Napoli divenne italiana solo per opportunismo. Fu molto scarsa l'adesione agli ideali patriottici, di Paolo Mieli

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 02 /06 /2014 - 15:29 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal Corriere della sera del 2/10/2012 un articolo scritto da Paolo Mieli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (2/6/2014)

È davvero una stranezza che in Sicilia nel 1860 alcune centinaia di soldati assai anomali guidati da un personaggio oltremodo irregolare, quali erano i Mille di Giuseppe Garibaldi, abbiano sopraffatto il più grande esercito italiano dell'epoca, che solo nell'isola, tra fanteria, cavalleria e artiglieria, schierava qualcosa come 25 mila uomini. E che lo stesso si sia ripetuto sulla via che li portò a Napoli.

«Nessuno più di me stima Garibaldi», scriveva già allora Massimo d'Azeglio, «ma quando s'è vinta un'armata di 60 mila soldati, conquistando un regno di sei milioni di abitanti, colla perdita di otto uomini, si dovrebbe pensare che c'è sotto qualche cosa di non ordinario». Ma come andarono davvero le vicende che portarono al crollo del regno borbonico? È la domanda (che ne porta con sé altre) a cui cerca di rispondere un saggio di Paolo Macry, Unità a Mezzogiorno. Come l'Italia ha messo assieme i pezzi, edito dal Mulino.

Il libro si apre con una misurata polemica contro il mondo accademico. «Le dinamiche del crollo delle Due Sicilie sono state indagate soltanto in parte dagli studiosi», scrive l'autore, «per una sorta di remora ideologica, gli storici sembrano talvolta riluttanti ad analizzare quelle vicende, quasi che bastasse e fosse da considerarsi intoccabile la pura e semplice damnatio memoriae del regime borbonico».

L'idea - dominante nell'Europa dell'800 - di una sorta «di diritto storico della nazione a prevalere sulla frammentazione delle piccole patrie o sulla coercizione degli imperi», ha portato «a sottovalutare i regimi regionali preesistenti e i concreti passaggi che li portano al collasso». Ciò che induce a non vedere (o a sottovalutare) quanto, nella formazione dell'Italia, «l'assorbimento del Regno delle Due Sicilie nella compagine unitaria cambi in modo profondo la natura del nuovo Stato e ne determini la storia successiva».

Il tema non è quello tradizionale dell'Italia meridionale soggiogata e rapinata da quella del Nord. Si danno per acquisiti i risultati dell'imponente ricerca di Vittorio Daniele e Paolo Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011 (Rubbettino), da cui emerge che i territori borbonici presentano, negli anni dell'unificazione, condizioni economiche del tutto simili a quelle delle aree settentrionali e che anzi il Pil pro capite del Mezzogiorno è superiore, benché di poco, a quello del Nord. Ma senza pretendere di dire su tale questione una parola definitiva, si prende atto del fatto che all'epoca la percezione dell'Italia meridionale era ben diversa da quella, assai più positiva, che di quelle terre si aveva nel Settecento. Sviluppata o meno che fosse, l'Italia meridionale era universamente percepita come un'entità di tipo «africano».

Nel 1844, Cesare Balbo scriveva che l'Italia assommava «da settentrione a mezzodì province e popoli così diversi tra sé come sono i popoli più settentrionali e più meridionali d'Europa». E prima ancora, nel 1820, Metternich aveva detto che nell'Italia del Sud la rivoluzione era inconcepibile dal momento che quello meridionale «è un popolo mezzo barbaro, di un'ignoranza assoluta, di una superstizione senza limiti, ardente e passionale come sono gli africani». Benedetto Croce raccontava come fosse stato lo stesso Ferdinando II a confidare a un diplomatico che lì nella sua Napoli «cominciava l'Africa». Poi c'era stata la «rivoluzione» (fallita) del 1848 con la dura reazione di Ferdinando II, che fece definitivamente a pezzi la reputazione del Regno delle Due Sicilie. Regno che il parlamentare liberale inglese William Gladstone definì, nel 1851, come la «negazione di Dio eretta a sistema di governo» (parole destinate a restare indelebili nei libri di storia).

