Il matrimonio in fieri nel diritto giudaico, di Reinhard Neudecker

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 10 /02 /2013 - 14:39 pm | Permalink | Homepage
- Tag usati:
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo da La definizione essenziale giuridica del matrimonio. Atti del colloquio romanistico-canonistico (13-16 marzo 1979), Utrumque Ius, 5, Pontificia Università Lateranense, Roma 1980, pp. 7-18, un articolo di Reinhard Neudecker[*]. Il passaggio dal testo stampato alla sua versione informatica è stata curato da Maria D’Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti sull'ebraismo vedi la sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.

Il Centro culturale Gli scritti (10/2/2013)

Indice

Premessa

È superfluo dire a questo spettabile pubblico che tutte le istituzioni vanno con l'andar del tempo soggette a trasformazioni. La presente relazione pertanto può trattare solo sommariamente del matrimonio nel Diritto giudaico. Si limita inoltre essenzialmente alle fonti «classiche» del Diritto giudaico, cioè la Mishna (redatta all'inizio del terzo secolo d.C.) e il Talmud babilonese (redatto circa nell'anno 500 d.C.)[1].

Secondo la concezione rabbinica, il matrimonio è lo stato ideale per l'uomo e la donna. Per l'uomo contrarre matrimonio è un obbligo religioso (Jeb VI 6; Jeb 63b/64a)[3]. La donna peraltro non è obbligata al matrimonio (Jeb VI 6)[4], però è esortata a non vivere nubile[5].

Mediante il matrimonio l'uomo provvede non soltanto alla conservazione del genere umano, ma si realizza pienamente come essere umano: «Un uomo che non ha una donna non è un essere umano (Adam), poiché sta scritto: 'Maschio e femmina li creò ... e chiamò il loro nome essere umano (Adam)'» (Jeb 63a). Chi non ha moglie, vive senza gioia, senza benedizione, senza bene, senza Tora, senza protezione, senza pace (Jeb 62b).

Al dovere del matrimonio pare siano sfuggiti solo pochi uomini. È interessante il caso di Ben Azzai (discepolo e collega di Rabbi Akiba). Egli pur paragonando un uomo che non procrea ad uno che versa sangue e che sminuisce la somiglianza (con Dio), rimase tuttavia celibe e diede questa motivazione: «Che devo fare se la mia anima desidera la Tora? Il mondo sia conservato da altri!» (Jeb 63b). Alla sua morte si disse che era stato l'ultimo vero studioso (Sot IX 15).

Questa mia relazione tratta nella prima parte del matrimonio in fieri comune, e nella seconda brevemente del matrimonio leviratico.

I

Al tempo del Talmud il matrimonio avveniva normalmente per tre gradi: tramite Shidduchin (fidanzamento); tramite Kiddushin o Erusin (sponsali); tramite Nissuin (nozze). Dobbiamo badare al fatto che la terminologia adoperata nel Diritto giudaico non è identica a quella del linguaggio odierno. Perciò è necessario utilizzare la terminologia giudaica.

Shidduchin (fidanzamento)

Si tratta qui di preliminari per un futuro matrimonio, condotti o dagli stessi fidanzati oppure dai loro genitori o parenti. Rab, il famoso maestro del terzo secolo, dichiarava obbligatori i preliminari. Chi ciononostante iniziava il matrimonio con una donna senza fidanzamento, veniva punito con la flagellazione (Kid 12b); gli sponsali erano però validi[6].

Gli accordi convenuti durante il fidanzamento riguardavano data e luogo della celebrazione del matrimonio progettato, e obblighi finanziari come la consistenza della dote e il lasso di tempo durante il quale il padre della sposa manterrebbe la giovane coppia nel primo periodo del matrimonio. Gli accordi venivano normalmente stipulati in un documento[7].

Divenne usuale riscrivere le condizioni di questo contratto previo al tempo dei Kiddushin e con ciò confermare oppure (come avviene oggi nello Stato d'Israele) annotare nella scrittura di matrimonio (Ketuba) che le precedenti condizioni stanno alla base del matrimonio.

