Libertà religiosa, libertà d’espressione, di Carlo Cardia

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 29 /03 /2015 - 23:07 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito la relazione tenuta dal prof. Carlo Cardia in occasione dei Dialoghi in Cattedrale 2015 il 24/3/2015, presso la Cattedrale di San Giovanni in Laterano in Roma. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (31/3/2015)

Quando diciamo libertà religiosa e d’espressione, pensiamo subito alle Vignette e alla satira, alla terribile strage di Parigi, alla violenza estrema contro i diritti di libertà. In parte è giusto, ma il tema è più ampio, dobbiamo guardare a un orizzonte più vasto. Dobbiamo farlo perché viviamo in una società multiculturale dove si moltiplicano le presenze religiose e non. Oggi la globalizzazione mischia le carte della storia, e della geografia, avvicina popolazioni che un tempo vivevano lontane, si guardavano a distanza, così si sopportavano meglio.

Ma quando i rapporti tra le religioni si fanno più vicini, le distanze si annullano, vediamo che molte cose non vanno, siamo meno tranquilli, scopriamo che esistono aree del pianeta, a noi vicine, in cui la libertà religiosa, nelle sue forme più elementari, è negata, violata, mentre ci illudiamo di trovarci nell’era dei diritti umani. Ma ci accorgiamo che anche da noi le cose non vanno. Dobbiamo prenderne coscienza, anche usando termini politicamente scorretti, specie se vogliamo migliorare tutti insieme.

Esistono delle tradizioni (quella islamica ma non solo), che prevedono una subalternità ontologica e sistematica per le altre religioni, colpiscono al cuore il loro diritto d’espressione. Il termine “dimmitudine” è quello usuale per indicare una subalternità totale, ma forse non ne conosciamo le dimensioni. Perché in Paesi a noi vicini la libertà religiosa è stata a lungo concepita come mera tolleranza per le comunità storiche di minoranza, ma senza alcun diritto di espansione: in alcuni Stati la diffusione del Vangelo è inibita, è consentita la lettura solo nei templi e nei riti (in qualche caso, alcuni passi scritturali non possono essere letti neanche in chiesa), ed è proibita ogni esibizione di simboli. Per secoli, in alcuni territori i templi cristiani o ebraici sono stati edificati in luoghi appartati, più bassi rispetto agli altri edifici quasi per non essere visti, in qualche caso sono interrati a metà, così si vedono ancora meno. E’ un uso antico, ma a volte vive ancora in alcune aree mediorientali, anche in Paesi come la Turchia, che noi giustamente consideriamo moderato.

Però, la sostanza di questa moderazione è poco conosciuta. La grande rivoluzione di Atatürk del primo Novecento portò alla caduta del Califfato e dei suoi apparati, e fece entrare quindi la Turchia nella modernità, ma non ha introdotto una vera laicità e libertà religiosa. Più che in passato, le confessioni diverse dalla islamica sono infime minoranze, senza riconoscimenti, non possono avere un giornale, un’emittente radio-televisiva, non sono titolari di immobili. Il Patriarca di Costantinopoli, pur con la sua importanza storica e internazionale, ha atteso anni per disporre d’un seminario di formazione pel clero. La globalizzazione ci apre gli occhi, ci dice che in tante parti del mondo le religioni di minoranza non hanno mezzi d’espressione, neanche quelli del diritto comune, sopravvivono senza poter esprimere la propria identità. Se questa è la condizione frequente delle Chiese, non ci stupiamo se dove prevale l’estremismo il reato di blasfemia è utilizzato per colpire persone e gruppi sociali, contro l’esibizione d’immagini sacre, accadono delitti per linciaggio, o stragi, per l’esplodere di una cieca intolleranza cieco.

