Armeni, la lezione del genocidio, di Herman Vahramian

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 15 /03 /2015 - 14:27 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire del 4/3/2015 un testo di Herman Vahramian. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (15/3/2015)

Un protagonista della diaspora Herman Vahramian  nasce a Teheran il 29 novembre 1939 da genitori armeni. Artista, architetto, intellettuale, editore, è stato una delle voci più interessanti della diaspora armena in Italia e in Europa. È stato anche, a lungo, nostro collaboratore sviluppando acute analisi di geopolitica culturale. È morto a Milano nel 2009 dopo lunga malattia. Si era trasferito in Italia definitivamente nel 1965, a Roma, laureandosi architetto nel 1972. Subito dopo si trasferisce a Milano e fonda l’I/Com (Istituto per la ricerca e la diffusione delle culture non-dominanti); nel 1981, a Monaco di Baviera, l’Istituto Musicam; nel 1985 fonda le edizioni Oemme che pubblicano studi sul patrimonio artistico e culturale armeno. Nel 1995 nasce Pietro, suo figlio, a cui Vahramian dedica la sua ultima fatica, un singolare testamento spirituale e una consegna delle memorie che ora trova forma nel volume Libro per Pietro. Memorie per un figlio edito da Medusa in questi giorni (pp. 224, euro 18), dal quale anticipiamo un brano sul genocidio armeno.

A partire dall’VIII secolo il Medio Oriente divenne teatro di genocidi. Il genocidio e la “soluzione finale”, in quanto elementi risolutivi di una controversia politica e territoriale, divennero la regola. Persiani, georgiani, armeni, greci bizantini ecc. subirono numerosi massacri e/o genocidi – che ridussero di nove decimi il novero della popolazione vivente su quei territori. In epoca moderna, invece, i territori abitati dagli armeni divennero una sorta di “laboratorio sito in periferia”, assai proficuo per l’Occidente al fine di giungere, per mezzo del genocidio, alla soluzione finale di un problema, specialmente se le vittime si presentavano “ben pasciute” – come appunto accadde con gli ebrei europei. Nel 1932 Hitler a Vienna affermò: «Armenizzeremo i giudei». Il “lardo armeno” – compreso il petrolio di Baku e tutti i beni armeni sparsi nell’impero ottomano e lungo la Via della Seta – servì al governo turco-ottomano per finanziare la Prima grande guerra mondiale. La prima legge turca che cercava di “digerire” i beni depredati agli armeni risaliva al 13 settembre 1915. Più avanti nella storia, il “lardo ebraico” servì alla Germania per finanziare la Seconda guerra mondiale.

Le condizioni erano invero eccellenti. L’impero ottomano, ormai in declino, aveva varcato la soglia della trasformazione da vasto impero (comprendente segmenti di Caucaso, Anatolia, Grecia, Balcani, Mesopotamia, svariati litorali mediterranei ecc.) a Stato-nazione di dimensioni ben più ridotte. In questo sistema-nazione non vi era posto per elementi etnici che venivano considerati estranei. Inoltre le rivendicazioni indipendentiste armene, che si aggiungevano a quelle greche e poi curde, irachene, nestoriane, siriane, libiche, balcaniche e arabe in genere, rappresentavano una seria minaccia per la sopravvivenza territoriale della Turchia, ormai ridotta a una misera cosa. A quel punto, su ispirazione germanica e inglese, venne concepito, organizzato e messo in atto il primo tentativo dell’era contemporanea di genocidio su vasta scala – che fu, a dir poco, assai ben riuscito. Nel giugno 1915 Talaat Pascià, uno dei turchi che organizzarono il genocidio armeno, ebbe a dire: «Per volontà divina non ci sono più gli armeni». «Il massacro degli armeni è considerato come il primo genocidio del XX secolo» (sottocommissione Onu dei Diritti umani, 1973).

I massacri sistematici di armeni, perpetuati nell’arco dell’ultima decade del XIX secolo, sfociarono, a partire dal 1915 e fino a tutto il 1918, in un genocidio che sterminò tutti gli armeni che vivevano nel territorio della cosiddetta Armenia occidentale (vale a dire nell’odierna Turchia). La penisola anatolica (in greco anatolì, ossia “oriente”) venne svuotata dell’elemento armeno, ebreo, greco, mesopotamico, persiano ecc., “salvando” – sottoforma di “turchi di montagna” – i soli curdi, la cui sopravvivenza, come è noto, è oggi pure seriamente minacciata (35mila morti nell’ultima guerra civile). 

Nel seno di uno Stato-nazione i cosiddetti “elementi estranei” da sempre contribuiscono allo sviluppo e alla creazione della ricchezza, così come alla sua multiculturalità. Vedi l’esempio degli ebrei d’Europa (quanta povertà ha causato agli europei lo sterminio degli ebrei? Qualcheduno, munito di carta e penna, forse un giorno dovrebbe pur iniziare a fare un calcolo di questo tipo). Sarebbe impossibile paragonare la Istanbul di oggi alla Costantinopoli multirazziale e tollerante di un tempo, oppure Izmir alla Smirne greco-turco-armena, o Tbilisi a Tiflis, e poi Gerusalemme e soprattutto Beirut (ma che bella guerra civile interconfessionale...), Baku, Baghdad, Erevan, Algeri, Sarajevo alle città che furono nel loro passato. In tutti questi luoghi è penetrato come un vento sinistro il nazionalismo più torvo, più cieco, più aberrante, e spesso e volentieri assassino. Vietnam, Ruanda, Bosnia, Cecenia, Kurdistan, Cambogia, Darfur, Ossezia del Sud... Massacri o genocidi? La definizione è labile, la demarcazione incerta. Nel primo caso sono esclusi donne e bambini, nel secondo invece sono compresi. Diecimila, centomila, un milione e mezzo, quattro milioni di vietnamiti, cinque milioni di zingari e ancora sei milioni di ebrei sono tanti o pochi? Dipende... Comunque sia, stranamente, le immagini dei morti che ci sono arrivate e quotidianamente ancora ci arrivano attraverso i mass media – sotto qualsiasi cielo – sono simili tra loro, e inoltre i morti risultano del tutto indifferenti alla diffusione delle immagini dei loro cadaveri.

Viceversa, la memoria storica che si crea nella mente dei sopravvissuti, strano a dirsi, non rimane affatto indifferente. Basti come esempio l’accapponarsi della pelle in cui incorre un qualsiasi persiano contemporaneo – dopo quasi tredici secoli – di fronte all’“arabo” (in Iran la parola “arabo” definisce solo gli arabi sauditi; gli altri per i persiani sono iracheni, libanesi, siriani, libici ecc.); gli “arabi” di oggi sono pur sempre i discendenti di quegli arabi-islamici che in Iran fra il VII e il IX secolo si macchiarono di un genocidio quasi totale

Storicamente, dopo ogni soluzione finale resta un solo problema: il sopravvissuto. Da sempre politica, economia e potere sono anche questione di maggioranze e minoranze. Oggi che massacri e genocidi stanno diventando a poco a poco dei fatti comuni, quotidiani, da consumare comodamente seduti in poltrona con l’ausilio dei vari telegiornali serali, qual è il futuro che si prepara, quando ai sopravvissuti armeni, ebrei, bosniaci, ceceni, zingari, vietnamiti, ruandesi si aggiungeranno i tanti che nel mondo possono candidarsi come possibili oggetti di nuovi genocidi?