La dottrina sociale della Chiesa da Leone XIII alla I guerra mondiale. File audio ed antologia di testi di una lezione tenuta da Andrea Lonardo presso la chiesa di Santa Maria di Loreto al Foro Traiano

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 15 /01 /2015 - 16:07 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito il file audio di una lezione di Andrea Lonardo sulla Dottrina sociale della Chiesa da Leone XIII alla I guerra mondiale tenuta presso la chiesa di Santa Maria di Loreto al Foro Romano il 13/12/2014. Per ulteriori file audio vedi la sezione Audio e video.  Per approfondimenti, cfr. la sezione Solidarietà e sussidiarietà.

Il Centro culturale Gli scritti (15/1/2015)

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N.B. L'antologia di testi è ancora da sistemare e sono da aggiungere le immagini utilizzate (sarà fatto a breve)

La dottrina sociale della Chiesa da Leone XIII alla I guerra mondiale (presso Santa Maria di Loreto)
(www.gliscritti.it www.catechistiroma.it Canale Youtube: Catechistiroma FB: Andrea Lonardo)

Premessa: con quali occhi guardiamo il mondo, qual è l’ottica e la prospettiva?

1/ Lo strutturarsi progressivo della Dottrina sociale della Chiesa: sussidiarietà e solidarietà

da Solidarietà e sussidiarietà nella dottrina sociale della Chiesa: implicazioni reciproche, di Maurizio Mirilli

1. Il principio di solidarietà

Il termine solidarietà è molto diffuso ma con un significato spesso vago e superficiale. Deriva dal diritto romano, in cui era prevista una “obbligazione solidale” (in solidum) che vincolava più soggetti co-obbligati a rispondere ciascuno per l’intero, e non solo per la propria parte, in caso di necessità. Nel corso della storia, notevole è stato il contributo della dottrina sociale della Chiesa per una definizione della solidarietà, ottenuta a partire dal dialogo tra la sua elaborazione in chiave non credente e quella costituitasi nel contesto cristiano.

1.1. Il solidarismo cristiano

La riflessione sulla solidarietà in ambiente francese ebbe la sua massima espansione alla fine del XIX secolo, con l’elaborazione di un sistema sociale denominato “solidarismo”. Un primo contributo venne dal filosofo politico P. Leroux (1797-1871) il quale propose un sistema, distante tanto dal liberismo quanto dal socialismo, in grado di riscoprire il legame profondo che connette l’intera umanità e che permette alla persona di nascere e vivere in società. Per Leroux la solidarietà sarebbe la risposta al conflitto insanabile tra le ragioni della libertà individuale e quelle della società. Un impulso pratico e decisivo venne dato dal politico Léon Bourgeois (1851-1925) il cui pensiero distinse la solidarietà-fatto dalla solidarietà-dovere. Con la prima identifica “l’originaria interdipendenza tra tutti gli uomini, in quanto legame naturale e necessario. La seconda scaturisce dalla rilettura in prospettiva etico-sociale di quel vincolo, mostrando l’esigenza…di dover agire ciascuno a favore di tutti gli altri, in forza del comune debito accumulato verso la società, in particolare verso le passate generazioni”.
Negli stessi anni nell’area tedesca il filosofo e teologo H. Pesch (1854-1926) fondò un’altra corrente di pensiero, denominata “solidarismo cristiano”. Tale corrente, sviluppatasi sino alla metà del XX secolo ad opera di O. von Nell-Breuning (1890-1991) e G. Gundlach (1892-1963), ben radicata nella tradizione cristiana, aveva l’obiettivo non solo di essere equidistante dal collettivismo totalitario e dal liberalismo individualista ma anche di correggerli e di superarli. Il cuore del pensiero è rappresentato dalla centralità della persona umana all’interno della sua relazione con la società. Quest’ultima, fondata sulla persona e finalizzata ad essa, dovrebbe strutturarsi facendo riferimento non solo al principio di solidarietà ma anche a quello di sussidiarietà in quanto principi speculari e complementari che tengono conto delle due caratteristiche personali fondamentali: la socialità e la individualità. Sviluppando la prima in termini di solidarietà si persegue il bene di tutti, mentre valorizzando la seconda nell’ottica della sussidiarietà la società è orientata al bene di ciascuno.
Il solidarismo cristiano fu criticato da alcuni domenicani appartenenti alla scuola della totalità, la quale teorizzava un bene comune da realizzarsi finalizzando ogni parte al tutto sociale. Data la non corretta e rischiosa lettura del principio tommasiano in chiave totalitarista, fu il solidarismo cristiano a dare il contributo maggiore all’elaborazione del pensiero sociale della Chiesa. Non a caso Nell-Breuning e Gundlach furono stretti collaboratori di Pio XI e Pio XII.

1.2. L’apporto della dottrina sociale della Chiesa

A partire dal 1891, possiamo distinguere due periodi nei quali il principio di solidarietà è stato gradualmente elaborato. Nel primo periodo la presenza del principio è implicita e non fa ancora uso del termine solidarietà; nel secondo il pensiero è più elaborato e si fa riferimento esplicito ad una società da orientarsi in senso solidaristico.

1.2.1. Da Leone XIII a Pio XII

Sino a Pio XI, l’insegnamento sociale della Chiesa ha utilizzato raramente il termine solidarietà, preferendo ad esso espressioni equivalenti, in quanto il suo uso in ambiente laicista era spesso in contrapposizione al termine carità, fondamentale per il cristianesimo. Nonostante ciò Leone XIII in varie occasioni, di fronte ad una società liberal-borghese caratterizzata dal dominio dei ceti economicamente e socialmente più potenti e dai conflitti della questione operaia, fece implicitamente riferimento alla solidarietà, sottolineando il legame fraterno e reciproco esistente tra tutti gli uomini. Nella Rerum novarum del 1891 troviamo la necessità di una saggia condivisione dei beni della terra, pur senza negare il diritto alla proprietà privata, di uno spirito di fratellanza tra tutte le classi sociali, in virtù del naturale e originario vincolo umano, di un associazionismo capace di tutelare gli interessi dei lavoratori, soprattutto dei più deboli, in armonia con quelli legittimi dei capitalisti.
Di fronte al collettivismo socialista, che attribuiva ogni libertà di proprietà e di iniziativa allo Stato, la Rerum Novarum propose una solidarietà diffusa, lunga, organica, ed economica: diffusa, da un lato attraverso l’associazionismo, in grado di tutelare i diritti dei lavoratori e di creare una rete di protezione mutualistica ed assicurativa, e dall’altro favorendo l’estensione della proprietà privata possibilmente a tutti i cittadinilunga, da attuarsi mediante l’intervento legislativo dello Stato a tutela della sicurezza e della dignità del lavoratore; organica, tale da permettere il dialogo e la collaborazione tra tutte le classi sociali; economica, capace di integrare il capitale con il lavoro e di attuare la giustizia distributiva, attraverso una determinazione contrattuale del salario che tenga presente dell’effettivo contributo del lavoratore alla crescita economica.
In continuità con Leone XIII, nel 1931 Pio XI propose nella Quadragesimo anno la nascita di un ordine sociale, fondato oltre che sulla solidarietà anche sulla sussidiarietà, capace di armonizzare le esigenze delle classi, del capitale, della proprietà e del lavoro. Un ordine dunque in grado di unire tutte le componenti della società, valorizzando la persona ed evitando la massificazione tipica delle ideologie totalitarie dominanti in quegli anni.
Nella Quadragesimo anno dunque viene sottolineata in modo più compiuto rispetto alla Rerum Novarum la dimensione sociale, economica e politica della solidarietà.
Dimensione sociale: Pio XI propose, all’interno dell’ordine sociale, un’organizzazione corporativa delle professioni, non strumentale al potere centrale, come nel caso del corporativismo statale tipico del fascismo, ma libera ed autonoma nel rispetto del principio di sussidiarietà. Tale organizzazione aveva come obiettivi: la possibilità per ognuno di partecipare alla determinazione e realizzazione delle scelte generali; l’urgenza di risolvere i conflitti tra le parti sociali; il ristabilimento dell’equilibrio tra individuo e Stato teso ad armonizzare l’interesse comune di una particolare professione con il bene comune nazionale.
Dimensione economica e politica: il benessere economico di un Paese, frutto della collaborazione tra capitale e lavoro, si ottiene attraverso il contributo di tutti i soggetti della produzione: portatori di capitale, datori di lavoro, lavoratori dipendenti e autonomi. Allo stesso modo tutti costoro devono partecipare in modo equo alla distribuzione della ricchezza nazionale. “In altri termini, la QA, alla solidarietà ascendente che contribuisce ad attuare il bene comune e che è regolata dalla giustizia generale o legale, vuole che segua la solidarietà discendente, che è regolata dalla giustizia distributiva”. Pio XI fa inoltre riferimento alla giustizia sociale, alla quale spetta il compito di integrare in modo equilibrato la giustizia legale con quella distributiva. Ad esempio è importante per il papa che lo Stato, ispirato dalla giustizia sociale, intervenga, a fianco dei datori di lavoro e dei lavoratori, per finanziare la previdenza.
Alla solidarietà fece sempre più esplicito riferimento papa Pio XII, già a partire dalla sua prima enciclica. La solidarietà, posta a fondamento dell’ordine sociale, si basa sulla comunanza di tutti gli uomini “quanto a origine, natura, fine prossimo, abitazione, fine soprannaturale e mezzi per conseguire tale fine”. Siamo chiaramente all’interno di una impostazione personalista dove la persona è soggetto, fondamento e fine di tutta la vita sociale, in vista del bene comune. A quest’ultimo si può giungere nella misura in cui si è in grado di ottenere un giusto equilibrio tra unitarietà e articolazione della società, a livello nazionale, e tra esigenze del singolo Stato e della comunità delle nazioni, a livello internazionale. Con Pio XII la solidarietà è “ormai definita in quanto legge o principio di ordine morale naturale, come tale universalmente normativo dei rapporti umani, che avrebbe dovuto tradursi sia in relazioni di reciproco aiuto, fiducia e collaborazione in ogni ambito della vita sociale sia, soprattutto in forme istituzionali, in grado di ridisegnare il quadro giuridico, politico ed economico esistente”.

1.2.2. Dal Concilio Vaticano II a Giovanni Paolo II

Durante la stagione conciliare, in un periodo di grande riflessione, papa Giovanni XXIII parla della solidarietà soprattutto in riferimento alla questione internazionale di natura economico-sociale. Nella Pacem in terris afferma che la solidarietà “operante”, insieme con la verità, la giustizia e la libertà, è alla base di ogni edificazione della pace a livello universale[23]. Solidarietà vuol dire sviluppo dei più sfortunati sulla terra e dunque nascita di una comunità politica di statura mondiale che possa favorire tale sviluppo. Se la carità dice riferimento alle relazioni interpersonali, la solidarietà operante tra le comunità politiche dovrebbe regolare le relazioni internazionali[24].
Nel suo magistero sociale Giovanni XXIII interpreta dunque la solidarietà all’interno di un tessuto sociale ormai globalizzato e complesso da gestire. Possiamo parlare di una complessificazione del principio di solidarietà a causa della moltiplicazione delle reti relazionali nella convivenza sociale, attraverso le molteplici forme associative sia a livello nazionale che internazionale. In una tale complessità è chiamata in causa innanzitutto la comunità politica mondiale, la quale è in grado ed ha il dovere di attivare strutture più universali e capaci di agevolare il superamento degli squilibri ad ogni livello.
Si legge nella Mater et magistra: “La solidarietà che lega tutti gli esseri umani e li fa membri di un’unica famiglia impone alle comunità politiche, che dispongono di mezzi di sussistenza ad esuberanza, il dovere di non restare indifferenti di fronte alle comunità politiche i cui membri si dibattono nelle difficoltà dell’indigenza, della miseria e della fame, e non godono dei diritti elementari di persona. Tanto più che, data la interdipendenza sempre maggiore tra i popoli, non è possibile che tra essi regni una pace duratura e feconda, quando sia troppo accentuato lo squilibrio nelle loro condizioni economico-sociali”[25].
Con la solidarietà della comunità politica, però, deve sempre intrecciarsi quella dei privati, dei gruppi intermedi e dei singoli popoli, i quali, secondo il principio di sussidiarietà, sono i primi responsabili del proprio sviluppo e progresso[26]. “Il pontefice condanna qualsiasi visione totalitaria e totalizzante della solidarietà, sottolineando come lo Stato [o la comunità politica internazionale], pur ricorrendo a mezzi di grande impatto…per realizzare una società più equa, non sarà mai proporzionato e competente per rispondere adeguatamente a tutti i bisogni delle persone e delle altre società”[27]. In altri termini bisogna far si che tutti gli attori in gioco possano integrarsi in modo sussidiario così da permettere una effettiva autonomia alle varie sfere della solidarietà.
In questo periodo di riflessione, conseguente ai grandi mutamenti in atto nella società, il Concilio Vaticano II, con la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, evidenzia in modo ancora più esplicito la grande contraddizione esistente in un mondo sempre più ricco e libero in alcune zone, e sempre più povero e tormentato da varie forme di schiavitù in altre. In tale situazione, si sottolinea che gli uomini avvertono l’urgenza della solidarietà in vista di una sostanziale unità nel mondo, da realizzare attraverso la mutua interdipendenza dei singoli e delle nazioni[28]. L’urgenza della solidarietà deriva, per i padri conciliari, dalla persuasione che all’umanità compete “instaurare un ordine politico, sociale ed economico che sempre più e meglio serva l’uomo e aiuti i singoli e i gruppi ad affermare e sviluppare la propria dignità…Per la prima volta nella storia umana, tutti i popoli sono…persuasi che realmente i benefici della civiltà possono e devono estendersi a tutti”[29].
Nel periodo post-conciliare con la Populorum progressio, Paolo VI coniuga alla solidarietà lo sviluppo: lo sviluppo integrale dell’uomo[30] e lo sviluppo solidale dell’umanità[31]. Come dire che per poter andare incontro in modo solidale ai bisogni dell’umanità, è necessario soddisfare i bisogni dell’uomo considerato nella sua interezza e viceversa. Il papa che ha portato a compimento il Concilio sottolinea come la solidarietà sia un’esigenza intrinseca dell’umanità: “Eredi delle generazioni passate e beneficiari del lavoro dei nostri contemporanei, noi abbiamo degli obblighi verso tutti”[32]. Tutti siamo reciprocamente debitori e ciò è sempre più reso evidente dall’oggettiva interdipendenza tra i popoli che ci sprona ad una solidarietà universale.
Anche in Octogesima adveniens Paolo VI parla di solidarietà in termini di azione solidale, impegno, partecipazione, responsabilità comune, in vista di una risposta ai problemi del mondo contemporaneo. Occorre dunque “impegnarsi e prodigarsi per costruire solidarietà attive e vissute”[33].
Con Giovanni Paolo II la riflessione sulla solidarietà raggiunge un notevole sviluppo, al punto tale da ricorrere ad essa migliaia di volte nel suo insegnamento sociale.
Nella Redemptor hominis parla della solidarietà come di quel principio a favore della dignità dell’uomo che “deve ispirare la ricerca efficace di istituzioni e di meccanismi appropriati”[34].
Riguardo al mondo del lavoro in Laborem exercens la solidarietà viene presentata come una necessità, soprattutto nelle situazioni di maggior degradazione sociale[35]. Giovanni Paolo II la affronta secondo alcuni in modo poco aperto alle esigenze dell’economia liberale moderna. In realtà il pontefice con parole coraggiose e profetiche afferma che uno Stato democratico e sociale deve intervenire in modo solidale quando si è di fronte a problemi gravi come quello della disoccupazione, perseguendo l’obiettivo del lavoro per tutti. La solidarietà statale nei confronti dei problemi del lavoro “deve essere sempre presente là dove lo richiedono la degradazione sociale del soggetto del lavoro, lo sfruttamento dei lavoratori e le crescenti fasce di miseria e addirittura di fame”[36].
Nella
 Sollicitudo rei socialis viene data una definizione della solidarietà prevalentemente morale, facendo emergere il suo ruolo di virtù etico-sociale: “La solidarietà non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti”[37]. Ogni persona o popolo appartiene all’umanità ma non la possiede in pienezza. Da qui la necessità della collaborazione perché si diviene più umani solo grazie agli altri, per cui dalla loro crescita materiale e spirituale dipende anche la nostra[38].
In Centesimus annus, la solidarietà è presentata chiaramente, in modo complementare alla sussidiarietà, come principio che invoca il diretto intervento dello Stato nelle questioni sociali. La novità di quest’enciclica “consiste nell’interpretare la solidarietà come impegno di creare le condizioni necessarie perché tutti i popoli possano accedere ai beni indispensabili al loro compimento globale”[39]. In tal modo la solidarietà è perfettamente integrata con la sussidiarietà in quanto viene rispettata l’autonomia e la libertà d’iniziativa delle persone, dei gruppi intermedi e degli Stati.

