1/ Dal fitness al fast food, siamo sempre più dissociati dalla carne, di Fabrice Hadjadj 2/ La sfida dell'innovazione? Il perfezionamento del pulsionale, di Fabrice Hadjadj 3/ Viva la vita crudele e sessista. Un’intervista di Rodolfo Casadei a Fabrice Hadjadj

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 24 /11 /2015 - 00:01 am | Permalink | Homepage
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1/ Dal fitness al fast food, siamo sempre più dissociati dalla carne, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire dell’1/11/2015 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (24/11/2015)

Nel suo libro Une question de taille Olivier Rey ha inserito una foto molto suggestiva: due individui un po' sovrappeso, in pantaloncini, prendono una scala mobile per recarsi in una sala fitness. Se ne deduce che in quella sala troveranno un «simulatore di scale» grazie al quale saliranno scalini che non li condurranno mai da nessuna parte ma che elimineranno un po' della pinguedine risultante da una vita troppo comoda.

Ho conosciuto io stesso una situazione simile quando abitavo a New York: prendevo l'ascensore per salire fino al mio appartamento al 27esimo piano, poi subito lo riprendevo per andare al secondo piano seminterrato dove luccicavano biciclette pedalanti a vuoto, tapis roulant che mutano la corsa in calpestio, remi da galeotto senza alcun piacere nautico e infine, soprattutto, il nostro apparecchio, lo Stairmaster – Scala Santa della nuova religione, di un progresso che è l'apoteosi del surplace, di una società che si sviluppa attraverso la dissociazione.

Questa dissociazione si ritrova dappertutto – di certo specialmente nelle nostre mutande. Ormai è ovvio che il sesso deve essere dissociato in copula e procreazione, per trovare da una parte un vero divertimento nel piacere e avere dall'altra una seria ingegneria dell'umano.

La tavola non è da meno del letto nel conoscere questa divisione: ciascuno consuma da solo il fast food adeguato alla propria dieta e conversa con amici che non sono più commensali. Del resto, la conversazione, chiamata chat, è essa stessa dissociata: le parole sono interamente separate dagli sputacchi e da ogni altra presenza carnale.

Parola che conviene dissociare a sua volta: da una parte, la comunicazione veloce, efficace, che si esprime con smiley e LOL preregistrati; dall'altra, eventualmente, il pensiero, da lasciare preferibilmente a specialisti reazionari.

Una volta dissociate e semplificate queste attività, la frustrazione è tale che le si giustappone immediatamente nel multitasking. Si usa il simulatore di scale mentre si guarda su uno schermo un thriller ambientato sull'Everest, tenendo d'occhio in un angolino le quotazioni della borsa; si comunica con un «amico» tramite What's App e contemporaneamente si partecipa a una partita di poker online con altri sconosciuti mentre un concerto di Mozart va in sottofondo, il tutto stando seduti sulla tavoletta del cesso.

Purtroppo questa giustapposizione non genera una sinfonia, così come un mucchio di membra suddivise non ricostituisce un corpo vivente. Da dove viene questa china generale verso la dissociazione?

Dalla divisione tayloriana che separa la concezione dall'esecuzione e poi suddivide l'esecuzione stessa in una serie di compiti che dovrebbero migliorare la produttività degradando il lavoro?

Dalla visione scientifica moderna che disintegra l'organismo in una molteplicità di funzioni analizzabili, o decompone la forma concreta in una moltitudine di elementi (geni, neuroni, atomi…) ricombinabili a piacere?

Dall'economia di mercato che ha interesse a che non si viva dell'opera delle proprie mani e non si sia contenti di una serata intorno a un fuoco, cose che le impedirebbero di venderci i suoi piatti " equi " e multimediali? Da tutto questo, probabilmente. E da altro ancora che si potrebbe chiamare la «perdita di finalità».

Perché la prima dissociazione è quella che separa i mezzi dai fini, dopo aver separato i fini dal Fine ultimo. Quando si ignora il quadro radioso che essi costituiscono, è normale che i pezzi del puzzle si scompongano e che il gioco diventi solo quello di impilarli e di moltiplicarli senza fine, frammentando ancora tutto il resto. Quando si ignora l'immagine divina che costituisce la nostra vita in questa carne sessuata e mortale, è normale che ci si dislochi, ci si sparpagli, ci si aumenti meccanicamente, fino a ridurre in briciole tutto ciò che ci circonda.

