Gli islamici in preghiera nelle nostre piazze. No ad atti dimostrativi sì a gesti di coscienza (dalla rassegna stampa)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 07 /01 /2009 - 00:24 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire del 6, 8 e 9/1/2009 per il Progetto Portaparola, alcuni articoli sulla preghiera islamica nelle piazze di Milano e Bologna contestualmente legata alla manifestazione politica contro Israele del 3 gennaio 2009.


Gli islamici in preghiera nelle nostre piazze. No ad atti dimostrativi sì a gesti di coscienza, di Davide Rondoni
Da Avvenire del 6/1/2009


La preghiera islamica promossa sabato in diversi luoghi e piazze italiane ha suscitato diversi commenti. Alcuni si sono soffermati su problemi di opportunità, qualcuno ha sottolineato la concomitanza non felice di un gesto di preghiera con una manifestazione politica dai toni e dai gesti anche accesi, qualche altro ha opportunamente ricordato che la preghiera non è mai un atto dimostrativo, ancor meno contro qualcuno. Ma il fatto significativo è che i luoghi più emblematici di città importanti si sono riempiti di uomini in preghiera.

In tutto questo noi vediamo innanzitutto un richiamo ai cristiani a fare più seriamente i conti con la propria fede. E non certo per emulare. Il fatto è che, se ce ne fosse ancora bisogno, si è visto sulle nostre piazze che il problema religioso non è qualcosa che sta fuori dalla vita della città. Semplicemente perché non sta fuori dalla vita degli uomini, e la città, lo spazio pubblico, è abitato da uomini non dai fantasmi sognati da certi filosofi. Proprio le nostre piazze, dove sorgono alcune delle più belle chiese della cristianità, ne sono una bella dimostrazione.

Nonostante ideologie professate per secoli da presunti maestri del pensiero e da certi capi politici che vorrebbero escludere il problema religioso dalla vita di un uomo e della sua città, esso si ripresenta sempre. In un modo o nell’altro. E per i cristiani questo è anzitutto un invito a prendere di più sul serio la propria fede, spesso remota come un buon ricordo, o coltivata come una passione quasi spenta, una buona educazione domenicale. La preghiera-manifestazione degli islamici arriva, in coda alle feste di Natale, come un estremo richiamo al senso delle preghiere che si sono alzate (o non si sono alzate) nella nostra Italia delle feste di Natale.

C’è qualcosa da riscoprire, o forse da scoprire per la prima volta, nell’annuncio cristiano. Qualcosa che sconvolge di gusto la vita, e le dona una letizia indistruttibile. E che offre una prospettiva di impegno fertile e buono nella vita personale e pubblica. Un uomo in preghiera, a qualunque religione appartenga, è un richiamo ad approfondire la propria fede e quelli che la tradizione chiama con parola oggi veramente attuale 'i suoi tesori'. Non è proprio questo un momento in cui tutto il mondo si chiede quali siano i reali tesori che possono aiutare a crescere e danno frutto non illusorio? Maturare un rapporto forte, intenso e libero con la religione dei propri padri è il segno di una personalità non dispersa. Ed è la migliore garanzia per non andare verso il futuro a tentoni, prede di crisi di varia natura.

Un grande poeta francese di cent’anni fa, Charles Péguy, dava voce alla commozione di Dio di fronte allo 'spettacolo' di un cristiano libero in preghiera. Un cristiano che era re. Che non pregava perché aveva bisogno di favori. Un re, insomma, metafora dell’uomo libero. Nessuna schiera di uomini prostrati in una specie di annullamento o di estasi cieco commuove Dio come un uomo libero inginocchiato. Come un uomo cosciente della propria dignità e libertà.

La storia delle nostre piazze, con cattedrali e palazzi civici dimostra che il cristianesimo è la fede degli uomini liberi, della loro responsabilità civile e del loro rapporto con il Mistero. La preghiera e la libertà sono le due caratteristiche dell’uomo realista, cioè che si fa guidare dall’esperienza e non dall’ideologia. L’uomo che prega riconosce che il rapporto con la vita senza rapporto con il Mistero perde gusto e intelligenza. Non approfondire la propria fede può significare impoverire la propria libertà. Non pregare significa mancare di realismo.


