Non si potrebbe sostituire al «Date frutto e moltiplicatevi» un «Connettetevi e scaricate»?, di Fabrice Hadjadj

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 21 /01 /2015 - 15:48 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un testo di Fabrice Hadjadj pubblicato il 21/1/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (21/1/2015)

Fabrice Hadjadj è direttore dell’Istituto Philanthropos di Friburgo e autore di una decina di libri in forma di saggi e drammi teatrali. Per gentile concessione dell’editrice Vita e pensiero pubblichiamo stralci di un suo intervento che appare sull’ultimo numero della rivista.

«L’aratro non ha più gli onori di cui è degno, i campi abbandonati sono stati privati dei loro coltivatori, e le falci ricurve vengono fuse per diventare spade diritte» (Virgilio, Georgiche I, 506-508).

«Da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci» (Is 2,3-4).

Potrebbe essere che non abbiamo perduto lo spirito, ma la materia. Potrebbe essere che la perdita di senso che conosciamo oggi non sia perdita del senso dello spirito, ma perdita del senso della materia.

Quando qualcuno perde lo spirito, c’è ancora il suo corpo, il suo corpo che resta come un’ancora, come un accesso, come la speranza di un ritorno: la speranza che si rianimi e che attraverso il contatto della carne e dei sensi ritorni presente al mondo, al prossimo, a quanto gli si offre intorno. Ma quando qualcuno perde la materia, quando un uomo, che non è un angelo, esce dal corpo, quando un uomo, che non è una bestia ma è pur sempre un animale, e non un puro spirito, quando un uomo si disincarna, pretende di smaterializzarsi, che cosa resta perché possiamo prendergli la mano? Che cosa resta perché possiamo prenderlo tra le braccia? Che cosa resta per toccarlo, per il calore, per la semplice presenza senza frase? Allora forse non ha perso lo spirito, ma ha perso il basamento del suo spirito, l’ancoraggio del suo spirito: il peso, lo spessore, la concretezza, la sensibilità, il tatto e direi addirittura la trama del suo spirito.

Che abbiamo perso la materia si vede in modo particolare nelle università moderne. Non parlo di questa bella e venerabile Università Cattolica di Milano, né di Oxford o Cambridge, né della Sorbona, per quanto tutte all’interno, nelle aule, negli anfiteatri, siano vittime della modernizzazione. A essere precisi però, a differenza dell’università moderna, esse appaiono vittime, ossia la loro vecchia architettura oppone resistenza ai tentativi di modernizzarle, e quei tentativi potranno giungere a perfetto compimento solo distruggendo quei vecchi muri e conservando solo una bella facciata da film hollywoodiano.

L’università moderna è scientemente, volontariamente, ostentatamente, un blocco di vetro e di cemento funzionale. Erge con fierezza la propria struttura high-tech ovunque connessa al futuro. Si fa beffe delle vecchie pietre come di altrettante steli di epoche passate. Questa funzionalità, ci dicono gli esperti, è la cosa migliore per l’insegnamento: si dispone di una sonorizzazione elettrica, di una lavagna elettronica, di una rete senza interferenze, di un motore di ricerca che mette a disposizione in due clic tutti i testi e le immagini del patrimonio culturale e scientifico. Siete nella e-school che pratica l’e-learning per un’umanità incrementata, con il booster

Ma indovinate subito che in tale contesto cambia la natura stessa dell’insegnamento. Ciò che presentate sul vostro schermo non sono le opere, ma le immagini scansionate delle opere: una Pietà senza marmo, una Cappella Sistina senza cappella, una Somma Teologica ridotta a una somma di formule, una Divina Commedia senza il tempo e lo spazio che consentirebbero il dispiegamento reale – vocale – dei suoi canti… Ormai l’insegnamento si riduce alla trasmissione di informazioni, e non ci apre più alla verità delle cose.

