Árpád Weisz, l’allenatore ebreo che vinse 3, anzi 4 scudetti, con l’Inter ed il Bologna, e morì ad Auschwitz

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 26 /01 /2015 - 14:06 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da VS La Rivista (espressione di FLC CGIL) n.1-2, 15-31 gennaio 2008, pp. 5-12, i seguenti articoli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (26/1/2015)

Il Bologna Campione d'Italia per il secondo anno consecutivo 
nel Campionato 1936-37, allenato da Árpád Weisz

1/ La parabola di Arpad Weisz. Un’intervista di Dario Ricci a Matteo Marani

Arpad Weisz era un allenatore di calcio di origine ebraica finito ad Auschwitz dopo la promulgazione delle leggi razziali. E poi, come tanti, dimenticato. Un recente libro di Matteo Marani, direttore del “Guerin Sportivo”, ne ricostruisce la vicenda.

Cosa l’ha spinta a recuperare la storia di Arpad Weisz?

La curiosità verso il mistero di questa storia, che avevo sentito citare un’unica volta in maniera anche abbastanza casuale e superficiale: durante un’intervista ne aveva parlato Enzo Biagi, che a proposito dell’allenatore del Bologna della sua giovinezza, aveva detto: “Mi sembra si chiamasse Weisz, era molto bravo ma anche ebreo e chi sa come è finito”. Ecco, da allora mi è venuta voglia di ricostruire la storia di un personaggio che è un grande nome, direi addirittura un nome leggendario del nostro calcio, considerando che ha vinto qualcosa come tre scudetti nel nostro campionato nella serie A e tuttora vanta parecchi meriti storici.

Proviamo a spiegare cosa è stato Weisz nella storia del nostro calcio.

Weisz intanto è stato l’allenatore che ha vinto di più insieme a Carcano nel periodo prima della Seconda guerra mondiale: ha vinto uno scudetto con l’Inter - allora Ambrosiana per volere del regime fascista - nel 1930, e ne ha vinti due consecutivi nel ’35 e nel ’36 con il Bologna. Vorrei aggiungere addirittura un terzo scudetto con il Bologna, quindi il quarto complessivo di Weisz, tenendo conto che nel campionato ’38-’39, che poi il Bologna avrebbe vinto, Weisz fu allontanato, anzi cacciato dall’Italia a causa delle leggi razziali. Ma la sua grandezza non è solo nei successi: è stato grande anche perché forse fu il primo allenatore moderno, il primo a introdurre i ritiri, il primo in assoluto a mettersi in campo con i giocatori e a fare la preparazione atletica come allora non si faceva. E poi è stato soprattutto lo scopritore di un campione come Giuseppe Meazza.

L’unica colpa di Weisz è quella di essere ebreo nell’Italia e nel momento sbagliato...

Sì. Questa è l’unica “colpa” di Weisz, nel senso che fu l’unica sua sfortuna. Lui era ebreo, ebreo ungherese: nel 1938 le leggi razziali caddero come una mannaia su questo Paese in quella che rimane probabilmente la pagina più squallida, non solo più triste della nostra storia. Weisz fu costretto in quanto ebreo straniero a lasciare subito il paese. Ebbe nella sfortuna un’ulteriore sfortuna: all’ultimo momento Mussolini cambiò il decreto che riguardava gli ebrei stranieri retrodatandone la validità dal 1933 al 1919. Un cambiamento decisivo per Weisz, arrivato in Italia, a Padova, nel 1924: quel cambiamento lo costrinse all’esilio.

Il suo peregrinare attraverso l’Europa lo porterà proprio nelle fauci dei nazisti. Lei ha ricostruito questo itinerario, prima a Parigi poi in Olanda: quali tracce ha ritrovato del passaggio di questo allenatore leggendario?

La difficoltà iniziale della ricerca è stata proprio il tentare di ricostruirlo, questo itinerario, perché non si sapeva più che fine avesse fatto Weisz dal 17 ottobre del 1938, cioè il lunedì successivo all’ultima partita che guidò come allenatore del Bologna. Ci sono voluti un paio di anni di lavoro per ricostruire l’intero cammino della famiglia Weisz, coi due figli e la moglie Elena, dall’albergo parigino in cui si rifugiarono nei primi tre mesi dopo Bologna fino all’arrivo in Olanda. Sono andato sul posto, a Dordrecht, e ho incontrato l’ultimo calciatore vivente che Weisz aveva allenato. Sono entrato nell’ultima casa in cui Weisz abitò e dove avvenne il rastrellamento, nell’agosto del 1942, che ne determinò il trasferimento prima nel campo di Westerbork e poi a Auschwitz.