Scuse islamiche per la preghiera davanti al Duomo, di Francesco Ognibene
Da Avvenire dell’8/1/2009


Dopo le polemiche, le scuse. Con un comunicato diffuso nella serata di ieri, l’Arcidiocesi di Milano ha infatti dato notizia della richiesta da parte di alcuni leader della comunità islamica milanese di incontrare il cardinale Dionigi Tettamanzi per esprimergli personalmente il proprio rincrescimento per quanto accaduto nel pomeriggio di sabato, quando un gruppo di manifestanti che stavano concludendo il corteo contro l’iniziativa militare israeliana a Gaza si era soffermato nella rituale preghiera islamica proprio davanti alla cattedrale.

Un gesto interpretato da alcuni come un’aperta provocazione, con una coda di polemiche mediatiche e politiche che si è trascinata sino a ieri: «L’architetto Asfa Mahmoud – si legge nella nota della Curia milanese –, presidente della Casa della cultura islamica di viale Padova, disponibile anche a coinvolgere il dottor Abdel Hamid Shaari del Centro Islamico di viale Jenner, ha chiesto all’arcivescovo di Milano cardinale Dionigi Tettamanzi un incontro per chiarire quanto è successo sabato scorso e portare le scuse».

«Le cronache – spiega il comunicato – parlano di un corteo che doveva interrompersi in piazza San Babila, ma che – violando le indicazioni delle forze dell’ordine – ha invece raggiunto piazza Duomo, dove insieme ad altre manifestazioni (deplorevole il gesto di bruciare le bandiere) – essendo giunto l’orario prescritto – si è tenuta la preghiera». Questa «è un bisogno e diritto fondamentale, inalienabile per l’uomo: ogni uomo, appartenente a qualsiasi religione, dovunque, anche a Milano». Non solo: essa «aiuta l’uomo a considerare gli altri uomini come fratelli», ma «per essere autentica non può mai essere usata 'contro' qualcuno e deve essere praticata – se pubblica – nei luoghi, nei tempi e nelle modalità opportune».

Tuttavia, nota la Curia milanese, «nella manifestazione di sabato scorso alla preghiera si sono uniti elementi estranei alla religione e alla spiritualità», così che «molti hanno interpretato questa preghiera come un affronto alla fede cattolica nel suo luogo più simbolico ed alto in città: la piazza del Duomo». Di qui l’annunciato incontro per un opportuno chiarimento.

Partita alle 15 dai bastioni di Porta Venezia, la manifestazione promossa dalla comunità palestinese lombarda era proseguita fino a piazza San Babila, dove era previsto che dovesse concludersi. Ma alcuni tra i manifestanti, che già avevano bruciato una bandiera d’Israele sormontata dalla svastica gridando slogan contro lo Stato ebraico, avevano proseguito imboccando le strade che portano verso piazza Duomo e forzando un cordone di Carabinieri, che li avevano lasciati proseguire scortandoli a distanza per evitare lo scontro.

Una volta giunti alle 17 davanti alla cattedrale, dopo l’attraversamento di piazza Scala, circa 200 manifestanti si erano inginocchiati per pregare sulla piazza, ai piedi del sagrato, rivolti verso Palazzo Reale nella direzione della Mecca. A guidarli con un megafono l’imam della moschea di viale Jenner, Abu Imad. La preghiera era durata alcuni minuti, sotto lo sguardo di molti milanesi che affollavano il centro per l’avvio dei saldi di gennaio. Appena conclusa la preghiera, i manifestanti si erano riuniti al centro della piazza scandendo slogan contro Israele e bruciando altre bandiere con la stella di Davide. Nelle stesse ore anche piazza Maggiore, a Bologna, era al centro di un’iniziativa del tutto analoga.

Nell’omelia per la solennità dell’Epifania, il cardinale Tettamanzi aveva affrontato in Duomo il tema dell’integrazione degli immigrati pur senza mai fare riferimento all’episodio di pochi giorni prima: Gli immigrati «sono i nuovi cittadini italiani – aveva detto l’arcivescovo di Milano –. Certamente si portano dietro la difficoltà di un viaggio anche solo interiore, di un cambiamento culturale che lascia tracce profonde. Ma hanno anche la ricchezza di conoscenze e di aperture più vaste che dobbiamo saper accogliere e incanalare per il loro stesso bene».