Ne deriva, scrive Macry, una «valanga di giudizi negativi dai quali il regno napoletano viene sommerso... L'opinione pubblica occidentale mette all'indice la qualità dello Stato dei Borbone, la politica della dinastia, i difetti personali dei sovrani, la corruzione degli uffici e poi, con prevedibile generalizzazione, gli abitanti tutti del Paese, la loro cultura, perfino la loro antropologia». Ma, mentre i rilievi anche feroci ai Borbone sono destinati nel tempo a essere dimenticati (o quasi), la rappresentazione demonizzante del Meridione resta. Nel senso che resiste intatta la descrizione che del Sud fecero i rappresentanti dell'élite liberale a ridosso dell'impresa dei Mille: «una cancrena» (Luigi Carlo Farini), «un vaioloso» (Massimo d'Azeglio), «un'ulcera» (Diomede Pantaleoni), «una razza di briganti» (Carlo Nievo), «un lascito della barbarie alla civiltà del secolo XIX» (Aurelio Saffi).

L'indagine storica del libro di Macry mette adesso in evidenza gli aspetti meno edificanti della vicenda che portò al crollo del regno borbonico. Prima di tutto la partecipazione all'impresa di Garibaldi di «uomini primitivi, selvaggi, violenti», inviati dall'aristocrazia terriera siciliana a dare man forte al generale nizzardo.

Una primitività che si era già intravista nel 1848 quando, scrive Macry, la macchina amministrativa e repressiva del regime borbonico viene travolta nel giro di qualche settimana dall'onda d'urto di un territorio dove imperversano le squadre armate contadine, indocili strumenti dei proprietari terrieri, e i gruppi di «facinorosi sempre pronti a battersi contro le forze dell'ordine». Nel 1848, i borbonici «soccombono a un miscuglio micidiale di iniziativa politica e pressione sociale, che si esprime attraverso la guerriglia contro le truppe reali, le incursioni nelle città fedeli a Napoli, gli attacchi ai posti di polizia e il massacro dei poliziotti, il saccheggio di uffici pubblici e abitazioni private, il rapimento degli avversari politici e dei ricchi».

Lo Stato assiste impotente al dissolvimento dell'ordine pubblico. Da una parte vengono liberati i detenuti («Visacci che mettevano paura, pallidi come la bile, dagli occhi scintillanti di un misto di desideri», scrive il memorialista Giuseppe Picone; Ernest Renan, nel 1849, aggiunge «questi non sono uomini, sono bruti») ed esplode una criminalità diffusa «che tiene in scacco e terrorizza le popolazioni, da Agrigento a Mazara».

Dall'altra «si organizzano rappresaglie contro interi villaggi e si pratica una giustizia sommaria, mettendo a morte senza troppe formalità i presunti autori di ruberie» e se ne abbandonano i cadaveri per strada con la scritta «ladro» sul petto. Stava accadendo, come annotò l'indipendentista repubblicano Pasquale Calvi, che «uomini agresti e rudi, rotti a tutt'i pericoli, di poco culta moralità, armati, in una società dove non esisteva una forza pubblica repressiva, bentosto si accorsero che loro era tutto permesso». Queste squadre armate presto diventano l'unica autorità sul territorio. Squadre che, come ha scritto Giuseppe Giarrizzo, «sono il veicolo dell'ingresso della criminalità organizzata (abigeato, sequestro di persona, contrabbando) nell'area politica, attraverso la promozione dei capobanda a "patrioti"».

Il tutto si ripresenta nel 1860, allorché si rivela fondamentale l'apporto di quest'area delinquenziale all'impresa di Garibaldi. Il generale borbonico Salvatore Pianell aveva intravisto il tutto già nel dicembre del 1859: in una lettera alla moglie Norina, prevede guai a Palermo per la primavera successiva, «se la truppa fosse battuta vedresti scene di barbarie mai viste al mondo». Il luogotenente borbonico Paolo Ruffo di Castelcicala, due mesi prima dello sbarco di Garibaldi, avverte il re Francesco II: a Palermo «gli uomini della plebe i quali inferocirono nella rivolta del 1848, sono in commozioni e di già aspirano il sangue e la rapina, designando le vittime e le case sulle quali debbono mettere le mani».

Ad aprile, anche qui settimane prima dell'arrivo di Garibaldi, tornano in azione le bande armate, al cui interno, come afferma Antonino Recupero in La Sicilia all'opposizione (Einaudi), «non è facile distinguere l'attività patriottica da quella di saccheggio e di estorsione, di assalti agli uffici fiscali e alle case degli usurai». Per di più questi irregolari combattono in un modo del tutto sorprendente. Le truppe, riferisce il 6 aprile il medesimo Castelcicala, devono vedersela con un nemico che «non si mostra mai all'aperto, ma si scioglie, si sperpera, si raggranella or qua or là alla maniera dei guerillos ». Uomini che fanno paura perfino ai garibaldini, beneficiati dalle loro azioni. «Le squadre», scriverà Giuseppe Cesare Abba, «arrivavano da ogni parte, a cavallo, a piedi, a centinaia, una diavoleria... Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con certe facce sgherre e certi occhi che paiono bocche di pistole».

