I giovani genitori attuali e la pastorale postbattesimale, di Armando Matteo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 08 /12 /2014 - 15:08 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito una relazione tenuta da Armando Matteo al clero del settore ovest della diocesi di Roma il 16/10/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (8/12/2014)

Nel prendere la parola, rivolgo a tutti voi un cordiale saluto e ringrazio molto il Vescovo Paolo per questo invito. Lo ringrazio in particolare anche per il tema che ha voluto porre al centro del nostro incontro: le caratteristiche dei giovani genitori attuali nella linea della pastorale postbattesimale. Si tratta di un tema che ho trovato particolarmente stimolante e sfidante, e debbo dire che mi piacerebbe raccontarvi di aver maturato su di esso numerose certezze, ma purtroppo non è così. Ho individuato in verità alcune coordinate di fondo, che vi presento molto semplicemente, nella convinzione di suscitare un fecondo dibattito tra di noi.

Per prima cosa dirò a chi penso, in termini esplicitamente sociologici, quando parlo di giovani genitori ovvero di genitori che hanno figli in età di battesimo. Limitando la cosa ai cittadini italiani (e so bene che questa è una limitazione non da poco, in una città come Roma dalla fortissima presenza di uomini e donne da ogni parte del mondo), penso in particolare a quella fascia d'età che oggi viene normalmente indicata come la fascia dei "giovani adulti". Se normalmente si indica "giovane" chi ha un'età tra i 15 e i 34 anni, con "giovane adulto" si intende la parte più avanzata di questo arco temporale. Questa suddivisione del tempo della giovinezza (che ovviamente è un dato culturale ed è anche contestato da alcuni) è dovuto al fatto che l'entrata nel mondo degli adulti non è più netta come nel passato ed è sempre più rinviata in là nel tempo. Dal punto di vista dell'immaginario spicciolo diffuso, infatti, l'adultità è contrassegnata dal lavoro, dal possesso di una casa, dal fatto di avere una famiglia propria e dei figli. Tappe sempre più difficili da raggiungere: l'età di primo figlio, per le madri italiane, è ormai assestata sui 32,6 anni (cfr. Nono Rapporto sull'evento Nascita in Italia  a cura del Ministero della salute); e le difficoltà lavorative e di acquisto della casa, da parte delle generazioni giovani, sono a tutti noi. Questo prolunga la giovinezza e la necessità di approcciarla diversamente.

I giovani genitori sono allora "giovani adulti" che hanno terminato questo ciclo di vita ed entrano nel mondo degli adulti, e lo hanno terminato positivamente, ponendo in atto la loro intenzionalità generativa. C'è da dire subito che moltissimi altri giovani adulti non arrivano a questa metà e di fatti registriamo un processo terribile di denatalità, oltre che di diminuzione della celebrazione dei matrimoni. Questi giovani genitori portano però con sé - questa è la mia ipotesi di lavoro - alcuni elementi di lettura e approccio all'esistenza umana e alla sfera della fede, caratteristici dei giovani adulti; ed è su questi che vorrei suggerire di individuare gli orizzonti generali di una proposta pastorale postbattesimale.

Per individuare questi tratti caratteristici dei giovani adulti, utilizzo e vi suggerisco tre coordinate: lo sguardo intergenerazionale, la liquidazione dell'età adulta, il nuovo culto dell'infanzia.

1. Lo sguardo intergenerazionale

La prima coordinata che è da tenere presente sempre quando cerchiamo di capire le caratteristiche di un dato gruppo di persone è quello di analizzare la sua collocazione intergenerazionale. Non possiamo cioè capire chi sono per esempio i giovani o i bambini o gli anziani, oggi, senza tenere in conto uno sguardo sinottico. Questo vale anche per i "giovani adulti". A mio avviso, soprattutto per i giovani adulti.

