Storia di Aria, 16 anni, yazida, violentata da un jihadista. «Io sono morta, ma la luce della vita è dentro di me», di Silvina Pérez

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 02 /12 /2014 - 13:22 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Silvina Pérez pubblicato il 2/12/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione La libertà religiosa e le persecuzioni delle minoranze, nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (5/12/2014)

L’articolo è tratto dall’Osservatore Romano

«Dalle strade vicine si sentivano urla disperate e pianti. Avevamo paura, non sapevamo che fare. Molti sono corsi a cercare riparo e sono stati raggiunti dai colpi dei mitra, altri si sono rifugiati nella piccola palestra della scuola. Eravamo in silenzio, inginocchiati a bisbigliare le parole della fede. Irrompono i jihadisti e una raffica assordante si alza sopra le grida della gente: mio padre cade a pochi metri da me, colpito a morte. Tutti gli altri vengono buttati fuori dalla scuola e ammassati nel cortile d’ingresso. Solo una povera donna non può uscire perché paralizzata alle gambe. Farà compagnia a mio padre, massacrata mentre disperata annaspa invano con le braccia per l’aria chiedendo clemenza inchiodata alla sua sedia».

Per Aria, sedici anni, appartenente alla comunità degli yazidi iracheni, il vero incubo è iniziato il giorno in cui il suo villaggio è stato attaccato dagli uomini dell’Is. Ha visto uccidere il padre e il fratello e da allora non ha più notizie della madre e delle due sorelle. Ora si trova in un campo profughi a Dohuk, è incinta di sei mesi e racconta il suo incubo fatto di percosse, torture, stupri e degrado.

«Era il 9 giugno — racconta via skype riempiendo lo schermo del computer con il suo viso esile e i suoi grandi occhi azzurri — quando la nostra città, Mosul, è stata colpita. Durante l’attacco i miliziani hanno ucciso decine di persone. Noi donne eravamo le più spaventate, sapevamo cosa ci sarebbe successo se ci avessero catturate. Non abbiamo avuto tempo di fuggire. Gli uomini dell’Is hanno raccolto i prigionieri, dividendoli per sesso ed età. Il primo gruppo era composto da ragazzi giovani, un altro da ragazze, e un terzo da uomini e donne più anziani. A questi ultimi i jihadisti hanno tolto tutto. Denaro, oro e cellulari. Li hanno abbandonati lì. A noi ci hanno caricate sui camion, dopo aver fucilato tutti gli uomini giovani del primo gruppo, tra cui mio fratello».

Aria, assieme a un gruppo di circa venticinque ragazze, fu trasportata a Baaj, una cittadina a ovest di Mosul, e rinchiusa in un vecchio edificio di tre piani. «Qui ci hanno diviso ancora. Io sono rimasta con il gruppo delle più giovani e, credo, delle più graziose. I nostri carcerieri ci dissero che eravamo destinate, dopo la conversione all’islam, a sposare qualche glorioso combattente. Le altre furono condannate a diventare schiave sessuali dei miliziani. Dalla disperazione una di loro si è impiccata, un’altra ancora ci ha provato ma i jihadisti l’hanno fermata e picchiata a sangue» dice Aria, precisando che — dopo quell’episodio — nessun’altra ha tentato di togliersi la vita.

«Per circa dieci giorni siamo rimaste rinchiuse praticamente al buio. Dormivamo per terra e mangiavamo solo una volta al giorno. I jihadisti dell’Is — racconta — ci hanno chiesto più volte di convertirci all’islam, minacciando che altrimenti avrebbero ucciso tutti i membri della nostra famiglia. Alcune hanno ceduto al ricatto per salvare il padre, il marito, o il fratello».

Le Nazioni Unite hanno calcolato che, dopo la caduta di Mosul, millecinquecento tra donne e ragazzi hanno subito violenza. Le violenze sessuali sono commesse su vasta scala: tra le vittime donne, bambine e bambini. I crimini perpetrati vanno dallo stupro ai matrimoni forzati, alla schiavitù sessuale. I miliziani del califfato sono sostenitori di una totale sottomissione dell’elemento femminile. E la praticano sulle giovani sequestrate e brutalizzate nelle zone di combattimento. Perfino ricorrendo alla deformazione blasfema per dare giustificazione teologica allo stupro (col trucco del “matrimonio temporaneo” in zona di guerra).

In particolare, le donne appartenenti a minoranze religiose come gli yazidi o i cristiani assiri vengono rapite dai villaggi, rinchiuse in prigioni e messe davanti a una tremenda scelta. Quelle che decidono di convertirsi all’islam sono vendute ai combattenti dell’Is come spose, per un prezzo che varia dai 25 ai 150 dollari. Le prigioniere che rifiutano la conversione sono quotidianamente stuprate e condannate a una morte lenta e straziante.

Con lo sguardo perso nel vuoto, Aria racconta come dopo dieci interminabili giorni fu venduta per 35 dollari ad Hassan, un giovane jihadista della Siria, che la portò nella casa dove viveva con altri miliziani.

«Voleva obbligarmi a sposarlo, ma non poteva prima della mia conversione. Diceva che un vero credente non sposa un’infedele. Con la mia fede yazida ero una peccatrice per lui. Mi sono rifiutata e allora ha iniziato a picchiarmi e a violentarmi. Sempre più spesso. Sempre più forte. Un giorno mi disse che avrebbe aspettato ancora una settimana e poi mi avrebbe portato dalle altre donne, quelle che servivano a tutti i miliziani per sfogare le loro voglie. Ero disperata, pensavo solo alla morte. “Ho pagato 35 dollari, capisci! Sei inutile, non mi servi a nulla”. Una notte la zona dove eravamo fu attaccata pesantemente. Gli uomini uscirono tutti e all’improvviso mi sono ritrovata sola. Sono uscita e ho iniziato a correre nel buio. Correvo nella direzione da cui arrivavano i colpi di mortaio. Non sapevo a cosa andavo incontro ma ho pensato che peggio di così non poteva andare. Correvo e piangevo. Correvo e pregavo. Sempre più forte senza mai voltarmi indietro. Non so come, ma sono arrivata nella parte della città controllata dai curdi. Un gruppo di donne guerrigliere si sono prese cura di me per un paio di giorni e poi mi hanno aiutato a superare il confine con la Turchia e da lì sono arrivata in questo campo profughi. Dopo qualche mese ho scoperto di essere incinta. Ho pianto tanto. Ho pensato ancora una volta di farla finita. Nonostante la fuga, nonostante la mia libertà, mi sono sentita profondamente sconfitta. Ho pensato a mio padre. In realtà so che sono morta in quelle maledette prigioni tra le mani dei miliziani. Ma vado avanti. Tra qualche mese dovrò dare un nome a questo bambino. Non potrò mai più tornare a Mosul. Non potrò mai più cancellare la vergogna. Sono morta ma la luce della vita è dentro di me».