Brani di difficile interpretazione della Bibbia, XXIV. «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20): l’ecclesiologia di Matteo nella riflessione di Gérard Rossé. Breve nota di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 26 /11 /2009 - 09:25 am | Permalink | Homepage
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Per altri testi di difficile interpretazione della Bibbia vedi la sezione Brani di difficile interpretazione della Bibbia.

Il centro culturale Gli scritti (25/11/2009)

Nel saggio L’ecclesiologia di Matteo. Interpretazione di Mt 18,20 [1], G. Rossé riprende un suo precedente e più ponderoso studio - Gesù in mezzo. Matteo 18,20 nell’esegesi contemporanea, Città Nuova, Roma, 1972 - aggiornandolo a partire dalle ricerche di H. Frankemölle [2]. Quest’ultimo ha convincentemente sostenuto come l’ecclesiologia di Matteo non sia stata elaborata in polemica con il giudaismo, quanto piuttosto a partire da una positiva rilettura cristologica del “Dio con noi” della tradizione veterotestamentaria. Se l’AT affermava che Dio dimorava in mezzo al suo popolo, questa verità è, in Matteo, “attualizzata e cristologizzata come presenza di Gesù in mezzo alla sua comunità” (Rossé 1987, p. 12).

Così scrive G. Rossé [3]:

«Matteo ha saputo integrare la teologia dell’alleanza nella sua ecclesiologia [4]: Gesù ormai realizza la presenza di Dio in mezzo al suo popolo; egli è il Dio-con-noi della comunità dei discepoli, chiamata però ad estendersi a tutte le nazioni (cfr. Mt 28,19ss).

In questa prospettiva, l’Antico Testamento illumina anche l’ecclesiologia matteana e ci permette di comprendere più profondamente ciò che significa per l’evangelista una tale presenza di Cristo nella sua Chiesa.

Innanzi tutto, egli non sviluppa considerazioni di tipo filosofico sull’onnipresenza divina, ma coglie la presenza del Risorto nella sua realtà dinamica di storia di Dio con il suo popolo: egli conduce la sua comunità, la assiste, la incoraggia e la corregge, la accompagna nel suo sforzo alla «giustizia più grande», la orienta verso la
Basileia come suo termine.

Come nella storia di Dio con Israele, la presenza dell’Emmanuele, fondamento dell’alleanza, è primordialmente una storia di relazione tra Cristo e la sua Chiesa. La presenza del Signore è costitutiva per l’esistenza stessa della comunità; essa fa la Chiesa come adunanza attorno a Gesù, realtà che Matteo descrive anche plasticamente in Mt 8,23-27; 21,14-16. Dunque “la permanente presenza di Gesù (cfr. 28,20; 18,20) presso la comunità è costitutiva per essa, come lo era la vicinanza di JHWH per il popolo dell’alleanza veterotestamentaria” [5].

Occorre allora capire le esigenze di Gesù formulate nei cinque grandi «discorsi» nella prospettiva del tema dell’alleanza. Esse hanno il valore che i comandamenti della Legge avevano per Israele. La loro osservanza garantiva la presenza di JHWH e poneva la comunità in esistenza come
Qehal JHWH».

Mt 18,20 - «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» - non è allora un testo secondario; il versetto esprime, invece, che la presenza di Dio nel suo popolo annunciata dall’AT, trova ora il suo compimento nella presenza di Cristo nella sua chiesa. Scrive a proposito il Rossé [6]:

«È chiaro che l’affermazione di Mt 18,20, ben lontana dall’essere un hors d’oeuvre, focalizza il punto centrale della teologia di Matteo, e non a caso appare nel “discorso comunitario” del c. 18, nel contesto della “Chiesa” (v. 17)».

E continua affermando [7]:

«Non c’è dubbio che per capire l’ecclesiologia di Matteo in tutte le sue conseguenze, bisogna partire dalla realtà di Gesù in mezzo ai suoi, interpretata alla luce della teologia dell’alleanza.
È il dato primordiale a partire dal quale l’evangelista riflette e ragiona, avverte ed esorta.
Questa sua concezione permette di cogliere al meglio il passaggio – inatteso – da affermazioni teo-logiche (Mt 18,18.19)
[N.d.R. cioè “Tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo” e “Se due di voi si accorderanno sulla terra per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà”] ad una dichiarazione cristologica (v. 20) che ha potuto far giudicare quest’ultima come un corpo estraneo caduto in questo capitolo. Matteo, in realtà, rimane conseguente con se stesso, poiché non fa che dare il fondamento cristologico alla relazione della comunità con Dio (vedi i due poli: «terra - Cielo» nei vv. 18.19).