C’è un terreno di coltura che facilita l’estremismo e la violenza di cui sono vittime i martiri, sempre più numerosi. Riflettiamo sul punto, prima di soffermarci sulla libertà religiosa nelle terre d’Occidente. La libertà d’espressione è un lusso inarrivabile per cristiani, ebrei, credenti d’ogni fede, che in tante parti del mondo, devono conquistare il diritto d’esistere, vivere con dignità. Riflettiamo, non siamo superficiali pensando che la Turchia possa entrare nell’Unione Europea così come è, con leggi e costumi che poco hanno a che fare con i diritti umani. Avremmo una Paese che non cambia il suo atteggiamento verso la libertà religiosa, ma contribuirebbe a scrivere le leggi valide per noi, per l’Europa. Diverso sarebbe se l’ingresso nella UE fosse il risultato di un cammino di riforme e di rinnovamento con al centro l’attuazione di una vera e piena libertà religiosa per tutte le religioni.    

Possiamo, invece, coltivare un sogno da realizzare con fatica: riunire le religioni del mondo perché si impegnino, si impegnino veramente, nel rispettare la libertà religiosa, in tutte le sue espressioni, nei territori del loro insediamento. Sarebbe una svolta storica decisiva per la pace tra gli uomini, e porterebbe il dialogo interreligioso oltre i confini della diplomazia nei quali a volte sembra limitato.

                                                                          * * *

Guardiamo adesso in casa nostra, nelle terre d’Occidente che sono culla dei diritti di libertà, dove il lungo cammino iniziato con il cristianesimo ha portato allo Stato laico moderno, e s’è concluso con le Carte internazionali dei diritti umani nelle quali primeggia la libertà di religione, pensiero, ed espressione: un traguardo che Hanna Arendt ha definito un Nuovo Sinai, un rinnovato Decalogo per la Terra, caduta nell’inferno dei diritti umani instaurato dai totalitarismi di destra e sinistra. Siamo sicuri che l’albero dei diritti umani abbia messo radici e dia tanti frutti come pensavano Schumann, De Gasperi, Roosevelt, e come pensavamo tutti noi che abbiamo studiato a scuola questi diritti? Guardate, non è così, non lo è per la libertà d’espressone religiosa, insidiata e contraddetta.

Qualche giorno fa su “Repubblica” un intellettuale erede del più puro giacobinismo, ha scritto che “la democrazia deve chiedere l’esilio di Dio”, ha aggiunto che “è inerente alla democrazia l’ostracismo di Dio, della sua parola e dei suoi simboli, da ogni luogo dove protagonista sia il cittadino: scuola compresa, e anzi scuola innanzitutto, poiché ambito della sua formazione. Al fedele restano chiese, moschee, sinagoghe, e la sfera privata “in interiore homine”. Si tratta di un paradosso? No, è la sintesi onesta di quanto si cerca di fare da almeno due decenni.

Da anni, legislatori, tribunali, documenti internazionali, cercano in alcuni Paesi di spegnere la voce pubblica della religione, enunciano il principio per cu l’espressione della religiosità vige solo a livello privato: in casa propria, negli edifici di culto. Fuori, nelle scuole, nelle attività sociali, nella dimensione pubblica, si deve tacere. Nei luoghi pubblici hanno voce solo culture e ideologie aliene; così, la concezione ottocentesca della religione come “affare privato” allunga la sua ombra sul mondo globalizzato con effetti grotteschi. Forse torniamo all’antico, quando i cristiani venivano chiusi nel tempio, ne uscivano solo silenziosi e inattivi. Cominciamo da cose all’apparenza minori. Di religione a scuola non si può parlare, né col corpo o l’abbigliamento, non si può portare il velo, il crocifisso, la stella di David, altro simbolo. In Francia s’è superata la paranoia, proibendo alle mamme che accompagnano i figli in gita scolastica di indossare alcun simbolo religioso. Se la Francia potesse, cancellerebbe simboli religiosi dovunque, sulla persona, nei luoghi pubblici, nei giardini o cimiteri.