Il matrimonio si contrae in due fasi: Kiddushin (o sponsali) e Nissuin (o nozze). Riguardo all'età: secondo il Diritto giudaico un ragazzo e una ragazza entrati nella pubertà (un ragazzo cioè in genere a partire dai 13 anni ed un giorno, una ragazza dai 12 anni e un giorno) possono contrarre un matrimonio valido. Per la ragazza questo vale soltanto se non vive più il padre. Altrimenti ha bisogno del Suo permesso fino a quando abbia compiuto dodici anni e mezzo. Nonostante queste norme giuridiche, si raccomandava al giovane di sposarsi soltanto a partire dai 16 o 18 anni (Kid 29b/30a).

Una ragazza però poteva essere data dal padre in matrimonio ancora minorenne (ossia prima dei 12 anni) anche senza il suo consenso (Ket IV 4)[8]. Un matrimonio così avvenuto veniva considerato valido e poteva essere sciolto soltanto dal divorzio o dalla morte di una delle parti (cf. Kid 44b). Se la moglie minorenne diventava divorziata o vedova e ancora minorenne contraeva in seguito un nuovo matrimonio[9], allora poteva lei stessa annullare completamente questo nuovo matrimonio, come se non fosse esistito, dichiarando però davanti a due testimoni che non voleva più rimanere con il nuovo marito (Jeb 107b/108a). Qualora la ragazza non pronunciava questo rifiuto al nuovo matrimonio (Miun), prima di compiere 12 anni, il non-rifiuto, valeva come consenso a questo matrimonio. Il matrimonio poteva ora essere sciolto soltanto dal divorzio o dalla morte di una delle parti.

Diverse autorità talmudiche si opposero al matrimonio di figlie minorenni, e sostenevano l'opinione che al padre fosse vietato dare ad un uomo in sposa la figlia minorenne. Egli doveva aspettare finché essa fosse nell'età della pubertà e dicesse: «Voglio il tizio o il caio» (Kid 41a). In Israele, dove le questioni matrimoniali vengono decise secondo il Diritto giudaico da tribunali rabbinici, fu stabilita nel 1950 l'età minima per il matrimonio di una ragazza a 16 anni e nel 1960 a 17 anni.

Kiddushin (sponsali)[10]

Mentre per la validità del contratto previo stipulato durante il fidanzamento basta l'accordo orale, per i Kiddushin non è sufficiente una semplice manifestazione orale della volontà. Come per altri obblighi di diritto civile, anche i Kiddushin sono validi solamente se l'accordo orale viene accompagnato da un formale atto d'acquisto (Kinjan). Tale atto nel caso dei Kiddushin può avvenire secondo il Diritto talmudico (Kid I 1) in una triplice forma: ossia, tramite consegna di un oggetto di valore, o tramite consegna di un documento, o tramite l'atto sessuale. In tutte e tre le forme è necessario per la validità del Kiddushin il libero consenso della fidanzata (Kid 2b), tranne il caso di una figlia minorenne, come ho detto sopra.

Se il fidanzato, d'altra parte, ha subito coercizione, i Kiddushin secondo Maimonide[11] sono validi, poiché egli ha la possibilità di divorziare. Altre autorità posttalmudiche ritengono invalidi i Kiddushin anche in questo caso. Anche se i due fidanzati potevano in linea di principio farsi rappresentare da un incaricato ai Kiddushin (che avveniva tramite consegna di un oggetto di valore o tramite un documento), era un obbligo religioso fare i Kiddushin personalmente[12].

a) Kiddushin tramite consegna di un oggetto di valore[13]. Come importo minimo, rappresentante un prezzo d'acquisto simbolico, la Mishna (Kid I 1) nomina una Peruta (ossia la più piccola moneta di rame) oppure il valore di una Peruta: ma cita questo come l'opinione della scuola di Hillel. Nel consegnare l'oggetto di valore alla fidanzata, il fidanzato deve esprimere chiaramente alla presenza di due testimoni competenti[14] che egli con ciò fa i Kiddushin, press'a poco con le formule: «Sii mia moglie», «sii a me coniugata», «sii mia appropriata» (Kid 6a). Nell'accettare l'oggetto di valore la fidanzata mostra il proprio consenso[15]. Nel Medioevo venne in uso di utilizzare come oggetto di valore un anello; e questo modo di fare i Kiddushin è l'unico rimasto in vigore fino ad oggi.