La ragione di ciò è data dal fatto che per la prima volta si trovano sulla faccia della terra almeno quattro generazioni presenti:

Abbiamo così:

la generazione nata prima del 1946,

la generazione degli adulti, quella nata tra il 1946 e il 1964,

la generazione di mezzo o X, quella nata tra il 1964 e il 1979

la generazione giovane o Y, quella nata sostanzialmente dopo il 1981

Le differenze con il passato sono sia sul piano quantitativo (delle generazioni più vecchie non abbiamo solo qualche rappresentante, ma numericamente superano quelle più giovani: processo del degiovanimento) e sul piano qualitativo (stanno scomparendo alcuni marcatori generazionali forti, per accedere ad una sorta di generale e pericolosa "vicinanza generazionale").

Tutto questo è dovuto sinteticamente al grande elemento di rivoluzione della nostra società occidentale: la longevità.

Grazie soprattutto ai progressi della medicina, alle condizioni di lavoro meno usuranti, alla dieta più ricca e più varia e alla relativa situazione di pace, abbiamo guadagnato circa 30 anni sulla morte, come riassume efficacemente Marcel Gauchet: «In un secolo, dal 1900 al 2000, gli abitanti dell'Occidente sviluppato hanno guadagnato qualcosa come una trentina d'anni di speranza di vita alla nascita. Cifra parzialmente ingannevole, visto che mischia la diminuzione della mortalità infantile con l'incremento della longevità finale, ma che fornisce tuttavia un ordine di grandezza eloquente, se si considera che, da un lato, nel 1900, la caduta della mortalità infantile era già pronunciata rispetto alle ecatombi precedenti e, dall'altro, l'arretramento dell'età della morte prosegue con precisione da orologio (un trimestre ogni anno). Trent'anni, ossia il tempo comunemente stimato di una generazione: ecco, grossomodo, quello che abbiamo guadagnato nelle nostre esistenze individuali rispetto agli antenati del XIX secolo»[1].

Ma longevità non è solo questo: l'allungamento della speranza di vita alla nascita è all'origine di una profonda rivoluzione della visione dell'umano, che tocca e sfida tutte le generazioni presenti, a partire da quella degli adulti, cioè di coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964.

*

Che cosa c'entra tutto questo con i giovani adulti di oggi e con i giovani genitori in particolare?

Sono pochi di numero, quindi sono stati molto coccolati. Propensione narcisistica fondamentale.

Sono tuttavia poco influenti, quasi "invisibili" a livello sociale. Marginalità strutturale. La società pensa di non averne bisogno.

Hanno spesso legami di dipendenza (soprattutto economica) con i genitori e hanno "troppi" genitori. Il cordone ombelicale non si spezza più.

2. La liquidazione della maturità

La seconda e fondamentale coordinata che suggerisco per accostarci al mondo dei giovani genitori riguarda la metamorfosi degli adulti e la scomparsa della maturità[2].  Infatti, il contraccolpo maggiore dell'allungamento dell'esistenza è stato subito senz'altro da quell'età della vita che è originariamente chiamata ad illuminare di senso le altre: l'età della dell'adultità, l'età della maturità. Del resto sono proprio gli adulti attuali, coloro che cioè sono nati tra il 1946 e il 1964, i primi ad aver beneficiato complessivamente della nuova vita lunga e sono propri essi che hanno operato una decisiva reinterpretazione di ciò che un tempo significava essere adulto, essere maturo.

Per questa generazione non vale più l'ideale del "diventare adulti": «A questo proposito non è eccessivo parlare di una liquidazione dell'età adulta. Siamo al cospetto di una disgregazione di ciò che significava maturità [...] Quella dell'adulto non è ormai che un'età, senza un particolare rilievo o privilegio sociale. Nessuno deve più essere maturo, nel senso che non sussiste più l'obbligo pubblico della riproduzione collettiva. La vita famigliare e la procreazione sono divenute questioni puramente private. Non esistono più modelli di esistenza adulta definiti dal discrimine della creazione di un nucleo famigliare […] restare giovani diviene l'ideale esistenziale se si scopre di avere molto tempo di fronte a sé e si ha tutta l'intenzione di sfruttarlo, ossia di conservare per il futuro le cose da fare. Una vita lunga è una vita che può essere vissuta di nuovo, su tutti i piani»[3].

