Viterbo e i papi, di Giulio Andreotti

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 22 /02 /2015 - 14:02 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito della rivista 30Giorni un articolo di Giulio Andreotti pubblicato come editoriale del numero 4/2000; il testo è la relazione tenuta dall’autore per il Convegno svoltosi presso il Rotary Club di Viterbo, il 7 aprile 2000. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (6/1/2015)

Affermare che la storia della Chiesa – e quindi dei papi – è prevalentemente legata a «quella Roma onde Cristo è romano» nulla toglie all’importanza notevolissima che hanno avuto, sempre legati a momenti drammatici, soggiorni anche non brevi dei pontefici extra Urbem.

Si inserisce qui il tema che mi è stato dato per una gratificante serata con i rotariani del viterbese.
Il bellissimo Palazzo dei Papi, uno dei monumenti più noti e più significativi dell’architettura medievale di tutto il Lazio, è la testimonianza di una stagione assai particolare della storia di Viterbo. Siamo nel pieno del Medio Evo, fra il XII e il XIII secolo: in questo periodo burrascoso la città fu a più riprese sede pontificia ed ebbe un ruolo non secondario nelle lotte fra il papato e il popolo romano, fra il papato e l’Impero e fra il papato e gli eretici.

Il Palazzo dei Papi a Viterbo

Il primo Papa che scelse Viterbo come sua sede fu il beato Eugenio III Paganelli, la cui elezione risale al 1145. Il suo predecessore, Lucio II, Gerardo Caccianemici, aveva avuto problemi forti con i romani, che da poco avevano riesumato l’antica istituzione del Senato e miravano a ottenere l’indipendenza dal potere ecclesiastico, limitando il clero alle funzioni spirituali. Lucio II aveva cercato aiuti presso Ruggero II di Sicilia e poi presso Corrado III di Svevia, ma invano. Si era risolto ad attaccare da solo, con le forze di cui disponeva, il Campidoglio dove era insediato il Senato, ma l’impresa era fallita. Il Papa era stato respinto a sassate e si era dovuto rifugiare nel convento di San Gregorio, da cui non aveva più osato uscire; subito dopo morì.

Lo stesso giorno, con una rapidità che trova giustificazione nell’estrema gravità della situazione, fu eletto papa Eugenio III, seguace di Bernardo di Chiaravalle e abate alle Tre Fontane. Tuttavia non bastò il suo prestigio a pacificare l’animo dei romani, che ribadirono tutte le richieste che già avevano rivolto a Lucio II. Non volendo accettarle, Eugenio III si fece consacrare a Farfa e si stabilì a Viterbo, lasciando a Roma un clima di rivalse “anticlericali” di cui fecero le spese le dimore cardinalizie, numerose chiese e basiliche e persino alcuni pellegrini costretti a suon di nerbate a fare offerte non propriamente spontanee alla causa civile del popolo romano.

Viterbo era rivale di Roma in quanto i due comuni miravano a espandersi sulle stesse zone, e quindi ben volentieri aveva offerto la sua protezione al Papa. Eugenio III vi trascorse sette mesi. In questo tempo maturò la decisione di proclamare la seconda crociata, che fu ufficialmente indetta da Vetralla il 1° dicembre e fu predicata dallo stesso san Bernardo. Intanto si cercava un accordo con i romani: un compromesso parve raggiunto, sicché a Natale il Papa fece ritorno a Roma; subito dopo tuttavia la situazione tornò a farsi esplosiva ed Eugenio III preferì cercare nuovamente rifugio a Viterbo. Da qui, protetto da una scorta di viterbesi, partì per la Francia. I romani cercarono di vendicarsi su Viterbo, ponendola sotto assedio, ma furono respinti.

A complicare ancora le cose sopravvenne l’arrivo, prima a Viterbo poi a Roma, di Arnaldo da Brescia. La predicazione di questo riformatore, al cui fascino contribuivano l’eloquenza faconda e il rigore delle pratiche ascetiche, era partita dalla lotta al clero simoniaco ed era approdata a una richiesta radicale di separazione fra potere temporale e potere spirituale. Per questi motivi era già stato allontanato dalla sua città natale e aveva dovuto riparare in Francia. A Viterbo ricevette il perdono da Eugenio III. Ma, recatosi a Roma in pellegrinaggio, aveva trovato una consonanza d’intenti con il comune di quella città e vi aveva ripreso la sua predicazione, nella quale fra l’altro accusava il Papa di essere un «uomo di sangue».