La guerra alle forme espressive religiose è una guerra tutta nostra, d’ispirazione volterriana. Devo anche all’opera di alcuni miei collaboratori, la Prof.ssa Rita Benigni e il Prof. Stefano Testa Bappenheim, il censimento di un florilegio d’assurdità che si diffonde in Occidente e in Europa per silenziare la religione. Ne cito alcune, alla rinfusa. A Grenoble si vuole togliere una statua della Madonna da un giardino pubblico (dove sta da tempo) perché viola la laicité, e l’altro giorno s’è fatto ricorso perfino a François Hollande per far eseguire la decisione. In Inghilterra un’infermiera è licenziata perché porta al collo una catenina con crocifisso, che disturba pazienti di altre religioni. In Italia, Stati Uniti, e altrove, s’è cercato di eliminare le croci perfino dai cimiteri, ci si è fermati solo perché ci si è accorti che si tocca un punto nevralgico della psicologia popolare, non solo religiosa. Negli Stati Uniti, con esiti alterni, si cerca di cancellare le vestigia dei dieci comandamenti che nella tradizione protestante è molto forte. La guerra ai presepi è in pieno svolgimento ovunque; una volta il presepio s’è salvato in un villaggio degli USA perché nello stesso posto c’era anche il simbolo di un’altra religione: così, s’è detto ipocritamente, è salvo il pluralismo religioso. La guerra poi è entrata nel privato cancellando le cartoline con auguri natalizi, modificando la dizione delle festività natalizie e pasquali, in vacanze invernali e primaverili, quasi lo decidesse Valtour.

Voi tutti, infine, conoscete la battaglia che abbiamo fatto per salvare il Crocifisso nelle nostre scuole. Per incarico della Santa Sede e del Governo italiano, sono stato artefice della nostra vittoria presso la Grande Chambre di Strasburgo che sancì nel 2011 la piena legittimità della presenza del Crocifisso, e voglio ricordare due aspetti di quell’impegno. All’inizio nessuno credeva che avremmo vinto. Quando dico nessuno, penso anche a personalità importanti (pur convinte della nostra posizione), le quali erano come rassegnate rispetto ad un andamento laicista-francesizzante, che giudicavano irreversibile, quasi frutto di una maledizione. Sapete perché invece abbiamo vinto? Certo per la passione che s’è messa per evitare una somma ingiustizia. Ma anche perché feci presente, rivolgendomi alle capitali d’Europa, che dovevamo fare tutti attenzione: come primo effetto la sentenza avrebbe tolto il crocifisso dalle scuole italiane, ma poi sarebbe toccato ai simboli religiosi nelle scuole e edifici di tutti i Paesi, poi ancora alle bandiere di Stati (quelli protestanti del Nord Europa) che portano nei vessilli nazionali la croce. Anche perché, se lo studente italiano (secondo la tesi della prima sentenza) resta turbato di fronte al crocifisso, chissà cosa accadrebbe a un giovane militare britannico, norvegese, svedese, che deve rendere onore più volte al giorno a un vessillo che ha la croce (la bandiera inglese ne ha tre tutte insieme). Gli ambasciatori dei Paesi nordici, di quelli ortodossi (che temevano per la grande tradizione iconografica), hanno intravisto il pericolo, hanno partecipato alla controversia, alcuni costituendosi in giudizio, per difendere la tesi italiana.             

E’ questo il secondo argomento. Gli ambasciatori intravidero un rischio più ampio. Vedete, noi possiamo più o meno sorridere per alcuni episodi che ho riportato. Ma guardiamoli tutti insieme, pensiamo agli esiti di una strategia che cancelli ogni espressione religiosa dai luoghi pubblici. Saremmo di fronte alla più grande operazione di oscuramento delle religioni che si possa immaginare nelle terre dei diritti umani. Niente crocifissi, veli islamici, simboli religiosi, a scuola, in pubblico, negli spazi sociali d’ogni tipo, su bandiere, stendardi, stemmi di società, istituti, università, niente riti religiosi per eventi pubblici, nulla di nulla; assisteremmo alla distruzione dolce, o silenziamento violento, della voci religiose in ogni parte d’Occidente. La libertà d’espressione religiosa sarebbe limitata negli spazi chiusi dei templi (Chiesa, sinagoga, moschea), ma fuori i credenti dovrebbero tacere. Si potrebbe parlare a livello privato, ma solo “in interiore homine”. Con due risultati: gli altri, nel mondo, ci prenderebbero per matti; noi azzereremmo quelle carte internazionali proclamano la tutela del legame culturale e giuridico con le nostre tradizioni spirituali e morali, il rispetto della religione, delle sue espressioni.

