1/ Il messaggio cristiano della carità: quale contributo per l’uomo moderno?, di Fabrice Hadjadj 2/ La sagesse de la charité, une spiritualité de l’incarnation, par Fabrice Hadjadj (Congrès de Cor Unum sur «Deus Caritas est», 25 février 2016 (testo originario francese)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 06 /03 /2016 - 21:35 pm | Permalink | Homepage
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1/ Il messaggio cristiano della carità: quale contributo per l’uomo moderno?, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo sul nostro sito la traduzione della relazione tenuta da Fabrice Hadjadj in Roma, il 25/2/2016 in occasione del Congresso internazionale «La carità non avrà mai fine» (1 Co 13, 8) – Prospettive a 10 anni dall'Enciclica Deus Caritas est. I neretti sono nostri ed hanno l’unica intenzione di rendere più facile la lettura on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (6/3/2016)

1. Nella questione che mi hanno proposto di trattare tutto è questionabile. Ecco perché, prima di cercare di rispondervi, vorrei interrogarla. È il compito di ogni filosofo mettere in questione la questione che gli viene proposta. Ma è ancor di più il compito del filosofo cristiano, perché il filosofo cristiano non arriva con risposte preconfezionate, contrariamente a ciò che gli atei s’immaginano senza troppi sforzi. Al contrario, il filosofo cristiano deve scavare ogni questione in maniera radicale, fino a spogliarsi della sua autorità sulla questione, fino a che la questione divenga una vera domanda, e cioè fino a che si trasformi in preghiera. Del resto, siamo venuti qui per avere delle risposte? Mi sembra piuttosto che siamo qui per ascoltare una chiamata, per essere confermati in una chiamata, e per rispondere, non solamente con discorsi, ma con la nostra vita. Il nostro tema non è forse l'amore? Ora, succede sempre così quando è l'amore a porre domande. Quando una donna chiede a suo marito: «Mi ami?», non si aspetta da lui una grande teoria che enumeri le ragioni del loro matrimonio. Quando Gesù chiede a Pietro: «Mi ami?», lo chiama a pascere le sue pecore. Parimenti, quando qui ci interroghiamo, dobbiamo spingere l’indagine fino al punto in cui, come in Cristo, il Logos si identifica all'Agape, e dunque fino al punto in cui la risposta si trasforma in chiamata, e la questione in preghiera.

2. La formulazione stessa della nostra questione pone almeno tre problemi.

Primo, vi si parla di un «messaggio cristiano della carità»: davvero la carità è innanzitutto un messaggio? C'è sicuramente un messaggio della fede (Rm 10, 8). Ma la carità, in quanto carità, non appartiene a un ordine diverso? E non è importante mettere in evidenza quest’altro ordine, soprattutto in un'epoca nella quale tutto tende ad essere ridotto a informazione e tutto si trasforma in «messaggi» che saturano le nostre caselle di posta elettronica?

Secondo, la nostra questione parla di un «contributo» della carità: davvero la carità è soltanto un «contributo», qualcosina in più, un condimento per la vita? San Paolo nel suo celebre inno dice: Se non ho la carità, non sono nulla (1 Co 13,2). C’è da credere che non si tratti semplicemente di un «contributo» ma del fondamento stesso, dell’essenza della vita umana. Se giungessi alla conclusione che la carità è un meraviglioso «contributo» per l'uomo moderno, si tratterebbe di una catastrofe, perché distruggerei la carità in quanto carità per ridurla a un'opzione, se non addirittura a un lavoro di assistente sociale.

Questo ci conduce a una terza domanda: perché si parla de «l’uomo moderno»? L'espressione è pericolosa. Porta in sé il rischio di un doppio errore. Il primo errore sarebbe quello di dimenticare che la carità è per l'uomo, qualunque sia la sua epoca, moderna, antica o preistorica. È il titolo generale del nostro Congresso: La carità non passa… È di tutti i tempi dunque, è sempre di attualità, poiché è l'atto puro dell'Eterno. E dunque non solo essa è il punto di contatto tra il tempo e l'eternità, ma anche il filo rosso, il filo di Sangue Redentore, che collega un'epoca all'altra per quanto differenti, che dà l’unità e il senso a tutta la storia. Tornerò ancora su questo punto.

Prima però vorrei considerare il secondo errore che ho menzionato e che può essere formulato attraverso un’altra domanda: l'uomo moderno è ancora attuale? Non siamo invece da parecchio tempo entrati nella postmodernità? Non è questa la mutazione, il cambiamento di epoca, di cui dovremmo principalmente prendere coscienza, a dieci anni dall'uscita dell'enciclica Deus Caritas est?

La fine dell’uomo moderno

3. Una delle grandi obiezioni all’amore di cui tiene conto la nostra enciclica è quella della giustizia sociale, come è stata rivendicata nel diciannovesimo secolo e cristallizzandosi in particolare nel marxismo: «I poveri, si dice, non avrebbero bisogno di opere di carità, bensì di giustizia. Le opere di carità — le elemosine — in realtà sarebbero, per i ricchi, un modo di sottrarsi all'instaurazione della giustizia e di acquietare la coscienza, conservando le proprie posizioni e frodando i poveri nei loro diritti» (n. 26). Questa grande obiezione è tipica della modernità. Ne presuppone le tre caratteristiche: umanesimo, razionalismo e progressismo. Ora, al principio del terzo millennio, bisogna ammettere che la situazione è cambiata. Certo, la questione della giustizia sociale rimane di grandissima urgenza, ma, stranamente, è ormai portata più dalla Chiesa che dal Secolo. Il marxismo è crollato, e con esso sono crollati l'umanesimo, il razionalismo ed il progressismo politico

4. Dopo il fallimento delle grandi utopie illuministe siamo ora in un'epoca nettamente post-umanista. Gli indizi sono numerosi. La causa animale tende a sostituire la causa sociale e la credenza nel progresso tecnologico ha soppiantato quella nel progresso politico. Non c’è più l'uomo al centro di tutto. Al centro ormai, quando non si tratta del ritorno di un Dio che schiaccia l'umano, sta la Tecnica oppure la Natura – e i miraggi della prima alimentano il fantasma della seconda, perché l’accumulazione degli artefatti ci fa sognare un mondo naturale immacolato (si può notare questo paradosso in molti film che ricostituiscono l’Eden usando immagini di sintesi).