Infatti per cominciare ad aprirci alla verità delle cose bisognerebbe essere circondati di cose che ci invitassero a farlo attraverso la loro consistenza. Per cominciare ad aprirci alla verità delle cose, bisognerebbe essere attorniati di cose che con la loro ospitalità, la loro bellezza, ci portassero a considerare le cose con rispetto. Alcuni potrebbero credere che non ci sia differenza tra la biblioteca del Trinity College e un database. Si potrebbe persino credere che il database sia più performante, perché sta in tasca, su una chiave Usb o su un hard disk esterno. Ma si può abitare un hard disk esterno? Con la biblioteca, ci sono il grande parco fuori, l’inutile vastità delle aule e dei finestroni, l’umile solennità delle lastre di pietra che conservano la memoria delle montagne, il dolce calore del legno che conserva la memoria delle foreste, il cuoio martellato delle rilegature che conservano la memoria delle bestie, e la vicinanza fisica del maestro, la vicinanza fisica di quel condiscepolo o di quella bella studentessa che non si conosce, e poi la penna, l’inchiostro, la carta spessa che ci obbliga a fare economia e sulla quale non si potrebbe scrivere una cosa qualunque: tutte cose che non servono ai nostri lavori, che non ci informano sul nostro argomento di ricerca, ma che ci sostengono nella nostra presenza al mondo, ci ricordano non so quale generosa densità dell’esistenza.

(…) Il sapere ha perso il suo sapore. I testi hanno perso la loro trama. Si prosegue senza mai essere entrati in materia.

È così per le due parole che formano il titolo del mio intervento: “crisi” e “cultura”. Per un moderno la parola “crisi” ha rimandato anzitutto al campo medico: è quel momento decisivo in una malattia che può sfociare nel recupero della salute (in quel caso si ha una “crisi felice”) o in un aggravamento mortale (e allora è una crisi funesta). Attualmente la parola rimanda anzitutto alla crisi economica o finanziaria, poi, per gli analisti più profondi, a una crisi antropologica, con il problema però che in quel caso la crisi dura, invece di essere transitoria, e ha perso il carattere di “giudizio” o “discernimento” che l’etimologia suggeriva. Il giornalista dichiara: «Siamo in una situazione di crisi» e vuole dire semplicemente che le cose vanno male, e fin dentro le strutture della società. Il nostro immaginario si raffigura subito uno sprofondamento degli indici di borsa, un aumento del prezzo della benzina, file di disoccupati davanti all’ufficio di collocamento, difficoltà a ottenere un credito al consumo per Natale…

Per quanto riguarda la cultura, questo termine evocherebbe piuttosto un “diaporama” di musei, teatri, cinema, libri, concerti, e anche buoni vini… Essere colti consiste nell’avere letto i grandi autori, visto i grandi film, ascoltato le grandi musiche, gustato le grandi annate, e nel poterne parlare nelle migliori compagnie. La cultura viene così ridotta a un insieme di prodotti culturali, la cui grande aspettativa è di essere disponibili per il maggior numero, cioè distribuiti all’ipermercato e possibilmente scaricabili. Sotto questo aspetto, internet, iTunes o BitTorrent hanno contribuito enormemente alla diffusione della cultura, e probabilmente più di qualunque professore la cui missione sarebbe solo di trasmettere quei prodotti.

Ora, ecco che cosa penso: questo modo di intendere la parola “crisi”, e di cercare di risolverla, è già il segno di una crisi più grave di quanto si creda; e questo modo di intendere la parola “cultura”, e di farne l’elogio, è già il segno della più grave incultura. In entrambi i casi interpretiamo le parole avendo perso l’immaginario al quale fanno originariamente riferimento, che è un immaginario agricolo.

La parola “crisi” deriva dal verbo greco krino, il cui uso più antico si incontra nell’Iliade (V, 500-502): «Quando gli uomini ventilano, quando Cerere bionda / allo spirare dei venti separa [krinè] il grano e la paglia / la paglia in mucchi diventa tutta bianca…». Questi versi sono difficili da afferrare: compro il pane in supermercati che sono lontanissimi dalla vita contadina. Appartengo a una generazione che non ha mai visto qualcuno ventilare, e che non sa bene cosa sia la paglia o l’azione di separarne il grano, una generazione che non vede cosa sia la “crisi” originale.

Quanto alla cultura, il suo legame con l’agricoltura, perduto nel nostro immaginario, resta ancora immediatamente udibile nella parola stessa. Alcuni strumenti culturali, del resto, ci hanno potuto informare che è stato Cicerone, nelle Tusculanes, a trasferire il termine dalla coltura della terra alla cultura dell’anima. La celebre citazione si trova su tutti i motori di ricerca come Google, Ask e Bing: Cultura animi philosophia est (Tusc. II, 13). Ma come sempre avviene con i motori di ricerca e le enciclopedie, si tratta di una picconata e non di un ascolto, di un prelievo e non di una lettura (osserviamo di passaggio che il termine “lettura” rimanda originariamente anch’esso a un’azione rustica, quella di cogliere un frutto su un albero, o di scegliere le spighe per legarle in covoni).