Ecco il punto: scoprire di avere molto tempo davanti a sé ha rappresentato per gli adulti un punto di svolta incredibile, che li ha portati a fare della giovinezza il "modello per l'intera esistenza"[4]. Più precisamente: «La specificità di questa generazione – ha scritto Francesco Stoppa – è che i suoi membri, pur divenuti adulti o già anziani, padri o madri, conservano in se stessi, incorporato, il significante giovane. Giovani come sono stati loro, nessuno potrà più esserlo – questo pensano. E ciò li induce a non cedere nulla al tempo, al corpo che invecchia, a chi è arrivato dopo ed è lui, ora, il giovane»[5].

Il contenuto di questo ideale di giovinezza nulla ha a che fare con ciò che normalmente si intende con "spirito della giovinezza" o "giovinezza dello spirito". La giovinezza come ideale è qui intesa piuttosto come grande salute, performance, libertà sempre negoziabile, via sicura per l'affermazione della propria sessualità, del proprio successo, del proprio fascino, disponibilità ininterrotta a "fare esperienze", a completarsi e a rinnovarsi. Va da sé che qui non esiste più alcuno spazio per le caratteristiche "dure" tipiche dell'età adulta: definitività delle scelte lavorative ed affettive, anche quando non sono più all'altezza delle promesse che avevano lasciato intravedere all'inizio; responsabilità generativa ed educativa, che comporta quel costante oblio di sé a favore di altri; impegno appassionato per un'accurata e costante manutenzione dello spazio politico, condizione essenziale per la realizzazione del bene dei figli; e da ultimo consumazione del lutto con la presa di coscienza del proprio inevitabile destino mortale, con tutto il carico di lavoro su di sé che questa crisi comporta.

Ciò che ora in qualche modo permette di scansare tutto ciò è esattamente la considerazione che, in realtà, si hanno davanti a sé ancora molti anni da vivere e che pertanto i giochi non sono del tutto chiusi. Non è pertanto da escludere la possibilità di cambiare lavoro o partner; non ci si deve del tutto dimenticare di sé, delle proprie esigenze ed aspirazioni, a favore della cura dei pochi figli, i quali avendo davanti a loro una vita assai lunga avranno tempo per imparare il mestiere di vivere; l'impegno per assicurarsi condizioni di benessere consistente per i tanti anni ancora avvenire non permette di dare troppa attenzione alle questioni pubbliche e del resto ai figli basta assicurare un nido caldo e, quando sarà necessario, una bella raccomandazione; la morte, infine, è davvero troppo lontana per poter continuare a rappresentare una questione ultima: è piuttosto un'ultima questione da prendere in considerazione, a suo tempo.

Per questo l'orizzonte di riferimento degli adulti attuali è quello di «essere il meno adulti possibile, nel senso peggiorativo acquisto dal termine, sfruttarne i vantaggi aggirandone gli inconvenienti, mantenere una distanza rispetto agli impegni e ai ruoli imposti, conservare il più possibile delle riserve per altre possibili direzioni»[6].

Tale svuotamento di senso che l'allungamento della vita opera sull'età della maturità può essere facilmente collegato con la denuncia di ciò che Jacques Lacan ha definito "l'evaporazione del padre"[7]: l'indisponibilità cioè da parte degli adulti ad essere mete del cammino dei giovani e ad assumere l'impegno di introdurli nella verità agonica dell'esistenza, oltre i confini protetti delle fortezze, affettive e patrimoniali, della famiglia. Da una parte, infatti, gli adulti si percepiscono e agiscono in permanente cammino verso la giovinezza e quindi il senso della crescita che comunicano non è più quello di un saper accettare la rinuncia che ogni passo in avanti nella vita comporta, ma quello della crescita come capacità di limitare i danni dello scorrere del tempo in termini di perdita di opportunità e di forze fisiche e interiori. Dall'altra sono proprio gli adulti i primi a censurare in ogni modo la drammatica naturale dell'esistenza umana, che normalmente proprio nell'età adulta manifesta tutta la sua potenza. Pertanto le esperienze della finitezza, della mancanza, della malattia, della vecchiaia e della morte patiscono un terribile destino di opacizzazione con grave danno per tutte le altre età della vita.

