La Pietà Rondanini, il testamento spirituale di Michelangelo, di Giulia Spoltore

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 23 /02 /2014 - 14:42 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito Aleteia un articolo di Giulia Spoltore pubblicato il 17/2/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (23/2/2014)

© DR

Michelangelo, come abbiamo avuto modo di dimostrare, è una personalità capace di parlare all’uomo contemporaneo, vale allora la pena chiedersi cosa stesse facendo quando la morte lo colse il 18 febbraio 1564. In quei giorni cosa meditava “l’artefice divino” che aveva infine preferito servire il soglio di Pietro, piuttosto che la sua Firenze?

Il nostro Michelangelo un tempo si era profeticamente definito come “un povero uomo e di poco valore, che mi vo’ a[f]faticando in quell’arte che Dio m’ha dato per allungare la vita mia il più ch’io posso”. La sua vita si spese e consumò sino alla fine nell’arte dello scolpire. Ci ricorda infatti Daniele da Volterra, amico fidato e stimato allievo: “lavorò tutto il sabbato della domenicha di carnevale, e-llavorò in piedi subbiando[1] sopra quel corpo della Pietà” (l’attuale Pietà Rondanini oggi al Castello Sforzesco di Milano)[2].

Lavorare alla Pietà per Michelangelo in quei giorni ultimi era dunque un pensiero dominante[3]. E ancora dalle parole di Daniele al collega Giorgio Vasari ci perviene il racconto di come Michelangelo fosse consapevole dell’approssimarsi della fine: “Quando s’amalò, che fu il lunedì di carnevale, egli mandò per me, come faceva sempre quando che si sentiva niente[4] […]. Come mi vidde disse: O Daniello, io sono spacciato, ma ti rac[c]omando non m’ab[b]andonar […]”.

Alcuni studiosi hanno definito acutamente quest’opera un palinsesto[5], una stratificazione di pensieri. Noi oggi la leggiamo come una sintesi, ma ci sembra che la poesia stessa di Michelangelo ci presenti questo problema. Scriveva così il nostro scultore:

Gl'infiniti pensier mie d'error pieni,
negli ultim'anni della vita mia,
ristringer si dovrien 'n un sol che sia
guida agli etterni suo giorni sereni
.

Ma che poss'io, Signor, s'a me non vieni
coll'usata ineffabil cortesia?
[6]

I suoi infiniti pensieri si sarebbero dovuti restringere in uno solo che fosse guida verso la fine, ma Michelangelo non riesce a dire Dio se non in un affastellarsi di pensieri. Questa stratificazione di pensieri si fa presente nella convivenza di parti molto diverse tra loro e compiute in tempi diversi nella stessa scultura della Pietà Rondanini. Il braccio staccato e la parte delle gambe ben finite fanno parte di una prima sessione dei lavori tra il 1552-1553 e il 1555, mentre le parti che paiono non rifinite sono state lavorate a più riprese in seguito e fino alla fine. C’è da dire che questo gruppo che Michelangelo scolpì per se stesso, cosa assai rara considerato il costo dei blocchi di marmo, subì forti mutamenti in corso d’opera: la Vergine inizialmente era probabilmente un Nicodemo (dunque non un androgino come è stato ipotizzato da qualcuno che ha considerato l’abbigliamento maschile), la sua testa era inizialmente rivolta verso l’alto e a sinistra, dunque non era possibile apprezzare il gruppo se non muovendosi intorno ad esso, compiendo un quarto di giro.

Probabilmente all’inizio Michelangelo pensò a un Cristo deposto (iconografia che sin dagli anni giovanili e per tutta la carriera rielaborerà in diverse varianti), il che tornerebbe con la presenza del Nicodemo poi mutato in Vergine: dunque nessun subdolo significato, ma un cambio di programma iconografico. La forza di quest’opera sta nel suo essere un “tutto”, questo commuove, il fatto stesso di non aver rilavorato o eliminato il braccio e le gambe ben finite, ci dice che Michelangelo pensava che queste parti dovessero convivere così come sono con la scultura che stava formando, certo non sapremo mai quando lo scultore avrebbe considerato finita l’opera, certo è che quando la morte lo prese lui ancora ci lavorava sopra. Ci sembra a questo punto irrisolvibile il nodo critico del “non finito” e rimarrà insoluto per sempre (a meno che non ci si voglia gettare in derive non soggette a verifica storica), per cui non ci concentreremo oltre sul dato stilistico, ma ci spostiamo su quello iconografico.