b) Kiddushin tramite un documento: il fidanzato consegnava alla fidanzata in presenza di due testimoni competenti un documento sul quale erano scritti i nomi dei fidanzati, eventuali condizioni e la formula dei Kiddushin (cf. Kid 9a/b). Nell'accettazione del documento la donna era coniugata.

c) Kiddushin tramite l'atto sessuale: il fidanzata rivolgeva alla fidanzata in presenza di due testimoni competenti una formula dei Kiddushin adeguata, per esempio: «Tu mi sei coniugata con questo atto sessuale». Dopo di che egli si ritirava con la sua fidanzata in un ambiente privato, ciò che i testimoni dovevano proprio confermare. Dopo l'atto sessuale la donna era coniugata. Questa forma di fare i Kiddushin fu sentita come immorale nel terzo secolo al più tardi. Anche se i Kiddushin avevano avuto luogo in questa forma, rimasero validi; chi tuttavia, si coniugava così con una donna, veniva punito con la flagellazione (Kid 12b).

I Kiddushin producono tra i coniugi un legame giuridico che può essere sciolto soltanto dalla morte di una delle parti o dal divorzio (Ket I 2, V 1; Git VIII 9). Dal punto di vista del diritto penale, le leggi dell'adulterio sono in vigore dal momento dei Kiddushin. I soli Kiddushin non hanno peraltro ancora come conseguenza quei diritti e doveri che sussistono tra marito e moglie. Ciò significa soprattutto: l'atto sessuale è proibito[16] e il coniuge non è ancora tenuto al mantenimento della donna.

Nissuin (nozze)

Il matrimonio trova la sua conclusione giuridica quando la coniuge dopo Kiddushin viene introdotta alla presenza di due testimoni competenti nella casa del coniuge, più precisamente nella «Chuppa» (baldacchino; camera nuziale). Per una vergine questo avveniva generalmente un anno dopo i Kiddushin, per una vedova o una divorziata trenta giorni dopo i Kiddushin (cf. Ket V 2)[17].

Esistono diverse opinioni sull'atto essenziale per mezzo del quale subentrano gli effetti giuridici del matrimonio. Secondo un'opinione[18] il matrimonio è compiuto non appena la sposa entra nella casa dello sposo ed entrambi hanno l'intenzione di contrarre il matrimonio «secondo la Legge di Mosè e d'Israele»[19]. Questa opinione comprende la Chuppa come «Baldacchino», sotto il quale viene condotta la sposa e il quale simboleggia il dominio dell'uomo. Secondo l'opinione più accettata il matrimonio è compiuto quando gli sposi, con l'intenzione di contrarre il matrimonio «secondo la Legge di Mosè e d'Israele», si ritirano da soli in un ambiente e vi si trattengono per un tempo in cui si potrebbe avere un atto sessuale. Questa seconda opinione comprende la Chuppa nel senso di «camera nuziale». Anche se l'atto sessuale non ha luogo, la donna è considerata sposata dopo l'incontro privato, presupposto che sia idonea per un atto sessuale. Se la donna pertanto ha le mestruazioni, durante le quali il rapporto sessuale è vietato (Lev 18,19), il matrimonio (Nissuin) non è ancora compiuto[20].

Dal dodicesimo secolo in poi divenne usuale unire Kiddushin e Nissuin, ossia farli coincidere in un'unica cerimonia nella medesima data. Per quanto l'osservanza o l'omissione dei riti prescritti non abbiano alcun influsso sull'effetto giuridico del matrimonio, tuttavia è raccomandabile per evitare complicazioni, seguire il cerimoniale usuale.