Quando Cicerone definisce la filosofia come “coltura dello spirito”, è per rispondere a un’obiezione dell’interlocutore. Secondo quest’ultimo, non si può fare l’elogio della filosofia perché «i suoi più abili maestri non sempre sono persone oneste». Grazie all’analogia agricola, Cicerone può rispondere in una doppia maniera. Da una parte, nella coltura, non basta seminare, bisogna anche disporre di buona terra, perché il miglior grano non può crescere in un campo ingrato (è un’indicazione che si ritroverà nella parabola del seminatore). D’altra parte, filosofare non è riempirsi la testa, ma coltivare la propria anima perché essa dia (come di una buona terra si dice che dà). In definitiva, si tratta di un’operazione immanente. In questo il cosiddetto “mondo della cultura” è l’opposto della cultura autentica, perché questa non si esaurisce nell’accumulo di opere d’arte e di serate mondane, ma nel dispiegamento della natura umana, nella cura delle anime, nella preoccupazione che le persone crescano e diano frutto.

È evidente che il moderno “mondo della cultura” si colloca esattamente all’opposto di questa cura: è un immenso divertimento, una fuga di fronte alla dura fatica del coltivarsi, perché la cultura implica il rivoltare la terra del nostro spirito, strapparne le cattive erbe, eliminare il legno morto, potare, sfoltire i rami epicormici, orientare i ramoscelli verso una migliore esposizione al sole, tagliare implacabilmente le gemme a fiori nell’albero giovane per privilegiarvi le gemme a legno, e tagliare le gemme a legno nell’albero vecchio per privilegiarvi le gemme a fiori…

(…)

Queste considerazioni potrebbero apparire strane, fuori posto, inattuali, poco teologiche. In verità, nulla è più teologico che prendere in considerazione i gigli dei campi. Nulla è più teologale che meditare sui tralci che si recidono perché non danno frutto, e quelli che si potano perché ne diano (così le cesoie non risparmiano nessuno). Quello di cui stiamo parlando è in rapporto con la prima parola, con il primo comandamento, con la prima benedizione, quella che Adamo sente immediatamente dopo la sua creazione. È il comandamento che precede i dieci comandamenti. È la parola di Gen 1,28, con la quale Dio apre l’orecchio dell’uomo: Date frutto…

Stranamente, l’ebraico dà per primo imperativo all’uomo e alla donna di compiere un’operazione da albero. E non da albero qualunque: da albero da frutto, da quell’albero che ai nostri giorni spunta in un frutteto e che ogni anno reclama la potatura. Fruttificare è essenzialmente un’operazione della natura, certo, ma un’operazione che evoca anche le cure della coltura. E si conosce l’importanza di questo verbo nel Vangelo. È il verbo del Verbo, per così dire, il verbo di Colui che è la via, la verità e la vita, la fruttificazione assembrando in qualche modo i tre termini, implicando la strada della linfa, il disvelamento del fiore e il dono del grappolo succoso. Gesù non cessa di ricordare che non basta seguirlo o essere legati a lui: il discepolo deve anche dare frutto. È la gloria del Padre mio che portiate molto frutto e diveniate miei discepoli (Gv 15,8). Per parlare della gloria del cielo, il Verbo impiega le parole della terra. Per dire la vita spirituale, rimanda a una vita materiale, vegetale. Come se la nostra ascesa non potesse avvenire senza l’albero da frutto. Come se ci fossero ali solo per gli zotici.

Perché, dunque? Perché sempre la vigna, l’olivo, il fico, il campo di grano nei discorsi di Cristo? Non sarebbe possibile un’immagine diversa da quella dell’albero? Questo privilegio non è solo circostanziale, rifacendosi a un’epoca passata? Non si potrebbe sostituire al Date frutto e moltiplicatevi, un Connettetevi e scaricate? O almeno sostituire Date frutto con guadagno, sostituire quest’imperativo oscuro con un imperativo trasparente, ad esempio Fabbricate: Fabbricate, moltiplicate gli articoli e riempite i magazzini e assoggettate tutto al vostro straordinario apparato produttivo? Dopotutto Gesù era carpentiere, avrebbe potuto usare il vocabolario dell’artigianato, della costruzione, della fabbricazione. Perché ha sempre preferito quello della coltura?