Emerge così un immaginario dell'umano gravemente alleggerito di tutta quella responsabilità che è pur necessario assumere ed impegnare per vivere con dignità: ci si sente e ci si comporta, da parte degli adulti, come persone che sembrano non conoscere limiti all'espansione e acquisizione dei propri diritti personali, piccoli prìncipi in un mondo tutto attorno a loro; si agisce alla costante ricerca di fonti di godimento, richiesta che il mercato asseconda e coltiva con straordinaria generosità; si toglie alla malattia lo statuto di sintomo, di collegamento con il corpo e le sue tensioni, e la si interpreta quale semplice blocco momentaneo delle attività, per il quale l'industria farmaceutica con grande senso del denaro offre un rimedio sempre più veloce e sempre più carico di effetti indesiderati (il simbolo estremo di tutto ciò è senza alcun dubbio il Viagra[8]); ed infine si estromette la morte dal circuito linguistico e di conseguenza da quell'orizzonte del senso che comanda l'apprezzamento del reale[9]. Non appare per nulla esagerato affermare che il nostro nuovo destino di quasi immortalità abbia in qualche modo indebolito il senso della nostra moralità[10].

Ed è proprio qui che io inserisco la categoria di "prima generazione incredula", indicando con essa la fatica delle generazioni più giovani a capire cosa c'entra la fede con la loro crescita umana. Sostengo infatti che, nell'età dell'iniziazione cristiana, la teoria del catechismo non ha trovato alcun o quasi nessun riscontro nella pratica degli adulti significativi con cui i nostri piccoli sono entrati in contatto e alla fine la frequenza della parrocchia e dell'oratorio è stata percepita come una tappa d'obbligo verso la società dei grandi e nulla più. Da tempo, per gli adulti, il compimento dell'umano è la giovinezza ed è questo che hanno trasmesso ai nostri giovani, divaricando le istruzioni per vivere da quelle per credere.

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Che cosa c'entra tutto questo con i giovani adulti di oggi e con i giovani genitori in particolare?

Si avviano verso un'età, quella della maturità, oggi decisamente in liquidazione e da tutti i suoi titolari rinnegata. Insomma non vanno verso una conquista, ma verso una perdita.

Vivono una strana coppia di sentimenti: da una parte sono invidiati da tutti gli adulti (in quanto "sei ancora così giovane", "hai una vita davanti a te") dall'altra nessuno si occupa di loro veramente (per ogni cosa c'è una fatica immane da fare). Invidia e marginalità.

Normalmente non hanno avuto modo, se non raramente, di capire concretamente che cosa sia vivere da "cristiani adulti", ovvero che cosa significhi essere "un adulto credente che ha famiglia". Il cristianesimo è al massimo andare "a messa la domenica".

3. Il nuovo culto dell'infanzia

Un'altra enorme trasformazione della società contemporanea riguarda il nuovo statuto immaginario del bambino/figlio, cioè il modo in cui i genitori in primis ma poi tutta la cultura immagina l'essere del bambino/figlio. Il già citato Gauchet al riguardo parla di un passaggio epocale dal desiderio del figlio al figlio del desiderio: «Il bambino è diventato un figlio del desiderio, del desiderio di un figlio. Era un dono della natura o il frutto della vita attraverso di noi, certo, ma senza di noi o malgrado noi. D'ora in poi non potrà che essere il risultato di una volontà espressa, di una programmazione di un progetto»[11].