A prendere le misure di questo passaggio alla postmodernità è soprattutto l'enciclica Caritas in Veritate, quando rievoca «il grande pericolo di affidare l'intero processo dello sviluppo alla sola tecnica» (n. 14). Il pensiero moderno credeva ancora in un divenire politico e sociale; la visione postmoderna è quella di un divenire tecno-economico: passare della nascita all'innovazione, subordinare la generazione degli uomini alle generazioni successive dei prodotti, fare del corpo e della creazione tutta intera un magazzino di elementi ricombinabili secondo le tendenze del mercato. Una tale constatazione pone la questione della carità in altri termini. Anche se l’essenza della carità è soprannaturale ed è partecipazione alla vita divina, essa ci apparirà sempre di più come salvaguardia dell'ordine naturale e garanzia di una vita semplicemente umana.

5. Il crollo dell'umanesimo moderno porta con sé quello del razionalismo che si decompone sdoppiandosi. Esso si sdoppia in ragione tecnica, da un lato, e sentimentalismo, dall'altro. Il dominio della manipolazione oggettiva provoca in parallelo lo sversamento dell'emozione soggettiva, e questo non solo per compensazione ma anche e innanzitutto per connessione.

I dispositivi tecnologici pretendono di facilitarci la vita risparmiandoci l'apprendimento, la riflessione e la pazienza: si tratta di ottenere subito effetti meravigliosi pigiando dei pulsanti. E allora il nostro rapporto con il mondo diventa sempre più pulsionale.

Sotto il comfort dell'automatizzazione cova un'impulsività sempre più bestiale, perfino meno che bestiale perché l'istinto delle bestie non ha niente di anarchico. Il progresso degli oggetti dovuto esclusivamente alla ragione tecnica implica una regressione del soggetto verso un'emotività esplosiva. Il controllo operato dalle macchine ci getta sempre di più in un pathos incontrollabile, perché il controllo tecnico si sostituisce al dominio di sé.

Questo traspare specialmente nel perfezionamento dei media: mentre i mezzi di comunicazione diventano sempre più sofisticati il contenuto della comunicazione diventa sempre più sommario, fino a ridursi a tweets di 140 caratteri, o perfino a emoticons, una specie di segnaletica che ci risparmia di dover articolare le nostre impressioni in un discorso lasciando così la nostra sensibilità allo stato informe.

Così, la modernità era ancora segnata dall'affermazione della verità, anche se si trattava di una verità ideologica e totalitaria, mentre la postmodernità è segnata innanzitutto dalla ricerca di soluzioni tecniche e dal culto dell'emozione. Qui ancora, il pensiero della carità si sposta, perché oggi siamo confrontati non tanto a eresie della verità ma a eresie dell'amore.

È in nome dell'amore, e non della verità, che si promuove l'aborto, l'eutanasia, il matrimonio unisex, il consumismo, il transumanismo… L'unione della ragione tecnica e del sentimentalismo genera questo mostro: una compassione armata che pretende di fabbricare un individuo pacificato calpestando il dato naturale.

Per esempio, in nome dell'amore del bambino, lo si priverà di un padre e di una madre per affidarlo agli esperti - ingegneri che lo selezioneranno geneticamente, pedagoghi che gli permetteranno di acquisire le competenze più adatte per un migliore inserimento nel mondo della performance. È questa una nuova sfida per la carità cristiana. Deve confrontarsi a questa compassione tecnicista che è la sua parodia demoniaca. Di fronte a quest’ultima, la carità cristiana appare come una crudeltà. Perché laddove la compassione tecnicista intende strappare l'uomo alla sua condizione umana, la carità ce lo vuole mantenere, affermando che è nella natura e perfino nella vocazione dell'uomo nascere, soffrire e morire, accettare il proprio corpo sessuato o perfino camminare sulla via della Croce. Cosa c’è di più crudele?

6. Questa ultima osservazione ci permette di afferrare la differenza tra il progressismo moderno, pieno dell’ottimismo per un mondo il migliore, e il progressismo postmoderno, gravato da un profondo pessimismo a riguardo dell'umanità. Il moderno presenta ancora il progresso come un progresso sulla linea dell'umano: gli individui sono ancora mortali, nati da un padre e da una madre, e capaci di sviluppare il loro senso di giustizia e di bontà. Ma, siccome questo umanesimo non si basa sull'uomo e sulla donna come dati dal Creatore, ma sull'uomo concepito da un'ideologia, esso è già fortemente costruttivista e spesso pretende di fare tabula rasa del passato, disfarsi del peso delle tradizioni, ricominciare tutto a partire da un nuovo contratto sociale.

Il postmoderno si trova dunque al tempo stesso in continuità e in rottura: prolunga il costruttivismo moderno, ma lo radicalizza rompendo di conseguenza col suo umanesimo iniziale. In fin dei conti, la logica di una crescita tecno-economica infinita non può condurre che a fare esplodere i limiti dell'umano.

Ora, curiosamente, la nozione di crescita infinita non è pagana. Essa appare con la teologia della carità. Alla domanda: Utrum caritas augeatur in infinitum, «Può la carità aumentare all'infinito?», San Tommaso d’Aquino risponde affermativamente: essendo partecipazione alla carità infinita dello Spirito Santo, non è limitata nel suo termine, né nel suo soggetto, perché, essendo un dono soprannaturale fatto alla creatura, essa aumenta la capacità di riceverla nella misura in cui essa stessa si dà…

Ciò dimostrerebbe che il mondo tecno-liberale propone una parodia della carità. Quando si caccia il soprannaturale esso ritorna in una forma patologica. Si caccia la carità teologale, col suo incremento all'infinito, ed ecco che il suo movimento si ritrova nell'utopia di una crescita materiale indefinita che in questa forma patologica, lungi dal salvare la creatura, la devasta, la fa esplodere.

Di nuovo, vediamo il capovolgimento che si opera. Predicare la carità, un tempo era predicare l'apertura all'infinito. Ma predicarla oggi deve essere predicare anche l'accettazione di una certa finitezza o piuttosto l'accettazione della nostra finitezza.

Posso dirlo con una frase che è diventata un po’ un leitmotiv della mia riflessione: nella nostra epoca postmoderna e post-umana, dire che Dio si è fatto uomo affinché l'uomo si faccia Dio non basta più, bisogna aggiungere che Dio si è fatto uomo affinché l'uomo resti umano.

L'avvenimento dell'Incarnazione è quello di una divinizzazione che è anche un'umanizzazione, di una grazia che non distrugge la natura ma la cura elevandola, di un agape che non abolisce ma che compie l'eros, come dice mirabilmente Benedetto XVI all'inizio di Deus Caritas est.