Non so se nell’ambito della coraggiosa revisione storica che si sta facendo sotto il personale impulso del santo padre Giovanni Paolo II anche per Arnaldo da Brescia si profilino moduli di riabilitazione. Non lo credo, ed è comunque un compito che non spetta solo alle istituzioni ecclesiastiche.

Arnaldo fu uno specialista nelle confusioni tra papi e antipapi. Prima di Viterbo aveva operato in tale senso a Brescia appoggiando l’abusivo Anacleto II contro il legittimo Innocenzo II.
L’adulatore di laici avido di gloria popolare – come fu definito – può considerarsi o no tra gli assertori rimarchevoli della distinzione tra potere ecclesiastico e ambito politico-civile, in un quadro di rinnovamento religioso popolare?
Sarebbe argomento da trattarsi con adeguato spazio e non possiamo indugiarvi in questa sede; né io ho sufficiente competenza specifica per farlo.

Riprendendo il nostro filo, l’attivismo di Arnaldo era un motivo in più per ristabilire l’autorità del papa sull’Urbe ed Eugenio tentò una conquista armata, con l’ausilio delle truppe di Ruggero II. Ancora una volta però poté rimanere a Roma solo per un breve periodo, essendo ben presto costretto a ripartire. Cercò allora aiuto dalla Germania: prima con Corrado III, poi alla morte di questi con il suo successore, Federico Barbarossa, al quale promise in cambio l’incoronazione a imperatore. Morì però a Tivoli molto prima dell’arrivo del Barbarossa in Italia.

Il Barbarossa ricevette la corona imperiale a San Pietro, nel 1155, da Adriano IV (Niccolò Breakspear), che aveva ripreso le linee della politica di Eugenio III, cercando l’accordo con il re svevo sia contro l’irrequieto comune di Roma sia contro il re normanno. Fra l’altro fu con la collaborazione di Federico che poté essere arrestato e giustiziato Arnaldo da Brescia. Ma erano anni di alleanze brevi e assai variabili. Passarono pochi mesi e Adriano strinse un patto con i Normanni, rompendo così con Federico.

Alla morte di Adriano, la maggioranza dei cardinali elesse papa Rolando Bandinelli con il nome di Alessandro III, ma un piccolo gruppo di cardinali filoimperiali non riconobbe la nomina e proclamò invece papa Ottaviano da Monticello, con il nome di Vittore IV. Viterbo si dichiarò subito in favore di quest’ultimo. Era l’inizio di uno scisma destinato a durare diciotto anni. Alla morte di Vittore prese il suo posto Guido da Crema, con il nome di Pasquale III: sempre sostenuto dall’appoggio imperiale, questi scelse Viterbo come sua sede.

Nel 1167 Federico Barbarossa scese in Italia, con l’intento di conquistare Roma. Si fermò a Viterbo, che gli fece atto di vassallaggio consegnandogli le chiavi, e proseguì poi nella sua marcia, portandosi dietro Pasquale III e una folta schiera di viterbesi. Questi ebbero una parte di rilievo nel successivo assalto a San Pietro, tanto che si diffuse la notizia che a ricordo dell’impresa avessero asportato le porte della Basilica vaticana. In realtà si trattava delle porte di Santa Maria in Turri, una chiesa vicina a San Pietro.

In San Pietro, Barbarossa si rifece incoronare da Pasquale III. Una grave pestilenza che mieteva decine di vittime al giorno lo indusse, però, a ripartire per il nord, e in sua assenza lo scisma cominciò a perdere vigore.