1.3. Puntualizzazioni

Da un’attenta analisi delle varie encicliche sociali si può dedurre che la solidarietà è innanzitutto una virtù, un atteggiamento costitutivo della persona che indirizza la propria libertà al bene dell’altro, in particolare di colui che si trova in uno stato di bisogno. La solidarietà ha sempre il suo soggetto originario nelle persone concrete e non può mai essere identificata con le strutture che la organizzano e la attuano. La solidarietà ha le sue radici nell’essere etico dell’uomo, il quale di fronte all’indigenza di un suo simile cerca di porre rimedio attingendo alla sua sovrabbondanza.
La solidarietà, che ha come fine il bene della persona, si esplicita nel perseguire diversi beni particolari. Per questo il soggetto, che è sempre la persona, si attiva per costituire dei gruppi specializzati nei vari campi della vita, da quello familiare a quello politico, economico, sociale e religioso. L’insegnamento sociale della Chiesa afferma che la realizzazione dei diversi beni è in stretta relazione con la concezione che si ha dell’uomo, della società e del suo fine ultimo. Tale diversità implica che i vari gruppi nel perseguire il proprio fine particolare tengano conto degli altri fini particolari e, soprattutto del bene comune generale. Esso consiste in “quell’insieme di condizioni che consentono a tutte le società minori di trovare l’ambiente adatto per il loro sviluppo globale”[40].
La solidarietà, dal momento che comporta la responsabilità verso se stessi e verso tutti, deve essere anche efficiente e strettamente connessa con la libertà e la giustizia sociale. E’ su questo terreno che la solidarietà si incontra inevitabilmente con un’altro principio cardine dell’insegnamento sociale della Chiesa, la sussidiarietà.

2. Il principio di sussidiarietà

II principio di sussidiarietà è veramente una delle assi portanti dell’insegnamento sociale della Chiesa ed anche uno dei principi più fecondi, maggiormente in grado, cioè, di fornirci un orientamento nella soluzione dei problemi sempre nuovi che la storia ci pone. Ma che cosa significa questo principio? Cominciamo col dire che il suo nome deriva dalla parola latina subsidium che vuol dire aiuto. Esso quindi significa una cosa molto semplice in apparenza, ma assai ricca in realtà, ossia che le varie istituzioni sociali devono aiutare la persona, non sostituirsi ad essa nello svolgimento delle sue attività. Quando la persona può fare da sola, di sua iniziativa, con le sue forze, deve essere lasciata fare, le istituzioni sociali non devono intervenire se non per aiutarla, appunto, a svolgere nel miglior modo possibile le sue funzioni. Nei casi poi nei quali la persona non sia in grado di svolgere delle funzioni che le spetterebbero - per carenze psicologiche, per povertà economica, per disagio sociale, per ignoranza o altro - la società dovrà intervenire e magari sostituirsi temporaneamente ad essa, ma solo temporaneamente, appunto, con spirito di supplenza, e facendo il possibile perché la persona recuperi le capacità originarie e ritorni ad essere in grado di fare da sola.
Le istituzioni sociali, come è noto, sono molte. Il principio di sussidiarietà sostiene che quelle più vicine alla persona, cioè quelle “inferiori” di livello sociale, devono essere aiutate da quelle “superiori”, più lontane dalla persona, a svolgere il loro compito nel modo migliore senza sostituirsi ad esse. La famiglia, che è la prima società naturale, le associazioni di cittadini, i gruppi religiosi o culturali, le amministrative locali, le associazioni economiche, imprenditoriali, sindacali, politiche eccetera, devono coordinarsi in modo che l'inferiore sia aiutata a svolgere le sue funzioni in autonomia e responsabilità. Questo perché, come vedremo subito, principio, soggetto e fine della società è la persona e quindi devono essere valorizzate e non eliminate le società intermedie e naturali che in quanto sono più vicine alla persona sono anche "più umanizzanti", meno anonime o burocratiche, valorizzano di più l'appartenenza e la partecipazione. E' infatti in questa realtà, prima che in quelle più vaste dello Stato o della comunità internazionale, che avviene la socializzazione della persona.

2.1. La formulazione del principio

Il principio di sussidiarietà è una novità del XX secolo per l’insegnamento tradizionale della Chiesa in materia sociale. Tale novità riguarda però la sua esplicita formulazione, resa necessaria dagli sviluppi della società moderna, mentre il suo contenuto è già presente, anche se in modo implicito, nel pensiero sociale di Tommaso d’Aquino[41]. Nella Rerum novarum di Leone XIII il principio di sussidiarietà inizia a farsi strada in modo più chiaro. Numerosi sono, infatti, i passi in cui lo Stato è chiamato a rispettare l’iniziativa privata, l’autonomia della famiglia e soprattutto dei sindacati, limitandosi “ad aggiungervi, quando il caso lo richiede, tutela ed appoggio”[42].

2.1.1. Da Pio XI a Giovanni XXIII

Il principio di sussidiarietà viene per la prima volta proposto con una formulazione esplicita nel magistero della Chiesa con l’enciclica Quadragesimo anno di Pio XI. “Il Pontefice constata, innanzitutto, come, a causa dei mutamenti intervenuti nella società moderna, molte iniziative possono ormai essere realizzate solo ad opera di quelle che definisce come grandi associazioni, vale a dire, in pratica, dallo Stato e dagli enti pubblici”[43]. Pio XI afferma che in questa nuova situazione sociale deve in ogni caso “restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle…Perciò è necessario che l’autorità suprema dello Stato, rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta; e allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle; di direzione cioè, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità…Quanto più perfettamente sarà mantenuto l’ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione suppletiva dell’attività sociale, tanto più forte riuscirà l’autorità e la potenza sociale, e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello Stato stesso”[44].
La novità all’interno del Magistero costituita da questa esplicita enunciazione del principio è dovuta in gran parte all’influsso di alcune dottrine circolanti in ambiente tedesco, precedentemente evocato in riferimento al solidarismo cristiano, e risalenti a G. Gundlach, in primo luogo, e a O. von Nell-Breuning, il cui contributo nell’estensione materiale dell’enciclica viene considerato determinante[45].
Se l’esplicita enunciazione del principio costituisce certamente una novità, bisogna dire però che “la dottrina così formulata viene considerata come già implicita nell’insegnamento tradizionale della Chiesa in materia sociale, in quanto, a giudizio di attenti studiosi, si limita a riproporre un principio di antichissima sapienza umana, fondato nello stesso diritto divino naturale”[46]. Già Tommaso d’Aquino considerava un pericolo l’imposizione di una eccessiva uniformità in una repubblica composta da diverse parti. Il dottore angelico aveva elaborato una concezione di giustizia sociale capace di sintetizzare la solidarietà con la libertà di iniziativa e quindi con l’autonomia delle società minori e dei singoli. Pio XI rilanciando questa impostazione formula il principio di sussidiarietà col fine di evitare i pericoli di una solidarietà collettivistica, totalitaria ed autoritaria. In definitiva, per la Quadragesimo anno, la sussidiarietà “dice come deve realizzarsi la solidarietà tra le varie società in funzione del bene comune e, ultimamente, della promozione delle persone”[47].
I successori di Pio XI sottolineano ancora l’importanza del principio riproponendolo in varie occasioni ma senza nuovi contributi sul piano della definizione teorica. Pio XII continua a riconoscerne “la validità per la vita sociale in tutti i suoi gradi”[48]. Egli afferma che il compito di creare un ordine sociale non conferisce allo Stato il diritto di intervenire in modo illimitato ed in ogni sfera della società. Riguardo al lavoro, ad esempio, il pontefice ricorda che esso è atto della persona e che dunque il dovere e il diritto di organizzarlo “appartengono innanzitutto agli immediati interessati: datori di lavoro e operai”[49]. Pio XII ha anche il merito di aver sottolineato la dimensione giuridica della sussidiarietà. Per il Papa il principio ha bisogno non solo di essere riconosciuto sul piano etico, ma necessita di essere tutelato e promosso sul piano storico all’interno degli ordinamenti giuridici di ogni singolo Paese.
Giovanni XXIII, in Mater et Magistra del 15 maggio 1961, partendo dagli insegnamenti della Quadragesimo anno, propone nuove indicazioni sulle possibili e concrete applicazioni della sussidiarietà, specie in materia economica: “La presenza dello Stato in campo economico, anche se ampia e penetrante, non va attuata per ridurre sempre più la sfera di libertà dell’iniziativa personale dei singoli cittadini, ma anzi per garantire a quella sfera la maggiore ampiezza possibile… il che implica che nei sistemi economici sia consentito e facilitato il libero svolgimento delle attività produttive”[50]. In Mater et Magistra, appare per la prima volta il termine sussidiarietà in riferimento al principio già formulato dai suoi predecessori. Giovanni XXIII, in modo ancora più esplicito, afferma che l’azione dei poteri pubblici “che ha carattere di orientamento, di stimolo, di coordinamento, di supplenza e di integrazione deve ispirarsi al “principio di sussidiarietà” formulato da Pio XI nell’enciclica Quadragesimo anno”[51].
In Pacem in Terris dell’11 aprile 1963, Giovanni XXIII applica il principio in un contesto sociale ormai mondializzato e quindi nel campo della cooperazione internazionale afferma: “Come i rapporti tra individui, famiglie, corpi intermedi, e i poteri pubblici delle rispettive comunità politiche, nell’intervento delle medesime, vanno regolati secondo il principio di sussidiarietà, così nella luce dello stesso principio vanno regolati pure i rapporti tra i poteri pubblici delle singole comunità politiche e i poteri pubblici della comunità mondiale”[52].

2.1.2. Il Concilio Vaticano II

Nei documenti del Concilio Vaticano II il principio di sussidiarietà viene richiamato espressamente solo tre volte, in riferimento all’educazione, sia familiare che scolastica, e alla cooperazione internazionale. Nella Dichiarazione sull’educazione cristiana Gravissimus educationis i padri conciliari affermano che “i genitori, avendo il dovere e il diritto primario e irrinunciabile di educare i figli, debbono godere di una reale libertà nella scelta della scuola…Lo Stato stesso dunque deve…promuovere tutto l’ordinamento scolastico, tenendo presente il principio della sussidiarietà”[53]. Riguardo alla cooperazione, nella costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo Gaudium et spes, i padri invitano la comunità internazionale a coordinare e a stimolare lo sviluppo dei Paesi più deboli coniugando solidarietà e sussidiarietà: “salvo il principio di sussidiarietà, ad essa spetta anche di regolare i rapporti economici mondiali secondo gli imperativi della giustizia”[54].
Da una lettura attenta dei documenti conciliari appare chiaro, però, che, oltre ai passi citati, sono molti gli insegnamenti ispirati alla sussidiarietà. Ad esempio, nella costituzione Gaudium et Spes è forte l’esortazione agli uomini di governo a non impedire ai singoli come ai gruppi di partecipare alla vita sociale: “si guardino i governanti dall’ostacolare i gruppi familiari, sociali o culturali, i corpi o istituti intermedi, né li privino della loro legittima ed efficace azione, che al contrario devono volentieri e ordinatamente favorire”[55].