Oggi è sostanzialmente in uso in larghi strati del Giudaismo il seguente cerimoniale: all'inizio lo sposo assume, in presenza di un rabbino e di dieci uomini - per la validità bastano due testimoni competenti - gli obblighi della scrittura di matrimonio, Ketuba (ne parlerò dopo). Egli pone l'atto simbolico d'acquisto usuale nel contrarre degli obblighi (acquisto tramite cambio), ossia prende un fazzoletto o un altro oggetto dalla mano del rabbino, lo solleva e glielo restituisce. La Ketuba sarà poi firmata dai testimoni e in molte parti anche dallo sposo. Ora gli sposi vengono condotti sotto il Baldacchino. Con una coppa di vino viene pronunciata una benedizione (cf. Ket 7b). Dopo di che lo sposo mette l'anello al dito della sposa dicendo: «Mi sei consacrata con questo anello secondo la Legge di Mosè e d'Israele».

In alcuni strati del Giudaismo conservatore e del Giudaismo riformato, particolarmente negli Stati Uniti, ha preso cittadinanza il costume che anche la sposa mette un anello al dito dello sposo e pronuncia la formula dei Kiddushin. Siccome però secondo la legge giudaica è lo sposo che acquista la sposa e non viceversa, questa usanza urta contro difficoltà legali che riguardano, secondo alcune autorità, anche la validità del matrimonio. Alla consegna dell’anello segue la lettura della Ketuba. Così si conclude la prima parte della cerimonia. Con una seconda coppa di vino saranno poi recitate le benedizioni nuziali. Dopo di che gli sposi vengono condotti in una stanza dove, lasciati soli, fanno di solito uno spuntino.

Al tempo della Mishna vedove e divorziate sposavano di giovedì, vergini di mercoledì (Ket I 1)[21]. Secondo la spiegazione della Mishna questo doveva dare allo sposo la possibilità di sporgere denuncia per mancante verginità durante l’udienza dei giudici che aveva luogo il giovedì (Ket I 1)[22]. La denuncia può avere due conseguenze: se la donna ha commesso adulterio dopo i Kiddushin, al marito è vietata l’ulteriore convivenza con lei (cf. Sot V 1, VI 1; Sot 25a)[23]. In secondo luogo il marito può eventualmente sollevare obiezioni contro la Ketuba, dato che la somma base prescritta per una non-vergine è metà di quella per una vergine[24].

Ketuba (scrittura di matrimonio)

La Ketuba è in primo luogo il documento matrimoniale e in secondo luogo un importo da pagarsi per questo documento. La compilazione della Ketuba costituisce uno stretto dovere del marito, e Rabbi Meir (2 sec. d.C.) proibì di tenere la moglie anche un'ora soltanto senza la Ketuba (B Kam 89a). Ma anche se il marito non scrive alcuna Ketuba, come accadeva in certi villaggi (Ket 16b), gli effetti legali tuttavia subentrano ugualmente, poiché nascono per legge come «disposizione giudiziaria» (Ket IV 7-8). Nella Ketuba il marito s'impegna di far pervenire alla moglie, per il suo sostentamento, una certa somma di denaro nel caso che egli muoia o in caso di divorzio non causato dalla donna[25].

L'istituzione della usuale Ketuba risale a Shimon ben Shetach (1 sec. a.C.; Shab 14b). Prima di Shimon ben Shetach l'uomo doveva mettere da parte una determinata somma di denaro oppure corrispondenti oggetti di valore per la Ketuba, e non doveva farne alcun uso personale. Questo non fu abbastanza efficace per rendere più difficile il divorzio, poiché per un pretesto insignificante il marito poteva dire alla moglie: «Prendi la tua Ketuba e vattene!» Shimon ben Shetach ordinò che la Ketuba venisse prescritta come debito per il quale il marito dava garanzia con tutto il suo patrimonio (Ket VIII 8; Ket 82b).