Il cambiamento qui evocato risulta dal fatto che grazie ai progressi della medicina l'atto della procreazione è sempre più sganciato dai fattori della naturalità e casualità, legati all'esercizio profano della sessualità. Potremmo dire che il bambino non è più un semplice dono della natura, del caso, chiamato alla prosecuzione della specie umana sulla terra. È ora un figlio dei loro genitori, voluto, scelto, è «un'emanazione del loro essere più profondo»[12]. È risultato di un desiderio che lo precede e che lo determina in misura profonda.

Ciò che cambia è perciò lo sguardo dei genitori sul piccolo. Non è più visto - afferma Gustavo Pietropolli Charmet - come un "selvaggio" da introdurre dentro la società, ma come una conquista, una meta (e a volte non mancano le difficoltà). Quando arriva, perciò è una sorta di piccolo Budda, una specie di gallina dalla uova d'ora; è semplicemente un «piccolo messia con miracolose attitudini»[13]. Non è più un essere in divenire che dovrà capire il senso della sua chiamata all'esistenza, ma è un essere già individuo, una sorta di piccolo adulto. Non è più l'inizio di un uomo, ma un uomo all'inizio. Non deve conquistarsi un posto in famiglia, in società, nella vita. Lo ha già. Quello spazio è stato preparato, immaginato, desiderato per lui, prima di lui, senza di lui. Non deve meritare di essere al mondo. La vita non sarà più la semplice faticosissima occasione di conquistarsi la felicità o più tragicamente di evitare il maggior dolore possibile. Il figlio moderno, il figlio del desiderio, più radicalmente ha diritto alla felicità. Si pensi all'incredibile lavoro per scegliere il nome dei nascituri!

Gauchet afferma che in tal modo viene fuori una mitologia dell'infanzia, una sorta di sovrainvestimento allucinatorio nei confronti dei piccoli: non sono più recettori di senso, ma donatori di senso. E quindi meritano tutto. Da ciò deriva poi una prassi educativa fondamentalmente antitraumatica e iperprotettiva, tutta tesa a favorire nel piccolo la libera espressione di un sé, il quale tuttavia dovrà continuamente fare i conti con il fatto di essere venuto al mondo solo grazie al desiderio dei suoi genitori. E questo gli complica la vita[14].

Sorge così la fatica di crescere, di un rapporto autentico con il reale, che trova la sua cifra più alta in quel "perdonare i genitori" (la Bibbia con esattezza comanda di onorare i genitori, non di amarli) per averci immesso in quella scommessa singolare che la vita è, dove nessuno è mai assicurato davvero.

Proprio un tale nuovo immaginario del figlio rende assai più difficile che nel passato il gesto dell'educazione esterna alla famiglia, come nel caso dell'educazione scolastica. Per la scuola il bambino è un ignorante, nel senso che ignora, direbbe Totò, per la famiglia è al contrario un piccolo genio. Quella fusione di intenti che dovrebbe stare alla base dell'alleanza educativa è così fortemente messa in crisi.

Il rischio concreto di questo nuovo culto del bambino è che l'infanzia oggi diventi una sorta di prigione dorata, nella quale il bambino resti paradossalmente abbandonato a se stesso: è così speciale, è così completo che di nulla ha bisogno. Esprime con particolare chiarezza ed urgenza tutto ciò Marina D'Amato, quando scrive che «il genitore contemporaneo non è impegnato nel compito di educare bensì di attrarre il bambino a sé, compiacendolo in ogni suo bisogno, spesso iperstimolandolo [...] L'attuale rappresentazione e costruzione dell'infanzia vede il bambino come essere potenzialmente perfetto e precocemente competente, il bambino "sovrano, il bambino "idolo" della famiglia affettiva. A tale rappresentazione
del bambino fa da contrappunto un'analoga rappresentazione della funzione genitoriale, che ricerca la perfezione e che di fatto espropria l'infanzia con la sua specificità di essere in fieri, bisognosa di un adulto non paritario ma responsabile, in grado di dargli limiti oltre che gratificazioni, e di farlo pensare anche per doveri e non solo per diritti»[15].