2.1.3. Paolo VI e il documento Self-reliance

Nel magistero di Paolo VI il principio di sussidiarietà non è menzionato ma ne troviamo traccia in alcuni passi dell’enciclica Populorum progressio del 26 marzo 1967, e della lettera apostolica Octogesima adveniens del 14 maggio 1971. Riguardo alla cooperazione internazionale, ad esempio, il pontefice rifiuta ogni tipo di assistenzialismo, in quanto lesivo dell’autonomia e della libera iniziativa dei singoli popoli. “La solidarietà mondiale, sempre più efficiente, deve consentire a tutti i popoli di divenire essi stessi gli artefici del loro destino…I popoli più giovani e più deboli reclamano la parte attiva che gli spetta nella costruzione d’un mondo migliore, più rispettoso dei diritti e della vocazione di ciascuno”[56]. Dunque la solidarietà per essere autentica ha bisogno di coniugarsi con la sussidiarietà, deve permettere a ciascuno di poter partecipare attivamente alla costruzione del bene proprio e comune.
In riferimento alle convinzioni culturali sul tipo di uomo da costruire nella società, Paolo VI afferma che non spetta allo Stato o ai partiti politici tentare di imporle, ma “è compito dei raggruppamenti culturali e religiosi, nella libertà d’adesione ch’essi presuppongono, di sviluppare nel corpo sociale, in maniera disinteressata e per le vie proprie, queste convinzioni ultime sulla natura, l’origine e il fine dell’uomo e della società”[57].
Il principio di sussidiarietà è espressamente richiamato, durante il pontificato di Paolo VI, in alcuni documenti emanati dalla Santa Sede e riguardanti le comunicazioni sociali[58], la scuola cattolica[59] e la sanità[60]. In particolar modo il principio viene trattato con una certa ampiezza dalla Commissione Iustitia et Pax nel documento Self-reliance del 15 maggio 1978. Qui si sottolinea che l’applicazione del principio implica necessariamente la resistenza “alla tendenza spontanea a tutto centralizzare e tutto programmare autoritariamente dall’alto [poiché] le comunità intermedie hanno, a titoli diversi, responsabilità proprie che non vanno considerate come una concessione del potere politico”[61]. Si evidenzia anche che “è per restare fedele alla persona che la solidarietà è virtù in intima connessione con la sussidiarietà. Questa, anteponendo il valore di inalienabile singolarità e priorità della persona, preserva la solidarietà da ogni smarrimento o degenerazione totalitaristica”[62]. Ciò garantisce l’autonomia e la libertà delle persone, delle famiglie e delle associazioni, che non vanno mortificate ma sostenute, favorite e protette dalla sussidiarietà, la quale mira ad “aiutarle nel loro dinamismo di libertà, a facilitare questo dinamismo, a creare le condizioni generali che favoriscono tale dinamismo nella stessa solidarietà; ad aiutare insomma le persone e i gruppi intermedi a esprimere attivamente il loro centro di coesione e di vita”[63]. Nel documento si sottolinea anche che il termine “sussidiario” può essere confuso con “secondario”. In realtà il “subsidium” che la società più complessa, specialmente quella politica, è tenuta a dare alle società più elementari e alle persone non è per nulla secondario, ma necessario ed essenziale per una costruzione sociale il cui dinamismo venga principalmente dalle persone. In definitiva il principio di sussidiarietà dice che “ogni costruzione sociale si fa per l’uomo e a partire dall’uomo”[64].

2.1.4. Giovanni Paolo II

Con il lungo pontificato di Giovanni Paolo II il principio di sussidiarietà diventa motivo ricorrente sia nel suo personale magistero sia nei documenti della Santa Sede. Nel messaggio del 1980 indirizzato alle Nazioni Unite il Papa evidenzia che “applicando la nozione di sussidiarietà…molti gruppi e popoli possono risolvere meglio i loro problemi ad un livello locale o intermedio”[65]. Nell’esortazione apostolica Familiaris consortio ricorda che “la società, e più specificamente lo Stato,…nelle loro relazioni con la famiglia sono gravemente obbligati ad attenersi al principio di sussidiarietà”[66]. Nell’istruzione della Congregazione per la dottrina della fede Libertatis conscientia, si evidenzia che il principio di sussidiarietà, insieme a quello di solidarietà, è profondamente legato alla dignità dell’uomo ed è definito come “fondamento ai criteri per valutare le situazioni, le strutture e i sistemi sociali”[67]. La chiara conseguenza di ciò è che “né lo Stato, né alcuna società devono mai sostituirsi all’iniziativa ed alla responsabilità delle persone e delle comunità intermedie in quei settori in cui esse possono agire, né distruggere lo spazio necessario alla loro libertà”[68]. Dunque complemento della solidarietà, la sussidiarietà è considerata quale necessario ed importante principio regolatore della vita sociale in quanto “protegge la persona umana, le comunità locali e i corpi intermedi dal pericolo di perdere la loro legittima autonomia”[69].
Il 1° maggio 1991, in occasione del centenario della pubblicazione della Rerum novarum, Giovanni Paolo II con l’enciclica Centesimus annus interviene personalmente riguardo alla sussidiarietà ricordando che secondo “tutta la dottrina sociale della Chiesa, la socialità dell’uomo non si esaurisce nello Stato, ma si realizza in diversi gruppi intermedi, cominciando dalla famiglia fino ai gruppi economici, sociali, politici e culturali che, provenienti dalla stessa natura umana, hanno – sempre dentro il bene comune – la loro propria autonomia”[70]. Pertanto il papa polacco, che aveva fatto l’esperienza personale della negazione ideologica di tale autonomia ad opera del “socialismo reale”, di fronte al pericolo di un individualismo selvaggio privo di qualsiasi riferimento solidaristico, afferma la necessità del rispetto, in tutti gli ambiti, del “principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune”[71].
In altri termini, per la Centesimus annus, una corretta applicazione del principio di sussidiarietà “se da una parte esige il riconoscimento dell’autonomia e della libertà di iniziativa, dall’altra non implica affatto l’“ognuno per sé”, come oggi è facilmente inteso. Il bene comune richiede che ogni cittadino e ogni società dia il proprio apporto per realizzarlo”[72]. Sembra, infatti, che conosce meglio il bisogno e riesce meglio a soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisognoso.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica nel capitolo dedicato alla comunità umana enuncia il principio di sussidiarietà nella stessa formulazione usata dalla Centesimus annus, dopo aver sottolineato che “un intervento troppo spinto dello Stato può minacciare la libertà e l’iniziativa personali”[73]. La sussidiarietà “precisa i limiti dell’intervento dello Stato. Mira ad armonizzare i rapporti tra gli individui e le società. Tende ad instaurare un autentico ordine internazionale”[74].

2/ L’eredità della tradizione: libertà, corporazioni e Gilde

Da G.K. Chesterton, Una breve storia d’Inghilterra, Rubbettino, p. 9. 32.70

Ma l’aspetto più curioso e significativo di questa dimenticanza, ma chiamiamola pure omissione, riguardo alla società medievale risiede in un fatto […] Il grande assente della cosiddetta storiografia popolare è proprio il popolo. La Magna Carta ad esempio, è descritta ad ogni lavoratore, falegname, bottaio o muratore come una sorta di Grande Atto senza che gli sia detto che la sua mostruosa solitudine è dovuta al fatto che essa seguì la storia piuttosto che anticiparla. Non gli si insegna che l’intero sistema della società medievale si reggeva grazie alle pergamene su cui erano scritti gli statuti delle corporazioni; che la società si fondava su un sistema di carte più interessanti per lui della Magna Carta. Il falegname può avere avuto notizia di uno statuto concesso per la difesa degli interessi dei baroni ma non sa nulla di tutte le carte concesse ai falegnami, ai bottai e a tutti coloro che svolgevano mestieri simili.

[…]

Questi folli [i monaci medioevali] che non avevano alcun interesse per i loro affari, divennero i veri affaristi dell' epoca. Il semplice sostantivo monaco ha un valore rivoluzionario perché significa allo stesso tempo solitudine e comunità o meglio socievolezza. Accadde che questa vita comunitaria divenne una sorta di riserva e rifugio per gli individui, un luogo aperto a tutti. […] questa funzione sarà svolta in seguito dalle terre comuni. È difficile spiegare questi avvenimenti in tempi come i nostri dominati dall'individualismo. Nella vita privata la maggior parte di noi ha un'amica di famiglia che ci viene in aiuto dall' esterno come una magica madrina.

Non è irrispettoso affermare che i frati e le suore rappresentassero per il genere umano una specie di santa lega di zii e zie. E persino un luogo comune affermare che essi facevano tutto ciò che nessun altro voleva fare. Le abbazie hanno mantenuto la memoria del mondo, hanno affrontato le pestilenze, insegnato le prime arti tecniche, preservato la letteratura pagana e, soprattutto, grazie ad un infinito lavoro di carità, hanno contribuito a tenere i poveri lontani dalla disperazione nella quale vivono oggi. Noi riteniamo ancora necessario mantenere una riserva di filantropi, tuttavia siamo maggiormente affascinati da uomini che si sono arricchiti piuttosto che da uomini che hanno scelto la povertà. Inoltre, gli abati e le badesse erano elettivi. A loro si deve il sistema rappresentativo sconosciuto all'antica democrazia, una idea che aveva in sé un valore quasi sacrale. Se potessimo guardare dall'esterno alle nostre stesse istituzioni, non potremmo fare a meno di vedere come l'immagine del migliaio d'uomini trasformatisi in un solo uomo che procede verso Westminster non rappresenti solo un atto di fede ma anche una favola. La migliore e più autentica storia dell'Inghilterra anglosassone è quasi interamente la storia dei suoi monasteri. Miglio dopo miglio ed addirittura uomo dopo uomo, essi educarono ed arricchirono la nostra terra.

[…]

Vi è qualcosa di singolarmente dimenticato nella parola moderna Mister? Anche nel suono vi è un che d’affettato che sottolinea l’avvizzirsi di questa parola rispetto a quella più altisonante da cui proviene. […] Una Gilda era, mi si passi lo schematismo, un’associazione  nella quale ognuno era proprietario di se stesso. Nessuno poteva lavorare a meno che non aderisse alla lega e non ne accettasse le regole; ognuno lavorava nel suo negozio con i suoi strumenti ed il suo guadagno non lo doveva dividere. Dare alla parola Master il moderno significato di datore di lavoro è assolutamente inesatto. Master identificava qualcosa di diverso e più importante del boss. Significava essere padroni del proprio lavoro, mentre oggi significa soltanto avere alle proprie dipendenze dei lavoratori. È una fondamentale caratteristica del capitalismo il fatto che il proprietario di una barca possa non conoscere la distinzione tra poppa e prua che un proprietario terriero non abbia mai visto le sue terre o che il proprietario di una miniera d'oro non si interessi altro che di vecchi oggetti di peltro o che il proprietario di una compagnia ferroviaria viaggi esclusivamente in pallone aerostatico. Può essere che un capitalista abbia maggiore successo se vive gli affari come un hobby o se ha la sensibilità di farli gestire ad un manager; dal punto di vista economico, però, può avere il controllo dei suoi affari perché è un capitalista e non perché ha un qualche hobby o una qualche sensibilità.  Il grado più alto nel sistema delle Gilda era quello di Master e si riferiva alla direzione degli affari. Riprendendo il tema utilizzato nei colleges nella stessa epoca, tutti i capi erano Maestri d'Arte. Gli altri gradi erano operaio ed apprendista  ma, come i corrispondenti gradi universitari, erano gradi che chiunque poteva ottenere. Erano altra cosa rispetto alle classi sociali, erano gradi, non caste. Un apprendista avrebbe potuto sposare la figlia del suo padrone, il suo padrone non si sarebbe stupito della cosa, al contrario dell'indignazione aristocratica che, in seguito, avrebbe gonfiato il petto di un milord se sua figlia avesse sposato un borghese. […] Ci sono compagnie cittadine che hanno ereditato dalle Gilda solo gli scudi araldici, le immense ricchezze e niente altro. Se in esse vi è qualcosa di buono, non è il buono che vi era nelle Gilda. Come nel caso dell' Onorevole Compagnia dei Muratori nella quale, non c'è bisogno di dirlo non si trova neanche un muratore o nessuno che abbia  mai conosciuto un muratore, ma alcuni soci anziani di poche grandi imprese della city, insieme ad alcuni militari appassionati di gastronomia che, conversando tra di loro dopo cena dicono che la più grande gloria della loro vita è stata l'aver costruito mattoni finti senza utilizzare la paglia. […] Queste organizzazioni aiutano molti istituti di carità e spesso si tratta d'aiuti ingenti, ma con una funzione completamente diversa da quella delle vecchie organizzazioni di carità delle Gilda. La carità delle Gilda era qualcosa di molto simile alle terre comuni. Aveva lo scopo di opporsi all'ineguaglianza o, come probabilmente l'avrebbe vista qualche vecchio e serio gentiluomo della passata generazione, di opporsi al cambiamento. Si operava non solo per la sopravvivenza del mestiere ma per quella d'ogni lavoratore. Ciò faceva sì che ogni muratore fosse assistito e che ogni imbianchino bisognoso d'aiuto avesse un nuovo camice bianco. Loro scopo principale era di soccorrere i ciabattini, come questi ultimi facevano con le loro scarpe, e di occuparsi anche dell'ultima pecora del gregge. In sostanza, difendevano un piccolo negozio come se stessero combattendo una guerra. Si opponevano alla nascita di grandi negozi come si sarebbero opposti ad un mostro. […] Le vecchie Gilde, secondo i loro fini egualitari, imponevano categoricamente lo stesso salario e lo stesso trattamento per tutti, cosa cui i sindacati d'oggi dovrebbero guardare con rimpianto. Ma esse insistevano anche, mentre i sindacati non lo possono fare, sull'alto livello dell'esecuzione, come possiamo ammirare ancora oggi nei resti dei loro edifici e nei colori delle vetrate ormai quasi completamente distrutte. Non vi è artista o critico, per quanto il suo stile sia distante da quello del gotico, che non ammetta che in quest'epoca vi era un indefinibile ma universale gusto artistico volto a rendere il senso più autentico della realtà. Quelli che noi vediamo sono soltanto gli oggetti di minor pregio fra sedie, pentole, vasi, tegami. Hanno tutti forme tanto suggestive che sembra li abbiano posseduti dei folletti e non degli esseri umani. Sembrano, in confronto alle epoche successive, creati in un paese delle fate dove regnava la libertà. Che i sindacati, la più medievale fra le istituzioni moderne, non combattano per il medesimo ideale estetico è vero e senza dubbio tragico; tuttavia, farne un motivo di condanna significa non capirne la tragedia.

