Cristo, l’atteso, senza il quale niente è completo, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 10 /05 /2015 - 14:32 pm | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

Il Centro culturale Gli scritti (10/5/2015)

M. Chagall, Albero di Jesse

Il Vangelo di Marco si presenta con un titolo programmatico: «Inizio del vangelo che è Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1). Prima di dire che Gesù è il Figlio di Dio afferma che Egli è il Cristo. Vuole sottolineare l’enorme importanza di quell’identità: essere il Messia. Se si volesse essere rigorosi, nessun ateo potrebbe pronunciare l’espressione “Gesù Cristo”, perché quel nome è una professione di fede: “Gesù è il Cristo”.

“Cristo” letteralmente vuol dire il “consacrato”, l’“unto con olio consacrante”, ma nel suo significato più profondo quel termine spalanca un’intera visione dell’universo perché dice che Gesù è l’“atteso”, è il “promesso” - e che quindi nel tempo è stata fatta al popolo di Dio una promessa per la quale gli ebrei sono in attesa, vivono di attesa.

Israele è testimone di speranza. Non vive schiacciato sul presente, ma guarda avanti al giorno in cui verrà il Messia, al giorno in cui giungerà l’ultimo inviato di Dio che solo lo rivelerà pienamente e che porterà nel mondo la pienezza della pace e della giustizia.

Nell’odierno Israele vivono diversi cattolici provenienti dall’ebraismo che celebrano la liturgia in lingua ebraica con un Messale approvato dalla Santa Sede. Le preghiera della Messa che terminano in italiano con «Te lo chiediamo per Gesù Cristo nostro Signore» suonano in quella liturgia «dereck Yeshua haMashiach», “per Gesù il Messia”, “per Gesù il Cristo”. È formidabile accorgersi, partecipando alla loro liturgia, che quegli ebrei divenuti cristiani riconoscono in Gesù il Messia atteso da secoli, il Messia atteso dai loro padri. Egli è finalmente venuto, perché Dio non promette invano.

Gesù è il Messia d’Israele, non esiste senza Israele. Dio ha scelto quel popolo per rivelarsi: è stato il suo metodo. Nella sua libertà ha scelto di rivelarsi progressivamente al popolo ebraico. Lo ha scelto non perché fosse un popolo militarmente più forte o con dei filosofi più saggi di quegli degli altri popoli o con dei poeti più capaci di comporre versi. Lo ha scelto nella sua piccolezza perché lo ha amato. Lo ha addirittura creato chiamando prima Abramo, poi Isacco e Giacobbe, ed, infine, liberandolo dalla morte certa con Mosè che lo ha guidato fuori dall’Egitto.

Dio ha scelto Israele non in dispregio di altri popoli, ma esattamente perché quel popolo iniziasse a rivelare agli altri popoli il vero volto di Dio. Dio sceglie sempre qualcuno a servizio di tutti. Ed ha aperto il cuore del suo popolo all’attesa del Messia, del Cristo, perché il suo popolo insegnasse agli uomini a non vedere nell’incompiutezza del presente una tragedia, bensì la promessa di un compimento che Dio, nella sua misericordia, non avrebbe mancato di realizzare.

Il vangelo di Matteo, dal canto suo, si apre con la genealogia di Gesù: «Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1). In essa Gesù è presentato come il Messia, come il discendente di Davide, come il discendente di Abramo, come il compimento di tutta la storia della salvezza. Non solo: le generazioni, perfettamente ordinate in 3 serie di 14, dicono che tutto nella storia era stato pensato come preparazione alla venuta di Gesù Cristo: in tutto quel succedersi di padri e figli, taluni anche gravemente peccatori, Dio aveva scritto diritto su righe storte perché il suo disegno era che si giungesse infine a quella nascita.

Quattro donne sono nominate nella genealogia, prima di Maria, e ciò che le unisce è il fatto che sono donne pagane, segno che Gesù non giunge solo per la stirpe di Israele, segno che nel suo sangue c’è anche sangue non ebreo. Egli è uomo, oltre che appartenere al popolo eletto. Ed infatti, nel Credo, noi professiamo che Dio si è fatto “uomo”, non che si è fatto “ebreo”.  

È come se Matteo ci dicesse con tale genealogia che non solo Israele è in attesa, ma che tutto l’universo è in attesa che Dio si riveli. Al mondo intero manca la rivelazione dell’amore di Dio.

Ogni cultura - così come ogni esistenza personale - è viva proprio perché è in attesa, perché sente che le manca qualcosa, perché avverte di non aver ancora raggiunto la propria pienezza.
Nel Vangelo di Giovanni è la donna samaritana che esclama: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa» (Gv 4,25).

Ed è ben per questo che il Vangelo non distrugge le culture esistenti, perché esso risponde alla loro incompletezza, alla loro attesa di pienezza che, da sole, non riescono a raggiungere.
Ma ecco che ora, annunciano i Vangeli, con l’arrivo dell’“atteso”, con la venuta del Cristo, finalmente il desiderio dell’uomo può essere esaudito.

Il Concilio ha scritto con parole meravigliose: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo» (GS 22). L’uomo è “mistero”, paradosso incapace di comprendersi, ma dinanzi al “mistero” di Dio fatto carne ecco che tutto trova il suo significato, il nascere ed il morire, l’amare e il soffrire il tradimento, il tempo e l’eternità, la carne ed il desiderio, la sofferenza e l’allegrezza.

Tutto ciò che è incompleto e in attesa può trovare la sua pienezza proprio perché in Gesù è Dio stesso a rivelarsi totalmente: la creatura incontra faccia a faccia il suo Creatore e Salvatore.

Ma perché tanta attesa, perché l’intera storia del popolo ebraico, perché l’intera storia dell’umanità, prima che Dio si faccia uomo? Può aiutarci il ricordo di ciò che avviene nella maturazione di un’amicizia. Due persone non diventano amiche d’un colpo. Una persona non apre il suo cuore all’altra al primo incontro. Antoine de Saint-Exupéry descrive il valore del tempo della preparazione nel maturare di un’amicizia nel suo meraviglioso Il piccolo principe:

«"Vieni a giocare con me", propose il piccolo principe alla volpe, “sono così triste”.
“Non posso giocare con te”, disse la volpe, "non sono addomesticata".
"Ah! scusa ", fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
"Che cosa vuol dire addomesticare?"
"Non sei di queste parti, tu", disse la volpe" che cosa cerchi?"
"Cerco gli uomini", disse il piccolo principe.
"Che cosa vuol dire addomesticare?" […]
"È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami…"
"Che bisogna fare?" domandò il piccolo principe.
"Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe.
"In principio tu ti sederai un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' più vicino…"».

Si potrebbe dire che l’Incarnazione è il momento nel quale Dio si è finalmente seduto a fianco dell’uomo, come la volpe ed il piccolo principe si sono “addomesticati” per poter sedere l’uno a fianco dell’altro. Dio si è via via “abituato” alla vicinanza con l’uomo e, soprattutto, ha preparato l’uomo alla sua vicinanza, passo dopo passo.

Il verbo “addomesticare” dell’edizione italiana de Il piccolo principe traduce l’originale francese “apprivoiser”, che vuol dire “rendere proprio”, “rendere intimo”. Dio è divenuto intimo dell’uomo. Credere che il Cristo è giunto vuol dire vivere ormai nella consapevolezza che la storia del rapporto fra Dio e l’uomo ha raggiunto il suo apice, perché Dio è ora in mezzo a noi, non è più il Dio lontano, irraggiungibile. È invece il Dio vicino, il Dio con noi.