Quale immagine di Weisz le ha restituito chi lo ha conosciuto in quel periodo?

L’immagine che mi ha dato questo giocatore, che si chiama Nico Zwaan, che oggi ha 87 anni, è forse quella più forte che mi è rimasta nella memoria: è l’immagine di Weisz, di quest’uomo con un cappotto addosso e la stella gialla - che da pochi mesi era diventata obbligatorio cucirsi addosso anche nell’Olanda occupata dai nazisti - che attraverso le fenditure dello stadio guardava la sua vecchia squadra di calcio. Teniamo conto che in quel momento lì non solo Weisz non poteva più allenare - era stato interdetto da una precisa disposizione delle SS - ma chiaramente, come tutti gli ebrei, non poteva neanche accedere ai luoghi pubblici; quindi dall’esterno dello stadio cercava attraverso le insenature della tribuna di vedere i suoi vecchi giocatori. Ciò che colpisce di più di questa vicenda è come un uomo normale, in una famiglia normalissima, che vive nel cuore di Bologna nel 1938, venga sbalzato nel gorgo della Storia fino a scivolare progressivamente verso Auschwitz e la “soluzione finale”.

Weisz fu grande allenatore di una grandissima Inter: quali sono stati alcuni dei campioni che ha allenato, e che tipo di rapporto aveva con i giocatori?

Weisz fece debuttare un ragazzino che si chiamava Giuseppe Meazza a 17 anni (campione del mondo con l’Italia nel 1934 e 38, ndr). Ed è stato l’uomo che ha tenuto, sempre nell’Inter, a battesimo Fulvio Bernardini e Gipo Viani due dei personaggi che creeranno il calcio italiano del dopoguerra. “Tutto quello che ho imparato del calcio lo devo ad Arpad Weisz”, dirà lo stesso Bernardini. È stato anche un grande maestro di calcio, come sapevano esserlo solo gli allenatori magiari del calcio danubiano.

C’è ancora però un tassello che manca, per completare la ricostruzione dell’amara vicenda umana di Arpad Weisz e della sua famiglia. So che sta cercando un altro pezzetto di questa storia incredibile e tragica, per sottrarla all’oblio, vero?

Sì. È una fotografia, quello che ancora sto cercando. Una fotografia della moglie di Arpad Weisz: si chiamava Elena Rechnitzer, ma il nome originale da ungherese è Ilona Rechnitzer (particolare che ha reso ancor più difficile le ricerche d’archivio, ndr): sto cercando una sua foto perché è l’unica a cui non sono ancora riuscito a dare un volto. Le foto di Arpad Weisz sono chiaramente numerose, essendo stato lui un personaggio in vista come allenatore dell’Inter e del Bologna. Dei figli ho trovato le immagini attraverso gli amici di infanzia e di scuola dei bambini. Purtroppo invece della moglie non sono ancora riuscito a trovare un’immagine: e questo ora è il mio rovello e il mio rammarico.

In che momento ha compreso che Auschwitz era stata la destinazione finale dei Weisz?

In realtà è stato proprio quello l’inizio della mia ricerca, al quale mi ha guidato Michele Sarfatti, che è il presidente del Centro di Documentazione Ebraica di Milano. Mi sono indirizzato allo Yad Vashem e da lì ho scoperto il nome di Weisz tra le vittime di Auschwitz e della Shoah: diciamo che la fine di Weisz è stato l’inizio del mio lavoro. A quel punto, avendo appurato - cosa sulla quale non c’era alcuna certezza - che fosse realmente morto in un campo di concentramento, sono partito a ritroso per cercare di capire gli anni, i mesi e i giorni che precedettero l’arrivo della famiglia Weisz ad Auschwitz. Questa è sicuramente - almeno fino a oggi - la storia più importante, il connubio più importante tra calcio italiano e Shoah. Spesso si pensa alla Shoah come una cosa lontana, di altri paesi, della Germania, dell’Olanda, dell’Est-Europa. Questa è una storia di discriminazione razziale che invece si è iniziata a scrivere in una via di Bologna tutt’oggi abitata da famiglie bolognesi. Spero che, oltre alla sua parabola di uomo di sport, anche quest’altra lezione che Arpad Weisz ci ha lasciato non venga dimenticata.

2/ Passione e morte di un allenatore, di Matteo Marani

Il brano antologico è tratto dal libro di Matteo Marani, Dallo scudetto ad Auschwitz. Vita e morte di Arpad Weisz, Aliberti Editore, (pp. 87-102).