Dopo la morte di Pasquale III fu ancora eletto Giovanni da Strumi, che prese il nome di Callisto III; tuttavia la causa di Alessandro III riscosse sempre più adesioni fino a trionfare definitivamente, dopo la sconfitta di Federico a Legnano da parte della coalizione dei comuni italiani.

n un primo momento, l’antipapa di Viterbo cercò di resistere, ma presto fu chiaro che non poteva far altro che dichiarare la sua sottomissione ad Alessandro, e con lui prestò atto di fedeltà la nobiltà di Viterbo che aveva tentato di sostenerlo. Alla fine del suo pontificato, non molto prima di morire, Alessandro visitò Viterbo e le tributò alcuni privilegi, anche se non l’ambita nomina a sede vescovile. Questa fu concessa, invece, nel 1192 da Celestino III, il romano Giacinto Bobone.

Nel 1200, gli abitanti di Vitorchiano posti sotto assedio dai viterbesi chiesero aiuto ai romani, che inviarono una legazione a Viterbo. La trattativa però degenerò, gli ambasciatori furono insultati e si venne alla guerra fra le due città. Il papa Innocenzo III (Lotario dei conti di Segni) volentieri concesse il suo aiuto ai romani, che al termine di un conflitto in realtà assai breve (bastò una sola giornata di combattimento!) costrinsero Viterbo alla resa. Furono recuperate le pseudoporte di San Pietro e nel bottino di guerra fu inclusa la campana del comune, che fu portata in Campidoglio: è la famosa Patarina, che ancora oggi annuncia l’elezione del sindaco di Roma.

L’appoggio del Papa alla causa romana derivava dall’ostilità che Viterbo aveva suscitato per l’ospitalità accordata agli eretici patarini espulsi da Orvieto. Si tratta di un movimento riformatore rivoluzionario nato a Milano e da lì diffuso in varie zone dell’Italia: all’inizio i patarini combattevano energicamente la simonia e l’immoralità dei chierici; erano poi passati a predicare una radicale povertà evangelica ed erano arrivati a rinnegare il sacerdozio e a rigettare i sacramenti.

Già all’inizio del suo pontificato, Innocenzo aveva minacciato di privare Viterbo della sede vescovile se avesse continuato a proteggere gli eretici. Nonostante ciò alcuni di questi avevano addirittura avuto cariche civili. Il Papa allora intimò al vescovo Raniero di lanciare l’interdetto contro la città, i cui abitanti definì «più perfidi degli ebrei e più efferati dei pagani». A proposito degli ebrei – mi si conceda un inciso – qualcuno si domanda come mai nel ricorrente quarto centenario della fine di Giordano Bruno non si sono avute – almeno fino ad ora – in Roma rimarchevoli manifestazioni iperlaiciste, come avvennero nell’Anno Santo 1900, quando furono organizzate nell’Urbe anche liturgie provocatorie di contrapposizione giubilare. Forse alcune durissime espressioni che si trovano nell’ampia opera letteraria del Bruno di disprezzo durissimo per gli israeliti consiglia prudenza.

Ma passiamo oltre e torniamo al vescovo Raniero. Ritenendo che l’operato del vescovo fosse comunque troppo blando, il Papa decise di intervenire personalmente; a questo scopo trascorse in città diversi mesi nel 1207 e vi decretò vari provvedimenti ad eliminandam Paterinorum sporcitiam. I patarini si allontanarono prontamente e i viterbesi si godettero i vantaggi di avere in città la corte pontificia.