I sindacati sono confederazioni d'individui che non sono proprietari di beni e che cercano di rimediarvi unendosi e contando sul carattere necessario della loro opera. Le Gilde erano confederazioni d'individui proprietari aventi lo scopo di garantire ad ognuno il mantenimento della sua proprietà. È questo naturalmente il solo stato di cose nel quale si può affermare che la proprietà esiste realmente. […] Per comunità di proprietari si intende una comunità nella quale la maggior parte delle persone hanno proprietà, il che esclude che si possa trattare di una comunità nella quale ci sono solo pochi capitalisti. Gli appartenenti alle Gilde (il discorso vale anche per i servi, i semi servi ed i contadini) erano molto più ricchi di quanto si possa dedurre dal fatto che le Gilde tutelavano le proprietà delle case, degli attrezzi e dei salari. La presenza di surplus è evidente se si guarda agli studi sui prezzi in quel periodo, tenendo naturalmente in conto tutte le differenze con l’attuale prezzo della moneta. Quando si può comprare un uovo o una birra con pochi soldi, non ha evidentemente importanza il nome della moneta. Anche nei casi in cui la ricchezza individuale poteva essere severamente ridotta, la ricchezza collettiva era cospicua, perché comprendeva i beni delle Gilde, delle parrocchie e, soprattutto, dei monasteri. È un elemento molto importante da tenere presente nelle successive fasi della storia inglese. L'altro fatto è che il governo locale si sviluppò, in seguito alle condizioni che si erano venute a creare, unitamente al sistema delle Gilde che era invece indipendente da quest'ultimo. Nel descrivere quella lontana società, non posso essere certamente sospettato di rappresentare un paradiso o di voler dimostrare che le fossero estranei gli errori, le lotte, i dolori che coinvolgono la vita umana in tutte le epoche e, certamente non ultima, la nostra. L'affermazione delle Gilde fu accompagnata da un incremento dei conflitti e delle sommosse; per un certo periodo di tempo vi fu una forte rivalità fra le Gilde dei mercanti che vendevano i prodotti e quelle degli artigiani, un conflitto che alla lunga vide prevalere questi ultimi. Ma, al di là di quale fosse la parte vincente, era il vertice delle Gilde a fornire gli uomini che  avrebbero diretto la comunità e non viceversa. […] Spesso ci è detto che la società dei nostri padri era governata mediante le armi; in realtà non è inutile ricordare che il vero elemento grazie al quale era regolata la vita nei suoi aspetti più quotidiani, era l'utensile con cui si lavorava. Si trattava, insomma, di una forma di governo che aveva il suo scettro negli strumenti di lavoro. Blake definisce metaforicamente l'Età dell'Oro il periodo in cui l'oro ed i diamanti sono tolti dall'elsa della spada per essere posti sui manici degli aratri. Qualcosa di simile accadde in questo interludio di democrazia medievale che fermentava sotto la crosta del potere aristocratico e monarchico; un periodo in cui i miglioramenti nel campo della produzione assunsero la pompa dell'araldica. […]
Altri due punti devono essere rapidamente aggiunti, così il ritratto di questo periodo che a noi appare tanto lontano ed irreale sarà compiuto, almeno nei limiti in cui può essere fatto in questa sede. Entrambi si riferiscono ai legami tra popolo e politica cui solitamente è fatta risalire la totalità degli avvenimenti storici. Il primo, e per quei tempi il più importante, è la Carta. Ricorrendo ancora una volta ad un parallelo con i sindacati, che è d'aiuto per il lettore contemporaneo, la Carta di una Gilda corrisponde approssimativamente a quel riconoscimento per il quale lottarono invano i sindacati dei ferrovieri e d'altre categorie alcuni anni or sono. Grazie alle Carte essi assumevano l'autorità del Re e del potere centrale o nazionale; e ciò ci dimostra il grande valore morale del Medioevo che ha sempre concepito la libertà come un valore positivo e non come una negativa fuga dalla realtà; essi erano lontanissimi dall’identificare, come il moderno romanticismo, libertà e solitudine. La loro visione è compendiata dalla frase secondo la quale si concedeva a qualcuno la libertà cittadina; il che stava ad indicare che non avevano alcun interesse per la libertà di cui si poteva godere, poniamo, in un deserto. Affermare che le Gilde erano legittimate anche dall’autorità della Chiesa significherebbe operare un ridimensionamento della realtà, poiché la religione pervadeva tutti gli aspetti della vita popolare del tempo, almeno fino a quando essa rimase tale. Molte società commerciali hanno avuto un santo protettore molto prima di avere il sigillo reale.

Il secondo punto da sottolineare è che queste organizzazioni municipali già allora sceglievano gli uomini che le avrebbero guidate nell’ultima e più importante esperienza del Medioevo: il parlamento. A scuola ci è stato sempre detto che quando Simone di Monfort e Edoardo I convocarono per la prima volta i Comuni, principalmente per ascoltare il loro parere sulla tassazione locale, chiamarono due borghesi per ogni villaggio. Se avessimo prestato maggiore attenzione a queste due semplici parole ci si sarebbe svelato il segreto della lontana società medievale. Ci saremmo solo chiesti che cosa fossero i borghesi e se essi crescessero sugli alberi. Avremmo immediatamente scoperto che l’Inghilterra era piena di piccole assemblee che andavano a formare il grande parlamento. E se è difficile credere che la grande assemblea (ancora oggi arcaicamente chiamata con la sua vecchia denominazione di Camera dei Comuni) sia la sola fra le corporazioni popolari o elettive di cui abbiamo notizia nei libri di storia, la conclusione che ne dobbiamo trarre temo sia semplice ed anche un po’ triste. Ciò è avvenuto perché il parlamento, fra le creature del Medioevo, fu quella che tradì ed uccise tutte le altre.

3/ Gli influssi futuri

dalla Costituzione della Repubblica Italiana

Articolo 2

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Articolo 18

I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale

Art. 29.

La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.

Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare.

Art. 30.

È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio.

Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti.

La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità.

Art. 31.

La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.

Articolo 39

L'organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.

E` condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.

I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.

Cfr. conseguentemente le questioni variabili nel tempo di ICI, IMU, ecc.

dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, Ginevra, 10 dicembre 1948

Articolo 16

1. Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all'atto del suo scioglimento.

2. Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi.

3. La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato.

- si pensi alla profezia di G. Orwell, 1984, dove lo stato pretende per sé l’azione educativa

4/ Antoni Gaudí e la Sagrada Familia

da A. Gaudí, Idee per l’architettura. Scritti e pensieri raccolti dagli allievi, a cura di I.Puig-Boada, Jaca Book, Milano, 1995, p. 277
La vita è amore, e l’amore è sacrificio. A qualsiasi livello si osserva che, quando una casa conduce una vita prospera, c’è qualcuno che si sacrifica; a volte questo qualcuno è un domestico, un servitore. Quando le persone che si sacrificano sono due, la vita del nucleo diventa brillante, esemplare. Un matrimonio, in cui i due coniugi hanno spirito di sacrificio, è caratterizzato dalla pace e dall’allegria, che ci siano figli o no, ricchezza o no. Se coloro che si sacrificano sono più di due, la casa brilla di mille luci che abbagliano chiunque ai avvicini. Il motivo della crescita spirituale e materiale degli ordini religiosi è che tutti i membri si sacrificano per il bene comune.

da A. Gaudí, Idee per l’architettura. Scritti e pensieri raccolti dagli allievi, a cura di I.Puig-Boada, Jaca Book, Milano, 1995, pp. 274-275
Quando il dottor Campins mi affidò il restauro della cattedrale di Maiorca, non andai a cercare le norme relative al mio lavoro nei trattati di liturgia, che a quel tempo cominciavano già ad essere pubblicati. Seguendo il metodo sperimentale, invece, trascorsi un anno osservando e annotando tutte le carenze che l’errata disposizione dell’arredo liturgico causava nel cerimoniale delle funzioni vescovili, privandole di significato e splendore.

Da Antoni Gaudí: non solo la Sagrada Familia, ma anche i simboli cristiani di Casa Battló, Casa Milà detta la Pedrera e Parc Güell, di Andrea Lonardo

[..] Ma non fu solo la sua vita personale ad essere profondamente informata dalla fede; anche l’iconografia dei suoi edifici, innanzitutto civili, è continua espressione del suo cristianesimo.

Solo qualche indicazione sulle tre realizzazioni civili più famose di Gaudí in Barcellona.  

Casa Battló

Le abbreviazioni dei nomi di Gesù, Giuseppe e Maria sono chiaramente visibili nella torretta di Casa Battló (1904-1906). In alto JHS (Jesu hominum Salvator, Gesù, Salvatore degli uomini), poi M (Maria) ed infine JP (Joseph, Giuseppe). Si tratta di un vero e proprio campaniletto (ovviamente senza campana) con una croce nello stile di Gaudí alla sommità.

Il piano nobile, famoso per il balcone e le sue finestre che prospettano sulla strada, comprendeva al suo interno una cappella di cui esiste una foto del 1927 (la Sacra Famiglia è di L. Llimona, i candelabri di J. M. Jujol, il crocifisso di C. Mani, il tabernacolo di J. Rubió i Bellver, il tutto coordinato dal progetto dello stesso Gaudí), che venne successivamente eliminata.

Lo straordinario crocifisso della cappella privata della famiglia Battló, opera di Carles Mani i Roig, è ora conservato nella Casa-Museo Gaudí, nel Park Güell. Rappresenta Cristo crocifisso che guarda in alto vero il Padre, con una fortissima torsione del capo - una straordinaria interpretazione iconografica dei sentimenti di Gesù nella passione.

Casa Milà, detta la Pedrera

Casa Milà, detta la Pedrera (progetto 1906; costruzione 1906-1912) conserva ancora l’iscrizione dell’Ave Maria in latino (Ave Maria Gratia Plena) nel primo coronamento in lato della facciata.

Non venne mai realizzata la statua della Vergine che Gaudí voleva a completamento dell'edificio, per l'opposizione del proprietario Pedro Milà. Del disegno originario rimane al centro del coronamento della facciata solo la M di Maria, con un bocciolo di rosa stilizzato sottostante.

Gaudí voleva che l'edificio, che pure era un palazzo privato, avesse un'iconografia totalmente ispirata ai simboli della Vergine del Rosario. La stessa conformazione del palazzo richiama le rocce della montagna presso la quale sorge il monastero di Montserrat, il santuario mariano della Catalogna.

Anche i famosi camini sono sormontati da campaniletti agli angoli con croci dello stile tipico di Gaudí: viene così rappresentata l'eterna lotta fra il bene e il male, nella quale la croce benefica di Cristo sovrasta ogni altra potenza. Anche nel piano nobile, abitualmente non visitabile, compaiono frequenti riferimenti alla Madonna, come l'iscrizione Ave Maria al di sopra di una delle porte interne.

Parc Güell Le panche-parapetto del famosissimo Parc Güell (1900-1914), meta di tutti i visitatori di Barcellona, sono decorate con maioliche che recano scritte inneggianti alla Vergine, opera dell’amico e collaboratore dell'architetto catalano Josep Maria Jujol.

Ma, soprattutto, Gaudí volle che alla sommità della collina venisse eretto un Calvario da lui disegnato per ricordare la crocifissione di Gesù sul Golgota.

L'insistenza sul simbolo della croce è evidente anche nei due padiglioni (quello meridionale e quello settentrionale) di ingresso al Parc.

Cenni su altri edifici civili

Gaudí volle che simboli cristiani ornassero anche gli altri suoi edifici. Si pensi solo a Palacio Güell (1886-1889), nel quale è possibile visitare la cappella per la preghiera familiare al piano nobile, con tele di Aleix Clapés - S. Elisabetta d'Ungheria che porge la sua corona ad un povero e Famiglia contadina in preghiera, oltre alla serie dei santi nelle due porte - e scultura della Vergine di Rosend Nobas) oltre alla croce che sovrasta l'edificio, eretta sulla guglia. Si pensi ancora alla cancellata dedicata all’Immacolata Concezione realizzata per la Torre di Bellesguard (1900-1902).

Gli edifici religiosi e gli studi liturgici di Gaudí

Gli edifici destinati al culto non sono così un unicum nella produzione del grande architetto catalano, bensì si collocano all'interno di una ricerca sul simbolismo cristiano che lo accompagnò durante tutta la sua vita.