Il brano mostra come funzionarono le leggi razziali, soffocando a poco a poco la vita di Weisz e della sua famiglia. Costretto a prendere la via dell’esilio prima in Francia, poi in Olanda, da qui partirà verso Auschwitz, per non fare mai più ritorno.

Negli stessi giorni in cui il Bologna ha vinto il Trofeo dell’Esposizione, a pochi chilometri dallo stadio parigino sono stati uccisi i fratelli Rosselli. A novembre, l’Italia aveva stipulato con la Germania e il Giappone il Patto Anticomintern, preludio di quello d’Acciaio. Non è finita: a dicembre si era registrata l’uscita definitiva del nostro paese dalla Società delle Nazioni. Ed era cominciata lì la polemica sulle plutocrazie ebraiche, condimento futuro dell’antisemitismo all’italiana. E Weisz? In quest’ultima stagione ha compiuto un exploit eccezionale, in Italia e in Europa. Ha battuto tutti. Nel nuovo campionato, quello del 1937-38, non vincerà, ma se la giocherà sino al termine. Sente di avere il mondo ai suoi piedi. Ma sotto ai piedi, il mondo non è più lo stesso. La fine è cominciata.

Mentre il gioco del pallone ha scalato l’ultimo gradino della notorietà, Arpad Weisz, all’apice del successo, deve trovare un riparo. Conta soltanto questo: una tana dentro cui rifugiarsi. Deve salvare la famiglia, sostenere figli e moglie. Ma è sempre più isolato, ed è difficile garantire sicurezza quando non la si possiede più per se stessi.

Viene da chiedersi come mai Bologna non reagisca. Perché si dimostri distratta, immobile, ferma dinnanzi a un sopruso governativo che stride in una città altrimenti tollerante. Semplicemente, Bologna è parte dell’Italia in questo difficile 1938, e l’Italia ha indossato senza riserve l’abito razzista. Se ne renderanno conto in fretta, i quasi mille ebrei della città. Giornali e propaganda hanno dato sfogo all’intestino, alla demagogia, alla demenzialità più assurda. Hanno provato a trasformare in razzista un popolo che non lo è e che non lo è mai stato.

Il risultato è che Weisz non può essere protetto dai tifosi, non può essere difeso dai suoi superiori, non può essere assistito neanche dai vicini di casa, gli ultimi a rimanergli accanto.

Niente da fare. È un personaggio conosciuto, svolge un lavoro popolare e purtroppo per lui compare da settimane nella lista degli ebrei stranieri da cacciare. Avere il nome stampato su quell’elenco non lascia scampo. Il censimento l’ha imposto Mussolini il 5 agosto, con l’ennesima informativa, anche se materialmente si realizza il 22 dello stesso mese. Sono registrati gli ebrei stranieri residenti nel Regno, a eccezione di chi ha dimora provvisoria dovuta a ragioni di cura o di turismo, come si affretta a spiegare un’insipiente circolare ministeriale. Risultano ottomilacento i discriminati come Weisz. È un documento talmente sconveniente da essere segretato dallo stesso ministero dell’Interno. Una copia verrà ritrovata nella caserma delle SS a Bolzano, l’ultima a cadere nel 1945. Il rigo rosso tirato su molti nomi lascia poco spazio all’interpretazione. Testimonianza tangibile della deportazione.

Stando così le cose, per “Weisz Arpad di Lazzaro, nato il 16.4.1896 a Budapest” [sic] e per “Weisz Elena ved. Rechnitzer Elena” c’è poco da fare. Anche se i due bambini di casa non compaiono, né Roberto, né Clara, forse esclusi per il battesimo cattolico o più semplicemente per la loro giovane età, bisogna che la famiglia abbandoni la città che l’ungherese colto e garbato ha reso celebre in Europa, diciamo nel mondo.

Scatolini preparati frettolosamente, oggetti messi insieme, cercando di razionalizzare, saluti abbozzati, qualche imbarazzato “arrivederci”. Quei provvedimenti potrebbero un giorno rientrare, cessare di esistere, far sì che il diritto vinca sulla protervia. E allora sì che i Weisz avrebbero modo di ritornare a Bologna.

Invece è un addio.

La prima esigenza è scappare al pugno sferrato dal regime. Una morsa invisibile quanto prepotente. L’8 aprile è stato impedito agli ebrei di collaborare a giornali e riviste, il 17 agosto di ricoprire cariche pubbliche in enti dipendenti dal ministero degli Interni. In un solo anno, questo atroce 1938 che non ha fine, si è aggiunto il divieto di essere dirigenti di grandi aziende, bancari o assicuratori, addirittura pompieri e bibliotecari, di tenere a servizio domestici non ebrei. Ma gli impedimenti non cessano, si fanno asfissianti, comici. L’Accademia dei Lincei allontana undici israeliti, pittori e scultori ebrei vengono banditi dalle mostre e censurati dalle pubblicazioni, ad altri è fatto divieto di essere iscritti ad associazioni culturali e ricreative, antipasto della paradossale impossibilità, sancita nel 1942, di leggere o vedersi prestare libri dalle biblioteche.