Questa norma da una parte facilitava un precoce matrimonio all'uomo che non aveva disponibile la Ketuba e che pertanto avrebbe potuto procurarsela soltanto dopo lungo lavoro. D'altra parte rendeva più difficile il divorzio, dato che la liquidazione della Ketuba rappresentava per il marito un aggravio notevole. La somma prescritta nella Ketuba-documento era al tempo della Mishna abbastanza considerevole, ossia per una vergine comportava 200 Zuz, per una vedova o divorziata 100 Zuz (Ket I 2), per la figlia vergine di un Kohen (cioè di un discendente di Aronne) 400 Zuz (Ket I 5). Era usuale aumentare l'importo base della Ketuba con un'aggiunta facoltativa (Ket V 1)[26].

Inoltre in base a disposizioni mishnaico-talmudiche è divenuto norma che nella Ketuba siano registrati gli obblighi economici del marito corrispondenti alla dote e al corredo portati dalla sposa. Anche qui il marito assume l'obbligo di un importo aggiuntivo, dato che gode l'usufrutto di questi beni[27]. Oltre agli obblighi economici la Ketuba oggi in uso contiene per di più il dovere di onorare la moglie, di nutrirla conforme alla sua posizione sociale, di vestirla, di concederle il mantenimento e di aver con lei rapporti coniugali[28].

Da quando (circa nell'anno 1000) Rabbi Gershom, chiamato la «luce dell'esilio», pronunciò il divieto di divorziare dalla moglie contro la sua volontà, la Ketuba perdette d'importanza. La moglie poteva rifiutare il proprio consenso al divorzio qualora le sue richieste finanziarie non fossero state corrisposte. Inoltre, nel caso in cui marito e moglie non raggiungano alcun accordo fra di loro, i divorzi vengono deferiti al tribunale, dove sono regolarizzate anche le richieste della moglie. Il Giudaismo riformato oggi non prevede più la stesura della Ketuba.

II

Il matrimonio leviratico

Il matrimonio leviratico si contrae tra il fratello di un defunto senza discendenza e la sua vedova. Viene descritto in Dt 25, 5-6. Se il fratello non vuole sposare la vedova, ha luogo la Chalitza, cioè la cerimonia del togliere il sandalo, la quale cerimonia ha come effetto giuridico che la donna viene liberata dal legame con il cognato, il levir, e può sposare un altro. Questo viene descritto in Dt 25,7-10[29].

Le disposizioni rabbiniche risalgono all'esegesi del citato testo biblico. Le parole «se dei fratelli dimorano insieme» furono interpretate nel senso che il dovere del Levirato non sussiste se il fratello è nato soltanto dopo la morte del defunto senza prole (Jeb II 1). Se al contrario il levir è nato anche solo un giorno prima della morte del fratello, la vedova è legata a lui (Nid V 3), ossia deve aspettare finché compie tredici anni, quando può legalmente o contrarre il matrimonio leviratico o liberare la vedova con la Chalitza (Jeb 105b). Il Levirato vale solo per fratelli che sono figli dello stesso padre (Jeb 17b). Anche fratelli illegittimi[30] legano la donna al Levirato (Jeb II 5). Escluso è solamente un figlio generato con una schiava o una non-giudea, perché questo non viene considerato come figlio del padre (Jeb II 5).

Il dovere del Levirato subentra dunque quando il morto non ha né figlio né figlia. Se la vedova è incinta bisognerà attendere fino alla nascita della prole perché si possa stabilire se questa nasce viva (Jeb IV 1; Jeb 35b/36a). Non è di alcuna importanza se la vedova abbia figli da un altro uomo. Se il defunto ha più fratelli, ognuno di essi può contrarre il matrimonio leviratico oppure liberare la vedova con la Chalitza; al più anziano però viene lasciata la precedenza (Jeb II 8)[31]. Se il defunto ha più mogli, tutte sono legate al Levirato. Una soltanto però lo contrae o compie la Chalitza[32]. Così tutte le altre mogli saranno libere di sposare altri uomini (Jeb IV 11).

Il rapporto di Levirato non subentra quando vi si oppone un divieto d'incesto, quando cioè la vedova è strettamente imparentata con il levir anche in altro modo, ad esempio, perché gli è figlia (Jeb I 1-3). Il matrimonio leviratico secondo il testo di Dt 25,5 veniva compiuto con l'atto sessuale[33]. Una disposizione talmudica fa un dovere di contrarre il matrimonio leviratico come ogni altro matrimonio (cf. Jeb 52a). Gli sponsali avvenivano tramite consegna di un oggetto di valore oppure di un documento e non si chiamavano Kiddushin, bensì Maamar, «dichiarazione».