Oltre alla Sagrada Familia non bisogna dimenticare in Barcellona il Collegio delle Teresiane (nel quartiere di Ganduxer; 1889-1894), più difficile da visitare perché - grazie a Dio - abitato tuttora dall'ordine religioso. L'architettura dell'edificio è piena di simboli che rimandano alla spiritualità di Santa Teresa di Gesù.

Anche la cripta della chiesa della Colonia Güell a Barcellona (1898-1914) è opera dell'architetto catalano. In essa, oltre ai bellissimi simboli cristiani in maiolica, sono di Gaudí persino le acquasantiere e le panche per i fedeli.

Gaudí affinò poi la sua competenza come architetto di edifici ecclesiastici a partire dal 1902 quando si recò a Maiorca, su invito del vescovo di allora mons. Joan Campins i Barceló, per realizzare il restauro e l'adattamento liturgico del presbiterio (1900-1914) della cattedrale gotica dell'isola.

Nella progettazione del lavoro Gaudí non si limitò ai testi di teologia liturgica che in quel tempo cominciavano ad apparire, ma soprattutto, da assiduo partecipante alla liturgia quale era, si preoccupò di seguire passo passo tutti i movimenti liturgici che si svolgevano nella cattedrale, per studiare la migliore sistemazione architettonica, come lui stesso ci testimonia, attraverso il ricordo dei suoi discepoli:

«Quando il dottor Campins mi affidò il restauro della cattedrale di Maiorca, non andai a cercare le norme relative al mio lavoro nei trattati di liturgia, che a quel tempo cominciavano già ad essere pubblicati. Seguendo il metodo sperimentale, invece, trascorsi un anno osservando e annotando tutte le carenze che l’errata disposizione dell’arredo liturgico causava nel cerimoniale delle funzioni vescovili, privandole di significato e splendore» (da A. Gaudí,Idee per l’architettura. Scritti e pensieri raccolti dagli allievi, a cura di I. Puig-Boada, Jaca Book, Milano, 1995, pp. 274-275).

Per la Sagrada Familia, come è noto, Gaudí realizzò anche le scuole per i figli degli operai della chiesa, perché essi potessero studiare più facilmente.L'edificio venne distrutto dai “rossi” nel 1936, insieme a parte della decorazione della stessa chiesa già realizzata, all'interno delle logica della devastazioni degli edifici cristiani che veniva allora perseguita, e vennero ricostruite successivamente ad immagine delle originali, data la loro bellezza.

- Josep Manyanet y Vives (1833-1901) dal sito www.vatican.va

Contando sull'approvazione del Vescovo, nel 1864, fondò i Figli della Sacra Famiglia Gesù, Maria e Giuseppe e, nel 1874, le Missionarie Figlie della Sacra Famiglia di Nazaret, con la missione di imitare, onorare e propagare il culto della Sacra Famiglia di Nazaret e procurare la formazione cristiana delle famiglie, principalmente mediante l'educazione ed istruzione cattolica dei fanciulli e dei giovani, e il ministero sacerdotale. […]

Chiamato in maniera speciale da Dio, scrisse varie opere ed opuscoli per presentare al mondo l'esempio della Sacra Famiglia di Nazaret, per propagarne la devozione ed incoraggiarne l'imitazione. Fondò anche la rivista La Sagrada Familia, oggi edita in spagnolo e italiano ed ebbe l'ispirazione di proporre la costruzione, in Barcelona (Spagna), di un tempio espiatorio in onore della Sacra Famiglia, che fosse la casa spirituale ed universale di tutte le famiglie. Dalla sua ispirazione è sorto il tempio della Sacra Famiglia, opera geniale dell'architetto e Servo di Dio Antonio Gaudí, mirato a perpetuare visivamente le virtù e gli esempi della Famiglia di Nazaret.

Il suo pensiero

Il beato Josep Manyanet predicò abbondantemente la Parola di Dio e scrisse anche molte lettere ed alcuni libri per la formazione dei religiosi e religiose, delle famiglie e dei fanciulli ed anche per la direzione dei collegi e delle scuole. Tra i libri, emerge La Escuela de Nazaret y Casa de la Sagrada Familia (1895). È la sua biografia spirituale nella quale la sua anima, personificata nel personaggio che egli chiama «Desideria», immagina di dialogare con Gesù, Maria e Giuseppe con alcuni colloqui, mediante i quali traccia tutto un processo di perfezione cristiana e religiosa, ispirata alla spiritualità della casa e scuola di Nazaret.

Scrisse anche una guida per gli sposi e le famiglie, dal titolo Preciosa joya de familia (1899), per ricordare la dignità del matrimonio come vocazione e l'importanza dell'educazione cristiana dei figli.

Per la formazione dei religiosi, scrisse El espíritu de la Sagrada Familia, un libro di meditazioni, che descrivono l'identità della vocazione e missione, nella Chiesa e nella società, delle religiose e dei religiosi, Figlie e Figli della Sacra Famiglia. Esiste un'edizione delle sue Obras Selectas (1991), ed è in fase di stampa il primo volume della sua Opera Completa. […]

Il 25 novembre 1984 fu dichiarato Beato da Giovanni Paolo II, il quale affermò che «la santità del Padre Manyanet ha la sua origine nella Sacra Famiglia».

Egli, infatti, fu chiamato da Dio «perché nel suo nome fossero benedette tutte le famiglie del mondo». Lo Spirito Santo forgiò la sua personalità in modo che egli fosse testimone del mistero di salvezza, realizzato nel seno della Famiglia di Nazaret, e lo inviò come messaggero del «Vangelo della famiglia».

La sua grande aspirazione era che «tutte le famiglie amino, imitino e benedicano la Sacra Famiglia di Nazaret» e si adoperò costantemente per fare di «ogni focolare una Nazaret», e cioè di ogni famiglia una «Santa Famiglia».

La Canonizzazione del beato Josep Manyanet sanziona, in tal modo, non solo la sua santità, ma anche l'attualità del suo messaggio nazareno-familiare. Quindi, oltre ad essere il profeta della famiglia, è anche il protettore di tutte le famiglie.

-insieme a don Jacint Verdaguer

5/ Una visione della politica: il Partito Popolare di don Luigi Sturzo

l'appello ai "liberi e forti" scritto da Luigi Sturzo presso l’Albero Santa Chiara, in via di Santa Chiara 21 in Roma, con il quale egli di fatto diede vita al Partito Popolare

Partito Popolare Italiano

A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme propugnano nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà. E mentre i rappresentanti delle Nazioni vincitrici si riuniscono per preparare le basi di una pace giusta e durevole, i partiti politici di ogni paese debbono contribuire a rafforzare quelle tendenze e quei principi che varranno ad allontanare ogni pericolo di nuove guerre, a dare un assetto stabile alle Nazioni, ad attuare gli ideali di giustizia sociale e migliorare le condizioni generali, del lavoro, a sviluppare le energie spirituali e materiali di tutti i paesi uniti nel vincolo solenne della "Società delle Nazioni".

E come non è giusto compromettere i vantaggi della vittoria conquistata con immensi sacrifici fatti per la difesa dei diritti dei popoli e per le più elevate idealità civili, così è imprescindibile dovere di sane democrazie e di governi popolari trovare il reale equilibrio dei diritti nazionali con i supremi interessi internazionali e le perenni ragioni del pacifico progresso della società.

Perciò sosteniamo il programma politico-morale patrimonio delle genti cristiane, ricordato prima da parola angusta e oggi propugnato da Wilson come elemento fondamentale del futuro assetto mondiale, e rigettiamo gli imperialismi che creano i popoli dominatori e maturano le violente riscosse: perciò domandiamo che la Società delle Nazioni riconosca le giuste aspirazioni nazionali, affretti l'avvento del disarmo universale, abolisca il segreto dei trattati, attui la libertà dei mari, propugni nei rapporti internazionali la legislazione sociale, la uguaglianza del lavoro, le libertà religiose contro ogni oppressione di setta, abbia la forza della sanzione e i mezzi per la tutela dei diritti dei popoli deboli contro le tendenze sopraffattrici dei forti.

Al migliore avvenire della nostra Italia - sicura nei suoi confini e nei mari che la circondano - che per virtù dei suoi figli, nei sacrifici della guerra ha con la vittoria compiuta la sua unità e rinsaldata la coscienza nazionale, dedichiamo ogni nostra attività con fervore d'entusiasmi e con fermezza di illuminati propositi.

Ad uno Stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individualevogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali - la famiglia, le classi, i Comuni - che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private. E perché lo Stato sia la più sincera espressione del volere popolare, domandiamo la riforma dell'Istituto Parlamentare sulla base della rappresentanza proporzionale, non escluso il voto delle donne, e il Senato elettivo, come rappresentanza direttiva degli organismi nazionali, accademici, amministrativi e sindacali: vogliamo la riforma della burocrazia e degli ordinamenti giudiziari e la semplificazione della legislazione, invochiamo il riconoscimento giuridico delle classi, l'autonomia comunale, la riforma degli Enti Provinciali e il più largo decentramento nelle unità regionali.

Ma sarebbero queste vane riforme senza il contenuto se non reclamassimo, come anima della nuova Società, il vero senso di libertà, rispondente alla maturità civile del nostro popolo e al più alto sviluppo delle sue energie: libertà religiosa, non solo agl'individui ma anche alla Chiesa, per la esplicazione della sua missione spirituale nel mondo; libertà di insegnamento, senza monopoli statali; libertà alle organizzazioni di classe, senza preferenze e privilegi di parte; libertà comunale e locale secondo le gloriose tradizioni italiche.

Questo ideale di libertà non tende a disorganizzare lo Stato ma è essenzialmente organico nel rinnovamento delle energie e delle attività, che debbono trovare al centro la coordinazione, la valorizzazione, la difesa e lo sviluppo progressivo. Energie, che debbono comporsi a nuclei vitali che potranno fermare o modificare le correnti disgregatrici, le agitazioni promosse in nome di una sistematica lotta di classe e della rivoluzione anarchica e attingere dall'anima popolare gli elementi di conservazione e di progresso, dando valore all'autorità come forza ed esponente insieme della sovranità popolare e della collaborazione sociale.

Le necessarie e urgenti riforme nel campo della previdenza e della assistenza sociale, nella legislazione del lavoro, nella formazione e tutela della piccola proprietà devono tendere alla elevazione delle classi lavoratrici, mentre l'incremento delle forze economiche del Paese, l'aumento della produzione, la salda ed equa sistemazione dei regimi doganali, la riforma tributaria, lo sviluppo della marina mercantile, la soluzione del problema del Mezzogiorno, la colonizzazione interna del latifondo, la riorganizzazione scolastica e la lotta contro l'analfabetismo varranno a far superare la crisi del dopo-guerra e a tesoreggiare i frutti legittimi e auspicati della vittoria.

Ci presentiamo nella vita politica con la nostra bandiera morale e sociale, inspirandoci ai saldi principii del Cristianesimo che consacrò la grande missione civilizzatrice dell'Italia; missione che anche oggi, nel nuovo assetto dei popoli, deve rifulgere di fronte ai tentativi di nuovi imperialismi, di fronte a sconvolgimenti anarchici di grandi Imperi caduti, di fronte a democrazie socialiste che tentano la materializzazione di ogni identità, di fronte a vecchi liberalismi settari, che nella forza dell'organismo statale centralizzato resistono alle nuove correnti affrancatrici.

A tutti gli uomini moralmente liberi e socialmente evoluti, a quanti nell'amore alla patria sanno congiungere il giusto senso dei diritti e degl'interessi nazionali con un sano internazionalismo, a quanti apprezzano e rispettano le virtù morali del nostro popolo, a nome del Partito Popolare Italiano facciamo appello e domandiamo l'adesione al nostro Programma.

Roma, lì 18 gennaio 1919

LA COMMISSIONE PROVVISORIA
On. Avv. Giovanni Bertini - Avv. Giovanni Bertone - Stefano Gavazzoni - Rag. Achille Grandi - Conte Giovanni Grosoli - On. Dr. Giovanni Longinotti - On. Avv. Prof. Angelo Mauri - Avv. Umberto Merlin - On. Avv. Giulio Rodinò - Conte Avv. Carlo Santucci - Prof. D. Luigi Sturzo, Segretario Politico.

Da Liberali, comunisti, cattolici... I partiti e la storia della democrazia in Italia dal 1919 al 2008, di Stefano De Luca (su www.gliscritti.it  )

Il 21 gennaio 1919, in una riunione socialista Turati «stava spiegando: “Dobbiamo preparare le coscienze all’avvento della società socialista, ma, al tempo stesso, bisogna operare per la graduale trasformazione della società”, allorché una voce lo interruppe, dicendo: “È troppo lungo!”. E Turati di rimando: “Se conoscete una via più breve, indicatemela”. Allora molte voci risposero: “La Russia, la Russia, viva Lenin!”» (F. Chabod, L’Italia contemporanea, Einaudi, 2002², p. 37).