Questo disegno è lo stesso della Pace di Westfalia (1648), che imponeva una religione di Stato, e dava libertà ad altre religioni ma in privato, nelle case, purché non occupassero spazi pubblici. Noi non abbiamo una religione di Stato? Non è vero, abbiamo un’ideologia di Stato cui ormai è riservato ogni spazio pubblico, mentre si sacrifica l’espressione della religiosità.

                                                                           * * *

La questione non si limita ai simboli, investe altre espressioni della religione, a cominciare dall’obiezione di coscienza. Veniamo da un Novecento che ha esaltato l’obiezione al servizio militare, dato spazio all’obiezione in campo sanitario, a tutela degli animali, il giuramento, le spese fiscali di tipo militare, ha accolto obiezioni minori e sorprendenti. Negli Stati Uniti si riconosce l’obiezione ai contributi pensionistici perché la Bibbia prevede l’obbligo per i giovani di assistere gli anziani, e la pensione libera da quest’obbligo ci pensa lo Stato. Bene, mentre l’obiezione di coscienza s’è affinata, da tempo l’ideologia di Stato ha deciso di ridurre ed eliminare la sua dimensione religiosa, che ormai conosce un declino irreversibile. 

La fase di declino ha un elemento comune. La coscienza religiosa non può più opporsi a nulla, perché ciò che le leggi decidono in tema di procreazione, famiglia, eutanasia, ecc., non è più una libera opzione per il singolo,  ma diviene valore positivo, cui si deve rendere onore, senza più potersi opporre. Allora si nega l’obiezione a sindaci e magistrati per il matrimonio omosex in Francia, Spagna, si nega l’obiezione per la c. d. “educazione alla cittadinanza” con cui i nuovi tipi di matrimonio, procreazione, adozione di minori a coppie non eterosessuali, sono esaltati come diritti della persona, fino all’estremo. In alcuni Paesi non è consentito l’esonero neanche per nuovi insegnamenti di sessualità, anch’essi obbligatori, di fatto veicoli delle teorie del gender. Infine, sta per cadere il diritto all’obiezione di coscienza nei confronti dell’aborto.

Cominciamo da questo punto. Sempre di più, si sviluppa in Europa una strategia contraria ad alcuni diritti umani che sono patrimonio prezioso contro ogni forma di totalitarismo. L’ha confermato l’approvazione nel Parlamento francese di una Risoluzione che eleva l’aborto a diritto fondamentale, e al Parlamento europeo di un Rapporto di contenuto analogo. Si apre un conflitto drammatico con le Carte dei diritti umani che pongono la tutela della vita a fondamento della società; un conflitto persino con le leggi che consentono l’interruzione della gravidanza, ma la considerano eccezione rispetto alla regola, un male minore, che non può mai superare certi confini di tempo e motivazione. Considerare l’aborto come diritto apre un baratro: si praticherà quando e come si vuole, senza limiti, non varrà l’obiezione di coscienza. Chi obietterà, s’opporrà all’esercizio di un diritto, entrerà in uno spazio giuridico negativo, fino a subire sanzioni.