Egli pone il rapporto della Chiesa con Dio sotto la realtà della presenza del Risorto in essa. Certo, per l’evangelista, Gesù non prende il posto di Dio, ma anzi egli realizza la presenza di JHWH in mezzo al suo popolo. Così facendo, Matteo inserisce l’insieme di questi versetti (vv. 15-20) nella sua teologia dell’Emmanuele. La presenza del Dio-con-noi dà alle decisioni della Chiesa tutto il loro valore presso Dio, ma nel contempo esige anche da parte della comunità un comportamento conforme alla «giustizia più grande».

Ecco l’intera affermazione di H. Frankemölle citata in precedenza: “La permanente presenza di Gesù (cfr.18,20; 28,20) presso la comunità è costitutiva per essa, come lo era la presenza di JHWH per il popolo dell’alleanza veterotestamentaria. Questa connotazione cristologica è, d’altra parte, non soltanto presupposto per l’esistenza stessa della
ekklesia, ma anche per il valore significante di tutte le sue funzioni. Cioè ogni agire (v. 19: ‘su qualsiasi cosa’, v. 18: ‘tutto ciò’) della comunità nella sua presenza acquista valore presso Dio” [8]. È così giustificata la lettura “cristologica” dei vv. 15-19. Per Matteo, la Chiesa (v. 17) si raduna nel nome di Gesù, nella certezza della sua prossimità. Nel suo sforzo di convincere il peccatore, nelle sue decisioni, nella sua preghiera, essa si poggia su tale presenza che garantisce il rapporto della comunità con il Padre [9].

Se viene ridata al tema della presenza di Cristo la posizione chiave che occupa nell’ecclesiologia di Matteo, potremo anche afferrare rettamente l’intenzione di fondo che guida la composizione del c. 18. Frankemölle osserva: “Il capitolo 18 riflette teologicamente sulla vera realtà dell’essere discepolo e della fratellanza. Per questo, il c. 18 non si riferisce ad una situazione concreta di una comunità determinata… Come negli altri discorsi, così nel c. 18 non si tratta di concreti rapporti comuni, ma di ordine fondamentale della
Basileia” [10] che, certo, si traduce in esigenze concrete».

Solo questa prospettiva cristologica permette di comprendere perché Matteo ricordi in maniera così forte l’insistenza di Gesù sul perdono, ma, al contempo, presenti la possibilità dell’esclusione di un fratello dalla comunità (“Se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come un pagano ed un pubblicano”) [11]:

«L’agire della Chiesa sotto il segno della presenza di Cristo, come viene richiesto dall’evangelista, spiega e giustifica un atteggiamento – nel c. 18 – che per diversi studiosi appare contraddittorio: pur insistendo sul recupero del fratello peccatore (la cura per i piccoli, la preghiera in unità, il perdono obbligatorio e illimitato), Matteo mantiene e convalida la regola disciplinare e quindi la possibilità dell’esclusione. La difficoltà si rivolge se viene compresa nel contesto di una teologia dell’alleanza nel quale si muove l’ecclesiologia mattana. È infatti essenziale salvaguardare la “fratellanza” come espressione della Chiesa costituita dalla presenza di Gesù. Di qui l’assoluto obbligo di prendersi cura del fratello più debole, di non scandalizzare, di non accettare che qualcuno si perda, la necessità del perdono senza misura, ma anche, in casi estremi, in casi di invincibile ostinazione, l’esclusione della comunità. Il fratello che persiste nel peccato rinuncia alla condizione dell’essere-discepolo, rompe con Cristo presente e contraddice l’identità della comunità come realtà di fratellanza attorno a Gesù.

Matteo sa che il peccato è inevitabile nella vita della comunità; non si fa illusioni su questo punto. Nel tempo della storia, la Chiesa è un corpus mixtum, e soltanto il Figlio dell’uomo, al momento della parusia, costituirà la Chiesa delle nazioni nella sua purezza definitiva (cfr. Mt 13,30; 25,32ss). Ciò non significa che il peccato sia un minor male, e per questo tollerato. Perché fatto in una comunità che riceve la sua identità ed esistenza dalla presenza del Risorto in mezzo ad essa, ogni peccato – grave e patente – anche se non è direttamente un’offesa contro un fratello, esige da parte dei membri della Chiesa un’azione concreta di riconciliazione, un comportamento che ristabilisca la “fratellanza”, e cioè attui la condizione per la presenza di Gesù in essa (cfr. Mt 5,23; 18,15)
».