La questione se sia da preferire il matrimonio leviratico oppure la Chalitza, venne giudicata diversamente dai Rabbini talmudici e da quelli posttalmudici. L'abolizione della poligamia da parte di Rabbi Gershom, ebbe per conseguenza un grande influsso a favore della Chalitza, e il matrimonio leviratico un po’ alla volta non fu più praticato là dove veniva abolita la poligamia.

I Giudei ashkenaziti (ossia i Giudei originari dall'Europa centrale), che costituiscono la più grande parte della comunità giudaica, accettando il decreto di Rabbi Gershom, non avevano più che la Chalitza; non così i Giudei sefarditi (ossia i Giudei originari della Spagna e del Portogallo) e in prevalenza neppure i Giudei delle comunità orientali. Pertanto in comunità sefardite ed orientali il matrimonio leviratico o la Chalitza venivano praticati fino al presente. Nell'anno 1950 il matrimonio leviratico fu vietato da una decisione del Rabbinato primario dello Stato d'Israele per tutti i Giudei d'Israele (ossia Giudei ashkenaziti, sefarditi e orientali) e fu imposta la Chalitza.

Note al testo

[*] La relazione si rivolge ad un uditorio non specializzato in problemi giudaici particolari e perciò, in linea di massima, dovrà limitarsi ad informazioni di indole generale. - Per una bibliografia essenziale si veda soprattutto: M. Mielziner, The Jewish Law of Marriage and Divorce in ancient and modern times, and its relation to the law of the State, Cincinnati 1884; J. Neubauer, Beiträge zur Geschichte des biblisch-talmudischen Eheschliessungs-rechts. Eine rechtsvergleichend-historische Studie, Leipzig 1920; L. M. Epstein, The Jewish Marriage Contract. A Study in the Status of the Woman in Jewish Law, New York 1927; Id., Marriage Laws in the Bible and the Talmud, Cambridge, Mass. 1942; Id., Sex Laws and Customs in Judaism, New York 1948; E. Neufeld, Ancient Hebrew Marriage Laws. With special references to General Semitic Laws and Customs, London 1944; A. Freimann, Seder Kiddushin ve-Nissuin achare Chatimat ha-Talmud, Jerusalem 1945; K. Kahana, The Theory of Marriage in Jewish Law, Leiden 1966; Z. W. Falk, Jewish Matrimonial Law in the Middle Ages, London 1966; B. Schereschewsky, Dine Mishpacha, Jerusalem 1977.

[1] I Trattati della Mishna vengono citati per capitoli e Halacha utilizzando le abbreviazioni usuali (per es. Kid I l); i Trattati del Talmud babilonese, per fogli e pagine (per es. Jeb 63b). - Accanto ad altre fonti viene citato anche il Mishne Tora di Maimonide (1135-1204), cioè essenzialmente una raccolta sistematica di leggi, divisa in 14 libri. Le decisioni di questo Codice si fondano soprattutto sul Talmud babilonese, ma anche sul Talmud Jerushalmi, sui Midrashim halachici - non da ultimo sull'esegesi biblica dello stesso Maimonide. - Nelle edizioni usuali le fonti del Mishne Tora sono indicate nel «Kesef Mishne».

[3] Sembra che tale obbligo non sia derivato direttamente dalla Bibbia, bensì risalga a idee e leggi greche e romane; cf D. Daube, The Duty of Procreation, Edinburgh 1977.

[4] Cf. Maimonide, Hilchot Issure Bia XXI 26.

[5] Maimonide, Hilchot Ishut XV 16.

[6] Cf. Maimonide, Hilchot Ishut III 22. - Da R. Elia, famosa autorità di Vilna (18 sec.), il fidanzamento veniva tenuto in così alta considerazione da fargli consigliare al fidanzato di sposarsi e poi divorziare dalla moglie piuttosto che rompere un fidanzamento.