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Che cosa c'entra tutto questo con i giovani adulti di oggi e con i giovani genitori in particolare?

La nuova imperante mitologia del bambino sfida e scoraggia molto i giovani adulti davanti alla possibilità di avere figli o di averne più di uno. Questi ultimi rappresentano non solo un peso economico, ma anche un peso spirituale: non è facile avere in mezzo ai piedi e allevare un piccolo "essere celeste", che tuttavia sempre umano, troppo umano, resta.

Mancanza totale della trasmissione, da parte dei propri padri e delle proprie madri, del "mestiere dell'adulto", per cui si immagina che crescere i figli significhi essenzialmente voler loro semplicemente del bene (non più il loro bene) e quindi aver cura della manutenzione costante dei loro bisogni.

Difficoltà a sintonizzarsi con la drammatica elementare del battesimo cristiano. Che cosa infatti può ormai dire il battesimo circa la questione del peccato originale, della necessità che il piccolo abbia delle guide per la costruzione della propria vita interiore, e che cosa può significare l'impegno essenziale dei genitori per la trasmissione della fede e l'iniziazione ad una pratica di preghiera a una cultura incantata ed incatenata al mito e culto dell'infanzia? Nessun ombra di peccato i genitori scorgono nella bellezza cristallina del loro piccolo, alcuna necessità di azioni educative esterne, nessun bisogno di riferimento ad una qualche trascendenza per rintracciare un orizzonte di senso per la sua esistenza. Il bambino è il senso.

Conclusione

Prima di portare a termine questa mia analisi con alcune indicazioni di tipo pastorale, è opportuno mettere in evidenza due cose, finora lasciate ai margini. Una negativa e l'altra positiva. La prima è la forza del mercato e la sua capacità di inserirsi brillantemente in questi processi di riscrittura dell'umano: adulti che non vogliono smettere di fare i giovani e genitori disposti a tutto per il loro figlio /i loro figli sono perfettamente adesivi al sistema economico imperante, che ha sempre bisogno di elargire soddisfazioni "a termine" e quindi di alimentare l'insoddisfazione dei consumatori. Un consumatore soddisfatto è l'incubo del mercato. Il mito della giovinezza e dell'infanzia vanno a braccetto con questo sistema.

La seconda positiva realtà è che ci stiamo interrogando su giovani adulti che hanno deciso di rompere gli indugi: hanno messo al mondo un figlio. Hanno smesso di pensare a loro stessi e in qualche misura si sono aperti a quella verità germinale dell'essere adulto che è dato dalla contemporanea presenza di oblio di sé e di dedizione ad altri. Il punto di sfida è che, come a ogni latitudine, per allevare un figlio ci vuole un villaggio ed oggi il villaggio occidentale è parecchio "impazzito".

Da questo punto di vista mi pare di poter indicare alcune linee di orientamento per una pastorale postbattesimale odierna:

sostenere il cammino verso la maturazione adulta dei giovani genitori, organizzando un corso sul "mestiere dell'adulto";

porre l'accento sulla fede come esperienza di preghiera (personale, familiare e ecclesiale), offrendo corsi di introduzione alla preghiera;

accostarsi alla Scrittura come grande mappa dell'umano che è comune a tutti e a tutti i tempi, partendo per esempio dalla forza umanizzante dei Dieci Comandamenti e dalla "pedagogia" delle relazioni di Gesù (già significativa quello con la Madre), costruendo percorsi di lectio divina mirati;

favorire la presa di coscienza dei nuovi immaginari umani, causati dall'allungamento della vita, e degli effetti di ingiustizia intergenerazionale che stanno causando nella società, favorendo la nascita di un gruppo di interesse sul futuro possibile e sul possibile futuro dei loro figli.