«Islamici in preghiera: niente ambiguità». Una intervista al gesuita Samir Khalil Samir, di Giorgio Paolucci
Da Avvenire del 9/1/2009


Niente chiusure pregiudiziali ma niente ingenuità. Ben vengano le scuse preannunciate da alcuni esponenti della comunità islamica milanese dopo la preghiera promossa sabato scorso davanti al Duomo e le polemiche che ne erano se¬guite, ma quanto è accaduto deve indurre a una seria riflessione su più fronti. Ne è convinto Samir Khalil Samir, gesuita egiziano, docente alla Saint Joseph University di Beirut e uno tra i massimi conoscitori del mondo islamico.

Cosa la lascia perplesso nella vicenda milanese?
Non si mescolano politica e preghiera. Al di là delle intenzioni personali, che non giudico, è difficile catalogare quanto accaduto come un gesto sostanzialmente di preghiera. Mi è sembrata piuttosto una manifestazione a sfondo politico. Lo dimostra anche il fatto che siano state bruciate bandiere israeliane. Se si vuole pace, deve essere per entrambe le parti in campo. È comprensibile la solidarietà con i palestinesi, ma la preghiera deve essere per tutte le vittime e per chiedere la pace. La protesta politica è altra cosa.

Insomma, sono prevalsi i motivi di ostilità…
La preghiera è qualcosa che appartiene alla dimensione esistenziale della persona, è un bisogno e insieme un diritto inalienabile. Ciò detto, non si prega 'contro' ma 'per' qualcosa o qualcuno. Si può pregare per la pace, per i morti, per il conforto di chi ha perso i propri cari, ma non come gesto di contrapposizione nei confronti di una persona o di un popolo.

C’è chi ha visto nella scelta di piazza del Duomo un gesto che aveva il sapore della sfida, o addirittura della provocazione.
Beh, se un gruppo di cristiani promuovesse una preghiera cattolica davanti a un luogo-simbolo dell’islam, la cosa sarebbe vissuta dai musulmani come una provocazione. La scelta del luogo non è stata indifferente, ma la ritengo un gesto più politico che dal sapore specificamente 'anticattolico'. Hanno scelto la piazza più prestigiosa, per avere la massima visibilità anche a livello mediatico. È stata un’ostentazione di presenza e di forza, in cui la dimensione spirituale e privata si mescola e si sovrappone a quella politico-ideologica. E comunque anche la preghiera, quando viene fatta in un luogo pubblico, deve fare i conti con le regole che fondano la convivenza civile.

A cosa allude?
Mi riferisco al fatto che la manifestazione in piazza Duomo non era autorizzata, il corteo avrebbe dovuto fermarsi prima e così non è accaduto. Se ci si muove fuori dalla legalità per compiere un atto che si ritiene buono, si commette un errore. La libertà di culto non è in discussione in un Paese come l’Italia, ma tutte le realtà religiose devono tenere conto delle regole che la fondano. I musulmani devono capire che il principio di legalità vale per tutti, e noi cattolici dobbiamo aiutarli a capire, a condividere e a praticare questo principio.

Dunque, il diritto di pregare è qualcosa che deve essere in qualche modo 'contestualizzato'?
Voi occidentali dovete cercare di capire (che non equivale a 'condividere') la mentalità di chi proviene da altri mondi, anziché trasferire la vostra ottica su di loro. Questo significa esercitare autentico discernimento: requisito, questo, che deve accompagnare ogni vera amicizia, senza preconcetti e senza ingenuità. Venendo al caso specifico, non basta dire che è lecito pregare, se non si capisce cosa muove chi lo fa, all’interno di una concezione che mescola fede e politica. E una dimostrazione come quella snatura la dimensione religiosa perché la 'costringe' dentro una prospettiva politica. Inoltre ci sono aspetti che a voi potrebbero sembrare secondari e invece sono rivelatori. Durante il corteo contro la guerra che ha preceduto la preghiera è stata più volte scandita la frase 'Allah-u akbar': significa 'Dio è il più grande', è un grido di battaglia, uno slogan politico, ma la stessa frase è stata gridata come appello alla preghiera davanti al Duomo, quasi come una sfida. Dunque, c’è stata quantomeno ambiguità.