«Io ho l’impressione che il regime attuale in Italia abbia aperto la successione. (…) Aperta la successione del regime, noi non dobbiamo essere degli imbelli. Dobbiamo correre. Se il regime sarà superato, saremo noi che dovremo occupare il suo posto. Perciò creiamo i Fasci» (B. Mussolini, Discorso per la fondazione dei Fasci di Combattimento, in “Popolo d’Italia”, 24 marzo 1919)

Non verrà sottolineato mai abbastanza il fatto che la democrazia di massa, in Italia, nasce all’insegna di un binomio fatale: guerra e rivoluzione. La Grande Guerra è la prima esperienza ‘nazionale’ degli italiani e vede il protagonismo di ceti sociali rimasti sino ad allora ai margini della vita politica (contadini, piccola borghesia, operai); la Rivoluzione bolscevica, dal canto suo, dimostra che la società comunista non è un approdo così lontano da apparire irraggiungibile, ma qualcosa che si può realizzare qui e ora. 
Nasce su questo sfondo quella «miscela esplosiva di aspirazioni di riscatto sociale» e di «diffusi miti rivoluzionari» (1) che caratterizza l’Italia del 1919: i contadini vogliono la terra, una richiesta di cui si è discusso sui giornali durante il conflitto e che è stata blandita, dopo Caporetto, persino dalla propaganda ufficiale; gli operai, inebriati dal successo della rivoluzione leninista, vogliono la repubblica socialista e i soviet; la piccola borghesia, che subisce le conseguenze economicamente più pesanti della guerra ed è esacerbata dalla sindrome della ‘vittoria mutilata’, vuole uno status sociale adeguato e una nazione forte, rigenerata moralmente, rispettata all’estero e all’interno. 
Su tutto domina un clima di impazienza (specie tra i giovani) e di radicalizzazione emotiva e ideologica. Le due nuove ‘religioni politiche’ che si dividono le piazze – questo nuovo luogo della politica, dove ci si mobilita, dove si tengono i comizi e dove sempre più spesso ci si scontra fisicamente – sono il socialismo e il nazionalismo: a dividere i loro seguaci, sin dalla guerra di Libia, è la nazione. 
Il conflitto tra nazione e internazionalismo (tra nazione e ‘antinazione’) è la prima forma di polarizzazione ideologica che si manifesta nell’Italia del Novecento, portando con sé la demonizzazione dell’avversario e la disposizione all’uso della violenza. 
Alla ‘mobilitazione rumorosa’ di socialisti e nazionalisti si affianca quella ‘silenziosa’ dei cattolici, che sin dagli ultimi anni dell’Ottocento, quando è ancora in vigore il non expedit, operano nella dimensione sociale e culturale, dando vita ad una serie di iniziative (settimane sociali, cooperative e leghe, banche popolari) che rafforzano il loro rapporto con il mondo rurale e con i ceti medi. E se nel 1913, grazie al Patto Gentiloni, entrano in parlamento una trentina di deputati cattolici, dopo la guerra i tempi sono ormai maturi perché i cattolici, nonostante le diffidenze della Chiesa verso la democrazia, operino senza la ‘tutela’ della classe dirigente liberale: nasce così nel 1919 il Partito popolare, guidato da don Sturzo. 
Alla mobilitazione di ispirazione nazionalista, cattolica e socialista (cioè di quelle che diverranno le culture politiche di massa dell’Italia del Novecento) si contrappone l’inerzia dei liberali, che governano il paese dall’unità ma non riescono a comprendere quanto esso sia profondamente mutato. I liberali accetteranno nel 1918 – quando dispongono ancora di un’ampia maggioranza parlamentare – di varare la legge elettorale proporzionale e lo scrutinio per liste di partito, ma non si doteranno di un partito organizzato, cioè dell’unico strumento adeguato per fronteggiarne gli esiti di una simile riforma
In questo quadro, le elezioni del 1919 produrranno «il più grande terremoto elettorale della storia nazionale»: il Partito socialista, pur essendosi opposto ad una guerra vittoriosa, passa dal 17,7 al 32,3% dei consensi, triplicando i suoi deputati (da 52 a 156); il Partito popolare, che ha solo pochi mesi di vita, ottiene il 20,5% dei voti e 100 deputati; i vari gruppi liberali, riuniti come sempre intorno a singole personalità (Nitti, Giolitti, Orlando, Salandra), scendono dal 67,6% al 38,9%, passando da 383 a 216 deputati. La classe dirigente che ha governato il Paese per sessant’anni non ha più una maggioranza, a meno di non allearsi con i socialisti o con i popolari. 
A questo straordinario successo politico dei primi due partiti di massa della democrazia italiana va aggiunto che ciascuno di essi dispone di un sindacato ‘amico’: i socialisti controllano la Confederazione generale del lavoro (Cgdl, sorta nel 1906), che ha due milioni di aderenti; i popolari possono contare sulla Confederazione italiana lavoratori (Cil, nata nel 1918), che ha quasi un milione e duecentomila iscritti (di cui un milione sono coltivatori). Se a questo si aggiunge l’insediamento nelle amministrazioni locali (i socialisti controllano il 24% dei comuni, i popolari il 13%) si ha un’idea di come il 1919 abbia letteralmente travolto i vecchi assetti politici. 
Ma la poderosa armata socialista realizza una sorta di autoconventio ad excludendumconfermando, nel congresso del 1919, la linea rivoluzionaria adottata sin dal 1918 (che eliminava qualsiasi obiettivo intermedio e puntava all’istituzione della Repubblica socialista, alla dittatura del proletariato e alla socializzazione dei mezzi di produzione e scambio), il Partito socialista non solo esclude «ogni ipotesi di collaborazione con governi o maggioranze ‘borghesi’», ma preconizza «la conquista violenta del potere» e addita «nelle istituzioni liberali una fortezza nemica da conquistare e da distruggere» (3). 
Un episodio riassume il senso e le conseguenze di questa scelta anti-sistema (che, non va dimenticato, era stata premiata dagli elettori): alla seduta inaugurale della Camera i deputati socialisti, obbedendo ad una delibera del partito, abbandonano l’aula prima del discorso della Corona. All’uscita vengono aggrediti da un gruppo di nazionalisti: seguono tre giorni di scioperi di protesta con violenti scontri di piazza in tutto il Paese. 
La scelta rivoluzionaria dei socialisti – e soprattutto lo svilupparsi di quell’ondata di conflittualità operaia e contadina che va sotto il nome di ‘biennio rosso’, con le occupazioni di fabbriche e di terre – innesca la ‘grande paura’ dei ceti borghesi, che non si sentono sufficientemente garantiti dall’attendismo con il quale la vecchia classe dirigente liberale affronta la crisi: su questo senso di insicurezza e di abbandono da parte dello Stato fanno leva i Fasci di combattimento, che vengono da un risultato elettorale assai deludente (alle elezioni del 1919 hanno preso solo poche migliaia di voti, senza ottenere alcun seggio). 
L’azione violenta dei fascisti in difesa della proprietà e dei valori della nazione inizia a guadagnare consensi: tra il 1920 e il 1921 i fasci si decuplicano (da 100 a 1000), mentre lo squadrismo si allarga a macchia d’olio dalla pianura padana alla Puglia. Si afferma così, nel giro di pochi mesi, «un soggetto politico dalle caratteristiche del tutto inedite: un movimento che da un lato si ergeva a difensore dei valori borghesi, della tradizione nazionale, di un ideale dello Stato forte e autorevole; dall’altro assumeva una connotazione tipicamente sovversiva» (4) e rivoluzionaria. 
Tra il 1919 e il 1922 si consuma la prima fase di guerra civile ideologica del Novecento italiano: è il conflitto tra due radicalismi, uno di sinistra e uno di destra, uno alimentato dal mito della rivoluzione sociale e l’altro da quello della rivoluzione nazionale, mentre le due forze che rifuggono dall’uso della violenza e sono aliene dal radicalismo (liberali e popolari) non riescono a dare vita ad una stabile ed efficace collaborazione di governo. 
Il Partito popolare di Sturzo è indubbiamente una grande novità: secondo Chabod la sua nascita rappresenta «l’avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo, specie in rapporto al secolo precedente». Esso segna infatti il definitivo ingresso dei cattolici nella vita dello Stato italiano, fatto di per sé di importanza straordinaria; ma segna anche, nella linea democratico-cristiana di Sturzo, l’incontro dei cattolici con il mondo moderno. 
I cattolici, per il prete siciliano, non dovevano più appartarsi in forme proprie, ma aderire alla vita moderna per assimilarla e trasformarla: il moderno, più che sfiducia e ripulsa, doveva destare «il bisogno della critica, del contatto, della riforma» (6). Ai cattolici italiani – profondamente radicati nelle masse, a partire da quelle rurali, e sensibili ai loro bisogni sociali e politici – spettava un compito proprio, distinto da quello dei liberali (che per Sturzo erano conservatori, mentre i cattolici dovevano essere democratici) e da quello dei socialisti (portatori di un sovversivismo distruttivo delle strutture sociali e della fede religiosa): per questo i cattolici avevano dovuto organizzarsi in un loro partito, che doveva essere libero di muoversi ora a destra ora a sinistra, al fine di realizzare il suo programma. 
Programma nel quale, insieme alle tradizionali richieste del mondo cattolico (libertà d’insegnamento, difesa della famiglia, riconoscimento giuridico delle organizzazioni sindacali), erano presenti contenuti schiettamente democratici (voto alle donne, Senato elettivo, riforma fiscale in senso progressivo, sviluppo delle autonomie locali, politica estera ispirata al wilsonismo). Ma la novità del Partito popolare viene sottovalutata dalle altre forze politiche e in particolare dai liberali, nei quali prevalgono vecchi pregiudizi e più recenti incomprensioni. 
Ad esempio, Giolitti – protagonista per eccellenza della democrazia parlamentare di ascendenza ottocentesca – non sopportava l’idea di dover trattare con un leader (Sturzo) che non sedeva in parlamento e che quindi ai suoi occhi era soltanto un privato cittadino, oltretutto appartente al clero. Quanto a Salandra, riconoscendo nel 1924 al fascismo il merito inestimabile di aver debellato i «fatali avversari» dei liberali, individuava quegli avversari non solo nei socialisti, ma anche nei popolari. 
Queste incomprensioni di fondo – unite al risorgere di antichi risentimenti, ai personalismi dei vecchi leaders e al fatto che i popolari volevano nel governo una parità che i liberali non erano disposti ad accordare – avrebbero avuto «non piccola parte nel bloccare la funzionalità delle istituzioni liberal-parlamentari e nel determinare la crisi dell’intero sistema». 
Va peraltro sottolineato come i popolari fossero gli unici, nel periodo 1919-21, ad avere un seguito di massa e, al tempo stesso, se non una compiuta cultura politico-istituzionale della democrazia (su questo terreno molte erano ancora le carenze, tra i conservatori, i clerico-moderati e i ‘giacobini bianchi’ alla Miglioli), certamente una cultura antropologica i cui valori (rifiuto della violenza, attitudine al dialogo e alla mediazione) erano compatibili con le regole della democrazia
I social-comunisti avevano (e i fascisti avrebbero avuto) un seguito di massa, ma certamente la loro cultura era incompatibile con la democrazia liberale; quanto al mondo liberal-democratico, aveva la cultura politica appropriata, ma era sprovvisto di seguito popolare.


6/ Un anelito di pace nel dramma

- I papi: 2 agosto 1914 condanna della guerra da parte di Pio X che muore il 20 agosto, subito l’8 settembre Benedetto XV eletto il 3 settembre, la condanna a sua volta

Da A. Monticone, Il pontificato di Benedetto XV, in M. Greschat–E. Guerriero, Storia dei papi, San Paolo, p. 731. 744

[Diverse azioni del pontefice per orchestrare la cessazione delle ostilità]
Il tempo non era maturo per aprire sondaggi di pace e in più anche nei circoli politici cattolici prevalevano criteri del tutto diversi da quelli adoperati dal papa nel valutare costi e vantaggi della prosecuzione della lotta: questa constatazione rivelava un certo isolamento politico del papa anche rispetto ai fedeli cattolici. Di conseguenza dall'autunno 1915 l'azione della Santa Sede si orienta prevalentemente nel soccorso alle vittime della guerra, nell'assistenza alle popolazioni più colpite, nel lenire le sofferenze: una non totale né definitiva perdita di forza politica, ma un'acquisizione di nuovo rilievo internazionale per i nuovi bisogni dell'umanità. […]

[Nuovi tentativi del papa]

La risposta degli imperi centrali venne soltanto verso la fine di settembre e non conteneva gli impegni espliciti richiesti da Benedetto XV, ma solo una generica buona disposizione, mentre si rinviava ulteriormente un pronunciamento sul Belgio e persino da parte dell'imperatore Carlo ci si attestava su posizioni più intransigenti rispetto a qualche mese prima. Per l'Italia infine un discorso del ministro degli Esteri Sonnino alla Camera mostrava la più dura intransigenza verso la Santa Sede unita al riaffiorare di pregiudizi antitemporalistici, spiegabili soltanto con la gelosa tutela dei segreti accordi di Londra dell'aprile 1915. La vera risposta alla nota venne dalle armi, soprattutto dalla vittoriosa offensiva tedesca contro la Russia che di fatto mise in ginocchio l'esercito di Kerensky, consentendo alla Germania di trasferire truppe sul fronte italiano e di cooperare all' attacco di Caporetto, fine ottobre 1917, con ambiziosi propositi sull' anello più debole dello schieramento dell'Intesa. Per contrappunto il
passo del papa ebbe vastissima eco nell' opinione pubblica, restituendo al pontefice su un diverso piano il prestigio morale che sul terreno diplomatico aveva raccolto dure sconfitte
.

da Carlo Cardia, Risorgimento, Unità d’Italia, Chiesa cattolica (on-line su www.gliscritti.it)

E soprattutto, il governo Salandra, stipulando il 26 aprile 1915 il trattato segreto di alleanza con Gran Bretagna, Russia e Francia, fa includere all’art. 15 una clausola in base alla quale le potenze dell’Intesa si impegnano “ad appoggiare l’Italia in quanto essa non permetta che rappresentanti della Santa Sede intraprendano un’azione diplomatica riguardo alla conclusione della pace e al regolamento delle questioni connesse con la guerra”.