Per comprendere questo capovolgimento, o piuttosto questo spostamento che va dalla divinizzazione all'umanizzazione, si può considerare il mistero della risurrezione. Questo mistero può essere presentato innanzitutto come una promessa di immortalità. Ma, se le biotecnologie sono capaci di proporci un'immortalità terrestre, allora la risurrezione cambia di segno. È ingresso nella vita eterna, ma appare anche come promessa di mortalità, perché bisogna pur morire per essere risuscitati. Significa che la morte in Cristo non è un fallimento ma il luogo stesso dell’offerta suprema e dunque della vitalità più estrema, e che, al contrario, è l'immortalità egoista che sarebbe un completo fallimento.

Il «realismo inaudito» della carità

7. Sono arrivato alla seconda parte del mio discorso. Nella prima, ho voluto mostrare che il «messaggio cristiano della carità» non si rivolge più all'uomo moderno ma a un uomo postmoderno che cerca di uscire dal piano della sua umanità, della sua razionalità e del progresso politico.

È opportuno ora ritornare alla carità in se stessa e usare un approccio un po’ più teologico, se è permesso a un filosofo di fare della teologia. Ho provato a far vedere come, nel contesto della nostra epoca così singolare, la carità si presenti diversamente.

Ma se si presenta diversamente non è perché essa sia diventata qualcos’altro: partecipazione alla Vita dell'Eterno, la carità è in se stessa immutabile. È l'accento che si è spostato. È l'esplicitazione di qualcosa che c’era già e che il contesto attuale mette in evidenza. Come sempre nella storia della Chiesa, e secondo le parole di san Paolo, è necessario che ci siano anche delle eresie tra di noi (Rm 7 20), perché esse provano la nostra fedeltà e perché sono l'opportunità di un certo sviluppo dogmatico.

Quale è la natura della carità? Perché, come apertura all'infinito, essa è anche profondamente accoglimento della nostra finitezza? Questa domanda è cruciale. Si collega a una questione che fu oggetto di dibattito tra Pietro Lombardo e san Tommaso d’Aquino: La carità è qualcosa di creato nell'anima? È ciò che si chiede Tommaso subito dopo aver definito la carità come un'amicizia fondata sulla comunicazione della beatitudine.

Dietro questa questione molto specifica, che sembra dover interessare soltanto alcuni teologi sceltissimi, la posta in gioco è considerevole. Pietro Lombardo, il maestro delle Sentenze, diceva che la carità non è qualcosa di creato in noi: è lo stesso Spirito Santo che ci attraversa come la luce attraversa una finestra. Ma affermare questo vuol dire che l'uomo in quanto uomo non è il soggetto della carità, che egli stesso non la esercita personalmente e in modo proporzionato alla sua natura umana ed è andare contro la carità come amicizia, perché l'amicizia vuol dire che un uomo sta di fronte a Dio in un faccia-a-faccia e non come un semplice strumento nelle sue mani.

Cosi san Tommaso ricusa la tesi del Lombardo e sostiene che questa partecipazione all'amore increato di Dio avviene tramite una virtù creata, in modo tale che l'umano non è dissolto né diminuito, ma confermato dal divino. La carità non è una giustapposizione, ma una giustificazione dell'umano. Il suo carattere soprannaturale non è qualcosa che si sovrappone alla natura umana, ma un dono che riaccoglie le profondità di questa natura alla sua sorgente.

8. Questo vuol dire che, contro lo gnosticismo e contro il neo-gnosticismo materialista della tecnologia, la redenzione non può opporsi alla creazione, il bene non può essere separato dall'essere, e il costrutto non può ridurre il dato a data, ma ha il dovere di considerare prima e celebrare il donum iniziale.

C’è un passaggio del trattato della carità, nella Summa Teologica, dove san Tommaso enumera le cinque ispirazioni proprie dell'amicizia: «Qualsiasi amico prima di tutto vuole che il proprio amico esista e viva; secondo, gli desidera del bene; terzo, compie del bene a suo vantaggio; quarto, ha piacere di convivere con lui; quinto, concorda con lui, godendo e rattristandosi delle medesime cose».

Tommaso dice umilmente che sta solo citando Aristotele. E tuttavia inverte l'ordine che si trova nell'Etica Nicomachea (IX,4). Aristotele aveva messo al primo posto il fatto di voler bene e di fare del bene all'amico. Tommaso mette al primo posto il fatto di volere semplicemente che l'amico esista e viva. Questo capovolgimento è fondamentale. L'amore vuole innanzitutto che l'altro sia, e che sia veramente se stesso, prima ancora di volere il suo bene. Altrimenti, come nelle utopie, o come nelle fantasticherie dei genitori sui figli, il bene si separa dall'essere, e nel nome del bene dell'altro lo si distrugge in quanto altro e lo si trasforma in effetti in semplice ricettacolo dei propri progetti di bontà.

 9. Si ritrova qui un pensiero di Joseph Pieper, nel suo piccolo saggio Sull'amore che Joseph Ratzinger ha letto assiduamente e ammirato, tanto che si sentono gli echi di questa lettura in Deus caritas est. Pieper sottolinea che nell'amore, prima del volereagire, prima dell'esigenza del bene, c'è il «puro assenso di approvazione davanti a ciò che esiste già»[1]. Dire: «Ti amo» è innanzitutto dire: «È bello che tu ci sia! Che meraviglia che tu esista!» e solamente dopo vuol dire: «Ti voglio bene». L'amore per una persona è innanzitutto la ripetizione della parola creatrice del Creatore: «Che sia!».

Ecco perché l'amore accoglie il dato della creazione prima di volere migliorarlo, altrimenti tradisce se stesso e le migliori volontà si smarriscono in un attivismo deleterio. Ma se amare qualcuno è prima di tutto ripetere la parola del Creatore, allora nell'amore tutta la creazione si ritrova giustificata, dal Big Bang fino ai nostri giorni.

Quando appare Beatrice, Dante canta: «neun nemico mi rimanea»[2]. Seguendo il poeta, Joseph Pieper osserva che l'amore di un solo essere fa nascere la certezza morale della bontà universale di tutti gli esseri in quanto creati e apre a una vera fecondità nell'essere[3].

L'amore per Beatrice è lo stesso «amor che move il sole e le altre stelle». Non si riduce a un sentimento psicologico, possiede un'estensione cosmica che, a partire dalla celebrazione di un essere singolare, trabocca sulla singolarità di ogni altro essere secondo un'universalità concreta e non astratta, perché per poter amare Beatrice occorre che la terra esista, che il sole esista, e le piante, e gli animali, e tutte le generazioni fino all’istante dell'incontro.