2/ La sfida dell'innovazione? Il perfezionamento del pulsionale, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 25/10/2015 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (15/11/2015)

Una vignetta molto popolare mostra l'uomo che perde la posizione eretta e regredisce verso la postura dello scimpanzé fino a ritrovarsi ricurvo davanti a una tastiera e uno schermo. Trovo questa immagine molto sgarbata nei confronti delle scimmie le quali, sia detto a loro difesa, hanno finora dato sempre prova di quel sano e solido realismo intellettuale che fa preferire una vera banana a qualsiasi meraviglia digitale.

Non posso però fare a meno di ammettere che una certa bestialità covi sotto la più alta raffinatezza tecnologica. Ho visto persone, la cui appartenenza alla specie “animale razionale” non era minimamente in discussione, mettersi d'improvviso a insultare un computer e pure a colpirlo sul disco rigido (cosa che sarà presto condannata dalla corte europea dei diritti del cyborg) solo perché un comando dell'apparecchio non rispondeva più o perché il processore funzionava al rallentatore. E di fronte al piccolo simbolo che gira e gira senza fine, il pacifico internauta si trasforma in un fascio di nervi al cui confronto un pitbull inferocito presenta ancora un comportamento abbastanza coerente e flemmatico.

Compatisco profondamente l'infelicità di questo povero animale che non è più abbastanza umano per conservare la ragione e che lo è ancora troppo per ritrovare l'istinto. Come definire ciò che gli capita? Lui dice di avere “sbroccato” (attestando così di essere caduto più in basso di una bestia). Ma si potrebbe più obiettivamente dire che il poveretto ha “perso il controllo”, inconveniente che può capitare solamente a chi l'abbia innanzitutto voluto quel controllo, e un controllo tale che basti appena schioccare le dita perché il mondo sia immediatamente al suo servizio.

In fin dei conti, qual è la virtù umana che spinge a incrementare la sofisticazione degli apparecchi che ci circondano? L'impazienza, essenzialmente. Il destino del contadino di ieri era invece quello di essere paziente: non poteva affrettare il germogliare delle piante. Anche il cacciatore dell'altro ieri si muoveva in un ambiente tecnico che affinava la sua resistenza: seguiva le tracce della preda, sapeva restare per molto tempo alla posta dietro un cespuglio.

Che dire del consumatore di oggi? Il progresso dei suoi strumenti, dalla grande distribuzione fino al microchip, consiste nel mettergli tutto sempre più a portata di clic. Deve soltanto premere un bottone per ottenere senza attesa né preghiera. Le pubblicità ne fanno continuamente la dimostrazione vantando i benefici di oggetti che permettono di andare sempre più rapidamente, più facilmente, più comodamente; e questo per l'utente significa diventare sempre più impulsivo, più irritabile, più delicato.

Fintantoché le macchine funzionano e sembrano ubbidirci al primo colpo non ci accorgiamo della dipendenza e dell'impulsività che esse causano. Ma appena smettono di funzionare, la violenza che avevano nutrito e al tempo stesso contenuto si manifesta brutalmente – tanto più brutalmente quanto era dissimulata sotto una cordialità meccanica.

È questo il tema affrontato nei romanzi di J. G. Ballard: un mondo cosy –confortevole –, ultramoderno, che corre sui binari di una socialità automatizzata e che deraglia all'improvviso in una barbarie tale da terrorizzare i barbari di un tempo (che almeno avevano dei costumi). In High-rise, che è stato da pochissimo adattato per il cinema, basta un blackout elettrico affinché i bravi abitanti medici o architetti di un palazzo ultra-sofisticato si ritrovino presto in guerre tribali, nel cannibalismo e nell'incesto. Ecco l'orizzonte dell'innovazione: la fabbricazione e il perfezionamento del pulsionale.

3/ Viva la vita crudele e sessista. Un’intervista di Rodolfo Casadei a Fabrice Hadjadj

Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un’intervista di Rodolfo Casadei a Fabrice Hadjadj pubblicata il 9/11/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (15/11/2015)

A lavori del Sinodo sulla famiglia conclusi, abbiamo avuto l’opportunità di dialogare con Fabrice Hadjadj, il filosofo francese autore di Ma che cos’è una famiglia? (edizioni Ares). Ecco la sintesi del colloquio.

Fabrice Hadjadj, che ne pensa del Sinodo sulla famiglia appena concluso e della eco che hanno avuto alcuni degli argomenti dibattuti nel suo corso?