Cittadini di serie B. Anzi, neanche cittadini.

Alla follia generale, un virus che ha ammorbato ogni angolo del vivere civile, lo sport e il calcio si adeguano in fretta. È impedito a dilettanti e professionisti di rimanere iscritti a società o competizioni. E più avanti, con la legge 426 del 1942, sarà pure stabilito che il Coni “ha come obiettivo il miglioramento fisico e morale della razza”. Una razza, nella realtà dei fatti, alle prese ogni giorno con la miseria e la tubercolosi.

In un clima come questo, Weisz si sente braccato. Stavolta non c’è tattica, materia in cui è maestro, che possa condurlo fuori dal vicolo cieco dentro cui l’hanno chiuso le leggi dello Stato fascista. Ha l’intuito dello stratega, lo dimostra sul campo da almeno vent’anni, e sa che la partenza per l’estero rappresenterà tra breve l’unica via possibile.

Non esistono più calciatori da scoprire, astri da far nascere, squadre con cui vincere. Non esiste più nulla al di là della vita da difendere. L’ultimo vincolo con Bologna, quello dei figli, è stato tagliato con una norma su misura, ironia della sorte varata nel giorno in cui sono stati discriminati gli ebrei stranieri. Roberto Weisz non si è potuto iscrivere alla terza elementare delle scuole Bombicci. Mette i brividi, sfogliando oggi gli impolverati registri, notare come manchi soltanto il suo nome nel passaggio dalla seconda alla terza. “Un giorno non lo vedemmo più venire a scuola” è il ricordo di Athos Faccioli, un compagno di allora.

Anche qui è stata una pura questione di numeri: 1390 e 1630. Sono le due leggi che all’inizio di settembre hanno decretato l’arianizzazione della scuola italiana. Una faccenda amministrativa, un atto trascritto a macchina da un ministero all’altro che ha finito per scaraventare nel dramma un’intera generazione, la più indifesa. Weisz e gli altri alunni ebrei delle scuole primarie hanno dovuto abbandonare le classi, quasi certamente in estate per suscitare minore scalpore e reazione nei compagni. Qualche genitore ebreo, in extremis, ha tentato di dare un battesimo cattolico ai ragazzi purché ciò non avvenisse, altre madri si sono piegate a inventare un concepimento attraverso tradimento con qualche ariano, la maggioranza dei figli si è invece ritrovata nelle due classi miste create in via Pietralata, confluite più tardi in un’unica stanza a ridosso delle Due Torri. Sempre con maestri ebrei esclusi all’insegnamento. Ma Roberto non si iscrive, dal momento che la legge sugli stranieri costringe l’intera famiglia ad andarsene presto. Che senso avrebbe continuare per pochi mesi? Oltretutto in una situazione di grave disagio, senza i compagni di sempre. Sarà proprio uno di loro, Giovanni Savigni, l’estremo contatto di Roberto con la normalità, con il ricordo della scuola e degli anni spensierati.

Stavolta, il conto alla rovescia è scattato per davvero. Non siamo più ai libelli antisemiti pubblicati da Paolo Orano o da quel falso storico - ristampato in trentacinquemila copie - che sono i Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Ora si è iniziato a fare sul serio, nella caccia all’ebreo. Weisz rassegna le dimissioni, non viene esonerato come maligna qualche giornale. Sessant’anni dopo, il Dizionario del Calcio di Baldini e Castoldi parlerà di un allontanamento dopo quattro giornate (in realtà sono cinque), senza spiegarne però il motivo.

Altri testi non renderanno migliore giustizia. I risultati alterni in avvio di stagione non possono aver minato la fiducia dei dirigenti, che grazie a lui hanno conquistato due scudetti e un quinto posto più che onorevole. E poi che senso avrebbe licenziarlo dopo una vittoria per 2-0 contro la Lazio?

Un incontro che ha fugato ogni dubbio, come ricorda la “Gazzetta dello Sport” il giorno seguente: “La partita ha fatto giustizia delle voci troppo frettolose, secondo le quali il Bologna verserebbe in precarie condizioni di salute sportiva. La squadra, infatti, ha giocato con buona lena e ha dimostrato di possedere pressoché inalterate le sue doti tradizionali di iniziativa e di combattività”.