Perché sa che all’origine non è scritto Fabbricate ma Date frutto, moltiplicatevi, riempite la terra e dominatela. Si provi a mettere fabbricate al posto di date frutto, e il senso di questa dominazione della terra si capovolgerà completamente. La dominazione attraverso la fabbricazione, questa dominazione che è la dominazione attuale, non è la dominazione attraverso la fruttificazione. Nella fruttificazione si domina la terra attraverso un primo rispetto della terra, poiché è a partire da un’operazione della terra che si esprime questa dominazione. Nella fabbricazione, almeno in quella che non si fonda su una fruttificazione, che non conserva il primato della fruttificazione nel suo immaginario, si domina la terra senza rispetto, perché la materia terrestre non è più percepita nella sua fecondità, ma come un semplice materiale, manipolabile a seconda dei nostri capricci e tanto più manipolato, sfruttato, spossato, decomposto e ricombinato, quanto più si tratta per noi di stordirci e di fuggire davanti all’esigenza di fruttificare, di coltivare noi stessi.

La crisi della crisi è qui. L’incultura della cultura è qui. Non sentiamo più le parole nell’eco della parola prima. Abbiamo perso l’immaginario del suolo. Abbiamo perso il senso di quest’arboricoltura, che deve essere alla base di tutte le attività umane. Perché, a partire da questo paradigma dell’arboricoltura, vediamo che la tecnica consiste nell’accompagnare il dispiegamento di una forma naturale data. Senza questo paradigma, cioè sostituendogli il paradigma dell’ingegneria, la tecnica non è più ciò che imita, accompagna e prolunga la natura, diventa ciò che rompe con essa, che la ricostruisce, la smonta e la ricostituisce, la abborda e la rapina sulla base dei nostri progetti babelici, dei nostri piani faraonici, delle nostre macchinazioni tanto asserventi quanto orgogliose.

(…)

La miseria è qui descritta a partire da una perdita del senso che è perdita della terra, perdita della proporzione e perdita della materia. Una perdita che culmina nel “finto legno”, ovvero il legno ricostituito, prima il lamellare, poi il compensato, poi il truciolato, poi la plastica con venature che imitano il legno, infine lo sfondo dello schermo elettronico, quello sfondo che rappresenta una foresta o un bel paesaggio con alberi e campi… Poiché la caratteristica già della società industriale, poi, a maggior ragione, la caratteristica della società informatica non è semplicemente di distruggere la natura, ma di ricostituirla, di fabbricare una pseudo-fruttificazione, di allestire “spazi verdi”, di inventare essenze transgeniche e legno illusorio, più adatti alle condizioni del produttivismo e dell’inquinamento.

La tecnica del contadino è ormai assorbita dalla tecnologia dell’ingegnere. Il carpentiere di un tempo, quel carpentiere che era Gesù, lavorava il legno pensando alla fruttificazione. Traeva il mobile dal legno come si trarrebbe un frutto meraviglioso, e il mobile conservava la memoria del primo comandamento. Oggi il lavoro del legno si fa pensando alla lavorazione a macchina e all’informatizzazione: il mobile non è un frutto meraviglioso, è il risultato di un calcolo, nel migliore dei casi un mero prodotto funzionale, nel peggiore un ingranaggio in un dispositivo, in ogni caso non è mai quel che ci dà da abitare il mondo nella sua tessitura, nella sua densità generosa.

Il Verbo si è fatto carpentiere. Ecco un punto sul quale non si insiste abbastanza. Il Verbo si è fatto carpentiere, non si è fatto filosofo o dottore in legge. Non si è fatto nemmeno vasaio o scalpellino. Perché però non era vignaiolo, o almeno pastore, oppure pescatore come alcuni degli apostoli? Perché proprio carpentiere? Non fosse che per l’ironia della Croce: essere inchiodato su quel legno che aveva appena inchiodato, essere lavorato da quel legno che aveva appena lavorato? Sembra soprattutto che sia perché si tratta, in questo caso, di un mestiere mediano, di un mestiere cruciale, all’incrocio tra arboricoltura e artigianato.