Tutto ciò, conclude Macry, rende «la guerra siciliana del 1860 poco adatta a essere inserita in visioni oleografiche del Risorgimento e tanto meno a soddisfare i criteri del liberalismo europeo e le sue prerogative irrinunciabili». Di più: «Gli errori politici e militari dei borbonici e le straordinarie gesta dei garibaldini vanno egualmente ridimensionati; i primi sono meno gravi di quanto non si ritenga, le seconde meno fulgide». E gli uomini di Garibaldi «che pure dipendono dal prezioso appoggio delle squadre, avranno i loro problemi quando il vaso di Pandora andrà in pezzi».

Secondo punto. Garibaldi passa dalla Sicilia alla Calabria il 19 agosto del 1860. Ma il Mezzogiorno continentale ha iniziato a implodere già due mesi prima, all'indomani del 25 giugno, allorché Francesco II ha avviato, di punto in bianco, una sua rivoluzione. Con «un misto di realismo riluttante e avventatezza politica», scrive Macry, il giovane sovrano opera una svolta a tutto campo che più radicale non potrebbe essere: aderisce alla prospettiva nazionale, riporta in vigore la Costituzione del 1848 («In armonia co' principi italiani e nazionali», specifica il sovrano), introduce il sistema rappresentativo, concede la libertà di stampa e l'amnistia per i detenuti politici. Da quel momento Francesco II si travestirà sempre più da patriota risorgimentale.

Subito (dal 27 giugno) modificherà la bandiera del suo regno, che conserverà al centro lo stemma dinastico, ma diverrà tricolore e sarà issata sui pennoni della flotta e sui castelli cittadini, mentre anche le navi straniere alla rada festeggeranno l'evento sparando a salve. Il 21 luglio al teatro San Carlo va in scena uno spettacolo per raccogliere fondi a favore degli ex detenuti politici, spettacolo che si conclude con l'esecuzione di un applauditissimo coro dei Lombardi. Francesco II partecipa con duemila ducati alla colletta a favore di quelli che fino a meno di un mese prima erano stati oppositori da lui stesso fatti mettere in prigione. Nel giro di pochi giorni a Napoli non si trova più quasi nessuno che non inneggi a Cavour in un primo tempo e poi, con decisione, a Garibaldi. Il tutto in una città dove, fino al giorno precedente, ricorda Luigi Settembrini, «erano borbonici perfino i gatti di casa».

«Il 1860 napoletano», scrive Macry, «è un grande, talvolta spudorato esercizio di travestitismo». Il generale Alessandro Nunziante, forse la persona più ascoltata dal sovrano, ai primi di luglio - nel clima di cui si è detto - restituisce in modo teatrale al re onorificenze e diplomi. Il ministro della Guerra Salvatore Pianell si dimetterà poche settimane dopo, all'inizio dell'assedio di Gaeta. Tutte o quasi le personalità più importanti del regime si dicono all'improvviso «cavouriane», persino il conte d'Aquila, zio del sovrano. Bertrando Spaventa ironizza su quelli che chiama «i nostri grandi convertiti».

Quel «vertiginoso cambio di passo» successivo alla concessione della Costituzione, avrà - scrive Macry - «conseguenze devastanti». Anche perché sarà accelerato tramite la nomina a prefetto di polizia, sempre il 25 giugno, dell'avvocato ex oppositore Liborio Romano. Quel Romano che in un bel libro, pubblicato da Rubbettino, Nico Perrone ha indicato come L'inventore del trasformismo, definendolo poi nel sottotitolo «strumento di Cavour per la conquista di Napoli». «Don Liborio», tre settimane dopo la nomina a prefetto di polizia, sarà promosso - sempre assai prima che Garibaldi passi sul continente - addirittura ministro dell'Interno. Carriera velocissima per un uomo che, come recita il titolo di un altro avvincente libro sulla sua figura - scritto da Giancarlo Vallone per i tipi di Jovene - passò Dalle sette al governo.

Qual è la prima mossa del ministro di polizia Liborio Romano? Convoca a casa sua i principali capi della camorra («I più rinomati di quei bravi», li definisce lui stesso nelle sue Memorie) e spiega loro che è giunto il momento di «riabilitarsi dalla degradazione» facendo parte di una nuova pubblica sicurezza che non sarà più «composta di tristissimi sgherri e di vilissime spie, ma di uomini valorosi e di cuore». «Laddove», chiarisce Macry, «per sgherri e spie si intendono i vecchi tutori dell'ordine e per uomini di valore i camorristi».