Questo successo casalingo, datato 16 ottobre, rimarrà l’ultima partita ufficiale in terra italiana di Weisz. La pausa del campionato la domenica successiva, per lasciare spazio alla Nazionale, permetterà al tecnico magiaro un’estrema appendice: l’amichevole a Milano sul campo dell’Arena, contro l’amata Inter. Un segno del destino, evidentemente.

L’ungherese non è stato dunque cacciato dal Bologna, che solo un mese prima, giusto alla fine del campionato, gli aveva rinnovato il contratto davanti alla corte serrata della Lazio, disposta ad ingaggiare Arpad al posto del connazionale Viola. Di più: il Bologna ha forse pensato di trattenere l’ungherese fino al termine del campionato, sino al 28 maggio, in attesa di vedere la piega assunta dalla vicenda.

Lo certificano i giornali dell’epoca, con l’eccezione del “Carlino”. Che il 17 ottobre svela di essere molto vicino al potere governativo: “La direzione del Bologna smentisce [la partenza, n.d.a.], ma noi crediamo, viceversa, che essa sia ormai definitivamente conclusa”. In effetti è chiusa.

Weisz è stato mandato via da un paese che ha smarrito se stesso, un paese che l’ebreo ungherese, e tanti come lui, stentano a riconoscere. E da una città, Bologna, che perderà nell’Olocausto ottantacinque cittadini, oggi ricordati nella lapide muraria sul fronte della sinagoga di via Mario Finzi. Neanche lì, però, è scritto il nome del più grande allenatore nella storia della città.

In quelle ore ciascuno cerca la propria salvezza come meglio riesce. C’è chi è costretto a partire, chi si isola, chi si avvia suo malgrado verso una vita parallela. È difficile da concepire un tale sconvolgimento in una convivenza eccellente tra ebrei e cattolici, dove gli attacchi sui giornali locali di tale Camicia Nera, alias Piero Pedrazza, sono stati visti ogni volta come insensati, una spavalderia inutile. Perché sostenere che gli Ebrei “sono una razza inferiore di cui bisogna diffidare?”. La questione razziale è un tema ignoto per il posto, a meno di non volere risalire alla bolla papale che sul finire del XVI secolo aveva sancito la cacciata da Bologna di una delle più antiche comunità ebraiche. Ma è una pagina troppo lontana. L’eugenetica pazzoide di chi vuole misurare i nasi o stabilire il colore olivastro della pelle è lontana da queste strade, dai portici che in inverno riparano dalla pioggia e in estate dal sole. Qualche antropologo ambiguo c’è stato pure qui, come Fabio Frassetto, direttore dell’omonimo istituto dell’università emiliana e considerato da “Difesa della razza” uno dei grandi precursori del razzismo italiano. Ma a parte lui, il rettore Ghigi, lo psichiatra Donaggio e il latrare di pochi altri, l’antisemitismo non si è visto. Si è vissuti accanto, da vicini di casa, come è capitato a Roberto e ai suoi amici.

Però qualcosa è accaduto. Nel silenzio che ricopre all’improvviso la sorte degli ebrei, e per primi coloro che hanno passaporto straniero, c’è un elemento che deve offendere maggiormente Weisz. È il mutismo dei giornali, con i quali ha sempre avuto un rapporto buono, di reciproca fiducia.

Nel 1937, pubblicando un articolo scritto da Weisz sul Bologna, il “Calcio Illustrato” l’aveva presentato in questo modo: “Troverete rilievi originali e profondi, e nel complesso la prova di un’intelligenza purtroppo non comune nei nostri allenatori. Non per nulla questo ungherese ha vinto, sinora, tutti i campionati a girone unico lasciati liberi dalla Juventus”.

La stampa sembra averlo cancellato. Una croce sopra.

Una linea netta, come fanno i burocrati sulle liste dell’infamia. Per annunciare la partenza obbligata, proprio il “Calcio Illustrato” ha impiegato appena tre righe in una colonna laterale. Due sono dedicate all’arrivo del tecnico che lo sostituirà, Hermann Felsner, una soltanto all’ungherese: “Quanto a Weisz [sic], sembra che lascerà l’Italia a fine anno”. Da quel momento, per i giornali sarà un uomo morto.