Occorre riflettere su uno strappo che fa crollare una diga, che erode, poco per volta, le difese che il diritto delle genti ha predisposto a tutela dei deboli. I diritti della persona sono momenti alti del diritto, strumenti di uomini e donne per realizzarsi. Ma nell’aborto non c’è nulla di tutto ciò, è esattamente l’opposto di un diritto della persona. Chi vuole questo traguardo nega poi l’obiezione di coscienza in altri casi, crea una filiera di obblighi in continua crescita. L’obiezione è negata in Danimarca, ove la legge obbliga i pastori a celebrare matrimoni omosex; in Scozia sono obbligate le ostetriche a partecipare a procedure d’aborto, in Gran Bretagna s’impone a istituti religiosi di affidare i minori a coppie omosex. Dimenticando anche la Conv. discr. della donna (1979), “la maternità è una funzione sociale, uomini e donne hanno responsabilità comuni nella cura di allevare i figli”; la Dich. diritti del fanciullo (1959), “salvo circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non deve essere separato dalla madre”. Tutto ciò svanisce d’un tratto, alle strutture religiose s’impone di fare il contrario.

Di soglia in soglia, si aprono scenari nei quali persona e famiglia finiscono imprigionati. Il più recente prevede l’educazione sessuale obbligatoria nelle elementari, per la diffusione delle ideologie di gender, in contrasto con la Convenzione Europea del 1950: “lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche”. L’educazione dei figli è espressione altissima della libertà di religione. Eppure, in Germania le madri che rifiutano l’educazione sessuale per le figlie piccole sono fermate e denunciate.     

Oggi, si deve difendere il nucleo più intimo della genitorialità, la sua funzione educativa e formativa. In questa fase, il diritto del bambino si fonde con il diritto dei genitori a educarlo e formarlo. Un genitore che non educa è come un libro senza parole, un libro muto che nessuno potrà leggere. Invece, registriamo l’ingerenza nella funzione educativa, nell’intimità familiare, da parte di chi inserisce un cuneo tra scuola e famiglia, impone l’ideologia di gender e i suoi stereotipi fin dalla più tenera età. Conosciamo i tentativi di eliminare dalla modulistica ufficiale i termini di padre e madre, la diffusione a scuola di opuscoli con visioni sessuali avvilenti, contro la centralità del rapporto uomo-donna, della famiglia, nella vita personale.

Qualcuno ha superato il limite del grottesco, per insinuarsi nei momenti più intimi della vita familiare, quando i genitori sussurrano e raccontano ai bambini fiabe e allegorie, che parlano di tutto, del mondo della natura, di animali, principi e principesse, entità fantasiose, per accostare la mente dei più piccoli al mondo ricco e complesso che li attende. E c’è chi vuole intromettersi in questi attimi speciali del rapporto tra figli e genitori; s’insinua una specie di Dr. Stranamore dell’antropologia che vuole riscrivere le favole, e le deforma in ottica gender. L’obiettivo è terribile, sostituirsi al padre e alla madre per imporre un’educazione sessuale ambigua, insensata, a chi ancora deve prendere coscienza del mondo esterno. Queste grottesche ingerenze tradiscono un disegno di riscrittura ideologica della formazione giovanile, riflettono un progetto di espropriazione della funzione educativa, non lontana dalle prassi dei peggiori totalitarismi che creavano un’ideologia di stato, sottraendo i figli alla famiglia e ai genitori. E l’educazione, umana e religiosa, dei figli? Semplicemente, non può esprimersi.

                                                                         * * *

Veniamo dunque alle Vignette. Veniamo al punto in cui si tocca il lembo estremo del conflitto che divide oggi le religioni, meglio alcuni modi di vedere la religione. E’ tornato d’attualità l’uso della violenza in forme raccapriccianti che ci erano ignote, o conoscevamo solo dai libri di storia, con l’aggravante d’un’amplificazione mediatica mondiale, che ci impedirà di dire un giorno “non sapevamo”, forse non è vero ciò che si dice. Invece è tutto vero, sappiamo tutto, conosciamo perfettamente la violenza che esplode nei Paesi vicini a noi, Medio Oriente, Africa, Asia, viene importata nel cuore d’Europa, a Parigi, Copenaghen e in altre città.

