Israel sul Ddl della 'Buona Scuola': fumosità sconcertante. Non tutto quel che è nuovo è migliore del vecchio. Nei pedagogisti classici viveva ancora la preoccupazione per i contenuti, oggi il sapere è dissolto nel saper fare, peraltro non si sa bene cosa, di Giorgio Israel

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 29 /03 /2015 - 14:37 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito tuttoscuola.com un articolo di Giorgio Israel pubblicato il 24/3/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia. Per altri articoli dello stesso autore, cfr. il tag giorgio_israel.

Il Centro culturale Gli scritti (29/3/2015)

Il prof. Giorgio Israel, docente di storia della matematica alla Sapienza di Roma, interviene nel dibattito sul Disegno di legge attuativo della ‘Buona Scuola’, avviato da Tuttoscuola con le interviste a Giuseppe Bertagna  e ad Alessandra Cenerini, con un articolo, qui di seguito pubblicato,  che non mancherà di suscitare interesse e un confronto che ci auguriamo vivace e costruttivo.

Quanto più esamino il ddl della “buona scuola” tanto più mi ispira l’immagine di un nucleo duro – l’assunzione di un centinaio di migliaia di precari, a sua volta un nucleo non tanto “duro” – circondato da un alone confuso di propositi concernenti l’autonomia degli istituti e la valutazione degli insegnanti, già modificato più volte in corso d’opera e che non si sa come arriverà alla fine del percorso legislativo. Forse è cattiveria, ma è netta l’impressione che l’unica autentica esigenza sia quella di far fronte alla diffida europea concernente i precari con un provvedimento incartato entro una serie di altri propositi volti a “nobilitarlo” con la veste di una riforma globale e ambiziosa.

Come dicevamo, neppure quel nucleo è tanto duro perché non è ben chiaro quale sarà il numero finale dei assunti effettivi e addirittura se tale assunzione andrà oltre l’annuncio, data la ristrettezza dei tempi tecnici. Ma l’alone è di una fumosità sconcertante. Si tratta di una autonomia degli istituti tutta centrata sul ruolo dei dirigenti scolastici con l’ausilio  di alcuni loro collaboratori scelti non si sa bene come, valutati non si sa bene come, assieme ai loro capi di cui si predica la necessaria valutazione, non si sa bene come. Eppure questo è un nodo cruciale: è il confine che divide l’autonomia dall’arbitrio. Valga un esempio per tutti.

La stampa ha esaltato con un certa leggerezza la cacciata di un professore da parte di un dirigente scolastico, ma nulla è stato detto circa le ragioni di tale cacciata. Eppure questa era la questione centrale: un conto è se quel professore è stato cacciato perché insidiava le studentesse, un conto se è stato cacciato perché insegnava in modo “gentiliano” e non corrispondente alla ideologia che il Miur ha introdotto come elemento dirimente nella valutazione dei nuovi dirigenti scolastici nell’ultimo concorso. Nel primo caso, o analoghi, o in casi di documentata ignoranza e incompetenza, nulla da eccepire; nel secondo sarebbe uno scandalo. Ma di questo – della sostanza della questione – pare che non interessi a nessuno. Quel dirigente scolastico ha detto che un 3% circa dei docenti italiani sarebbe meritevole di cacciata. Non si sa su che basi abbia elaborato questa statistica, ma magari fosse così! Una scuola capace di emarginare anche quel modestissimo 3% sarebbe un modello per la nazione… Ma una scuola che cacci in base a una decisione di un dirigente scolastico del cui fondamento non interessi nulla a nessuno, sarebbe un modello disastroso. A ben vedere, la valutazione dei dirigenti scolastici dovrebbe venire prima di quella degli insegnanti.

Non meno inquietante è la figura di insegnanti “speciali”, i “mentor” e i “tutor” che rischiano, secondo un tipico vizio nazionale, di diventare figure inamovibili capaci di costituire delle vere e proprie “camarillas”, come ha dimostrato l’esperienza dei supervisori all’università.

In generale, molti dei propositi del Ddl richiedono mezzi che non si sa dove verranno trovati. Si pensi alla moltiplicazione di materie, in certi casi di per sé ragionevole ma che richiedono un equilibrio con le materie tradizionali, in altri casi irragionevole, come l’introduzione dell’insegnamento in lingua inglese in quarta e quinta primaria per cui non esistono competenze adeguate, neppure da lontano.

In un’intervista a Tuttoscuola, il prof. Bertagna ha messo in luce quelli che secondo lui sono alcuni modesti passi nella direzione giusta. Lo ha fatto con la coerenza che gli va riconosciuta e che ha come stella polare il progetto che ispirava la riforma Moratti. Ha parlato di passi avanti oltre una scuola ferma per molti aspetti alla fine e persino all’inizio dell’Ottocento. Ma non sarebbe più corretto giudicare secondo un principio di ragione? La pedagogia recente non è talora piena di sciocchezze che la fanno sfigurare rispetto a quella più lontana? Non tutto quel che è nuovo è migliore del vecchio. Ne sa qualcosa lo stesso Bertagna che ha indicato più volte il modello concettuale di Rousseau come riferimento ideale per una didattica moderna…

Una certa distanza dalla professione talora può aiutare a vedere la dinamica che sta modificando da almeno mezzo secolo i processi dell’insegnamento e che talora i pedagogisti non vedono. Da quando, sull’onda delle concezioni di Dewey, Montessori e Piaget (pur con tutte le loro differenze) la pedagogia si è aperta a un approccio “scientifico” essa si è fatta pian piano succube della psicologia “scientifica”, che l’ha svuotata come un uovo. Ne è venuta una progressiva riduzione alle forme più scientiste della psicologia, fino alla riduzione all’approccio neurologico e neuropsichiatrico, ben testimoniato dal peso crescente che sta assumendo la tematica dei disturbi di apprendimento e la medicalizzazione dell’insegnamento.

Se i pedagogisti si guardassero un poco attorno si renderebbero conto che del ruolo centrale che avevano nelle riforme scolastiche una trentina di anni fa non è rimasto quasi più nulla e il bastone di comando è passato nelle mani degli psicologi, dei neuropsichiatri, degli statistici e dei cosiddetti “economisti della scuola”. Quantomeno nei pedagogisti classici viveva ancora la preoccupazione per i contenuti dell’insegnamento, anche nelle forme estreme che predicavano la dissoluzione dell’impianto disciplinare in strutture “ologrammatiche”.

Oggi non resta più nulla di tutto questo, nessuna traccia “culturale”. Tutto è ridotto a metodologie e a tecniche di apprendimento/insegnamento il cui oggetto è del tutto irrilevante. Il sapere è dissolto nel saper fare, peraltro non si sa bene cosa. Se ci si ponesse il problema di quali figure di giovani vogliamo formare, ne discenderebbe una precisa conformazione dei percorsi scolastici da seguire: come strutturare i licei, come strutturare la formazione tecnica e professionale e i contenuti attorno a cui trasmettere le necessarie conoscenze e le capacità operative correlate. Nulla di tutto ciò. Il progetto della “buona scuola” è l’espressione più avanzata di tale distruzione della dimensione culturale e conoscitiva dell’insegnamento. Forse i pedagogisti, invece di rallegrarsi, dovrebbero guardarsi attorno più attentamente, percepire lo svuotamento crescente della loro funzione e chiedersi cosa sia stato fatto per arrivare a questo punto.