L’opera del carpentiere si colloca a questa cerniera: tra la foresta e la casa, il tronco e il tetto. Questa situazione deriva dal fatto che lui opera sulla materia per eccellenza, quella che porta in sé il richiamo alla fruttificazione. La parola bois, in francese, indica al tempo stesso l’insieme di alberi viventi (il bosco) e il materiale tratto da quegli alberi (il legno). In greco “materia” si dice hylè, che rimanda anch’essa al legno. In latino materia indica ancora il legno come materiale, ma nella sua stessa potenza di generare propaggini, di far spuntare ramoscelli: in una potenza materna, poiché è la stessa radice quella che si sente in mater, la madre, e in materia, la materia. Attraverso questa maternità della materia legnosa, il carpentiere, il falegname, l’ebanista sono invitati a essere padri e non semplicemente esperti, a procedere alla maniera della generazione e non semplicemente della costruzione.

Lo scivolamento da materia come legno a materia come materia in generale, lascia intendere che per gli antichi il legno è la materia per eccellenza, il sostrato, la causa materiale. Questa materia non è la materia dei moderni, informale, malleabile e buona per tutti gli usi, mero effetto senza causalità propria. Ha la sua da dire. Conserva il ricordo del primo comandamento.

(…)

Ebbene, la visione che domina oggi, di fronte al dato della natura, non è quella del donum ma dei data. Il dato della natura viene ridotto a elementi che si può cercare di ricostruire sulla base delle nostre voglie. È il regno del kit e del Meccano. Non mettiamo solo il carro davanti ai buoi, mettiamo il computer davanti al carro, e l’elettronica binaria davanti al computer. La materia viene scomposta in atomi, il vivente scomposto in geni, l’intelligenza scomposta in neuroni, la società scomposta in individui a loro volta scomposti in una somma di funzioni la cui comunicazione viene scomposta in bit. A partire da qui, la stessa morale si scompone in valori negoziabili. E ci invita a ricomporre tutto in meglio, a fare un uomo nuovo e migliorato, non più attraverso la fruttificazione ma la fabbricazione, non più come frutto delle viscere ma come prodotto di sintesi, perché, dal momento che nella nostra visione gli elementi hanno la meglio sulla forma naturale, non possiamo più generare nulla se non dal sintetico a partire da un nuovo assemblaggio di quegli stessi elementi.

Questo è il principio tanto del liberalismo quanto del totalitarismo: l’uomo non vi appare più come un figlio in una comunità data, ma come un individuo, un elemento in una comunità costruita, che questo avvenga per teoria o per contratto, attraverso lo Stato o il Mercato. Questo è il principio delle teorie del gender: non si tratta di fare fruttificare il dato sessuale, poiché il sesso qui è diventato solo un materiale che si può riorientare o rifondere secondo le norme o le tendenze del momento. Questo è il principio della crisi economica: lo scopo è la crescita illimitata del Pil, della fabbricazione, e non la crescita in vista della maturità e della fruttificazione delle persone, tanto che la parola stessa di “economia” ha perso il suo senso vegetativo, al contempo sessuale e agrario, in quanto rimandava negli antichi al governo della famiglia (oikos) e alla gestione dell’ambito agricolo che le era legato. Questo è il principio della cultura della morte: è una incultura che si nasconde sotto la moltiplicazione dei prodotti culturali, fondata sul modello dell’ingegneria e non su quello dell’agricoltura. Questo è il principio della crisi spirituale: ci si perde talora in un materialismo atomista, tal’altra in uno spiritualismo etereo, perché avendo perso lo spirito della materia non sappiamo più avvicinarci alla storia della Salvezza e al mistero dell’Incarnazione…

In fondo la mia tesi è molto semplice: per uscire dalla lingua sclerotizzata [in francese langue de bois, “lingua di legno”, NdT], bisogna ritrovare la lingua del legno, il verbo della vigna, la grammatica della fruttificazione. Di fatto, se non ritroviamo il senso della materia, se non reintegriamo più l’immaginario del ceppo e dei tralci e del grappolo e dello strettoio, come potremo sentire nella sua risonanza concreta la parola di Cristo in san Giovanni (Gv 15,1): Ego sum vitis vera et Pater meus agricola estIo sono la vera vigna e il Padre mio è il vignaiolo?