Ci troviamo di fronte a una terribile asimmetria, tra chi ha ucciso con ferocia, e chi (in quel momento giustamente) s’è identificato con le vittime, per difenderne diritto alla vita e libertà d’espressione. In un bell’articolo sul Corriere Claudio Magris ha osservato che gli omicidi di Parigi non hanno attentato alla libertà d’espressione delle vittime ma al loro diritto alla vita, perché questo diritto sovrasta tutti gli altri, ne è come il presupposto.

E il primo problema è quello di combattere, impegnarci davvero in ogni modo, per estirpare questo istinto violento e omicida dal cuore di ciascuno, dalla religione nella quale si rifugia per trovarvi legittimazione. Non è facile, perché se è più agevole vivere separati gli uni dagli altri, governati da leggi diverse, con precisa valenza territoriale, meno facile è quando si mischiano le pagine della storia e dell’evoluzione, e si confondono su un territorio costumi differenti, alcuni fuori dei confini minimi di civiltà. Quel lungo processo di affinamento dei costumi, di sensibilità personale, spiritualità, che conosciamo, e ci viene dal cristianesimo (in altre parti dal buddismo o altre tradizioni religiose) non ha riguardato tutti i popoli del mondo, deve conquistare e convincere ancora importanti lembi di terra e interi Stati nazionali.

Però, se la condanna verso la violenza non può trovare attenuazione, dobbiamo riconoscere i nostri punti deboli, le follie altrui non ci assolvono dai nostri errori. Che si riducono a uno solo, credere che la libertà d’espressione non abbia confini, sia onnipotente. Penso il contrario, perché offendere, colpire, umiliare, anche in modo osceno le altrui convinzioni religiose, costituisce un autentico peccato capitale di quella cultura, o ideologia di Stato, che richiamavo prima, un veleno che s’è insinuato nella nostra mente. E’ arduo graduare i valori colpiti da questo veleno, li indico senza gerarchia. E’ colpito il cuore della società liberale che nasce per consentire la manifestazione di tutte le idee, religiose e non, mentre l’offesa e il dileggio declassano l’identità di una persona, cancellano il rispetto per le sue idee, feriscono l’eguale libertà che il liberalismo ha introdotto nella modernità. Non c’è eguale libertà se possiamo offendere gli altri e gli altri non possono offendere noi. Se tutti s’offendono reciprocamente, non siamo in una società liberale, siamo nell’anticamera di una guerra ideologica e religiosa.

Ma a essere colpito al cuore è anche quel decalogo dei diritti umani su cui, lo ricordavo prima, si fonda la società contemporanea, perché questo decalogo tutela nello spirito, e nella lettera, il rispetto della dignità della persona, chiede alle persone di vivere in spirito di fratellanza. Ma quale dignità posso avere se viene perfino teorizzato il diritto opposto di irridere, offendere, vilipendere, nel peggiore dei modi, le convinzioni religiose (sentimenti che le accompagnano) che sono parte integrante della mia personalità? Mi sono ripromesso, per quest’incontro, di non fare un discorso strettamente giuridico, di analisi normativa e giurisprudenziale. Un po’ perché queste analisi sono di solito noiose, un po’ perché il problema che abbiamo di fronte è di cultura e di civiltà, cioè di valori che il diritto dovrebbe recepire quasi naturaliter.

Voglio raccontare però un episodio di cui parlarono i giornali alcuni anni addietro. Quando un Tribunale in Italia assolse dal reato di bestemmia chi aveva offeso in modo greve la Madonna. La singolarità che si presentò non fu tanto nella interpretazione della norma, quanto nel fatto che il magistrato giustificò la sentenza dichiarando di aver studiato molto, consultando anche libri di teologia, per concludere che Maria non era una divinità, e quindi non si configurava il reato di bestemmia. Ovviamente, è buffo penare che nel Paese che è centro della cattolicità si debba studiare molto per capire che Maria non è paragonabile a Dio, ma soprattutto è singolare che non si dedichi una parola a quel sentimento religioso che, per i cattolici, ha in Maria un punto d’onore elevatissimo.