Così Napoli eviterà, grazie alla criminalità organizzata, i temuti disordini ad opera dei lazzari, che erano stati la tradizionale massa di manovra borbonica. Ma assieme ai poliziotti fino a quel momento leali con il regime, che vengono ora sostituiti con gli uomini della camorra, saranno eliminati anche i magistrati, le guardie urbane e l'intera burocrazia ministeriale. Molti di coloro che vengono chiamati a rimpiazzarli, però, non se la sentono di accettare i nuovi incarichi in quel clima di incertezza. Così i posti - eccezion fatta per quelli affidati ai capi della malavita - rimangono scoperti. È un grande caos.

Quell'estate del 1860, Cavour prova a organizzare - assieme al generale Nunziante («Di lui possiamo fidarci», scrive all'ammiraglio Persano, «perché ci ha dato tanto in mano da farlo impiccare se occorre») e al ministro Romano - un colpo di Stato filosabaudo. Il tutto per prevenire Garibaldi, che - ricordiamolo sempre - non è ancora passato dalla Sicilia in Calabria. Ma sia Nunziante sia Romano, dopo aver assicurato la loro partecipazione al complotto, nelle ore decisive si sfilano.

Talché Cavour il 16 agosto scrive stizzito a Bettino Ricasoli: «Se Napoli racchiude elementi di rivoluzione, essa deve scoppiare perché gli abbiamo somministrato tutti i mezzi per farla. Se poi la materia del regno è talmente infracidita da non essere più suscettibile di fermento, io non so che farci, e bisogna rassegnarsi al trionfo di Garibaldi o della reazione». Detto fatto. Liborio Romano prende contatti con Alexandre Dumas, fiduciario del generale nizzardo, e gli consegna metaforicamente le chiavi di una città che controlla attraverso i suoi malavitosi.

E così, quando a settembre Garibaldi arriva a Napoli (il re si è nel frattempo rifugiato a Gaeta), la città, nelle mani dello Schiavetto, di Michele 'o Chiazziere, di Tore 'e Crescenzo e altri capi della criminalità partenopea, lo accoglie in tripudio come un liberatore. Scrive l'ambasciatore britannico James Hudson che la popolazione di Napoli gli appare in quei mesi «corrotta, codarda e degradata». L'ambasciatore usa proprio queste parole per descrivere la massa «rivoluzionaria»: «corrotta, codarda e degradata»

Diverso discorso, almeno in parte, va fatto per ciò che Garibaldi aveva incontrato nelle regioni meridionali - Calabria, Basilicata, Campania - attraversate per passare dalla Sicilia a Napoli. Qui movimenti rivoluzionari alquanto improvvisati (in alcune delle zone più povere del Regno delle Due Sicilie) avevano dato vita a esperimenti di governo estemporanei, di cui resterà scarsa memoria.

Una per tutte, l'esperienza di un uomo di valore, mazziniano di antica fede, Giacinto Albini, nominato da Garibaldi prodittatore di Basilicata senza che poi la sua esperienza abbia lasciato grandi tracce nei libri di storia. Dopo la svolta del 25 giugno, poi, è stata riportata in vitala Guardia nazionale, che darà una grande mano a Garibaldi.

Ma si vedrà presto che tale Guardia si è messa in luce, afferma Bettino Ricasoli, «sia per la tutela dell'ordine, sia per scompigliare l'ordine». E come, sostiene sempre Ricasoli, si dovrà prendere atto che i municipi meridionali hanno incluso nei propri ranghi «persone di perduta fama, persone implicate in processi tuttavia pendenti per furto e per omicidio, persone che subirono condanne sotto il regime borbonico non già per reati politici, ma per truffe, per risse a mano armata, per furti e per altre iniquità». Le guardie nazionali, scrive a Cavour Luigi Carlo Farini alla fine del 1860, «formano banda, non corpo ordinato; in molti luoghi hanno pigliato le poche armi che hanno e si sono battute bene coi caffoni, ma si sono date anch'esse a far violenze inaudite: son partiggiani, non è forza governativa... non hanno ruoli, non matricole, non gerarchie, non Consigli di Disciplina; sono accozzaglia, non milizie».

Quelle «accozzaglie», ha scritto Enrico Francia nell'interessantissimo Le baionette intelligenti. La Guardia nazionale nell'Italia liberale (1848-1876) (Il Mulino), sono «il frutto non tanto dell'applicazione della legge, ma piuttosto di rapporti di forza e di esigenze delle singole comunità così che il loro colore politico è spesso difficilmente decifrabile, la loro composizione disomogenea, le loro finalità poco chiare».

