Cara CirinnĂ , i diritti non si inventano, di Rossano Salini

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 15 /02 /2016 - 09:58 am | Permalink | Homepage
- Tag usati:
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo dal sito http://www.informatore.eu/ un articolo pubblicato il 4/2/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender nella sezione Carità, giustizia e annunzio. In particolare, cfr. Il ddl Cirinnà. Considerazioni giuridiche e non solo sulle unioni civili, di Andrea Lonardo e Dal ddl Cirinnà al Cirinnà bis. Dissimulare la questione delle adozioni è peggio: dall’articolo 14 al nuovo articolo 5, di Andrea Lonardo

Il Centro culturale Gli scritti (15/2/2016)

Non sempre i social network sono luoghi di distrazione e di futili discussioni. A volte ciò che gli amici condividono sulle loro bacheche può offrire interessantissimi spunti di riflessione. Così mi è successo pochi giorni fa, vedendo un post di un'amica che forniva all'attenzione dei selezionati lettori un documento storico decisamente importante: il testo del Decreto Legislativo luogotenenziale del 2 febbraio 1945, con cui Umberto di Savoia, Principe di Piemonte e Luogotenente Generale del Regno annunciava che, su proposta dei ministri del Governo, il diritto di voto veniva «esteso» anche alle donne.

In giorni in cui si parla molto di diritti, e di possibili estensioni di diritti, quel documento ha sicuramente un significato particolare. A un primo impatto, l'attualizzazione del documento potrebbe suonare così: come allora veniva esteso un diritto che prima era negato, e che invece oggi sembra a tutti così evidentemente giusto, allo stesso modo oggi l'estensione di diritti che ancora qualcuno vuole negare (nella fattispecie, l'estensione alle coppie omosessuali dei medesimi diritti riconosciuti alle famiglie) risulterà domani una decisione normale e condivisa da tutti. Una riflessione dunque molto attuale, nei giorni in cui al Parlamento è entrata nel vivo la discussione intorno al ddl Cirinnà, e in Italia si tengono manifestazioni di contenuto opposto, tra chi è a favore dei contenuti del disegno di legge e chi invece continua ad affermare il valore unico e irriducibile della famiglia come fondamento della società.

Ebbene, lungi dal risolvere sbrigativamente la questione in una data direzione, quel documento ci permette invece di andare al fondo del problema, e mettere in luce elementi centrali per la piena comprensione dei fatti. Nel documento, redatto a monarca ancora regnante, viene utilizzato, a proposito di diritti, il verbo «estendere». Come noto, la Costituzione italiana, redatta a monarca non più regnante, usa verbi molto diversi: nello straordinario e capitale articolo due, si dice che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità».

Non sarà mai ricordata a sufficienza l'importanza di quei due verbi, «riconoscere» e «garantire», così intrinsecamente diversi dal verbo «estendere». L'estensione di un diritto evoca infatti il vecchio concetto di elargizione, ed è appunto adatto a un regime ancora monarchico: il re o lo Stato elargisce i diritti, estendendoli come, quando e quanto ritiene. La Repubblica non fa questo: a differenza dello Stato assoluto, la Repubblica (almeno quella italiana, così come viene definita nel testo redatto con tanta fatica e sforzo intellettuale dai padri costituenti) si piega umilmente al riconoscimento dei diritti. Diritti che vengono prima della Repubblica stessa, e che dureranno dopo una sua eventuale dipartita o trasformazione. Diritti che o sono, o non sono. Non è arbitrio di chi regge le sorti dello Stato stabilire l'esistenza o meno di un diritto, e la sua minore o maggiore estensione. Gli esseri umani di sesso femminile, in quanto dotati per natura dei medesimi diritti degli esseri umani di sesso maschile, hanno in sé intrinsecamente il diritto di decidere delle sorti della propria nazione, partecipando al voto. Quel diritto, dunque, non deve essere «esteso» alle donne: va «riconosciuto» e quindi «garantito».

Questo implica il fatto che la Repubblica italiana non può non garantire quelli che sono veri e propri diritti, e non può viceversa riconoscere quelli che diritti non sono. La strada del riconoscimento dei diritti non è una linea retta, per cui basta avanzarne l'ipotesi di un diritto per vedere automaticamente una legge dichiararlo tale. La discussione intorno al problema del riconoscimento di quel diritto (cioè interrogarsi se quel diritto «è» o «non è» tale) è fondamentale. Per chi abbia letto anche velocemente il testo del ddl Cirinnà, risulta a tutti evidente che questa discussione è semplicemente saltata a piè pari e data per scontata.

Di quale ipotesi diritto stiamo parlando? La concessione alle coppie omosessuali di un riconoscimento legislativo sostanzialmente equipollente a quello della famiglia costituita dall'unione tra un uomo e una donna. Viceversa, i negatori di questa ipotesi sostengono che per sua natura la famiglia, essendo fondata sulla possibilità di generare la vita, sia essenzialmente costituita dall'unione tra un uomo e una donna. Sarebbe interessante approfondire il fatto che i secondi non negano agli omosessuali il diritto di fare famiglia: negano la possibilità che la famiglia sia formata da persone dello stesso sesso. Per quanto possa sembrare paradossale, è invece stringente e fondamentale affermare il principio che non c'è alcuna discriminazione: non solo due omosessuali, ma anche due eterosessuali dello stesso sesso non possono formare una famiglia (potrebbero volerlo fare, magari per convenienza). La norma che riconosce e garantisce il fatto che la famiglia sia formata da persone di sesso diverso è fondata sull'accettazione di un dato di realtà e non implica in sé alcuna discriminazione. Basti ricordare che anche chi afferma l'unicità per così dire ontologica della famiglia basata sull'unione di un uomo e di una donna afferma incontrovertibilmente che è diritto assoluto e inviolabile di ciascun individuo vivere la propria affettività come meglio crede, in base alle proprie inclinazioni. Due omosessuali hanno pieno diritto (riconosciuto e garantito) a vivere il loro rapporto affettivo, senza impedimenti o discriminazioni sociali di qualsiasi tipo. L'impossibilità naturale a formare una famiglia non costituisce affatto un impedimento a che due omosessuali vivano in modo totalmente libero la loro affettività.

Senza avere la pretesa di esaurire l'intera discussione sul tema, quel che con queste argomentazioni si vuol fare è anche dare seguito alle sollecitazioni che qualche giorno fa dalle colonne del Corriere giustamente Ernesto Galli Della Loggia poneva all'attenzione di chi dibatte sull'argomento. Domande del tipo «è bene che i bambini abbiano un padre e una madre o è indifferente?» non possono essere eluse. C'è tutta un'ampia avventura da affrontare in questo tentativo di conoscere più a fondo noi stessi e la nostra natura umana. Scansare il dibattito tacciando l'avversario di omofobia non è certo la soluzione né più democratica, né culturalmente più entusiasmante.

Il 2 febbraio del 1945 veniva esteso un diritto. A partire da qualche anno dopo abbiamo imparato che i diritti vanno riconosciuti (processo culturale) e quindi garantiti (azione politica). Non saltiamo i passaggi, se non vogliamo tornare al tempo dei diritti elargiti dal sovrano. Senza un processo culturale attento e meditato, anche una maggioranza parlamentare può diventare il più arbitrario dei sovrani. Con tutte le conseguenze che questo in futuro potrebbe avere, anche in ambiti del tutto diversi da quello ora trattato.