma-speranza esistenziale antropologico e cosmologico è oggi l'apporto della cultura cristiana occidentale tutta alla connivenza sinergica con la cultura cristiana orientale. La teologia dell'icone e dell'iconismo essa stessa si trasfigura verso una teologia di eucaristia totale che ripropone l'icone - celebrazione di «agiografia» - come celebrazione di una «eucaristia».

Tesi ecumenica. Referente è il criterio antropologico e teologico correttivo/integrativo per cui, dopo due millenni di cristianità, a nessuna professione cristiana mancano i titoli per donare e ricevere alle altre e dalle altre professioni cristiane le prospettive che, provvidenzialmente sinanche nel limite delle diaboliche scissioni tra di loro, il Dono grazioso e munificentissimo ha suscitato e incrementato; per l'edificazione simbolica del corpo ecclesiale in intero. Perché non decidersi ad accogliere liberamente gli uni gli altri tutto ciò che in nulla si oppone alle nostre fedeltà? È nell'ambito dell'eucaristia totale che l'ecumene cristiana si ritroverà; l'arte ecclesiale ne profetizzi l'iconismo come eucharistein.

4. Pregnanza conseguenziale dell'arte cristiana e dell'arte

4.1. Tesi sesta

L'identità dell'arte cristiana e dell'arte liturgica qualifica le azioni e le contemplazioni circa le opere, globalmente e assolutamente.

La qualificazione che da nome proprio all'arte ecclesiale ha valenza per la codificazione delle opere e valenza per le loro decodificazioni. La produzione delle nuove opere non è cosa da aspettarsi mancando d'intervenire opportunamente. Senza considerare le difficoltà insite nella situazione attuale di diverse arti in sé e per sé, architettura, arti figurative o musicali, e altre, bisogna ricordare che la crisi dell'arte propriamente ecclesiale, trattenuta entro certi limiti lungo vari secoli dopo i molti secoli potentemente creativi, adesso esplode perché si è esaurito il labile immaginario di riserva che prima produsse imitazioni e poi finì addirittura in contraffazioni.

Non avviando né introducendo gli artisti nello splendore cristiano e nella sua sapienza non si risusciterà la grande arte ecclesiale. E, non pertanto, il sostegno parallelo di una valida consulenza rimarrà insostituibile. Ai committenti, ai consulenti, agli operatori c'è da additare il gusto della bellezza degli eventi cristiani. Promozione da rivolgere pure all'interezza della comunità che, se non tutti operatori né tutti consulenti né tutti committenti, sono tutti fruitori di opere dalle proprietà culturali irrepetibili e non intercambiabili. Né si commetta l'errore di trincerarsi dietro l'imputazione d'incompatibilità dell'arte moderna con l'arte cristiana o con l'arte liturgica: sono comparazioni insensate. L'arte «demoniaca» moderna è più simpatia con un daimon che associazione al diabolos, e la «simbolicità» dell'arte moderna, pur anonima, è ricerca affannosa d'uno spirituale che l'arte liturgica e l'arte cristiana sono in grado di denominare pacificamente.

La fruizione e la conservazione, il restauro e l'adattamento, urgono anch'essi problemi caratteristici. Infatti le opere dell'arte ecclesiale sono fruibili soltanto in parte da chi prescinde dalla loro fruizione liturgica ed evangelizzatrice mutilandoli della cultura che le produce e che a loro volta esse producono - è parzialità ovvero nullità? Le interpretazioni senza rigore e completezza, estemporanee e per luoghi comuni, offerte da guide, da critici, da storici, da apologetisti da irenisti, estranee alla cristianità specificamente costitutiva di esse opere, sono deleteri allontanamenti dagli approcci reali, tradimenti e svalutazioni tanto quanto lo sono le fruizioni selvagge e gli usi distorti di qualsiasi opera d'arte.

Occorrono trasmissioni mediante pubblicazioni davvero specializzate, scientifiche o divulgative analogamente; programmi davvero mirati, visivi o multimediali ugualmente. Leggere e far leggere l'opera d'arte ecclesiale è arte ecclesiale essa stessa, da apprendere pazientemente comprendendo le referenze tutte del messaggio cristiano. Occorre un quadro referenziale del "turismo religioso" (come lo chiamano) che non privi di niente nessuno ma perciò stesso non smentisca la identità dell'arte ecclesiale agli occhi di nessuno. Musei "diffusi" (come li dicono) che non recludano le opere in spazi specializzati se non come ultima ratio ma apprestino tutti gli accorgimenti museali alle opere dove stanno nativamente e, nel caso estremo del museo-raccolta, a qualsiasi costo custodiscano al meglio l'identità liturgica ed evangelizzatrice d'ognuno dei beni.