Attenzione, però. Non è che, per Macry, all'epoca dei Mille fossero del tutto assenti nel Mezzogiorno persone animate da sentimenti di motivata adesione agli ideali della patria. Ce ne furono, probabilmente molte. Ma, scrive Macry, «al di sotto del fiume Garigliano, la nazione dei liberali diventa un fenomeno decisamente minoritario sul piano politico, sociologico e culturale... Non che nel resto della penisola sia un'istanza di popolo, ma è nel Sud che incontra adesioni estemporanee, disillusioni, rancori e infine una vera e propria reazione armata». È giusto dire in maniera esplicita che «il Mezzogiorno non aderisce al nuovo Stato con le convinzioni radicate delle regioni centrosettentrionali; il suo tragitto è meno introiettato sul piano culturale e ideale, meno consapevole politicamente, meno chiaro sul piano sociologico». Se si può parlare di «liberazione della Sicilia» non si può dire allo stesso modo di «liberazione di Napoli e del Sud continentale». E da uno studio attento di quell'epopea viene fuori in modo nitido quanto in quelle regioni «l'edificio del 1860 sia povero di radici».

I piemontesi venuti a governare il Sud dopo il 1860 troveranno quella che per loro è «Affrica» in preda alla reazione armata di cui si è appena detto, nei cui confronti si fanno presto l'opinione che ci sia da «usar la forza senza molte forme» (Antonio Scialoja), ovvero «ferro e fuoco» (Giuseppe La Farina), «truppa, truppa, truppa» (Diomede Pantaleoni). Quell'«Affrica» verrà piegata al seguito di un conflitto durato quattro lunghissimi anni, nel quale saranno impegnati 115 mila soldati (in certi momenti quasi due terzi di tutte le forze armate del nostro Paese) e che produrrà più morti che l'intera epopea risorgimentale, guerre d'indipendenza incluse.

Poi verrà il tempo delle stragi. Dopo che i bersaglieri avranno subito agguati feroci da parte dei «briganti» e che i generali Giuseppe Govone ed Enrico Cialdini avranno risposto con autentici massacri di popolazione, dopo tutto ciò, il Mezzogiorno diventerà, secondo Macry, «il più italiano dei territori italiani» e «mai metterà in discussione l'unità». Ma che tipo di «territorio italiano» sarà? L'élite di governo nazionale «che soffre di un cronico deficit di radicamento, distribuirà alle periferie - e sempre più alle periferie meridionali - quantità crescenti di risorse pubbliche, ricavandone legittimazione e consenso elettorale. Così risolvendo, in parte almeno, il suo problema... A loro volta, le classi dirigenti locali - e sempre più le classi dirigenti meridionali - ne avranno gli strumenti necessari per consolidare il proprio controllo su municipi, province e infine regioni».

Per un lungo tempo saranno in molti a ritenere che il problema dell'Italia sia quello di «aiutare» il Sud. «Finora lo Stato ha assorbito ricchezza nel Sud e l'ha investita nel Nord, d'ora in poi bisognerà che lo Stato assorba ricchezza nel Nord e la riversi nel Sud», scrive ancora nel 1902 Gaetano Salvemini. Cento anni dopo Luca Ricolfi (in Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale, edito da Guerini e Associati) calcolerà che di recente lo Stato italiano ogni anno ha sottratto qualcosa come cinquanta miliardi di euro alle regioni del Nord e li ha riversati, con trasferimenti ordinari e straordinari, nelle regioni meridionali. Provocando la nascita, a fianco di quella meridionale, di una questione settentrionale.

Forse aveva ragione Francesco Saverio Nitti che nel 1900, due anni prima dell'esortazione di Salvemini a trasferire ricchezza dal Nord al Sud, metteva le mani avanti: «È innegabile che politicamente i meridionali hanno rappresentato un elemento di disordine. Le loro amministrazioni locali vanno, d'ordinario, male; i loro uomini politici non si occupano, nel maggior numero, che di partiti locali. Un trattato di commercio ha quasi sempre per essi meno importanza che non la permanenza di un delegato di pubblica sicurezza». E già a fine Ottocento il milanese Giuseppe Colombo, padre dell'Edison e rettore del Politecnico, deputato, presidente della Camera, senatore, ministro delle Finanze, poi del Tesoro, aveva denunciato le responsabilità del Sud nell'aumento della spesa pubblica, e come tale spesa fosse connessa con una crescita inarrestabile dell'imposizione fiscale. Ma qui si apre un altro problema, quello per cui, come dice Macry, «governare questione meridionale e questione settentrionale si è rivelato un compito difficile». Quasi impossibile.

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