Su Mt 18,20 si soffermò anche l’allora cardinal Ratzinger, in un importante testo [12]:

«Se gli ortodossi partono dal vescovo e dalla comunità eucaristica da lui guidata, il punto di avvio della posizione riformata resta la Parola: la Parola di Dio riunisce gli uomini e crea la “comunità”. L'annuncio del vangelo, essi dicono, genera l'assemblea, e quest'assemblea è “Chiesa”. In altre parole: la Chiesa come istituzione non ha in questa prospettiva alcun rilievo propriamente teologico; teologicamente significativa è soltanto la comunità, perché ciò che importa è solo la Parola. Questa idea della comunità viene oggi volentieri ricollegata al logion di Gesù nel vangelo di Matteo: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (18,20). Si potrebbe quasi dire che questa parola per molti ha oggi sostituito, come parola fondativa della Chiesa e come definizione della sua natura, il logion della pietra, del potere delle chiavi. L'idea allora è: il riunirsi in nome di Gesù genera di per se stesso la Chiesa; è l'atto indipendente da tutte le istituzioni nel quale la Chiesa nasce sempre di nuovo. La Chiesa non viene concepita come episcopale ma come congregazionista. Ora non occorre più riferirsi all'esclusività della Parola, bensì da questo principio si trae la conclusione: l'assemblea, che in tal modo è divenuta comunità, ha in sé tutti i poteri della Chiesa, dunque anche quello della celebrazione eucaristica. La Chiesa, come si usa dire, diviene “dal basso”; è essa che forma se stessa. Ma con questo approccio si perdono inevitabilmente la sua natura pubblica e il suo esteso carattere di riconciliazione quale si presenta nel principio episcopale e che deriva dalla natura dell'eucaristia. La Chiesa diviene gruppo, tenuta insieme dal suo consenso interno, mentre la sua dimensione cattolica si sgretola. [...]
In altre parole: nell’eucaristia non posso in alcun modo voler comunicare esclusivamente con Gesù. Egli si è dato un corpo. Chi comunica con lui comunica necessariamente con tutti i suoi fratelli e sorelle che sono divenuti membra dell’unico corpo. Tale è la portata del mistero di Cristo, che la communio include anche la dimensione della cattolicità. O è cattolica, o non è affatto
».

Nella riflessione teologica del cardinal Ratzinger è evidente che Mt 18,20 non può essere semplicisticamente letto in senso assemblearistico. La densità cristologica di Mt 18,20 – vista nell’ottica del “Dio-con-noi” dal Rossé – riceve qui concretizzazione nella sottolineatura della presenza del Cristo nella Parola e nell’eucarestia.

NOTE AL TESTO

[1] G. Rossé, L’ecclesiologia di Matteo. Interpretazione di Mt 18,20, Città nuova, Roma, 1987.
[2] H. Frankemölle, Jahwe-Bund und Kirche Christi, Aschendorff, Münster, 1974.
[3] G. Rossé, L’ecclesiologia di Matteo. Interpretazione di Mt 18,20, Città nuova, Roma, 1987, pp. 105-106.
[4] H. Frankemölle, Jahwe-Bund und Kirche Christi, Aschendorff, Münster, 1974, p. 80.
[5] H. Frankemölle, Jahwe-Bund und Kirche Christi, Aschendorff, Münster, 1974, p. 229.
[6] G. Rossé, L’ecclesiologia di Matteo. Interpretazione di Mt 18,20, Città nuova, Roma, 1987, p. 106.
[7] G. Rossé, L’ecclesiologia di Matteo. Interpretazione di Mt 18,20, Città nuova, Roma, 1987, pp. 107-108.
[8] H. Frankemölle, Jahwe-Bund und Kirche Christi, Aschendorff, Münster, 1974, pp. 229s.
[9] «Nella Teologia matteana, la cristologia è il presupposto dell’ecclesiologia, e soltanto nella relazione reciproca delle due, le decisioni della ekklesia sono portate e confermate dalla teo-logia (v. 18ss: “in Cielo” - “nei Cieli”)», H. Frankemölle, Jahwe-Bund und Kirche Christi, Aschendorff, Münster, 1974, p. 230.
[10] H. Frankemölle, Jahwe-Bund und Kirche Christi, Aschendorff, Münster, 1974, pp. 181.
[11] G. Rossé, L’ecclesiologia di Matteo. Interpretazione di Mt 18,20, Città nuova, Roma, 1987, pp. 109-110.
[12] J. Ratzinger, Chiesa universale e Chiesa locale. Il compito del vescovo, in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pp. 59-60.