- The Christmas Trade: benché nessun accordo ufficiale tra i belligeranti fosse stato pattuito, nel corso del Natale del 1914 circa 100.000 soldati britannici e tedeschi furono coinvolti in un certo numero di tregue spontanee lungo i rispettivi settori di fronte nelle Fiandre

Fuciliere J. Reading. Lettera pubblicata sul Bucks Examiner l’8 gennaio 1915.
Alle 4 del mattino la loro banda suonò alcuni canti, “God save the King” e “Home Sweet Home”. Puoi immaginare le nostre sensazioni. Più tardi vennero verso di noi, e i nostri uscirono per incontrarli. Nessuno di noi portava il fucile. Ho stretto le mani con alcuni di essi, e loro ci hanno dato sigarette e sigari. Non abbiamo sparato un colpo quel giorno. Abbiamo approfittato di quel giorno di quiete, guadagnando tempo sulla morte.

Soldato G. O. Smith. Lettera pubblicata sul Bolton Chronicle il 9 gennaio 1915.
Sembra impossibile che cose del genere possano accadere: nemici pericolosi che escono fuori, che si incontrano con tutta la buona volontà, e che poi ritornano nelle trincee e sparano al primo che spunta con la testa. Credo che questo sia uno dei misteri dell’umana natura.

 

Lettera pubblicata l’1 gennaio 1915 dal Bedfordshire Times and Independent. 
I tedeschi sono persino venuti fino alle nostre trincee e ci hanno dato sigarette e cioccolato, e naturalmente noi abbiamo dato loro altre cose in cambio. La mattina di Natale, appena dopo la una, ero di vedetta, e uno dei tedeschi mi ha augurato buon giorno e Buon Natale. Non ero mai stato così sorpreso in tutta la mia vita quando è venuta l’alba, nel vedere tutti loro seduti sul bordo delle loro trincee, che ci salutavano con le mani, e cantavano per noi. Poco prima che uscissimo anche noi dalle trincee (eravamo usciti durante la notte di Natale) uno di loro ha gridato “Tenete bassa la testa: stiamo per sparare”, e spararono un dozzina di colpi giusto sopra le nostre teste. Chi ci crederebbe se non l’avesse visto con i suoi occhi?

 

Sergente W. Blundell. Lettera pubblicata dal Bedfordshire Times and Independent. 
Ho visto i tedeschi fuori dalle trincee che gridavano, chiedendo di andare ad incontrarli. Tutta la nostra brigata è andata e abbiamo continuato a parlare con loro per oltre due ore. Ci chiesero di non sparare quel giorno e ci dissero che neanche loro lo avrebbero fatto. Così nessun colpo fu più sparato fino al giorno seguente e poi abbiamo ripreso a combattere per quello che era giusto.

 

Soldato Simnett. Lettera pubblicata il 15 gennaio 1915 dallo Staffordshire Sentinel.
Molti tedeschi erano di Londra, e speravano che la guerra finisse presto. Uno di loro ha persino suggerito di farla fuori con una partita di calcio, o con un combattimento a palle di fango, in modo tale che nessuno fosse ferito. Ti sarebbe piaciuto essere qui quel giorno. Che cose divertenti capitano in questa guerra!

 

Soldato W. Pentelow. Lettera pubblicata sul Northamptonshire Daily Echo.
Ci siamo incontrati a mezza via, ci siamo stretti le mani e scambiati da fumare. Mi hanno dato sigari e sigarette. Ho persino dato ad alcuni di loro il mio indirizzo di casa. Adesso è tutto finito. Abbiamo ripreso a spararci. Sembravano molto simpatici, ma alcuni erano molto vecchi ed altri quasi dei bambini.

 

Intervista al sergente maggiore Frank Naden. 
I tedeschi ci hanno dato alcune delle loro salsicce e noi abbiamo dato loro un po’ della nostra roba. Gli scozzesi hanno suonato le cornamuse, e poi abbiamo avuto una vecchia rara scampagnata, con partite di football, nelle quali hanno giocato anche i tedeschi. Il giorno dopo abbiamo avuto ordine che tutte le comunicazioni e gli incontri amichevoli con il nemico dovevano cessare, ma per tutto il giorno non abbiamo sparato, e i tedeschi non hanno sparato addosso a noi.

 

Soldato Arthur Pelham-Burn. Lettera a un vecchio compagno di scuola.
Seppellire i morti era terribile. Ma la cerimonia fu differente. Il nostro cappellano ha recitato le preghiere e i salmi, e un interprete li traduceva in tedesco. Sono stati letti prima in inglese dal cappellano e poi in tedesco. È stato un segno straordinario e meraviglioso. I tedeschi erano allineati da una parte, gli inglesi dall’altra, con gli ufficiali davanti, sull’attenti. Sì, penso che sia stata una visione che nessuno vedrà mai più.

 

Soldato J. Lowe. Lettera pubblicata il 27 gennaio su un giornale di Leichester.
Non lasceremo mai che ci battano. Ma sembrava strano ricominciare a combatterli dopo che ci avevano dato sigari e sigarette.

 

- i cappellani

da padre Giovanni Semeria (che volle mantenere celata la propria identità, ma che si firmava “P. S.”: è facile comunque riconoscere, anche dal tenore dello scritto, il P. Semeria), che descriveva, a guerra inoltrata, lo status del Cappellano militare (P. S., Ieri - oggi - domani, in «Il prete al campo», Anno III, n° 17, 1° settembre 1917, rubrica Note apologetiche, pp. 235-236).

«Siamo ormai all’epilogo — speriamo — di questo triste dramma di guerra, e si può incominciare a tirar le somme e a fare i confronti… senza intendere di fare degli affronti a nessuno. I cappellani militari sono stati più o meno apostoli improvvisati. Giovani usciti appena di seminario, preti che conducevano forse vita esclusivamente di studio, timidi scagnozzetti (mi si scusi il termine, che non vuol essere offensivo) abituati soltanto alle tradizionali funzioncine o funzioncione di chiesa, fraticelli inesperti della vita del mondo, uomini avvezzi alle piccole… e grandi comodità di una vita tutta tranquilla. Qualcuno ha mosso qualche lamento perché non sono stati scelti all’ufficio di cappellano militare esclusivamente quelli che avevano già una preparazione pratica di ministero fra i giovani, o erano abituati a trattare un po’ con il mondo ed a conoscerne le malizie ed i bisogni. Ma chi ha un po’ di comprendonio deve capire che la mancata scelta è conseguenza proprio della guerra: infatti furono chiamate prima le classi più giovani, e perciò i preti più giovani e perciò i cappellani più giovani; e fu necessario approntare in pochi giorni circa ottocento cappellani per i combattenti, e poi affrettare la nomina degli altri man mano che ce n’era bisogno. Manchevolezze, errori involontari, non saranno mancati, ma al principio si è dovuto provvedere d’urgenza, e i provvedimenti d’urgenza hanno inevitabilmente qualche difetto. Ma è doveroso e consolante constatare come, nonostante questa improvvisazione di giovani preti a cappellani militari, il risultato sia stato superiore ad ogni previsione, tanto che gli stessi avversari han dovuto riconoscere privatamente e pubblicamente, ed elogiare nei discorsi e sulla stampa, l’opera dei cappellani del nostro glorioso esercito. La gran massa di questi cappellani si sono conquistati il cuore dei soldati e perciò della nazione, e, toltene alcune assai rare eccezioni, han mostrato di saper comprendere ed assolvere il difficile compito loro affidato dalla Chiesa e dalla Patria. Non è ora nostra intenzione tessere un elogio, che potrebbe sembrare inopportuno. Vogliamo soltanto constatare un fatto che torna a lode di tutto il giovane clero italiano, e trarne qualche pratica conseguenza. Quali sono le ragioni di questa bella riuscita? Quali furono i mezzi per ottenerla? Le ragioni sono semplicissime. Il clero comprese subito la solennità dell’ora, e, trascurando ogni umano miraggio di fronte al supremo interesse delle anime, accettò ed amò i sacrifici più amari, i pericoli più gravi, i distacchi più dolorosi e si diede interamente (specialmente i cappellani del fronte) e senza riserva alle anime. Le comodità, le comode tradizioni, gli affetti domestici, gli interessi materiali, la vita propria, tutto passò in seconda linea, e trionfò soltanto la sublime carità di Cristo. I sacerdoti non furono più soltanto sacrificatori all’altare, ma furono anche sacrificati: ecco la ragione per tanta efficacia di bene. E i mezzi quali furono? I mezzi furono anzitutto la perfetta disciplina, poi l’essersi accomunati coi giovani, aver vissuto con loro, aver pianto e gioito realmente con loro, averli amati ed essersi fatti amare. Se così è, o confratelli sacerdoti, rendiamo a Dio le grazie più sincere, perché la sua Misericordia ci ha aiutato; rallegriamocene con noi stessi, perché la sua Provvidenza ci ha mostrato che possiamo far molto più di quanto forse non avevamo fatto finora. Finirà la guerra, e, se a Dio piacerà, riprenderemo tutti i nostri posti di prima. Ma come li riprenderemo? Per ritrovare i comodi, gli affetti, i lucri, gli onori, le tristi tradizioni? … No, non mai. La guerra ci ha insegnato quali siano i mezzi per operare il bene, e noi nel dopo-guerra li attueremo con lo stesso slancio di questi mesi memorandi, dimenticheremo completamente noi stessi, e con l’aiuto di Dio condurremo le anime alla conquista della Patria eterna».

7/ Santi fra ottocento e novecento

7.1/ beato Charles de Foucauld (1858-1916)

Charles de Foucauld, nei suoi commenti alla vita di Gesù: 

«Egli ci ha dato l'esempio: vita nascosta (Nazareth), vita solitaria (i quaranta giorni di deserto), vita pubblica (i tre anni di predicazione). Queste tre vite sono ugualmente perfette, poiché Gesù, sempre ugualmente perfetto in ogni periodo della sua vita, sempre Dio, le ha condotte tutte e tre. Esse sono ugualmente perfette in se stesse, ma per noi non è ugualmente perfetto l'abbracciare l'una o l'altra; è indispensabile abbracciare quella in cui Dio ci vuole».

Cfr. P. Sequeri su fratel Charles de Foucauld (su www.gliscritti.it )

7.2/ Santa Teresa di Lisieux (1873-1897)

 

da Una chiave di lettura per comprendere il messaggio di S.Teresa di Lisieux, di Andrea Lonardo

Che cos’è l’infanzia spirituale? Come interpretare l’espressione evangelica "se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli"? L’esperienza spirituale di Teresa di Lisieux, recentemente indicata da Giovanni Paolo II come "dottore della Chiesa" e, per questo, luogo di comprensione del senso della vita umana e della fede, ci istruisce.
E’ stupefacente come la piccola Teresa, la santa dell’"infanzia spirituale", descriva la necessità di uscire dall’infanzia per poter veramente amare il Signore. "Infanzia spirituale" non significa, nel suo messaggio, presunta innocenza dell’età infantile (come una valutazione superficiale dell’espressione potrebbe far pensare), o ancora nostalgia di un ritorno ai primi anni della vita intesi come modello tout court – che anzi essi sono visti come età di ipersensibilità ed eccessivo attaccamento a se stessi. Nel descrivere la grazia del Natale che ricevette nel 1886, la grazia della "conversione", la descrive proprio come l’uscita dall’infanzia. Possiamo qui leggere il testo stupendo scritto dalla stessa Teresa che descrive questo momento:

132 - Se il Cielo mi colmava dì grazie, non era già perché io le meritassi, ero ancora tanto imperfetta! Avevo, è vero, un gran desiderio di praticare la virtù, ma lo facevo in un buffo modo, ecco un esempio: poiché ero l’ultima, non ero avvezza a servirmi, Celina faceva la camera ove dormivamo e io non facevo nessun lavoro domestico; dopo che Maria fu entrata nel Carmelo, mi accadeva talvolta, per far piacere al buon Dio, di rifarmi il letto, oppure, in assenza dì Celina, rimettere dentro, a sera, i suoi vasi da fiorì: come ho detto, era per il buon Dio solo che facevo quelle cose, perciò non avrei dovuto attendere il grazie delle creature. Ahimé! Le cose andavano ben diversamente; se per disgrazia Celina non aveva l’aspetto felice e stupito per i miei servizietti, non ero contenta, e glielo provavo con le lacrime... Ero veramente insopportabile per la mia sensibilità eccessiva. Così, se mi accadeva di dare involontariamente un po’ di dispiacere a qualcuno cui volessi bene, invece di dominarmi e non piangere, ciò che ingrandiva il mio errore anziché attenuarlo, piangevo come una Maddalena, e quando cominciavo a consolarmi della cosa in sé, piangevo per aver pianto... Tutti i ragionamenti erano inutili e non potevo arrivare a correggermi di questo brutto difetto.
133 - Non so come io mi cullassi nel pensiero caro di entrare nel Carmelo, trovandomi ancora nelle fasce dell'infanzia! Bisognò che il buon Dio facesse un piccolo miracolo per farmi crescere in un momento, e questo miracolo lo compì nel giorno indimenticabile di Natale
 (N.d.T. Notte tra il venerdì 24 e sabato 25 dicembre 1886); in quella notte luminosa che rischiara le delizie della Trinità Santa, Gesù, il Bambino piccolo e dolce di un’ora, trasformò la notte dell’anima mia in torrenti di luce... In quella notte nella quale egli si fece debole e sofferente per amor mio, mi rese forte e coraggiosa, mi rivestì delle sue armi, e da quella notte benedetta in poi, non fui vinta in alcuna battaglia, anzi, camminai di vittoria in vittoria, e cominciai, per così dire, una "corsa da gigante" (N.d.T. Sal 18, 6). La sorgente delle mie lacrime fu asciugata e non si aprì se non raramente e difficilmente, e ciò giustificò la parola che mi era stata detta: "Piangi tanto nella tua infanzia, ché più tardi non avrai più lacrime da versare!".
Fu il 25 dicembre 1886 che ricevetti la grazia di uscire dall'infanzia, in una parola la grazia della mia conversione completa. Tornavamo dalla Messa di mezzanotte durante la quale avevo avuto la felicità di ricevere il Dio forte e potente. Arrivando ai Buissonnets mi rallegravo di andare a prendere le mie scarpette nel camino, quest’antica usanza ci aveva dato tante gioie nella nostra infanzia, che Celina voleva continuare a trattarmi come una piccolina, essendo io la più piccola della famiglia...