Questo punto di vista più fenomenologico si ricongiunge al punto di vista teologico di Tommaso d’Aquino. Esso permette di riaffermare che la carità è tanto più autentica quanto più accoglie l'ordine naturale, tanto più divina quanto più sposa la natura umana.

10. È in questo senso che Benedetto XVI ha scritto nella Deus caritas est (n. 28b) «Chi vuole sbarazzarsi dell'amore si dispone a sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo». Ed è per questo che è così decisivo notare con lui che «il momento dell'agape si inserisce nell'eros; altrimenti l'eros decade e perde anche la sua stessa natura» (n. 7).

Ora più che mai, in un mondo invaso dal virtuale, dove la carne è ridotta sempre di più alla stregua di un materiale e di una merce, la saggezza della carità rigetta ogni spiritualismo e si manifesta come una spiritualità dell'incarnazione. Nel dodicesimo capitolo della Deus caritas est, papa Benedetto scrive queste parole assolutamente determinanti: «La vera novità del Nuovo Testamento non sta in nuove idee, ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti — un realismo inaudito». La novità della carità sta in questo realismo inaudito che ci insegna che lo spirituale non è in concorrenza con il carnale, che l'increato non fa esplodere il creato, e che diventare divini non consiste nel trasformarsi in un cyborg potentissimo ma nel condurre la più umana delle vite, la più umile, per esempio quella di un falegname ebreo che lavora con le sue mani, che parla senza microfono, che non realizza nessuna innovazione tecnologica, ma che investe le cose più ordinarie – la tavola del pranzo, il pane, il vino – di una presenza e una tenerezza sconvolgenti.

Che si pensi solamente al Risorto. Un uomo a cui fosse stato affidato il compito di inventare la storia di un risorto, avrebbe descritto un superuomo che compie atti spettacolari, che ipnotizza le folle, che solleva le montagne con un dito. Niente di tutto questo nei Vangeli. E qui sta la prova che il Risorto dei Vangeli è veramente divino e non la proiezione della nostra vanità e del nostro orgoglio. Compie gli atti più semplici: sulle rive del lago, cucina per i suoi discepoli, li invita a mangiare, commenta per loro le Scritture

Una prossimità garantita dall’infinito

11. Quando si sa che l'essenziale è nella carità si scampa alle illusioni futuriste. Si ritrova la propria iscrizione nel corso della storia. Ne abbiamo già fatto cenno: se la pretesa moderna era quella di compiere la fine della storia, il postmoderno vuole uscire dalla storia, rompere con l'antica tragedia umana a vantaggio di un dispositivo di divertimento totale.

Ora, come dicevo all'inizio del mio intervento, la carità, in quanto punto di contatto tra tempo ed eternità, ci pone in continuità con quelli che ci hanno preceduti. Sappiamo grazie ad essa che non si tratta di diventare un superman ma una piccola Teresa; che il poverello di Assisi è più ricco di qualunque uomo bardato di trapianti e di protesi; e che siamo in realtà più contemporanei di sant’ Agostino che di un androide.

Qui si vede che la carità non è un semplice «contributo» all'uomo postmoderno. È per lui la garanzia di restare nell'umanità storica, di conservare la memoria lunga della tradizione, di non perdersi in un'amnesia tecnologica dove l'immaginario conosce soltanto dinosauri e robot.

È la specificità di un'epoca che non è abusivo chiamare apocalittica: sempre di più il temporale potrà essere garantito solamente dall'eterno, la carne dallo spirito, la ragione dalla fede, il naturale dal soprannaturale.

12. Perfino la prossimità potrà essere garantita solamente dall'infinito. Da qui ritorno al primissimo problema posto dal nostro enunciato. In che cosa la carità è un «messaggio»? Nella parabola del buon samaritano, il sacerdote e il levita sono probabilmente ricolmi del messaggio della carità, e si affrettano sulla strada di Gerusalemme per comunicare questo messaggio, perché Gerusalemme è all'epoca il centro di una rete di comunicazioni. Per questa ragione passano senza fermarsi accanto al poveruomo aggredito dai briganti: la carità è per loro un messaggio.

Il Samaritano, lui, si ferma e si avvicina. Perché tale è il capovolgimento operato da Gesù attraverso questa parabola: uno scriba gli chiede «Chi è il mio prossimo?» ed Egli risponde mostrando che è la carità a farci prossimo, che è la carità che realizza la dimensione della prossimità.

Nello stesso senso, in una lettera generale del 1961 Madre Teresa scriveva alle sue suore: «Se Gesù ci ha riacquistati, lo ha fatto diventando uno di noi. La nostra missione è di fare altrettanto: tutto lo sconforto dei poveri, non solo la loro povertà materiale, ma anche la loro miseria spirituale, deve essere ricomprata, e noi dobbiamo avere in questo il nostro premio».

La carità ha fatto si che il Verbo si facesse carne e che abitasse in mezzo a noi. Detto altrimenti, ciò che distingue la carità della filantropia o da un’opera umanitaria è il fatto che essa si dispiega eminentemente in una prossimità fisica, nel faccia-a-faccia e nel fianco-a-fianco, in un convivium di cui la celebrazione eucaristica è la sorgente e il culmine.

Non si tratta dunque di inviare messaggi. Cristo non dice ai suoi discepoli: «Mandate messaggi al mondo intero» ma «Andate nel mondo intero». Il messaggio della carità sta nella prossimità del messaggero, e questo è inestimabile in una postmodernità che ci fa stare incollati a uno schermo mentre le arti della convivialità sono state disimparate a tal punto che ci si perde tra gli artifici dei consumi.

13. Ciò permette di comprendere il legame tra la carità e il caritatevole. Come è possibile che l'amore divino, l'amore che guarda l'altro come chiamato ad essere un dio per partecipazione, possa essere stato essere associato al «fare la carità»? Si può vedere in questo un decadimento e una deformazione diabolica.

È quello che pensava giustamente Léon Bloy: «Si hanno trecentomila franchi di rendite, si dà qualche soldo alla porta della chiesa, poi ci si lancia in un'automobile per occuparsi di turpitudini o di stupidaggini. Questo si chiama: Fare la carità. Ah! bisognerà che un giorno Dio, che ha fatto la lingua dell'uomo, vendichi terribilmente questo oltraggio!» Questa denuncia del «fare la carità» è inevitabile.