E per settant’anni nessuno di essi si prenderà in carico il compito di riaprire il capitolo. Weisz viene dimissionato da allenatore del Bologna mercoledì 26 ottobre. Il giorno successivo viene presentato ai giocatori rossoblù Felsner, allontanandosi dal Milan e non per rientrare in Austria, come supposto dalla stampa. È difficile scorgere qualcosa di più in mezzo alla coltre di nebbia di quei giorni, oltre il muro di silenzio sollevato nell’attimo stesso in cui la vicenda ha cessato di essere sportiva, dunque pubblica.

La residenza bolognese di Weisz, in via Valeriani 39, dedotta dai documenti dell’anagrafe storica di Bologna, è stata cancellata l’ultimo giorno del 1938. Tra novembre e dicembre le tracce si sono perse completamente. I Weisz lasciano una nazione che avevano conosciuto diversa. Accogliente, socievole, pronta a dare casa, lavoro e amicizia. Hanno l’obbligo di lasciare l’Italia entro sei mesi dal 7 settembre 1938, quindi non oltre il 6 marzo 1939. La scadenza è stata scritta a chiare lettere sul decreto 1381, quello che investe gli ebrei stranieri. Si legge al punto 1: “È fatto divieto agli stranieri ebrei di fissare stabile dimora nel Regno, in Libia e nei possedimenti dell’Egeo”. Punto 2: “Revoca della cittadinanza italiana concessa a stranieri ebrei posteriormente al primo gennaio 1919”. Punto 3: “Obbligo per gli stranieri ebrei che fossero insediati in Italia dopo l’1/1/1919 di abbandonare questi territori entro sei mesi, dopo i quali sarebbero stati espulsi”.

A volte, nella fredda elencazione di norme, la storia si fa crudele: il dispositivo di legge ha condannato i Weisz per una correzione fatta a mano da Mussolini. La bozza ha subito un cambiamento all’ultimo istante, purtroppo decisivo.

Prevedeva l’espulsione per gli ebrei residenti nel paese dal 1933, data che avrebbe messo al riparo Arpad e la sua famiglia, ma il 31 agosto Mussolini l’ha voluta correggere in 1919 di proprio pugno. Ne è conseguito un grave problema per la comunità ebraica di Fiume e ne è scaturita una delle sanzioni peggiori in Europa.

È stata la fine italiana dei Weisz.

Lo stesso giorno, benché diventava legge il 7 settembre, Mussolini ha fornito anche la definizione di ebreo, togliendo speranza ai figli di Weisz: “Qualsiasi nato da due genitori ebrei, indipendentemente dalla religione da lui professata”. Non sarebbe cambiato nulla, vista la necessità di padre e madre di lasciare Bologna, ma ora Roberto e Clara, pur essendo stati battezzati col rito cattolico, non sfuggono alla morsa. È un altro scherzo del destino ed è la prima battaglia persa nella lunga sfida giocata con la morte.

Il 6 ottobre è stata approvata dal Gran Consiglio del Fascismo la dichiarazione della razza e i punti focali sono stati ribaditi, con la sostanziale conferma dell’espulsione degli stranieri e il divieto di entrata per i nuovi. Persino i matrimoni sono stati dichiarati nulli. Ci si rallegra per la nascita delle cattedre di razzismo e si invitano le camicie nere a porgere grande attenzione alle norme repressive.

La macchina è lanciata ed è impossibile tornare indietro.

Il nodo si è stretto ulteriormente il 17 novembre, con la controfirma del re Vittorio Emanuele III al decreto 1728, la summa del razzismo italiano. Recita l’ennesimo articolo infamante, il numero 9: “L’appartenenza alla razza ebraica deve essere denunziata e annotata nei registri dello stato civile e della popolazione”. Letto in prospettiva, è l’inizio di quella continua classificazione che servirà in prima battuta alla discriminazione e in seconda, dopo l’8 settembre 1943, alla deportazione.

L’Italia è diventata totalmente, irrazionalmente antisemita. Sui giornali capita di vedere le foto dei cartelli appesi davanti ai bar: “In questo locale gli ebrei non sono graditi”. Sulla vetrina di un altro negozio si legge: “Proprietari e personale di questa libreria sono ariani”. Anche a Bologna, dove Arpad e il resto della famiglia vivono sospesi nel limbo, in un’angoscia silenziosa, sono spuntati i cartelli davanti a tre caffè, il più importante dei quali è quello del Corso.

L’allenatore con il maggior numero di successi tra quelli in attività si è trasformato in un uomo in fuga. È incredibile, eppure... A ottobre Mussolini ha compiuto l’ennesimo passo in avanti, in occasione del discorso davanti al partito: “Il problema razziale è per me una conquista importantissima. Le leggi razziali dell’Impero saranno rigorosamente osservate e tutti quelli che peccano contro di esse saranno espulsi, puniti, imprigionati”. In novembre si è aggiunto Vittorio Emanuele III, firmando la modifica allo statuto che esclude dall’iscrizione al Partito nazionale fascista “i cittadini italiani considerati di razza ebraica”.