Musei dell'opera (antica invenzione ecclesiastica) che mantengano le opere d'arte mobili in simbiosi con l'opera d'arte monumentale e siano costatabilmente tutt'uno con essa (analogamente al tesoro d'una chiesa che ne custodisce gli argenti e i parati senza pertanto separarne il vissuto in reciprocità). Carte del restauro specifiche, cioè valutative delle istanze che una qualsiasi opera d'arte pretende ma non ne subisca le eventuali ideologie e le equilibri con le istanze che questa precisa opera d'arte pretende qui ora nel suo vissuto specifico; la formula stereotipa dalle pretese risoluzioni magiche, «restauro conservativo», lontana da ogni declinazione aspettuale, deve e può coniugarsi scientificamente con le esigenze di un «restauro critico». Carte dell'adattamento (altra cosa dalle carte del restauro) che impediscano di stravolgere le opere esistenti ma impediscano anche d'interromperne il ciclo vitale, e si preoccupino di fornire criteri di base solidi e accertati.

Un radicale mutamento nella civilizzazione e nella ominizzazione che, per coincidenza di molteplici circostanze attualmente si trovano in fase dinamica molto accelerata, è il passaggio dal concetto di «patrimonio storico-artistico» al concetto di «complesso dei beni culturali». Si passa dall'avere all'essere; dall'idea di un possedimento ereditario all'idea di una «totalità intrecciata», cum/plexum, quasi circumsessione di tutti i prodotti-produttori di cultura. È mutamento avvenuto sotto l'urto di parecchi stimoli tra loro collegati: la coscientizzazione dell'appartenenza universale dei prodotti umani d'interesse; il superamento dell'idea più o meno idealistica della storia; l'allargamento di visuale dall'arte all'intero giro dei prodotti d'ingegno; l'avvertenza del prodotto dell'uomo in quanto coinvolgimento globale di lui e della sua società; la percezione dei prodotti culturali in quanto culturazione in esercizio; l'elencazione aperta dei tipi di prodotti culturali...: un giro tanto ampio quanto è largo il giro disegnato in forza dell'accezione antropologica di cultura che ne ha sostituito l'accezione soltanto intellettiva (dalla coltivazione del rationalis nell'uomo alla coltivazione dell'uomo faber e sapiens e ludens e religiosus, qualificato da qualsiasi aggettivazione desunta dalle costanti antropologiche).

Tale mutamento tocca problemi acuti circa la generalità e la specificità dei beni culturali che ne sono tutti oggetto, dai prodotti usuali ai prodotti geniali; e circa l'uomo-soggetto delle loro strutture e delle loro funzioni. Le conseguenze di una rivoluzione culturale quale è pertanto quella in corso non sono facilmente prevedibili. Ma anche perciò bisogna non sorvolare la previsione che esse avranno forza dirompente. Né a caso oggi assumiamo i beni culturali quali «luogo teologico». In cotesto mutamento i beni culturali ecclesiali risultano meglio valutabili e maggiormente valorizzabili. Infatti, essendo prodotti di cultura che tocca trasversalmente tutte (almeno potenzialmente) le culture e spesso le individua, essi coinvolgono tutte le realizzazioni di umanità e di civiltà. E la felice concordanza della dinamica ecclesiale con le dinamiche culturative generali è evidenziata dalle avvertenze antropologiche che la pastorale della Chiesa percepisce come dalle sensibilità che la celebrazione liturgica ingloba. Cosa previa è che non ci si limiti a usare i beni culturali strumentalizzandoli, ma ci si addentri a penetrarli nella loro dinamica culturativa intrinseca; e che la liturgia persegua i beni culturali del suo ambito (che sono la parte emblematica dei beni culturali ecclesiali) sia quelli che ha ricevuto dal passato sia quelli che continua a produrre con la consapevolezza piena della loro identità precisa. Coscienti che non tutti i beni culturali sono opere d'arte ma tutte le opere d'arte sono beni culturali e sono il massimo e l'ottimo dei beni culturali.