Da alcuni settori del mondo islamico italiano si sono levate voci critiche nei confronti delle manifestazioni di Milano e di Bologna. Tra gli altri, Yahya Pallavicini, Fouad Allam, Souad Sbai e Gianpiero Vincenzo Ahmad. Che peso hanno queste prese di posizione?
Premesso che nell’islam non esiste un’autorità gerarchica unanimemente riconosciuta né qualcuno che possa ergersi a rappresentante di tutta la comunità, bisogna tenere conto delle reazioni di queste persone, che condividono i valori di riferimento della cultura islamica e insieme i principi-cardine dell’Occidente. La loro presa di distanza testimonia una varietà di posizioni nell’islam italiano e dovrebbe far aprire gli occhi a chi, tra gli italiani, ha sottovalutato la portata di quello che è accaduto.


«Si deve distinguere la religione dalla politica», di Stefano Andrini
Da Avvenire del 9/1/2009


«Che gran parte degli aderenti abbiano concluso con un atto di culto la loro manifestazione mostra che ancora gran parte dei musulmani europei, italiani e bolognesi non vogliono e non sanno distinguere il piano religioso da quello civile». Lo afferma don Davide Righi, incaricato per i rapporti con l’islam, in un’intervista (che sarà pubblicata domenica prossima dal settimanale diocesano Bologna Sette) sul corteo promosso per protestare contro l’intervento di Israele nella striscia di Gaza e al termine del quale alcune centinaia di musulmani avevano pregato in piazza Maggiore, davanti alla basilica di san Petronio, bruciando anche una bandiera israeliana.

Secondo don Righi si è avuta la conferma che esiste una «regia europea delle manifestazioni». Questo significa «che il presupposto teologico e ideologico soggiacente è che non ci deve e non ci debba essere assolutamente alcuna distinzione tra una manifestazione di solidarietà con chi sta morendo sotto le bombe e la questione della propria fede islamica. Non si riesce a vedere e a fare vedere la possibilità di una solidarietà che non abbia l’etichetta 'islamica'. C’è inoltre chi spinge a fare questa confusione. In questa logica, evidentemente, i morti musulmani hanno più valore dei morti non musulmani. Per quelli non manifestano mai, soprattutto se sono vittime degli attacchi di chiara matrice islamica.

Perpetuano, cioè, la tesi del complotto sionista anti-islamico e giustificano ogni atto violento commesso da musulmani come atto di difesa. Quando poi qualche musulmano fa qualche gesto eclatante o qualche affermazione che li mette in difficoltà davanti all’opinione pubblica si affrettano a dire che non li rappresenta perché 'islam' vuol dire pace».

In questa situazione, osserva il sacerdote, «i bolognesi che non hanno reagito di fronte a quanto si è visto sabato scorso si fanno promotori di una laicità cieca e miope e altrettanto violenta, perché è tirata in ballo solo quando si tratta di colpire i cattolici. Così facendo stanno collaborando alla distruzione della città e di una convivenza civile fondata sul valore della laicità a favore di una comunità religiosa e di una convivenza basata su principi religiosi».

E, a proposito dell’autorizzazione ad usare la piazza concessa dalla Prefettura, don Righi conclude: «La concedono a tante organizzazioni, politiche e religiose, e penso fosse giusto concederla anche a loro a patto che avessero dichiarato espressamente ciò che intendevano fare. La piazza non è degli ebrei, né dei cristiani né dei musulmani: è di chi non si vergogna di essere bolognese e sa confrontarsi civilmente con tutti senza sotterfugi. Piazza Maggiore è di chi sa rispettare la fede altrui e di chi sa piangere su tutti i morti, soprattutto su coloro che sono uccisi dalla violenza umana, da qualsiasi parte provenga».