Il 10 gennaio i quattro componenti della famiglia vedono per l’ultima volta l’Italia. L’indicazione viene dall’Archivio centrale dello Stato, dove sono conservate le buste relative ad Arpad Weisz e a Elena Rechnitizer, rispettivamente la numero 139 e la numero 102 della Sorveglianza stranieri A16, a sua volta parte integrante della Divisione affari generali e riservati del ministero degli Interni. Ci sono diversi spunti nelle due lettere inviate dalla prefettura di Bologna al ministero degli Interni a Roma. In primis, e colpisce la perentorietà del termine, in oggetto viene riportato che si tratta di ebreo e di ebrea. Si apprende inoltre che Arpad è giustamente registrato come allenatore di calcio ed Elena come casalinga.

Ma soprattutto, ed è la cosa che interessa maggiormente una volta giunti a questo punto del tragitto, che la famiglia ha lasciato il Regno il 10 gennaio 1939, diretta in Francia.

3/ Il razzismo annienta la libertà di tutti, di Giuseppe Di Vittorio (1938)

Alla vigilia dell’emanazione delle leggi razziali fasciste dell’ottobre del 1938, Giuseppe Di Vittorio elevò, alto e forte, il suo grido di sdegno. In quegli anni era esule a Parigi e dirigeva il giornale “La Voce degli Italiani” da cui è tratto il brano che pubblichiamo.

Giuseppe Di Vittorio, in “La Voce degli italiani”, 13 settembre 1938. Il brano è contenuto in Michele Pistillo, Giuseppe Di Vittorio 1924-1944. La lotta contro il fascismo e per l’unità sindacale,Editori Riuniti, Roma 1975. In quegli anni Giuseppe Di Vittorio era esule a Parigi e dirigeva il giornale “La Voce degli Italiani” da cui è tratto il brano che pubblichiamo qui di seguito. Proprio a Parigi fu arrestato dalla Gestapo nel 1941 e mandato al confino a Ventotene dove rimase fino alla caduta del regime.

Difesa degli ebrei italiani e delle organizzazioni cattoliche

La gravità della situazione internazionale non deve farci dimenticare le terribili persecuzioni cui sono sottoposti gli ebrei italiani, né il dovere imperioso che noi abbiamo di difenderli.

Lo sappiamo. Siccome un problema ebraico non è mai esistito in Italia (per il numero esiguo degli ebrei italiani, soprattutto perché essi sono perfettamente fusi con il nostro popolo) alcuni potrebbero osservarci che non vale la pena di prendere troppo sul serio il furore razzista del regime.

Vedere il problema sotto un angolo così angusto, sarebbe un grave errore. Innanzitutto, si tratta di 80.000 nostri concittadini di ogni età e professione, che la dittatura fascista ha posto letteralmente nella impossibilità di lavorare e di guadagnarsi la vita, creando contro di loro un’atmosfera di pogrom. E questo fatto non può lasciare indifferente la democrazia italiana, la quale ha il dovere di lottare per l’eguaglianza dei diritti di tutti gli onesti cittadini italiani, senza distinzione di religione e di razza.

Ma il problema ebraico, sollevato artificialmente dalla dittatura fascista, non interessa gli ebrei soltanto, interessa tutto il popolo italiano. Il delirio razzista al quale si sono abbandonati senza ritegno e senza dignità i profittatori del regime, è un atto di guerra che fa parte della preparazione del regime alla guerra mondiale, in quanto mira a creare una mentalità imperialista nelle masse, onde portarle più facilmente al macello nelle guerre d’aggressione che si preparano. Con la barbarie razzista, il regime vuol ingannare le masse ridotte alla fame, suscitando in esse la convinzione di appartenere a un “popolo superiore”.

L’improvviso e codardo furore razzista del regime è una grossolana diversione, volta a incanalare contro gli ebrei l’esasperato malcontento delle masse affamate dai grandi trust, dai ricchi agrari e soprattutto dalle guerre d’aggressione in permanenza.

Anche lo zar, nella vecchia Russia, per placare il malcontento dei Migik affamati dai signori feudali, organizzava i pogrom contro gli ebrei. Il razzismo fascista è tutto questo, ma non è solo questo. La politica razzista fa parte della politica generale del regime di dividere e suddividere incessantemente il popolo italiano, per continuare a soggiogarlo, ad opprimerlo, a saccheggiarlo.