A Papà piaceva vedere la mia felicità, udire i miei gridi di gioia mentre tiravo fuori sorpresa su sorpresa dalle "scarpe incantate" e la gaiezza del mio Re caro(N.d.T. con l’espressione "il mio Re" Teresa designava il suo papà) aumentava molto la mia contentezza, ma Gesù, volendomi mostrare che dovevo liberarmi dai difetti della infanzia, mi tolse anche le gioie innocenti di essa; permise che Papà, stanco dalla Messa di mezzanotte, provasse un senso di noia vedendo le mie scarpe nel camino, e dicesse delle parole che mi ferirono il cuore: "Bene, per fortuna che è l’ultimo anno!... ". lo salivo in quel momento la scala per togliermi il cappello, Celina, conoscendo la mia sensibilità, e vedendo le lacrime nei miei occhi, ebbe voglia di piangere anche lei, perché mi amava molto, e capiva il mio dispiacere. "Oh Teresa! - disse - non discendere, ti farebbe troppa pena guardare subito nelle tue scarpe". Ma Teresa non era più la stessa, Gesù le aveva cambiato il cuore! Reprimendo le lacrime, discesi rapidamente la scala, e comprimendo i battiti del cuore presi le scarpe, le posai dinanzi a Papà, e tirai fuori gioiosamente tutti gli oggetti, con l’aria beata di una regina. Papà rideva, era ridiventato gaio anche lui, e Celina credeva di sognare! Fortunatamente era una dolce realtà, la piccola Teresa aveva ritrovato la forza d’animo che aveva perduta a quattro anni e mezzo (N.d.T. al momento della morte della madre), e da ora in poi l’avrebbe conservata per sempre!

134 - In quella notte di luce cominciò il terzo periodo della mia vita, più bello degli altri, più colmo di grazie del Cielo. In un istante l’opera che non avevo potuto compiere in dieci anni, Gesù la fece contentandosi della mia buona volontà che non mi mancò mai.
Come i suoi apostoli avrei potuto dirgli: "Signore, ho pescato tutta la notte senza prender nulla"; più misericordioso ancora per me che non per i suoi discepoli, Gesù prese egli stesso la rete, la gettò e la tirò su piena di pesci. Fece di me un pescatore di uomini, io sentii un desiderio grande di lavorare alla conversione dei peccatori, un desiderio che non avevo provato così vivamente... Sentii che la carità mi entrava nel cuore, col bisogno di dimenticare me stessa per far piacere agli altri, e da allora fui felice!
(dal Manoscritto autobiografico A)

Sullo stesso incontro di grazia insiste un altro testo di Teresa, una lettera inviata a p.Roulland, che completa le indicazioni, della Storia di un anima:

La notte di Natale del 1886 fu, è vero, decisiva per la mia vocazione, ma, per essere più esatta, devo chiamarla: la notte della mia conversione. In questa notte benedetta, della quale è scritto che rischiara le delizie stesse di Dio
 (N.d.T. Sal 138, 10 Et nox illuminatio mea in deliciis meis), Gesù che si faceva bambino per amore mio, si degnò di farmi uscire dalle fasce e dalle imperfezioni dell’infanzia, Mi trasformò in modo tale da non riconoscermi più. Senza questo cambiamento, sarei dovuta restare ancora chi sa quanti anni nel mondo. Santa Teresa, la quale diceva alle sue figlie: "Voglio che non siate donne in nulla, ma uguali in tutto ad uomini forti" (N.d.T. S.Teresa d’Avila. Cammino di perfezione, 7, 8), santa Teresa non avrebbe voluto riconoscermi per sua Figlia, se il Signore non m’avesse rivestito della sul forza divina, se non m’avesse armata lui stesso per la guerra.
(dalla lettera a p.Roulland dell’1/11/1896)

Quale è allora il cuore del messaggio teresiano? Esso non risiede né nell’amore alle piccole cose, né nell’aspirazione alle grandi opere compiute per Dio. Esso consiste piuttosto nella totale confidenza nella misericordia che Dio ha per Teresa, desideri essa le piccole o le grandi cose. Il punto di riferimento non è interno, ma esterno. E’ la contemplazione dell’immensa misericordia di Dio. E’ questa "speranza cieca" di essere figlia del Padre il punto fermo di tutto un cammino di santità. Così lo descrive la stessa Teresa in un’altra lettera, scritta a sr. Maria del Sacro Cuore:


J. M. J. T.

17 settembre 1896

Gesù
Mia cara sorella,
Non mi trovo per nulla imbarazzata a darle una risposta... Come può chiedermi se può amare il buon Dio come me?... Se avesse capito la storia del mio uccellino
 (N.d.T. allude ad un passo del Manoscritto autobiografico B), non mi farebbe una simile domanda. I miei desideri di martirio sono un bel nulla e non è di qui che nasce quella fiducia illimitata che sento nel cuore. A dir la verità, son proprio ricchezze spirituali che rendono ingiusti (N.d.T. Lc 16, 11), quando ci si appoggia ad esse con compiacenza e si crede che siano qualcosa di grande.
Questi desideri sono una consolazione che Gesù concede talvolta alle anime deboli come la mia (e queste anime sono numerose), ma quando non dà questa consolazione, è una grazia di privilegio. Si ricordi delle parole del padre
 (N.d.T. P.Pichon, S. J., in un ritiro predicato alle Carmelitane di Lisieux, nell'ottobre 1887): "I martiri hanno sofferto con gioia e il Re dei martiri ha sofferto con tristezza".
Sì, Gesù ha detto: "Padre, allontana da me questo calice!".
Dopo tutto ciò, come può dire, sorella cara, che i miei desideri sono il segno del mio amore? Ah! sento bene che non è affatto questo che piace al buon Dio nella mia piccola anima. Quello che piace a lui, è di vedermi amare la mia piccolezza e la mia povertà, è la speranza cieca che ho nella sua misericordia. Ecco il mio solo tesoro, madrina cara. Perché questo tesoro non potrebbe essere il suo?...

Un passo teresiano, in particolare, pensiamo possa essere letto come figura di tutta la teologia spirituale di Teresa di Lisieux e servire come sintesi della sua proposta di "dottore della Chiesa".

Sono veramente lontana dall'essere una santa, solo questo ne è già la prova; invece di rallegrarmi per la mia aridità, dovrei attribuirla al mio poco fervore e fedeltà, dovrei sentirmi desolata perché dormo (da 7 anni) durante le mie orazioni e i miei ringraziamenti, ebbene, non sono desolata... penso che i bambini piccoli piacciono ai loro genitori quando dormono come quando sono svegli; penso che per fare delle operazioni, i medici addormentano i malati. Infine penso che "il Signore vede la nostra fragilità, e si ricorda che noi siamo solo polvere" (Manoscritto "A" cap.8, paragrafo 215).

In questo straordinario passaggio Teresa mostra ulteriormente la sua coscienza di come la piccolezza, l'infanzia proclamata da Gesù nei Vangeli come condizione necessaria per entrare nel Regno, consista allora nell'essere "figli" del Padre. Qualsiasi cosa faccia, un figlio è amato. Vegli o dorma, non è per questo meno figlio. Il Padre conferma ogni desiderio grande di santità, ogni uscita dalla fanciullezza del proprio figlio, ma è anche il Padre della debolezza e del sonno dei momenti nei quali ogni figlio non è neppure cosciente di essere tale. Ciò che conta non è più, allora, l'opera particolare che si compie, che sarà a volte enorme, altre volte piccolissima, ma una vita che è sostenuta dalle braccia del Padre. In questa qualità di rapporto sta il segreto della "piccola" Teresa.

Questi brevissimi appunti sono ispirati dalla lettura dell’importantissimo volume di G.Moioli, L’esperienza cristiana di Teresa di Lisieux. Note introduttive, Glossa, Milano, 1998, a cui rimandiamo.

7.3/ San Daniele Comboni (1831-1881)

«L’Africa va lasciata agli africani»

Come nasce la vocazione di Comboni per l’Africa?
ROMANATO: Negli anni della formazione di Comboni, che nacque nel 1831, cominciavano ad arrivare in Europa le prime notizie da esploratori e viaggiatori. Notizie nebulose, favolistiche, spesso irreali, che però creavano attorno all’Africa un clima di attesa e di speranza. La passione di Comboni per l’Africa nasce così, e anche la sua decisione, presa ben prima dell’ordinazione sacerdotale, di dedicarsi alla cristianizzazione dell’Africa. Poi, il contatto concreto con il vicariato di Khartoum avvenne tramite don Angelo Vinco, uno dei primi missionari partiti con Ryllo e Knoblecher. Vinco incontrò Comboni a Verona, dove era tornato per recuperare la salute e per cercare appoggi. Questo incontro rappresentò per Comboni la conferma della sua vocazione “africana”, alla quale poi non venne mai meno.
Lei scrive che «vale la pena di conoscere Comboni, perché fu un uomo di frontiera, un personaggio che sfugge a tutti i nostri criteri di normalità e di buon senso». Che cosa intende?
ROMANATO: Intendo dire che a quel tempo ci voleva molto poco buon senso per andare in Africa. In Africa si moriva. Le condizioni climatiche e sanitarie in cui si svolgeva la missione erano drammatiche. Nel libro ho documentato che dei circa cento missionari, tra sacerdoti e laici, che affluirono nella missione nell’arco di tempo in cui rimase aperta prima dell’arrivo di Comboni, e cioè tra il 1848 e il 1863, morirono i tre quarti. Morirono di malaria, di febbri tropicali o di malattie intestinali. Un’ecatombe senza paragoni. E ai missionari possiamo aggiungere gli esploratori e i mercanti, morti quasi tutti sul campo. Ecco perché la passione di Comboni per l’Africa lo colloca fuori dai nostri criteri di normalità e di buon senso. Fu veramente una vocazione che ha qualcosa di misterioso per lo sguardo dello storico: una scelta spiritualmente straordinaria, quasi inspiegabile razionalmente.
In che cosa si differenziò la missione di Comboni rispetto a quella dei suoi predecessori?
ROMANATO: Comboni andò una prima volta in Sudan nel 1857, poté conoscere Knoblecher e fare tesoro della sua drammatica esperienza. E capì chiaramente che occorreva cambiare metodo, anche dal punto di vista dell’approccio materiale con l’Africa. Attraverso un lento ripensamento, arrivò nel 1864 a stendere il suo Piano per la rigenerazione dell’Africa, che sarà alla base del metodo missionario in Africa anche di altre congregazioni negli anni successivi. Comboni comprese anzitutto che non era possibile a nessuno passare di colpo dall’Europa all’Africa, sia dal punto di vista sanitario che culturale. Occorreva soggiornare a lungo in un luogo “intermedio”, che egli individuò nell’Egitto, dove ci si abituava fisicamente al clima africano, e si cominciava ad apprendere, anche culturalmente, l’inimmaginabile diversità dell’Africa. L’errore, inevitabile, dei primi missionari era stato anche quello d’aver sottovalutato questi aspetti, cosa che portò qualcuno a dare segni di squilibrio. In secondo luogo, Comboni capovolse l’illusione nella quale egli stesso si era adagiato all’inizio: e cioè l’idea che gli africani dovessero essere portati in Europa, rieducati all’europea e poi trasferiti, per diventare essi stessi fattori di civilizzazione per i loro connazionali. Al contrario, essi andavano, senza forzature, con molta gradualità e cautela, portati a livelli superiori di civilizzazione, ma senza strapparli al loro ambiente, creando in Africa scuole, centri artigianali, università (Comboni ipotizza addirittura università in Africa!). Questo, secondo Comboni – ed è la terza novità del suo piano –, fa sì che la missione debba essere concepita come un’impresa estremamente lunga. Comboni aveva previsto benissimo che nell’arco della sua vita non ci sarebbero stati risultati tangibili. I risultati sarebbero arrivati dopo.

7.4/ beato John Henri Newman

Dal discorso del 12 maggio 1879, ricevendo la nomina a cardinale in Palazzo della Pigna a Roma
«Fin dall’inizio mi sono opposto ad una grande sciagura. Per trenta, quaranta, cinquant’anni ho cercato di contrastare con tutte le mie forze lo spirito del liberalismo nella religione. Mai la santa Chiesa ha avuto maggiore necessità di qualcuno che vi si opponesse più di oggi, quando, ahimé! si tratta ormai di un errore che si estende come trappola mortale su tutta la terra; e nella presente occasione, così grande per me, quando è naturale che io estenda lo sguardo a tutto il mondo, alla santa Chiesa e al suo futuro, non sarà spero ritenuto inopportuno che io rinnovi quella condanna che già così spesso ho pronunciato.
Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo cui non c’è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro, e questa è una convinzione che ogni giorno acquista più credito e forza. È contro qualunque riconoscimento di una religione come vera. Insegna che tutte devono essere tollerate, perché per tutte si tratta di una questione di opinioni. La religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e una preferenza personale; non un fatto oggettivo o miracoloso; ed è un diritto di ciascun individuo farle dire tutto ciò che più colpisce la sua fantasia. ... Poiché dunque la religione è una caratteristica così personale e una proprietà così privata, si deve assolutamente ignorarla nei rapporti tra le persone».

8/ Il Vittoriano

Cfr. Il Vittoriano: breve guida alla comprensione dei simboli del monumento al primo re d’Italia ed all’Unità della Patria. Un monumento risorgimentale che cela però la storia d’Italia, di Andrea Lonardo (su www.gliscritti.it )