E tuttavia, da un altro lato, bisogna riconoscere che la carità implica anche un fare, che c'è un fare della carità che è molto umile, perché questo fare non sta innanzitutto dalla parte della tecnologia, ma di quelle cose semplici di cui abbiamo parlato già prima: offrire da mangiare e da bere, vestire chi è nudo, dare un tetto a chi non ha casa, visitare i malati ed i prigionieri.

E qui la virtù più alta si ricongiunge con l'appetito più basso. La carità risponde alla fame. Il suo fare non è quello dei gadget ma del cibo. All'inizio della Caritas in veritate, papa Benedetto XVI parla della vita come vocazione, ma subito dopo aver pronunciato questo termine cita Paolo VI e rimanda al grido di quelli che hanno fame. Lascia intendere che la vocazione divina risponde a questa interpellanza animale: nutre gli affamati.

Si sa che al giorno d’oggi ogni cinque secondi muore di fame un bambino. Ma non si tratta di questo scandalo, si tratta di riconsiderare tutta l'economia a partire dalla carità di un Risorto che durante quaranta giorni sta in mezzo a suoi discepoli e condivide i loro pasti.

La carità ci ricorda che la base dell'economia non sta nell'alta finanza ma nell'agricoltura; che ciò che si gioca nella Silicon Valley è meno importante, meno divino di ciò che si dispiega nelle culture alimentari; che gli alimenti, infine, non dovrebbero essere trattati come merci su cui si specula.

Gesù dice che suo Padre è un vignaiolo, (Pater agricola), e non un informatico o un agente di borsa, non soltanto perché i computer all'epoca non esistevano o perché non apparteneva a una famiglia di banchieri, ma perché nutrire gli uomini è la prima giustizia e la prima carità.

Mastro Eckhart nota nei suoi Colloqui spirituali (§10): «Se qualcuno fosse in estasi come san Paolo e sapesse che un malato aspetta che gli si porti un poco di zuppa, riterrei preferibile che, per amore, tu esca della tua estasi e serva il bisognoso in un amore più grande».

Tutta la carità sta qui. Collega la finitezza e l'infinito, il carnale e lo spirituale, la fame primaria e il fine ultimo. Non si tratta di buoni sentimenti ma di realismo. Le persone sono di una ricchezza incomparabilmente più grande delle cose, e condividere una zuppa con un inviato dalla provvidenza è meglio di tutte le orge solitarie. Questa è, ai nostri tempi di miraggi tecnologici, la semplice umanità che la carità divina restaura.

2/ La sagesse de la charité, une spiritualité de l’incarnation, par Fabrice Hadjadj (Congrès de Cor Unum sur «Deus Caritas est», 25 février 2016 (testo originario francese)

1.  Dans la question que l’on m’a proposé de traiter, tout fait question. Et c’est pourquoi, avant d’essayer d’y répondre, je voudrais l’interroger. C’est la tâche de tout philosophe que de questionner la question qu’on lui pose. Mais c’est encore plus la tâche du philosophe chrétien, car le philosophe chrétien ne vient pas avec des réponses toutes faites, contrairement à ce que s’imaginent aisément les athées. Bien au contraire, le philosophe chrétien doit creuser la question de manière radicale, jusqu’à se dessaisir de son autorité sur la question, jusqu’à ce que la question devienne une vraie demande, c’est-à-dire jusqu’à ce qu’elle se transforme en prière.

Du reste, sommes-nous venus ici pour avoir des réponses? Il me semble plutôt que nous sommes ici pour entendre un appel, pour être confirmés dans un appel, et pour y répondre, non pas seulement avec des discours, mais avec notre vie. Notre sujet n’est-il pas l’amour? Or il en va toujours ainsi quand c’est l’amour qui pose des questions. Quand une femme demande à son mari: «Est-ce que tu m’aimes?», elle n’attend pas de lui une grande théorie énumérant les raisons de leur mariage. Quand Jésus demande à Pierre: «Est-ce que tu m’aimes?», il l’appelle à paître ses brebis. De même, quand nous nous questionnons ici, nous devons pousser l’interrogation jusqu’au point où, comme dans le Christ, le Logos s’identifie à l’Agapè, et donc au point où la réponse se change en appel, et la question, en prière.

2.  Notre question pose au moins trois problèmes dans sa formulation même. Premièrement, il y est parlé du «message chrétien de la charité»: or la charité est-elle d’abord un message? Il y a un message de la foi (Rm 10, 8), sans aucun doute. Mais la charité en tant que charité n’est-elle pas d’un autre ordre? Et n’est-il pas important de mettre en évidence cet autre ordre, surtout à une époque où tout tend à être réduit à de l’information, où tout se débite en «messages» qui saturent nos messageries électroniques?

Deuxièmement, notre question parle d’un «apport» de la charité: mais la charité n’est-elle qu’un «apport», un petit plus, un assaisonnement à la vie? Saint Paul dit dans son hymne célèbre: Si je n’ai pas la charité, je ne suis rien (1 Co 13, 2). C’est à croire qu’il ne s’agit pas là que d’un «apport» mais du fond même, de l’essence de la vie humaine. Si j’en venais à conclure que la charité est un merveilleux «apport» pour l’homme moderne, ce serait une catastrophe, parce que je la détruirais en tant que charité pour la ramener à une option, sinon à un job d’assistante sociale.

Cela nous conduit à une troisième interrogation: pourquoi est-il parlé ici de «l’homme moderne»? L’expression est périlleuse. Elle porte en elle le danger d’une double erreur. La première erreur serait d’oublier que la charité est pour l’homme, quelle que soit son époque, moderne, antique ou préhistorique. C’est le titre général de notre Congrès: La charité ne passe pas… Elle est donc de tous les temps, elle est toujours d’actualité, puisqu’elle est l’Acte pur de l’Éternel. Par là, elle est non seulement le point de contact du temps et de l’éternité, mais aussi le fil rouge, le fil de sang rédempteur, qui relie une époque à l’autre, si différentes soient-elles, qui donne son unité et son sens à toute l’histoire.

Je reviendrai plus loin sur ce point. Car j’ai mentionné une seconde erreur que je voudrais d’abord considérer et qui peut s’énoncer à travers cette question: en sommes-nous encore à l’homme moderne? Ne serions-nous pas entrés depuis longtemps dans la postmodernité? N’est-ce pas cette mutation, ce changement d’époque, dont nous aurions principalement à prendre conscience, dix ans après la parution de l’encyclique Deus caritas est?