Va emergendo un po' da per tutto nel mondo, indotta anche dalla politica nazionale e internazionale circa i beni culturali, una gestione dei medesimi sempre più sicura della propria capacità nelle diverse fasi dalla produzione alla fruizione delle opere. Ciò suggerisce alle amministrazioni dei beni culturali della Chiesa, da un lato, di ipotizzare gestioni manageriali, secondo le esigenze situazionali il più possibile autosufficienti nell'ambito delle comunità (singole o raggruppate secondo le opportunità), gestioni solidali verso le Chiese meno autonome, gestioni non deresponsabilizzanti né i privati né gli enti di qualunque livello dalla partecipazione al ruolo e al significato della cultura, dell'arte e della bellezza. Suggerisce, d'altro canto, di non assimilare la gestione, specialmente delle opere d'arte ecclesiale, a una qualsiasi impresa con fini di lucro, poiché esse sono prodotto come della bellezza percepita dai fedeli così della loro generosità all'interno della Chiesa che essi popolano e verso il mondo che essi abitano. La Chiesa è stata e rimane la grande mecenate nel mondo, e lo è stata e rimane specialmente perché ha colto il senso dell'impareggiabile ministero della bellezza.

Tesi pastorale. Referente è il senso di responsabilità circa tutti e singoli i valori teologici e antropologici (noi abbiamo soltanto esemplificato!). Impegno è l'identificarcisi, il goderli, cotesti valori; che è diritto riconosciuto e dovere riconoscibile d'ogni uomo in questo mondo. L'irrinunciabile è lo sviluppo da infondere alla teologia cristiana della bellezza.

18 novembre - 7 dicembre 1995

XXX anniversario delle Costituzioni conciliari Dei Verbum e Gaudium et spes

Crispino Valenziano

Note al testo

[1] Michelangelo. Il Duca e la chiesa nelle Terme Diocleziane. Il Ms. vat. lat. 8735. Introduzione di M. Nédoncelle, Palermo 1976.
Immagine, cultura, liturgia, «Concilium» 16 (1980) 2, 144-156.
Ambone e candelabro. Iconografia e iconologia, in Aa. Vv., Gli spazi della celebrazione rituale, Milano 1984, 163-220.
Il chiostro giardino biblico-liturgico, «Ecclesia Orans» 1 (1984) 175-192.
Oggi davanti ai segni liturgici, «Notitiae» 21 (1985) 273-285.
Via Pulchritudinis. Teologia sponsale del Beato Angelico, Roma 1988.
Iconologia dei mosaici «bizantini» di Sicilia. Un caso di «adattamento» iconografico dello spazio liturgico, in Aa. Vv., Liturgia e adattamento. Dimensioni culturali e teologico-pastorali, Roma 1990, 85-95.
Esamerone. Presentazione di L. Russo, Palermo 1990.
Mimesis-Anamnesis spazio temporale per il triduo pasquale, in Aa. Vv., La celebrazione del triduo pasquale, Roma 1990, 1354.
Paschalis Verbi Forma Pulchritudinis. Evangeliario delle Chiese d’Italia: Le icone. Prefazione di A. Nocent, Palermo 1990.
L’altare del duomo di Cefalù, Palermo 1991.
«Vedere la Parola». Liturgia e ineffabile, «Ecclesia Orans» 9 (1992) 2, 121-140.
Celebrazione rituale e spazio sacro, in Aa. Vv., Uno spazio sacro del dopo Concilio, Paterno 1992, 16-20.
L’evangeliario delle Chiese d’Italia, «Notitiae» 28 (1992) 357-364.
Di caos e di cosmos. Lettera ad Amica teosofa, in M. Canzoneri, Argento, Catania 1993, 59-87.
Riflessi antropologici della iconografia e della iconologia teologica, «Ecclesia Orans» 10 (1993) 1, 79-103.
Icone e celebrazione dei misteri, in Aa. Vv., La dimora di Dio tra gli uomini. Tempio e assemblea, Roma 1993, 94-118.
L’anello della Sposa. La celebrazione eucaristica, Prefazione di E. Bianchi, Magnano 1993.
L’ambone del duomo di Pisa. Lettura teologico-liturgica, Milano 1993.
Eco antropologica della musica liturgica, «Ecclesia Orans» 11 (1994) 1, 9-23.
Cerei gratiam predicemus qui illuminatur Spiritu Sancto, in G. Barracane (ed.), Gli Exultet di Bari, Bari 1994, 7-48.
Della trascendenza e dell’incanto, in D. Eccher (ed.), L’incanto e la trascendenza, Milano 1994, 42-45.
Di’ esoptrou en ainigmati. Dalla iconografia del Dio di Abramo e d’Isacco alla iconologia del Dio di Gesù Cristo, «Rivista Liturgica» 82 (1995) 143-172.
Architetti di chiese. Prefazione di F. Marchisano, Postfazione di P. Culotta, Palermo 1995.