Il Sinodo ha invitato al discernimento, a discernere la situazione nuova in cui si trova l’essere umano e a recuperare l’insegnamento della Humanae Vitae, la profetica enciclica di Paolo VI dove si legge che «l’uomo ha compiuto progressi stupendi nel dominio e nell’organizzazione razionale delle forze della natura, così che si sforza di estendere questo dominio al suo stesso essere globale; al corpo, alla vita psichica, alla vita sociale, e perfino alle leggi che regolano la trasmissione della vita».

Il dominio tecnologico ha portato con sé degli interrogativi che mai l’umanità si era dovuta porre. Ciò che per gli antichi era semplicemente necessità, per noi è diventato o sta diventando scelta. Volete invecchiare o restare giovani? Volete morire o vivere per sempre? Volete dei figli per la via sessuale, con tutti i rischi connessi per la loro salute e la casualità del loro patrimonio genetico, o volete avere figli sani e forti, selezionati in laboratorio? Volete restare nel vostro corpo di carne o volete moltiplicare i vostri alter ego virtuali?

I filosofi e la Chiesa non hanno mai dovuto legittimare il fatto che si muore o il fatto che si nasce da un uomo e da una donna: erano evidenze. Oggi chi cerca di legittimare la sofferenza, la vecchiaia, la morte è giudicato crudele. E siccome la Chiesa continua a fare questo, è considerata il luogo della crudeltà e non della compassione. La compassione sta dalla parte della tecnologia: un bambino geneticamente selezionato attraverso le biotecnologie sarà più sano e potrà meglio integrarsi nella società; un bambino che nasce benché portatore di handicap come esige la Chiesa soffrirà. Noi cristiani siamo i più crudeli di tutti, perché vogliamo che la gente continui a soffrire e a morire.

Messa così, non si vede nessuna via di scampo…

Non siamo alla ricerca di soluzioni. Se cerchiamo la ricetta per la buona famiglia cristiana, abbiamo già sbagliato: ci siamo fatti assorbire anche noi dal paradigma tecno-economico. Proviamo a partire da quello che papa Francesco dice nella Laudato si’, dalla sua critica radicale del paradigma tecno-economico: lui dice che solo se cambiamo modo di vivere possiamo resistere. E per esempio al paragrafo numero 120 scrive: «Non è neppure compatibile la difesa della natura con la giustificazione dell’aborto. Non appare praticabile un cammino educativo per l’accoglienza degli esseri deboli che ci circondano, che a volte sono molesti o importuni, quando non si dà protezione a un embrione umano benché il suo arrivo sia causa di disagi e difficoltà: “Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (Caritas in veritate, n. 28)». Che significa smettere di parlare della famiglia in termini di valori, e cominciare a parlarne come vita, cioè come luogo di drammi, fallimenti e misericordia.

Oggi tutti valorizzano la famiglia: cristiani, non cristiani, attivisti Lgbt. Ma in questo modo i valori diventano nichilisti, perché esprimono una concezione del bene separata dall’essere. Se diciamo che la famiglia è il luogo dell’amore, dell’educazione e della libertà, stiamo dicendo che la famiglia in sé non ha valore, e che è qualcos’altro che le conferisce valore. Amore, educazione e libertà si trovano anche in un orfanotrofio di alto livello, che disponga di uno staff di professionisti appassionati! Quando noi cristiani abbiamo cominciato a tematizzare il bene del bambino, abbiamo contribuito a distruggere la famiglia. Perché abbiamo separato il bene del bambino dall’essere del bambino, che coincide col suo essere generato.

Bisogna accettare la famiglia nel suo essere, e non cercare soluzioni per la famiglia. La famiglia è vita, e non ci sono soluzioni per la vita, perché la vita non è un problema, la vita è dono e mistero: non è qualcosa che abbiamo costruito noi, quindi sfugge ai nostri progetti, ai nostri programmi. Nella famiglia che nasce dalla sessualità il padre esercita un’autorità senza competenza, perché ha generato il figlio senza certificare le proprie competenze pedagogiche, e la madre ha concepito in un’ottica di fiducia senza controllo, perché il figlio è cresciuto dentro di lei senza che decidesse lei le sue qualità. Da ciò derivano fatiche, fallimenti, divisioni dentro la famiglia. Allora perché non razionalizzare il tutto attraverso la tecnica (le biotecnologie)? Perché quello che ne verrebbe fuori non sarebbe più vita, ma una programmazione della vita. Padre e madre trasmettono la vita, non la comprensione che essi hanno della vita. Per questo il figlio non è un prodotto sul quale hanno un controllo, ma un altro che sta davanti a loro. Ed è per questo che i drammi della famiglia sono senza soluzione. Ed è ancora per questo che la famiglia è il luogo privilegiato dove l’essere umano fa esperienza della misericordia: ci può essere misericordia solo là dove c’è miseria.