La fin de l’homme moderne

3.  L’une des grandes objections à l’amour dont tient compte notre encyclique est celle de la justice sociale, telle qu’elle est revendiquée au XIXe siècle et qu’elle se cristallise notamment dans le marxisme: «Les pauvres, dit-on, n’auraient pas besoin d’œuvres de charité, mais de justice. Les œuvres de charité – les aumônes – seraient en réalité, pour les riches, une manière de se soustraire à l’instauration de la justice et d’avoir leur conscience en paix, maintenant leurs positions et privant les pauvres de leurs droits» (n. 26).

Cette grande objection est typique de la modernité. Elle en présuppose les trois caractéristiques: humanisme, rationalisme et progressisme. Or il faut admettre, au commencement du troisième millénaire, que nous n’en sommes plus là. Bien sûr, la question de la justice sociale demeure des plus urgentes, mais, étrangement, elle est désormais portée par l’Église plus que par le Siècle. Le marxisme s’est effondré, et avec lui l’humanisme, le rationalisme et le progressisme politique.

4.  Après l’échec des grandes utopies des Lumières, nous sommes parvenus à une époque nettement posthumaniste. Les indices en sont nombreux. La cause animale tend à remplacer la cause sociale, et la croyance au progrès technologique a supplanté la croyance au progrès politique. Ce n’est plus l’homme qui est au centre. Désormais, ce qui se trouve au centre, quand ce n’est pas le retour d’un Dieu qui écrase l’humain, c’est ou bien la Technique, ou bien la Nature – les mirages de l’une entretenant le fantasme de l’autre, car l’encombrement des artéfacts nous fait rêver un monde naturel immaculé (ce paradoxe s’aperçoit dans de nombreux films, où l’Éden est reconstitué par des images de synthèse).

Ce passage à la postmodernité, c’est surtout l’encyclique Caritas in veritate qui en prend la mesure, évoquant «le grand danger de confier à la seule technique tout le processus du développement» (n. 14). La pensée moderne croyait encore en un devenir politique et social; la vision postmoderne est celle d’un devenir technoéconomique: passer de la naissance à l’innovation, subordonner l’engendrement des hommes aux générations des produits, faire du corps et de la création tout entière un réservoir d’éléments recombinables selon les tendances du marché.

Un tel constat pose autrement la question de la charité. Même si elle est d’essence surnaturelle et qu’elle est participation à la vie divine, de plus en plus, elle va nous apparaître comme la sauvegarde de l’ordre naturel et la garantie d’une vie simplement humaine.

5.  L’effondrement de l’humanisme moderne implique celui du rationalisme qui se défait en se dédoublant. Il se dédouble en raison technicienne, d’un côté, et en sentimentalisme, de l’autre.

L’emprise de la manipulation objective provoque en parallèle le déversement de l’émotion subjective, et cela non seulement par compensation, mais aussi et d’abord par connexion. Les dispositifs technologiques prétendent nous faciliter la vie en nous épargnant l’apprentissage, la réflexion et la patience: il s’agit d’obtenir des effets merveilleux en appuyant sur des boutons. Dès lors, notre rapport au monde est de plus en plus pulsionnel. Sous l’automatisation confortable couve une impulsivité de plus en plus bestiale, et même moins que bestiale, car l’instinct des bêtes n’a rien d’anarchique. Le progrès des objets dû à une raison exclusivement technicienne entraîne une régression du sujet vers une émotivité explosive. Le contrôle opéré par les machines nous jette de plus en plus dans un pathos incontrôlable, parce que ce contrôle technicien se substitue à la maîtrise de soi. Cela s’aperçoit spécialement dans le perfectionnement des médias: à mesure que les moyens de communication se sophistiquent, le contenu de la communication devient de plus en plus sommaire, jusqu’à se réduire à des tweets de 140 caractères, ou même à des “émoticônes”, sorte de signalétique qui vous épargne d’avoir à articuler vos impressions dans un discours, et qui laisse ainsi votre sensibilité à l’état informe.

Ainsi la modernité était encore marquée par l’affirmation de la vérité, même s’il s’agissait d’une vérité idéologique et totalitaire, tandis que la postmodernité est avant tout marquée par la recherche de solutions techniques et par le culte de l’émotion. Là encore, la pensée de la charité se déplace, parce que nous sommes aujourd’hui moins confrontés à des hérésies de la vérité qu’à des hérésies de l’amour. C’est au nom de l’amour, et non pas de la vérité, que l’on promeut l’avortement, l’euthanasie, le mariage unisexe, le consumérisme, le transhumanisme… L’accouplement de la raison technicienne et du sentimentalisme engendre ce monstre: une compassion armée, qui prétend fabriquer un individu pacifié, au mépris du donné naturel. Par exemple, au nom de l’amour de l’enfant, on va le priver d’un père et d’une mère pour le confier à des experts – des ingénieurs qui le sélectionneront génétiquement, des pédagogues qui lui permettront d’acquérir les compétences les plus adéquates pour l’insérer au mieux dans le monde de la performance.

C’est là un nouveau défi pour la charité chrétienne. Elle doit se confronter à cette compassion techniciste, qui est sa parodie démoniaque. Face à cette dernière, la charité chrétienne apparaît comme une cruauté. Parce que là où la compassion techniciste entend arracher l’homme à sa condition humaine, la charité veut l’y maintenir, en affirmant qu’il est dans la nature et même dans la vocation de l’homme de naître, de souffrir et de mourir, de consentir à son corps sexué ou encore de passer par le chemin de la Croix. Quoi de plus cruel?

6.  Cette dernière observation nous fait apercevoir la différence entre le progressisme moderne, plein de l’optimisme d’un monde meilleur, et le progressisme postmoderne, grevé d’un profond pessimisme à l’égard de l’humanité. Le moderne présente encore le progrès comme un progrès sur la ligne de l’humain: les individus y sont encore des mortels, nés d’un père et d’une mère, et capables de développer leur sens de la justice et de la bonté. Mais, déjà, parce que cet humanisme ne se fonde pas sur l’homme et la femme tels que donnés par le Créateur, mais sur l’Homme tel que conçu par une idéologie, il est fortement constructiviste: il prétend souvent faire du passé table rase, se défaire du poids des traditions, tout ressaisir à partir d’un nouveau contrat social. Le postmoderne se situe donc à la fois en continuité et en rupture: il prolonge le constructivisme moderne, mais le radicalise, et rompt, par conséquent, avec son humanisme initial.