La Cattedrale di Viterbo vista dalla loggia del Palazzo dei Papi

Anche il successore di Innocenzo III, Onorio III Savelli passò a Viterbo un intero inverno, a causa dei consueti sommovimenti che si verificavano a Roma. Intanto si andava profilando un nuovo conflitto fra il papato e l’Impero, a causa del mancato rispetto da parte di Federico II della promessa di guidare una nuova crociata. Il conflitto andò avanti per i primi tre anni del pontificato del successore di Onorio III, Gregorio IX dei conti di Segni, e, dopo un’irrequieta tregua di nove anni, riprese anche sotto il brevissimo pontificato di Celestino IV, il milanese Goffredo Castiglioni; e poi sotto quello di Innocenzo IV, Sinibaldo Fieschi, genovese. Nelle sue controverse vicende si inserirono anche le guerre fra Viterbo e Roma. Ambedue le città, a tempi alterni, cercarono i favori del papa o dell’imperatore in favore delle proprie ambizioni espansionistiche o per difesa. A Viterbo a più riprese prevalse la fazione ghibellina, tanto che nel 1240 Federico II vi si fermò dopo aver occupato la Toscana; la città fu proclamata aula imperiale ed ebbe il diritto di battere moneta. Ma poco dopo primeggiò l’opposta fazione guelfa, capeggiata dal capitano del popolo Raniero Gatti, che chiamò in suo soccorso le truppe del papa guidate dal cardinale Capocci, di origine viterbese. Anche parecchi romani vennero a dare una mano ai viterbesi e quando Federico II venne a porre sotto assedio Viterbo trovò il compito molto più arduo del previsto; preferì quindi trovare una soluzione diplomatica, ritirandosi in buon ordine. Passarono pochi mesi e Viterbo tornò ghibellina, finché, dopo la morte di Federico II, Innocenzo IV non se la riprese sotto la protezione della Santa Sede, obbligando al giuramento dell’osservanza sia guelfi sia ghibellini.

Nel 1257 a causa delle usuali agitazioni romane si trasferì a Viterbo Alessandro IV dei Signori di Ienne, che vi trascorse diciotto mesi, ricolmando di privilegi le chiese e partecipando con fervore alle liturgie. Durante la sua permanenza iniziarono i lavori per la costruzione del Palazzo dei Papi, che voleva essere al contempo residenza prestigiosa e rocca ben difesa. Alessandro IV ritornò a Viterbo nel 1261, per indirvi un concilio ma la morte lo colse all’improvviso.

Il conclave si svolse nella stessa città (era infatti norma che il nuovo papa fosse eletto nel luogo in cui era morto il vecchio) e vi parteciparono solo otto cardinali, perché nel suo pontificato Alessandro IV non ne aveva nominati di nuovi. Fu eletto Urbano IV, il francese Giacomo Pantaléon, il quale, a causa delle lotte civili, non andò mai a Roma e passò il suo pontificato fra Viterbo, Montefiascone e Orvieto. Durante la sua lotta con il figlio di Federico II, Manfredi, Viterbo si mantenne fedele al papato, nonostante un’attiva propaganda da parte ghibellina.

Anche il Papa successivo, Clemente IV (Guido Fulcodi), francese, scelse di risiedere a Viterbo, che sembrava più costante di Roma nella sua fedeltà e che si era per di più offerta di alloggiare gratuitamente i cardinali e gli ufficiali di curia. Fu terminato allora con il magnifico loggiato il Palazzo dei Papi. Da Viterbo, Clemente lanciò la scomunica contro Corradino di Svevia, che pure suscitava la sua compassione perché, per usare le sue stesse parole, era un «giovane condotto da cattivi consiglieri quale docile agnello al macello».

La tradizione vuole che tale profetico giudizio fosse espresso dal Papa quando dall’alto del Palazzo assistette al passaggio nei pressi di Viterbo dell’esercito di Corradino, durante la sua marcia verso il sud che doveva concludersi tragicamente con la sconfitta di Tagliacozzo. Nel 1268 Clemente morì a Viterbo, dove fu sepolto in Santa Maria di Gradi, dopo una lunga disputa fra i Domenicani titolari di quella chiesa e i canonici della Cattedrale che rivendicavano l’onore di seppellirlo nel duomo.

L’elezione del nuovo papa fu una delle più travagliate della storia della Chiesa: i cardinali, in discordia per motivi di rivalità personali e per l’atteggiamento da prendere verso il re di Sicilia Carlo I d’Angiò che voleva estendere il suo potere sull’Italia centrale e settentrionale, impiegarono tre interi anni a trovare un accordo. I viterbesi, guidati da Raniero Gatti, che agiva anche per esortazione di san Bonaventura, cercarono in vari modi di indurre il sacro collegio ad accelerare i tempi: li chiusero a chiave nel palazzo (il termine conclave deriva proprio da cum clave; e quindi questo di Viterbo fu il primo a cui il nome si addice alla lettera), ridussero drasticamente le razioni di cibo e arrivarono infine a scoperchiare il palazzo togliendo il tetto. Ancora adesso nel pavimento della sala sono visibili i fori delle tende che i cardinali eressero allora per proteggersi.

