In ascolto della musica dell’essere, di Pierangelo Sequeri

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 10 /11 /2013 - 14:11 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo l’editoriale di “Luoghi dell’infinito”, in edicola con “Avvenire” dal 5 novembre scritto da Pierangelo Sequeri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (10/11/2013)

La famosa espressione del filosofo Ludwig Wittgenstein, «Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere», contiene certamente un suggestivo richiamo all’onestà intellettuale (e gli scienziati, che ormai parlano di tutto anche loro, non siano troppo precipitosi nel rimandare l’ammonimento ai filosofi e ai teologi). La formula di Wittgenstein, di fatto, vale più che altro come un richiamo morale alla virtù della modestia (come teoria critica, infatti, sarebbe facilmente applicabile anche a tutto quello di cui Wittgenstein ha parlato).

Nella realtà, quella formula trascura in ogni caso l’immenso dominio di tutti quei significati dell’esperienza e del pensiero umano in cui sperimentiamo proprio questo: a rigore non potremmo parlarne, ma non possiamo assolutamente tacerne. Vale per Dio, come ha chiaramente indicato san Tommaso, vale per il tempo, secondo la famosa esemplificazione di sant’Agostino. Ma vale anche per l’amore, come ormai dicono tutti. E anche del “perché della rosa”, secondo il celebre aforisma del mistico Angelus Silesius, si può dire la stessa cosa.

E vale anche per il silenzio. Non foss’altro per il fatto che di silenzi ce ne sono un’infinità, e capirne le differenze non è questione da poco. Alcuni infatti sono orribili: silenzi di morte e di svuotamento totale, di abbandono e di gelido disprezzo, di viltà e di rimozione ostinata. Altri sono desiderati, lungamente attesi o sorprendentemente inattesi. Come un perdono silenzioso, che – inaspettatamente – non ci avvilisce, ribadendo puntigliosamente le pur buone ragioni della nostra colpa. Esistono piccoli silenzi domestici, distanze protettive e sapori di cose buone, che allentano la pressione di ciò che si accumula e le ossessioni del tempo che manca. E, a volte, silenzi incantati che ci portano al bordo del mondo, sulle cime dei monti o nelle notti stellate, rendendo così piccolo il nostro spazio e così promettente l’enigma del suo infinito oltrepassamento. La vera differenza – il vero mistero del silenzio – non sta nell’alternativa fra parlare e tacere, sta nell’immorale mescolanza della chiacchiera del niente e della musica dell’essere, che sarebbe capace di risuonare in ogni più piccolo dettaglio del mondo e dell’anima, se solo la chiacchiera allentasse la sua presa. Persino l’amore e la morte, che ci lasciano senza parole, incominciano a parlare, nel silenzio.

Parlano di cose che sanno, ma che non dicono alla chiacchiera. E che cosa sanno? Sanno che nell’amore e nella morte dell’uomo c’è sempre un’ingiustizia, per le inadempienze di cui siamo responsabili, per le impotenze alle quali siamo vulnerabili. Nel silenzio, l’amore e la morte dell’uomo sanno di meritare infinitamente più rispetto di quanto la chiacchiera che li avvolge non riconosca. Sanno che chi non ha rispetto per la morte, non ne ha per l’amore. E viceversa. E sanno infine – perfettamente, anche se non sanno come dirlo – che queste sono faccende le quali, da ultimo, si devono regolare fra noi e Dio, e nessun altro: nell’incantamento e nello struggimento di un colloquio che taglia fuori la chiacchiera.

«Non moltiplicate le parole, come fanno i pagani», ha detto Gesù (Mt 6,7). Nell’epoca della comunicazione totale, si va formando persino un’assuefazione alla chiacchiera religiosa. «Bisogna comunicare»: ognuno chiede parole sempre nuove per farlo, quasi nessuno chiede silenzio per renderlo possibile. L’assuefazione ad abitare la chiacchiera – a “esserci”, come lo chiamiamo ormai, senza falsi pudori – consuma le potenze dell’anima, la cui eloquenza si sprigiona solo nel silenzio. Non sappiamo più discernere i silenzi. Rimaniamo muti quando il silenzio dell’abbandono si aspetta una parola che rianima. Diventiamo parolai della consolazione a buon mercato quando non sappiamo come riempirlo.

L’invito di questo numero, che parla di luoghi del silenzio, va preso alla lettera, e non come semplice metafora. Una tradizione antichissima del silenzio spirituale di Dio, che il cristianesimo ha prodigiosamente saputo intrecciare con l’inedito carnale della Parola di Dio, ci invita a considerare con meno superficialità la funzione cruciale dei luoghi “edificabili” del silenzio. Non per caso sono anche luoghi della contemplazione, della musica, del rito, dell’iniziazione al mistero e dell’attesa del suo compimento. Tutte figure che si illuminano solo nella profondità del silenzio che le avvolge e le vivifica. Il silenzio che offrono all’anima, perché ritrovi il suo fondo, non è mutismo né autismo. E, per dirvela tutta, penso che nelle nostre città secolari e cablate non sarebbe affatto male se il nucleo dell’edificio-chiesa – proprio come corpo edificato all’interno della comunità cristiana – ritrovasse la forza di questo segno forte, che ormai manca dovunque. L’happening, l’animazione, il dialogo e lo scambio comunitario abbiano i loro luoghi. Una casa della preghiera per tutti i popoli è una casa del silenzio di Dio. Ossia della sua Parola e della sua Presenza, che ci libera dalla chiacchiera e ci guarisce dal suo svuotamento.