Dopo i precedenti della Germania hitleriana - dove, pur non essendo la religione cattolica quella dominante, i cattolici conducono una lotta risoluta contro la barbarie razzista - nessuno poteva pensare che i cattolici italiani avrebbero assistito impassibili alle feroci persecuzioni contro gli ebrei, rinnegando lo stesso fondamento dei loro principi cristiani.

Mussolini sapeva, dunque, che scatenando codardamente l’ondata razzista contro gli ebrei italiani, si sarebbe urtato all’opposizione dei cattolici, oltre che a quella di tutte le altre correnti della democrazia italiana. E l’ondata razzista, anticristiana e antiumana è stata scatenata ugualmente anche per avere il pretesto di sferrare una nuova offensiva contro le organizzazioni affiliate all’Azione cattolica, che costituiscono i soli ed ultimi residui di organizzazioni relativamente libere esistenti in Italia, e nelle quali tanti lavoratori trovano ancora il modo di riunirsi, e di scambiare le loro opinioni, in un ambiente che non è quello ossessionante del fascismo.

Attraverso la caccia inumana e vile agli ebrei, la dittatura fascista mira a distruggere questi ultimi resti di organizzazioni cattoliche, non bastandole d’aver tolto loro ogni possibilità d’azione politica, sindacale e culturale. E attraverso l’Azione cattolica e le sue organizzazioni, il regime vuol annientare le ultime e tenuissime larve di libertà che rimangono all’intero popolo. È dunque contro tutto il popolo italiano che è diretta la lotta selvaggia condotta dal governo fascista contro gli ebrei.

Coloro i quali si disinteressano della caccia agli ebrei, magari col pretesto che fra i perseguitati si trova qualche capitalista fascista, concorrente di altri più grandi capitalisti; coloro i quali si ritenessero “estranei” alla lotta contro i cattolici, magari col pretesto che qualche cardinale fascista ha chiamato Mussolini “l’inviato della provvidenza”, tutti costoro, farebbero il giuoco del fascismo; come lo fanno i trotskisti, come quel certo Bonanni, i quali - a questi chiari di luna e dopo le grandiose esperienze della Spagna e della Francia - trovano che i socialisti non avrebbero altro da fare che... rompere l’unità d’azione coi comunisti!

Difendendo gli ebrei italiani, difendendo i cattolici italiani e ciò che resta delle loro organizzazioni, noi difendiamo gli interessi ed i diritti più elementari alla vita, al lavoro, alla libertà, di tutto il popolo. Unendoci tutti, cattolici e non cattolici, ebrei e non ebrei, in questa lotta per i più sacri diritti atrocemente calpestati del nostro popolo, noi neutralizzeremo l’azione fascista di divisione e lavoreremo per opporre vittoriosamente il popolo unito alla dittatura fascista che lo insanguina e lo affama; noi difenderemo vittoriosamente la pace contro le guerre d’aggressione che conduce la dittatura fascista e contro la sua complicità con l’hitlerismo nella politica che proprio in questi giorni minaccia di scatenare una nuova guerra mondiale.

Difendendo gli ebrei boicottati, insultati, umiliati, sferzati a sangue dalla furia razzista del regime, noi difenderemo il patrimonio di civiltà del popolo italiano; impediremo che questo patrimonio venga completamente sommerso dalla barbarie fascista, che si vede costretta a cercare dei precedenti “giustificativi” nei secoli più oscuri del Medioevo.

Dobbiamo difendere i diritti inalienabili degli ebrei italiani, come cittadini italiani uguali a tutti gli altri, in Italia e sul terreno internazionale. In quest’ultimo campo, possiamo registrare un primo successo. Il segretario permanente della conferenza di Evian - la quale non aveva riconosciuto in pieno l’importanza del problema dei rifugiati italiani - ha deciso recentemente di riesaminare il problema, alla luce del fatto nuovo creato dal neo razzismo fascista. Durante la sessione attuale del consiglio della Società delle nazioni, una delegazione della democrazia italiana sarà ricevuta dai vari organismi competenti di Ginevra, ai quali chiederà che le più serie misure di tutela siano prese in favore degli ebrei e di tutti i rifugiati politici italiani.

La difesa degli ebrei e delle residue organizzazioni cattoliche è un aspetto importante della lotta del popolo contro le aggressioni in corso del fascismo in Spagna e in Etiopia; contro la nuova guerra mondiale che l’asse fascista sta per scatenare; è un aspetto della nostra lotta per la disfatta del fascismo e per la conquista della pace e della libertà in Italia, affinché il nostro paese torni ad essere un fattore di civiltà e di progresso nel mondo.