Au bout du compte, la logique d’une croissance technoéconomique infinie ne peut aboutir qu’à faire éclater les limites de l’humain. Or, curieusement, la notion de croissance infinie n’est pas païenne. Elle apparaît avec la théologie de la charité. À la question: Utrum caritas augeatur in infinitum, ”la charité peut-elle croître à l’infini ici-bas?”, saint Thomas d’Aquin répond par l’affirmative: étant participation à la charité infinie de l’Esprit Saint, elle n’est limitée ni dans son terme, ni dans son sujet, car, étant un don surnaturel fait à la créature, elle augmente sa capacité à la recevoir à mesure qu’elle se donne… Cela nous prouverait que le monde technolibéral propose une parodie de la charité. Quand on chasse le surnaturel, il revient sous une forme pathologique. On chasse la charité théologale, avec son accroissement à l’infini, et voilà que son mouvement se retrouve dans l’utopie d’une croissance matérielle indéfinie, et que sous cette forme pathologique, loin de sauver la créature, elle la dévaste, elle la fait éclater.

De nouveau, nous voyons le retournement qui s’opère. Prêcher la charité, jadis, c’était prêcher l’ouverture à l’infini. Mais la prêcher, aujourd’hui, ce doit être aussi prêcher l’acceptation d’une certaine finitude, ou plutôt l’assomption de notre finitude. Je peux le dire en une phrase qui est un peu devenue un leitmotiv de ma réflexion: en notre époque postmoderne et posthumaine, il ne suffit plus de dire que Dieu s’est fait homme pour que l’homme se fasse Dieu, il faut ajouter que Dieu s’est fait homme pour que l’homme reste humain. L’événement de l’Incarnation est celui d’une divinisation qui est aussi une humanisation, d’une grâce qui ne détruit pas la nature mais la soigne en la surélevant, d’une agapè qui n’abolit pas mais qui accomplit l’éros, comme le dit admirablement Benoît XVI au début de Deus caritas est.

Pour comprendre ce retournement, ou plutôt ce déplacement, qui va de la divinisation à l’humanisation, on peut prendre le mystère de la résurrection. Ce mystère, je peux le présenter d’abord comme promesse d’immortalité. Mais, si les biotechnologies sont capables de nous proposer une immortalité terrestre, alors la résurrection change de signe. Elle est accès à la vie éternelle, mais elle apparaît aussi comme promesse de mortalité, parce qu’il faut bien mourir pour être bien ressuscité. Elle signifie que la mort dans le Christ n’est pas un échec mais le lieu même de la suprême offrande et donc de la vitalité la plus extrême, et qu’au contraire c’est l’immortalité égoïste qui serait un échec complet.

Le “réalisme inouï” de la charité

7.  J’en suis arrivé insensiblement à ma deuxième partie. Dans la première, j’ai voulu montrer que le “message chrétien de la charité” ne s’adressait plus à l’homme moderne, mais à un homme postmoderne, qui cherche à sortir du plan de son humanité, de sa rationalité et du progrès politique. Il convient à présent de revenir à la charité en elle-même, et d’être un peu plus théologique, autant qu’il est permis à un philosophe de faire de la théologie.

J’ai déjà essayé de faire voir comment, dans le contexte de notre époque si singulière, la charité se présentait autrement. Mais si elle se présente autrement, ce n’est pas qu’elle serait devenue autre: participation à la Vie de l’Éternel, la charité est en elle-même immuable. C’est l’accent qui s’est déplacé. C’est l’explicitation de quelque chose qui était déjà là que le contexte actuel met en exergue. Comme toujours dans l’histoire de l’Église, et selon le mot de saint Paul, il faut qu’il y ait des hérésies parmi nous (Rm 7, 20), parce qu’elles éprouvent notre fidélité, et parce qu’elles sont l’occasion d’un certain développement dogmatique.

Quelle est la nature de la charité? Pourquoi, comme ouverture à l’infini, est-elle aussi, profondément, assomption de notre finitude? Cette question est décisive. Elle rejoint une question qui fut l’objet d’un débat entre Pierre Lombard et saint Thomas d’Aquin: La charité est-elle quelque chose de créé dans l’âme? C’est ce que demande Thomas juste après avoir défini la charité comme une amitié fondée sur la communication de la béatitude. Derrière cette question très pointue qui semble ne devoir intéresser que des théologiens chevronnés se cache un enjeu considérable. Pierre Lombard, le maître desSentences, disait que la charité n’était rien de créé en nous: c’est l’Esprit Saint lui-même qui nous traverse, comme la lumière traverse une vitre. Mais affirmer cela, c’est dire que l’homme en tant qu’homme n’est pas le sujet de la charité, qu’il ne l’exerce pas lui-même, personnellement, et de manière proportionnée à sa nature humaine, et c’est aller à l’encontre de la charité comme amitié, car l’amitié suppose d’être pour Dieu un vis-à-vis, et non un simple instrument entre ses mains.

Aussi Thomas récuse-t-il la thèse du Lombard en disant que cette participation à l’amour incréé de Dieu se fait par l’intermédiaire d’une vertu créée, de telle sorte que l’humain n’est pas dissout ni diminué, mais confirmé par le divin. La charité n’est pas une juxtaposition, mais une justification de l’humain. Son caractère surnaturel n’est pas quelque chose qui se superpose à la nature humaine, mais un don qui ressaisit les profondeurs de cette nature dans sa source.

8.  Cela veut dire, contre le gnosticisme, et contre le néo-gnosticisme matérialiste de la technologie, que la rédemption ne saurait aller contre la création, que le bien ne saurait être séparé de l’être, et que le construit ne saurait réduire le donné à des data, mais qu’il doit d’abord en considérer et célébrer le donum initial.

Il est un passage du traité de la charité, dans la Somme de Théologie, où saint Thomas énumère les cinq aspirations propres à l’amitié: “Chacun des amis, écrit-il, 1° veut l’existence de son ami, et qu’il vive; 2° il lui veut du bien; 3° il lui fait du bien; 4° il vit avec (convivit) son ami dans la joie; 5° il est un seul cœur avec lui (concordat), se réjouissant et s’attristant en lui.”  Thomas dit humblement qu’il ne fait que citer Aristote. Et pourtant il inverse l’ordre que l’on trouve dans l’Éthique à Nicomaque (IX, 4). Aristote avait mis en premier le fait de vouloir du bien et de faire du bien à l’ami. Thomas met en premier le fait de vouloir simplement que l’ami existe et vive.

