«Fa’ della tua vita un’opera d’arte». Un’intervista a d. Fabio Rosini di Saverio Gaeta

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 20 /05 /2013 - 14:35 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito della rivista Credere un’intervista a d. Fabio Rosini di Saverio Gaeta pubblicata sul numero 3 del 21 aprile 2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (20/5/2013)

Sulla targa del suo ufficio nel Vicariato di Roma ha fatto modificare la dicitura: da «Servizio per le vocazioni» a «Servizio alle vocazioni». «Può sembrare una minuzia», spiega don Fabio Rosini, da due anni direttore dell’ufficio e incaricato di rilanciare la pastorale vocazionale nella diocesi romana, «ma “il” vuol dire che il Servizio in qualche modo procura le vocazioni, “alle” significa invece che si pone al loro servizio». «Noi siamo soltanto intermediari della chiamata che viene fatta direttamente da Dio, se la vocazione è autentica», prosegue il sacerdote, noto anche per aver dato avvio a un progetto di catechesi sui “Dieci comandamenti” che si è diffuso a macchia d’olio in tutta l’Italia, «e quello che ci compete è unicamente l’accompagnamento in tale cammino di scoperta».

Don Fabio, domenica 21 aprile si celebra la cinquantesima Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. A che si deve la carenza di vocazioni alla vita consacrata che da tempo ormai si manifesta nella nostra Chiesa?

«In realtà, mentre noi continuiamo a pensare che manchino le vocazioni, quel che è scomparso è l’humus delle vocazioni, quella sorgente rappresentata da una fede vitale. La vocazione, infatti, è la naturale evoluzione di un’identità battesimale. Non esiste una bipartizione fra quelli che hanno la vocazione e quelli che non la hanno: a tutti spetta seguire il Signore Gesù in una forma concreta. E dunque il discernimento vocazionale non è altro se non il raggiungimento della maturità che qualsiasi cristiano deve raggiungere».

E allora, che cosa è mancato in questi decenni?

«La formazione cristiana. Abbiamo centrato il nostro impegno su aspetti secondari, come le tecniche della comunicazione e gli approfondimenti psicologici, trascurando quello primario: la questione vocazionale è essenzialmente spirituale. Lo afferma anche il tema di questa cinquantesima Giornata: “Le vocazioni segno della speranza fondata sulla fede”. La vocazione è un rapporto con Dio: non dobbiamo pensare di attirare ragazzi per realizzare semplicemente delle cose belle ed efficaci, ma per valorizzare la loro relazione con il Padre celeste».

Questa analisi scaturisce anche da un’esperienza personale?

«La mia vocazione affonda le radici in una confessione a nove anni con il mio viceparroco, il quale mi disse che Dio avrebbe fatto della mia vita un’opera d’arte. Questa frase mi si è scolpita nell’anima e l’ho cercata nella vita di ogni giorno. Ho fatto il musicista, e da giovane ho anche rinnegato la Chiesa perché vedevo in essa esperienze mediocri. Poi ho rivalorizzato quanto avevo perso. Quel che ho compreso nel mio percorso sacerdotale è che corriamo il rischio di formare i nostri pastori come degli ottimi organizzatori, forse dei buoni celebranti, ma improvvisatori della dinamica formativa».

C’è qualche precisa problematica all’origine di questa carenza di formazione?

«Sì, il fatto che, a partire da una quarantina d’anni, fa si sono indebolite due istanze formative fondamentali: da una parte la famiglia (che rimase intrappolata nel delirio del consumismo e della secolarizzazione, e che non si è più ripresa la sua statura piena di luogo virtuoso formativo), dall’altra noi sacerdoti (che abbiamo continuato a parlare presupponendo la fede, e con una autorità che nessuno dava più per scontata). Di concerto a questo vuoto, negli ultimi cinquant’anni la cultura cristiana si è sgretolata e la colpa è nostra, poiché abbiamo scelto di lasciare l’ambito culturale ad altri, cosicché le nozioni cristiane sono state svuotate e banalizzate dal di dentro».

È una crisi irreversibile, oppure c’è qualche speranza?

«Per carità. Ogni momento di crisi è anche un punto di partenza e di cambiamento. L’importante è continuare ad annunciare il Vangelo senza sconti o compromessi, evitando di cadere in due istanze estreme: da un lato, una difesa rigida della posizione, senza capacità di spiegare il dato della fede; dall’altro, l’atteggiamento di chi è disposto a trattare su tutto pur di avere ascolto. Il nostro interlocutore d’oggi, soprattutto se giovane, è spesso più alfabetizzato di noi a livello mediatico e informatico ed è capace di porre domande sostanziali. Questa è una potenzialità, non un problema. Le risposte che attende devono essere nitide ed esplicite, riproponendo con coraggio e allegria la vita cristiana come un viaggio verso cose grandi, che ha per meta il cielo».

Quali sono le possibili modalità di una pastorale vocazionale al passo con i tempi?

«Intanto bisogna pensare a una pastorale giovanile a tutto tondo, in quanto la vocazione è fatta sia di ordinaria continuità che di straordinarietà. Non dobbiamo limitarci a momenti unici ed esclusivi di crescita e di discernimento: sono cattedrali nel deserto, poiché magari si vivono esperienze intense, che però al ritorno a casa lasciano unicamente nostalgia. Se un ragazzo, dopo aver partecipato a un evento forte come per esempio può essere la Giornata mondiale della gioventù, non trova continuità nella sua comunità, si ferma e non va da nessuna parte. Perciò dobbiamo rientrare nell’ordinario, con iniziative costanti a livello locale».

Qualche esempio?

«In alcune chiese del centro di Roma stiamo svolgendo una catechesi mensile sul Credo che attrae in un percorso continuativo un migliaio di giovani, che poi proseguono la riflessione nelle loro parrocchie, nelle tre settimane seguenti. In tal modo il momento dell’assimilazione viene vissuto con il proprio sacerdote e i suoi collaboratori laici, dopo l’iniziale slancio comune. Abbiamo poi avviato corsi vocazionali in collaborazione tra le parrocchie della singola prefettura: da un lato dell’altare duecento giovani entusiasti, dall’altro lato quindici sacerdoti che mettono in comune le loro esperienze, coadiuvati, ancora una volta, dagli animatori laici. I ragazzi hanno così respirato l’unità di Chiesa, hanno percepito la comunione. Questo è un grimaldello: quando noi cristiani sappiamo collaborare, siamo devastanti!».