Qui veniamo al punto cruciale. Negli ordinamenti occidentali è considerato normale che le offese contro le religioni, le figure essenziali delle fedi, le convinzioni e sentimenti religiosi dei singoli, non trovino alcun limite, neanche quando raggiungono vertici insuperabili del dileggio più assurdo, e dell’osceno più osceno che si possa immaginare (non entro nei particolari, sappiamo tutti a cosa mi riferisco). E’ possibile una cosa del genere, è frutto di un cammino di civilizzazione e umanizzazione del costume, e delle relazioni di convivenza? E’ possibile solo se partiamo da un principio apertamente teorizzato da Georges Wolinski, per il quale “bisogna attribuire all’umorista la dimensione dell’irresponsabilità totale”. Non è un’opinione, oggi la satira è di fronte alla legge (non solo penale) totalmente irresponsabile, perché mai perseguita.

Riflettiamo un attimo su questa enormità, su una assurdità che supera tutte le altre, perché non esiste campo dell’agire umano che la legge consideri del tutto alieno dalla responsabilità. L’“irresponsabilità totale” è l’attributo più odioso e odiato del potere assoluto, anzi è sinonimo di “potere totalitario”, di un potere che fa degli altri ciò che vuole, senza vincolo di legge o morale, li emargina, li declassa, spesso li distrugge. Un giovane e intelligente filosofo (Riccardo De Benedetti) ha osservato che la satira riesce con la sua irresponsabilità totale a superare il valore della parola: l’immagine ottiene, in epoca mediatica, il più grande effetto blasfemo senza dire una sola parola. Però, sappiamo che una vignetta dice molto più che una parola, riassume a volte un discorso intero. Un discorso del tutto irresponsabile è un'altra assurdità che, dal profondo della nostra coscienza, sappiamo di non poter accettare.

L’irresponsabilità totale fa degenerare ogni cosa, anche la satira, una satira irresponsabile non è più arguta, ariosa, caustica, graffiante, diventa cattiva, triste, oscena, orribile. Essa ci conduce al traguardo definitivo, la libertà di parola spinta all’assoluto cancella ogni rispetto per l’altro, e provoca una formidabile regressione della libertà. Credo che possiamo dire nel modo più semplice che una parola, uno scritto, una vignetta, d’offesa violenta contro il senso  religioso degli altri non è protetta da alcun valore che ci proviene dal nostro umanesimo. Con essi si lancia un messaggio deprimente agli altri, a cominciare dai giovani: pensiamo ai giovani di tutte le razze, tradizioni e religioni, che ormai vivono nel nostro come in altri Paesi, che sono i primi a gioire del sorriso, e dell’irrisione, ma attenzione sono anche i primi a dolersi della bruttezza e dell’oscenità che sporca tutto.

Per questa ragione vorrei concludere con un pensiero espresso in un articolo di Julián Carrón sul Corriere della Sera, per il quale l’Europa “è uno spazio di libertà: che non vuol dire spazio vuoto, deserto di proposte di vita. Perché di nulla non si vive”. E il problema dell’Europa è se “essa saprà diventare finalmente il luogo di un incontro reale tra proposte di significato, pur diverse e molteplici”. Se questa riflessione sembra religiosamente impegnativa possiamo ricordare l’indicazione di un grande filosofo per il quale l’uomo deve agire nel rispetto degli altri, perché “la dignità che egli possiede è ciò che rende eguali tutte le persone”, è “un valore interiore assoluto”, e la libertà ha tra le sue finalità quella di rispettare la dignità di sé stessi e degli altri. Sono parole di Immanuel Kant, ai quali alcuni fanno ricorso solo quando quanto torna utile, eppure Kant ha molto a che vedere con la modernità liberale.