[7] Quando in passato si recedeva da questo contratto previo, non si poteva essere costretti al risarcimento di un danno subentrato all'altra parte, dato che detto contratto diventava impegnativo soltanto con i Kiddushin. Solo nel Medioevo il contratto previo ricevette una posizione giuridica autonoma, e per la sua infrazione furono stabilite delle pene.

[8] Cf. Es 21,7; Dt 22,16; Maimonide, Hilchot Ishut III 11. L'opinione difesa da alcuni saggi, di dare in sposo anche il proprio figlio minorenne (Mechilta, Nezikin III su Es 21,10; cf. Ket IX 9) già al tempo della Mishna non fu presa in seria considerazione. Maritare una figlia minorenne - anche senza il suo consenso - era sempre un caso eccezionale, che però aveva luogo (generalmente a motivo delle situazioni economiche disagiate) almeno ancora nel Medioevo; cf. Tosafot su Kid 41a.

[9] Ossia: o da sola oppure con il suo consenso con la mediazione della madre o dei suoi fratelli. Il padre aveva perduto su di lei ogni autorità in seguito al suo precedente matrimonio; cf. Maimonide, Hilchot Ishut III 12.

[10] Il concetto «Kiddushin» sembra derivare dalla Benedizione che veniva pronunciata per i Kiddushin, la quale termina con la menzione della «santità» d'Israele. Invece di dire: l'uomo acquista la donna (Kid I 1) si diceva: l'uomo santifica la donna (Kid II 1).

[11] Maimonide, Hilchot Ishut IV 1.

[12] Maimonide, Hilchot Ishut III 19; cf. Kid 41a.

[13] La consegna di un oggetto di valore per Kiddushin, ma soprattutto gli obblighi menzionati in seguito nella Ketuba sono da considerarsi come adempimento dell'istituzione biblica del prezzo per la sposa (Mohar), che lo sposo pagava al padre di lei.

[14] Secondo Maimonide, Hilchot Edut IX 1, sono esclusi come testimoni competenti dieci gruppi di persone: donne, schiavi, minorenni, minorati psichici, sordomuti, ciechi, trasgressori della legge, gente disprezzata, parenti e testimoni personalmente interessati. Non è qui il caso di approfondire la discussione e l'ulteriore sviluppo di questi criteri.

[15] Se la fidanzata rifiuta di accettare l'oggetto di valore e p. es. lo getta via, i Kiddushin sono invalidi; cf. Kid 8b.

[16] Cf. la Benedizione dei Kiddushin in Ket 7b: «Benedetto Colui che ci ha santificati con i Suoi comandamenti, che ci ha proibito la fornicazione, che ci ha vietato le spose (tramite i soli Kiddushin) e che ci ha permesso le coniugi tramite Chuppa e Kiddushin». Solo all'epoca in cui despoti romani si arrogavano lo ius primae noctis, fu permesso agli sposi (dopo Kiddushin) di avere rapporti sessuali prima dei Nissuin; cf. Talmud Jerushalmi Ket I 5,25c.

[17] La vedova o divorziata doveva però attendere tre mesi a partire dalla morte del marito o dal divorzio, prima di contrarre un nuovo matrimonio, affinché risultasse evidente se era incinta o no e potesse così essere determinata univocamente la paternità eventuale del bambino; cf. Jeb IV 10.

[18] Per es. R. Nissim su Ket I.

[19] Le parole «secondo la Legge di Mosè e d'Israele» si trovano già in una Ketuba alessandrina del tempo di Hillel; cf. Tosefta Ket IV 9.

[20] Così ad es. Maimonide, Hilchot Ishut X 2; cf. Ket IV 5; Ket 48b, 56a. Alcune autorità posteriori sono però dell'opinione che la condizione della donna (ossia la mestruazione) non abbia alcun influsso sul matrimonio; cf. il Codice di R. Josef Karo (16 sec.) Shulchan Aruch, Eben ha-Ezer 61,1-2.