Perché proprio una iconografia legata al Cristo morto? Si tratta di oscuro pessimismo religioso o c’è dell’altro? La critica ha molto sottolineato il ripiegamento spirituale dell’ultimo Michelangelo, è vero che il nostro scultore predilige il Cristo patiens a quello trionfatore, ma questa è una tendenza particolarmente vicina anche a tutta la letteratura omiletica coeva e la prospettiva non è per forza pessimista. Soffermarsi sui momenti della Crocifissione, Deposizione e del Compianto, coincideva, a queste date, con l’evidenziare, in maniera più o meno ortodossa, quel beneficio che trasse l’uomo dalla restaurazione dell’antica alleanza tra Dio e l’uomo (stavolta un’alleanza universale), attraverso il sacrificio cruento dell’Unigenito per mezzo della croce. L’uomo di questi anni del ‘500 dunque si sente amato nella croce di Gesù. Più volte nelle rime Michelangelo ripete il vantaggio di quella salita alla croce e in uno dei suoi componimenti più conosciuti scrive:

Né pinger né scolpir fie più che quieti
l'anima, volta a quell'amor divino
c'aperse, a prender noi, 'n croce le braccia
[7].

Ovvero non è più l’arte capace di quietare la sua anima, ma l’amore divino il quale si esprime nell’abbraccio della croce. L’opera di Michelangelo non è solo dunque emanazione spirituale, ma, come è stato intuito, è testimonianza esistenziale. A questo punto non ci sembra un caso che Michelangelo scelga di scolpire il Cristo morto, emblema dell’unico amore capace di salvarlo dalla seconda morte, quella dell’anima[8]. Alla luce di tutto ciò il mito del “Michelangelo, genio tormentato” sbiadisce ed emerge l’immagine di un uomo che parla di speranza e che scolpisce questo discorso sino agli ultimi giorni[9].

Si possono chiarire tutte le ambiguità formali sulla Pietà Rondanini? Gli studiosi si sono chiesti: ma è davvero il Cristo ad essere sorretto o la Madonna in parte poggia su di esso? E che valore ha questo particolare dal punto di vista teologico? Bisogna partire dal presupposto che, come abbiamo già detto, questo gruppo è stato pensato dallo scultore per la sua personale fruizione. Da un iniziale punto di vista in movimento intorno all’opera Michelangelo ha poi deciso, riscolpendo il volto della Madonna, di restituire un unico punto di vista privilegiato, quello frontale.

Questo ovviamente non esclude gli altri punti di vista, ma fa in modo che da quello frontale la Pietà risulti vicina alla Deposizione di Cristo al sepolcro per la chiesa di Sant’Agostino oggi alla National Gallery di Londra, o anche alla Pietà degli angeli di Federico Zuccari (il quale prese a modello proprio i disegni di Michelangelo) della Galleria Borghese: il Cristo è a peso morto e viene sorretto. D’altro canto se si gira intorno all’opera ci si avvede del fatto che anche la Vergine sembra appoggiarsi al Figlio, quasi che l’umanità addosso alla morte del Cristo si possa fondare per rinascere. Senza esasperare la lettura teologica dei dati formali, possiamo dire che mentre la Vergine che sostiene Cristo corrisponde perfettamente all’imago pietatis, la Vergine che si sostiene poggiando sul Figlio esanime rende nota forse una lettura personale, che Michelangelo fa dell’umanità che crede in Cristo e dunque della Chiesa, la quale solo se fondata su Cristo può rinascere.

Il mistero della croce rimane uno degli argomenti privilegiati da Michelangelo sino alla fine, una fine che ci viene documentata così da Diomede Leoni in una missiva a Leonardo Buonarroti: “Messer Michelagnolo […] è morto senza far testamento ma da perfetto cristiano questa sera su l’ave maria”. La perfezione raggiunta dall’anima di Michelangelo ci rimane nel suo testamento spirituale, pieno di speranza, scolpito sino all’ultimo giorno nella Pietà Rondanini.

Note al testo

[1] Lavorando con la subbia, strumento dello scultore.

[2] Fu pubblicata per la prima volta da Charles de Tolnay nel 1934 quando si trovava in una collezione romana e fu data alla pubblica fruizione grazie al comune di Milano che l’acquistò nel 1952.

[3] Per approfondire Rovetta A., L’ultimo Michelangelo. Disegni e rime attorno alla Pietà Rondanini, 2011.

[4] Male.

[5] Paoletti J. T., The Rondanini Pietà: ambiguity maintained through the palimpsest, in Artibus et historiae, 2000.

[6] Frammento 286.

[7] Componimento 285.

[8] Cfr. per la “seconda morte” come morte dell’anima il Componimento 285.

[9] A sradicare questa immagine di Michelangelo basterebbe una rilettura delle rime burchiellesche e impietose sulla sua modesta dimora.