Note al testo

[1] M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Vita e Pensiero, Milano 2010, 25.

[2] Riprendo alcuni passaggi di un mio articolo in uscita su Rivista del clero italiano.

[3] M. Gauchet, Il figlio del desiderio, 42-43.

[4] Ivi, 44.

[5] F. Stoppa, La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni, Feltrinelli, Milano 2011, 9-10.

[6] M. Gauchet, Il figlio del desiderio, 44.

[7] Cfr. M. Recalcati, Che cosa resta del padre? La paternità nell'epoca ipermoderna, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011; molto pertinenti e stimolanti le osservazioni di G. Angelini, «Per educare un figlio ci vuole un villaggio», in Rivista del Clero Italiano 95 (2014), 545-560.

[8] Cfr C. Lafontaine, Il sogno dell'eternità La società postmortale. Morte, individuo e legame sociale nell'epoca delle tecnoscienze, Medusa, Milano 2009, 88

[9] Cfr. L. Manicardi, Memoria del limite. La condizione umana nella società postmortale, Vita e Pensiero, Milano 2011, 48-50.

[10] Una piccola nota: la metamorfosi dell’età adulta e degli adulti attuali è dovuta principalmente alla questione dell’allungamento della vita, come già sottolineato; è dovuta tuttavia anche al concomitante contesto culturale da essi effettivamente vissuto. Per le persone appartenenti all'attuale generazione adulta vale quanto ha segnalato giustamente Francesco Stoppa: «Nell’arco della loro vita è accaduto più o meno di tutto: hanno respirato le esalazioni di due conflitti mondiali che hanno visto coinvolti prima i loro nonni e poi i loro genitori; sono state bambini o ragazzi negli anni della guerra fredda ma anche della nuova frontiera kennedyana e del Concilio Vaticano II; pur avendo ricevuto un’educazione e dei valori non troppi dissimili da quelli dei loro padri, sono state protagoniste di due stagioni di contestazione (il ’68 e il ’77) che hanno trasformato i precedenti modi di vivere e pensare; hanno visto in diretta i passi del primo uomo sulla luna, attraversato gli anni del terrorismo, partecipato attivamente al cambiamento delle istituzioni (famiglia, scuola, sanità). Si sono, in sostanza, sentite parte vive di un movimento di rinnovamento che attraversava tutto il mondo occidentale, trascinate da una forma di espressività artistica, la musica rock, che sembrava racchiudere nel pentagramma le fibre più intime del loro essere e ogni sfumatura dell’esistenza» (F. Stoppa, La restituzione, 9).

[11] M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Vita e Pensiero, Milano 2009, 8.

[12] Ibidem.

[13] G. Pietropolli Charmet, Fragile e spavaldo. Ritratto dell'adolescente oggi, Laterza, Roma-Bari 2008, 13.

[14] «Va bene, sono il figlio che i miei genitori desideravano, sono forte del desiderio che avevano di me, devo loro la mia esistenza, non solo nel senso che la mia vita discende da loro, ma per il fatto che sono loro la causa di ciò che sono. Una certezza che ha però anche un suo rovescio: più sono sicuro di esistere grazie al loro desiderio, più misuro il fatto che avrei potuto non esistere. Il figlio non desiderato di una volta, frutto del caso, figura esemplare dell'infelicità se visto con la sensibilità di oggi, aveva almeno la certezza di dovere la vita alla vita, di essere strettamente legato all'oggettività di un processo vitale del quale i suoi genitori non erano che dei ciechi strumenti. Al contrario l'esistenza del figlio del desiderio è interamente sospesa all'intenzionalità dei suoi autori, alla quale è legata a doppio filo» (Gauchet, Il figlio del desiderio, 83-84).

[15] M. D'Amato, Ci siamo persi i bambini. Perché l'infanzia è scomparsa, Laterza, Roma-Bari 2014, 16-17.