Chi solca il mare muta cielo, non animo. Un’irrequieta indolenza ci tormenta e andiamo per mari e per terre inseguendo la felicità. Ma ciò che insegui è qui, a Ulubre, non ti manca la ragione, di Orazio

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 05 /03 /2015 - 11:05 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un testo di Quinto Orazio Flacco (Hor., Ep. I, 11).

Il Centro culturale Gli scritti (5/3/2015)

Allora, Bullazio, che ne pensi di Chio, della decantata
Lesbo, dell'elegante Samo, della reggia di Creso a Sardi, e
di Colofone, di Smime? meglio o peggio della loro
fama? Nessuna, proprio, che valga il Tevere e il Campo Marzio?
o t'ha rapito il cuore una città di Attalo? o ti entusiasmi di
Lèbedo nauseato di viaggi e crociere?
Sai Lèbedo com'è: un villaggio piú deserto di Gabi e
Fidene; ma io lí vorrei vivere,
dimenticando i miei, dimenticato da loro,
e da riva guardare lontano il mare in burrasca.
Certo nessuno si propone, andando da Capua a Roma,
di passare la vita in una bettola; nessuno, intirizzito dal
freddo, ritiene il calore delle terme il culmine della felicità
terrena; neppure tu, se la violenza del vento t'avesse
travolto in mezzo al mare, venderesti la nave,
oltrepassato il mare Egeo.
Sano e salvo, la bellezza di Rodi e di Mitilene ti serve
come d'estate un mantello o un perizoma quando tira
aria di neve, un bagno nel Tevere d'inverno o un braciere
nel mese d'agosto. Finché è possibile e la fortuna ti
sorride, Chio e Rodi è bene lodarle da lontano, a Roma.
Qualunque ora lieta ti concedano gli dèi prendila con
riconoscenza, non rimandarne di anno in anno le gioie, e
si possa dire che in ogni situazione sei vissuto volentieri.
Se la logica della saggezza, e non un luogo da cui si
domina la distesa del mare, allontana gli affanni, chi solca
il mare muta cielo, non animo. Un’irrequieta indolenza ci
tormenta e andiamo per mari e per terre inseguendo la
felicità. Ma ciò che insegui è qui, a Ulubre, non ti manca la ragione.

Originale latino

Quid tibi visa Chios, Bullati, notaque Lesbos,
quid concinna Samos, quid Croesi regia Sardis,
Zmyrna quid et Colophon, maiora minorane fama?
cunctane prae campo et Tiberino flumine sordent?
an venit in votum Attalicis ex urbibus una?
an Lebedum laudas odio maris atque viarum?
Scis, Lebedus quid sit: Gabiis desertior atque
Fidenis vicus; tamen illic vivere vellem
oblitusque meorum, obliviscendus et illis
Neptunum procul e terra spectare furentem.
Sed neque qui Capua Romam petit, imbre lutoque
adspersus volet in caupona vivere; nec qui
frigus collegit, furnos et balnea laudat
ut fortunatam plene praestantia vitam;
nec si te validus iactaverit Auster in alto,
ideirco navem trans Aegaeum mare vendas.
Incolumi Rhodos et Mytilene pulchra facit quod
paenula solstitio, campestre nivalibus auris,
per brumam Tiberis, Sextili mense caminus.
Dum licet ac voltum servat Fortuna benignum,
Romae laudetur Samos et Chios et Rhodos absens.
Tu quamcumque deus tibi fortunaverit horam
grata sume manu neu dulcia differ in annum,
ut quocumque loco fueris, vixisse libenter
tu dicas: nam si ratio et prudentia curas,
non locus effusi late maris arbiter aufert,
caelum, non animum mutant, qui trans mare currunt.
Strenua nos exercet inertia: navibus atque
quadrigis petimus bene vivere. Quod petis, hic est,
est Ulubris, animus si te non deficit aequus.