[21] In alcuni determinati giorni però è proibito sposarsi; cf. Maimonide, Hilchot Ishut X 14.

[22] In Giudea si era meno severi che in Galilea e si permetteva agli sposi di incontrarsi tra Kiddushin e Nissuin. Se a tale incontro non erano presenti dei testimoni, non si poteva sporgere denuncia per verginità mancante (Ket 1, 5; Ket 12a).

[23] In riferimento alle leggi riguardanti una donna sospetta di adulterio (Sota) cf. Nu 5,11-31 e il Trattato Sota. R. Jochanan b. Zakkai, un discepolo di Hillel, abolì il rito dell’acqua amara (Sot IX 9). – Nel Midrash tannaitico Sifre su Deuteronomio (Ki Tetze § 218) viene tramandata una tradizione «degli uomini di Gerusalemme» secondo la quale un uomo, se voleva perdonare la sua donna sospetta di adulterio, lo poteva fare.

[24] Qualora vi sia del dubbio sulla circostanza, il marito, se Kohen, deve divorziare. Un laico può non divorziare, perché la moglie potrebbe essere stata violentata dopo Kiddushin, oppure aver perduto la sua verginità forse già in antecedenza. La Ketuba-importo viene comunque ridotta della metà, a meno che la moglie non sostenga di essere stata violentata dopo Kiddushin. Cf. Ket 10a/b; Maimonide, Hilchot Ishut XI 8-17.

[25] Ossia: un divorzio che avviene non perché la donna ha trasgredito la Legge di Mosè o la tradizione giudaica (Ket VII 6).

[26] Nell'anno 1953 nello Stato d'Israele dal Rabbinato primario fu fissato come importo base minimo della Ketuba più l'aggiunta, per una vergine 200 Lirot, per una vedova o divorziata 100 Lirot.

[27] Per distinzioni più precise cf. Maimonide, Hilchot Ishut XVI 1-2.

[28] I tre doveri del marito nei confronti della moglie, citati in Es 21,10 (alimenti, vestiario, rapporti sessuali) furono aumentati dai Rabbini di altri sette obblighi: obblighi della Ketuba; obbligo dell'assistenza medica in caso di malattia; obbligo della liberazione dalla cattività; dovere della sepoltura; obbligo degli eredi del marito di concedere vitto e alloggio alla vedova; obbligo degli eredi del marito di concedere il sostentamento alle figlie di lei; diritto dei figli maschi della moglie all'eredità della sua Ketuba-importo da sottrarre dal lascito del padre. - Il marito ha i seguenti diritti: diritto all'acquisto della moglie; diritto a ciò che la moglie può eventualmente trovare; usufrutto del patrimonio di lei, mentre dura il matrimonio; diritto al lascito della moglie dopo la sua morte. Cf. Maimonide, Hilchot Ishut XII 2-3.

[29] Gli avvenimenti riguardanti Giuda e Tamar (Gen 38) e quelli riguardanti Rut e Boaz (Rut 4) sono da considerarsi diversi dalle leggi descritte nel Deuteronomio; cf. i commentari.

[30] Persino un figlio generato nell'incesto o adulterio (Mamzer).

[31] Non si aspetta un fratello minore che soltanto dopo parecchio tempo potrebbe contrarre il matrimonio leviratico (Jeb IV 6). Il fratello che contrae il matrimonio leviratico diventa l'unico erede del defunto. Se invece concede la Chalitza, è il padre che prende possesso dell'eredità complessiva; se il padre non vive più, l'eredità sarà distribuita uniformemente tra i fratelli (Jeb IV 7).

[32] Il matrimonio leviratico e la Chalitza avvengono tre mesi dopo la morte del marito senza prole (Jeb IV 10). - In caso di Chalitza era usuale redigere un documento (Jeb 39b); talvolta si scriveva anche un libello di divorzio (Jeb V 1). Più tardi si rinunciò ad un tale documento, dato che la cerimonia aveva luogo pubblicamente (ossia generalmente davanti a dieci uomini) ed era perciò sufficientemente attestata.

[33] Cf. Kid I 1.