Quand’è che abbiamo cominciato a separare il bene dall’essere, quindi anche i valori dalla vita, dalla famiglia?

Molto presto, già nel giardino dell’Eden. Quel che accade col peccato originale, è anzitutto la dimenticanza dell’albero della vita. Il suo posto viene preso dall’albero della conoscenza del bene e del male. Che il serpente riesca a confondere Eva si capisce dal fatto che lei gli risponde: «Del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma l’albero che Dio ha chiesto di non toccare è quello della conoscenza del bene e del male, non quello della vita che è al centro del giardino dell’Eden! Prima ancora che abbia luogo la disobbedienza, la caduta, il serpente è riuscito a spostare l’attenzione dalla vita alla conoscenza. Dalla genealogia alla logica. E la storia del pensiero umano è consistita in un assorbimento del genealogico nel logico, fino ad arrivare all’affermazione dell’individuo autonomo. Che non è più figlio, non è più uomo o donna: è individuo. È soggetto autonomo senza filiazione e senza sessuazione.

L’ultima manifestazione dell’assorbimento del genealogico nel logico è il dominio del tecnologico. Il tecnologico è l’ultima maniera di sbarazzarsi del genealogico, perché presto saremo in grado di produrre esseri umani: fabbricheremo bambini e cyborg. Credo che si possa rileggere tutta la storia della filosofia a partire dal peccato originale e dal fatto che l’albero della conoscenza del bene e del male prende il sopravvento sull’albero della vita e diventa più centrale di esso.

Il sottotitolo del suo ultimo libro, L’aubaine d’être né en ce temps, recita: Pour un apostolat de l’Apocalypse. Lei è convinto che stiamo vivendo gli ultimi tempi dell’umanità?

Non mi avventuro in pronostici visionari alla Nostradamus, stiamo semplicemente ai fatti. Oggi disponiamo di una capacità di autodistruzione totale che in passato non avevamo. Attraverso le cosiddette tecnologie convergenti abbiamo la possibilità di una mutazione totale dell’umanità. Le condizioni climatiche e la situazione ecologica possono sfociare in distruzioni enormi. Non ci troviamo necessariamente alla fine dei tempi, ma siamo entrati in tempi che assomigliano alla fine dei tempi. La questione della fine, della scomparsa dell’umanità, è diventata una questione ordinaria, di cui tutti parlano.

Ma quando dico Apocalisse non dico semplicemente catastrofe. Dico anche svelamento. La parola Apocalisse dice un periodo di grandi catastrofi globali, ma allo stesso tempo di rivelazione (vedi il significato della parola greca, ndr). Questo tempo di rivelazione è un periodo straordinario per noi cristiani. In passato non abbiamo riflettuto tanto sulla verità della carne e della famiglia. Ma adesso è un dovere, perché i nostri tempi sono apocalittici. Come scrive san Paolo: «È necessario che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi» (1Cor 11,19). È necessario che appaiano eresie, perché le eresie ci mettono alla prova e aiutano il disvelarsi del Mistero. Infatti quello che oggi succede all’interno della catastrofe di attacchi di una violenza inaudita per trasformare le radici stesse della generazione, è che improvvisamente il mistero della nostra origine carnale e sessuale diventa molto più evidente, e ci costringe per la prima volta a pensare cose che non avevamo mai pensato prima, perché erano delle evidenze. Ora che queste evidenze sono messe in discussione, ha luogo una rivelazione.

Notiamo che tutto il magistero recente della Chiesa si concentra su questo tema. Prima Giovanni Paolo II, poi Benedetto XVI e ora papa Francesco, ciascuno secondo il suo carisma. Nella Laudato si’ Francesco indica la famiglia come il punto di partenza di un’ecologia integrale e suggerisce che la capacità di accogliere la nascita è più importante che l’innovazione. Se non sono più capace di accogliere la nascita, mi getterò non più sulla novità della nascita, ma sulla novità dell’innovazione, e a quel punto finirò per introdurre un tipo di progresso che è quello che distrugge la natura. È la famiglia come luogo della nascita che permette di resistere alla fabbrica come luogo dell’innovazione e al paradigma tecno-economico che mette in pericolo l’ecosistema.