Fu eletto infine il piacentino Tedaldo Visconti con il nome di Gregorio X. Passò a Viterbo solo un mese. In una sua costituzione Gregorio elevò a norma le pratiche che i viterbesi avevano attuato per cercare di abbreviare i tempi d’elezione del papa: stabilì che i cardinali si dovessero riunire entro dieci giorni dalla morte del papa; che dovessero rimanere insieme senza contatti con l’esterno; che dovessero essere sottoposti a condizioni sempre più disagiate via via che l’elezione si prolungava: nei primi tre giorni il vitto sarebbe stato normale, per passare poi a mezza razione e arrivare infine a pane e acqua.

Di lì a pochi anni a Viterbo si tenne un altro conclave: quello successivo alla morte di Adriano V, Ottobono Fieschi, che vi era venuto per sottrarsi al gran caldo di Roma e vi era morto il 18 agosto 1276. Fu sepolto in San Francesco, in una sontuosa tomba opera di Arnolfo di Cambio. Quando dieci giorni dopo la sua morte, il podestà propose di riadottare le misure atte a isolare il conclave si verificarono tumulti e violenze; infatti l’ultimo Papa aveva sospeso la costituzione di Gregorio X.

Calmatasi la situazione, fu eletto il portoghese Pietro Iuliani, che prese il nome di Giovanni XXI. Questi, non avendo alcuna intenzione di abbandonare neppure da papa gli studi scientifici che aveva cari, si fece costruire una cella sul retro del palazzo di Viterbo e lì si ritirò. La sorte volle però che il pavimento della stanza cedesse e il Papa morì otto mesi dopo la sua elezione in questo tragico incidente.

Dal nuovo conclave, lungo sei mesi nonostante le pressioni dei viterbesi, uscì papa Niccolò III, Giovanni Gaetano Orsini, romano, il quale volle subito partire per farsi incoronare a Roma. I viterbesi, ai quali non sfuggivano le ripercussioni economiche negative di questa partenza e che ritenevano di non aver ammortizzato a sufficienza la spesa del Palazzo, offrirono allora al Papa un documento nel quale si impegnavano, se la sede pontificia fosse rimasta Viterbo, a collaborare al massimo nell’inquisizione degli eretici, ad affidare tutti gli incarichi civili a persone di fiducia della Chiesa, ad ampliare e arricchire il Palazzo, ad alloggiare gratis i cardinali e gli altri personaggi eminenti della curia e a garantire agli altri ufficiali una sorta di affitto a equo canone. Si prevedeva persino un risarcimento in caso di furti o rapine, e tutta una serie di altre misure atte ad assicurare le più convenienti condizioni di vita. E così Niccolò III tornò a Viterbo. Morì nel 1280 nel castello di Soriano che aveva fatto costruire per sé e per i suoi familiari. Era stato il primo Papa che si era dedicato sistematicamente a una politica di nepotismo, a causa della quale fra l’altro Dante lo piazzò nell’Inferno.

Il conclave che seguì la morte di Niccolò III fu l’ultimo che si tenne a Viterbo e fu turbato da un episodio grave: dopo mesi di discussioni senza risultato, i viterbesi fecero irruzione nel Palazzo e arrestarono due cardinali, ambedue appartenenti alla famiglia Orsini. Questo consentì l’elezione di Martino IV, Simone de Brion, francese, che però deprecò il sopruso compiuto e lanciò l’interdetto sulla città. Subito dopo, il nuovo Pontefice partì per Orvieto, dove si fece incoronare e stabilì la sua residenza.

I papi non tornarono mai più a risiedere a Viterbo. Con quel conclave burrascoso ebbe così termine il periodo forse più prestigioso della Viterbo comunale.

Sono pagine di storia, poco conosciute dai non specialisti. E credo che si possa dire che tutti noi – cattolici professi o non – non possiamo aver nostalgia di stagioni tanto controverse e travaglia.