Ce renversement est fondamental. L’amour veut d’abord que l’autre soit, et qu’il soit vraiment lui-même, avant de vouloir son bien. Sans cela, comme dans les utopies, ou comme dans les fantasmes des parents sur leurs enfants, le bien se sépare de l’être, et au nom du bien de l’autre, on le détruit en tant qu’autre, on en fait le simple réceptacle de ses projets de bonté.

9.  Se rejoint ici une pensée de Joseph Pieper dans son petit essai sur L’amour, que Joseph Ratzinger a pratiqué et admiré, au point que l’on entend des échos de cette lecture dansDeus caritas est. Pieper souligne que, dans l’amour, avant le vouloir-agir, avant l’exigence du bien, il y a le “pur assentiment d’approbation devant ce qui existe déjà”[1]. Dire: “Je t’aime”, c’est d’abord dire: “C’est bon que tu sois là ! Quelle merveille que tu existes !”, ce n’est qu’après que cela veut dire: “Je te veux du bien.” L’amour d’une personne est d’abord la répétition de la parole créatrice du Créateur: “Qu’il soit !” Et c’est pourquoi l’amour accueille le donné de la création avant de vouloir l’améliorer, sans quoi il se trahit, et les meilleures volontés s’égarent dans un activisme délétère.

Mais si aimer quelqu’un, c’est d’abord répéter la parole du Créateur, alors, dans l’amour, c’est toute la création qui se trouve justifiée – du Big Bang jusqu’à nos jours. Quand Béatrice apparaît, Dante chante: “Il n’y avait plus pour moi d’ennemis.[2]“ Joseph Pieper observe à la suite du poète que l’amour d’un seul être fait naître la certitude morale de la bonté universelle de tous les êtres en tant qu’ils sont créés, et ouvre à une vraie fécondité dans l’être[3]. L’amour de Béatrice est le même que l’ ”amour qui meut le soleil et les autres étoiles”. Il ne se réduit pas à un sentiment psychologique, il possède une extension cosmique, débordant, à partir de la célébration d’un être singulier, sur la singularité de chaque être, selon une universalité concrète, et non pas abstraite, parce que, pour que je puisse aimer Béatrice, il faut que la terre existe, que le soleil existe, et les plantes, et les animaux, et toutes les générations jusqu’à cette heure où je la rencontre.

Ce point de vue plus phénoménologique rejoint le point de vue théologique de Thomas d’Aquin. Et il permet de réaffirmer que la charité est d’autant plus authentique qu’elle assume l’ordre naturel, d’autant plus divine qu’elle épouse la nature humaine.

10.  C’est en ce sens que Benoît XVI écrit dans Deus caritas est (n. 28b): “Celui qui veut s’affranchir de l’amour se prépare à s’affranchir de l’homme en tant qu’homme.” Et c’est pourquoi il est si décisif de noter avec lui que “le moment de l’agapè s’insère dans l’éros; sans quoi l’éros déchoit et perd aussi sa nature même” (n. 7). Plus que jamais, dans un monde envahi par le virtuel, où la chair est de plus en plus ravalée au rang d’un matériau et d’une marchandise, la sagesse de la charité rejette tout spiritualisme et se manifeste comme une spiritualité de l’incarnation.

Au chapitre 12 de Deus caritas est, le pape Benoît a cette parole absolument déterminante: “La véritable nouveauté du Nouveau Testament ne consiste pas en des idées nouvelles, mais dans la figure même du Christ, qui donne chair et sang aux concepts – un réalisme inouï.”

La nouveauté de la charité est dans ce réalisme inouï, qui nous apprend que le spirituel n’est pas en concurrence avec le charnel, que l’incréé ne fait pas éclater le créé, et que devenir divin ne consiste pas à devenir un cyborg surpuissant, mais à mener la vie la plus humaine, la plus humble, celle d’un charpentier juif, par exemple, travaillant de ses mains, parlant sans microphone, ne réalisant aucune innovation technologique, mais investissant les choses les plus ordinaires – la table du repas, le pain, le vin – d’une présence et d’une tendresse bouleversantes.

Que l’on songe seulement au Ressuscité. Si l’on avait confié à un homme le soin d’inventer une histoire de ressuscité, il nous aurait dépeint un surhomme posant des actes spectaculaires, hypnotisant les foules, soulevant les montagnes du petit doigt. Rien de cela dans les Évangiles. Et c’est ce qui prouve que le Ressuscité des Évangiles est bien divin, et non la projection de notre vanité et de notre orgueil. Il pose les actes les plus simples: sur les bords du lac, il fait la cuisine pour ses disciples, les invite à manger, leur commente les Écritures…

Une proximité garantie par l’infini

11.  Lorsque l’on sait que l’essentiel est dans la charité, on échappe aux illusions futuristes. On retrouve son inscription dans l’histoire. Nous l’avons déjà suggéré: si le moderne prétendait accomplir la fin de l’histoire, le postmoderne, lui, prétend sortir de l’histoire, rompre avec l’antique tragédie humaine au profit d’un dispositif de divertissement total. Or, comme je le disais au début de mon intervention, la charité, comme point de contact du temps et de l’éternité, nous place en continuité avec ceux qui nous ont précédés. Nous savons grâce à elle qu’il ne s’agit pas de devenir un superman, mais une petite Thérèse; que le poverello d’Assise est plus riche que n’importe quel homme bardé d’implants et de prothèses; et que nous sommes en réalité plus contemporains de saint Augustin que d’un androïde.

On voit par là que la charité n’est pas un simple “apport” à l’homme postmoderne. Elle est pour lui la garantie de rester dans l’humanité historique, de conserver la mémoire longue de la tradition, de ne pas se perdre dans une amnésie technologique où l’imaginaire ne connaît plus que des dinosaures et des robots. C’est la spécificité d’une époque qu’il n’est pas abusif d’appeler apocalyptique: de plus en plus, le temporel ne pourra être garanti que par l’éternel, la chair par l’Esprit, la raison par la foi, le naturel par le surnaturel.

12.  Et même la proximité ne pourra être garantie que par l’infini. Par là je reviens au tout premier problème posé par notre énoncé. En quoi la charité est-elle un «message»? Dans la parabole du Bon Samaritain, le prêtre et le lévite sont sans doute remplis du message de la charité, et ils se dépêchent d’aller à Jérusalem pour communiquer ce message, parce que Jérusalem est à l’époque le centre d’un réseau de communications. Et c’est la raison pour laquelle ils passent à côté du pauvre homme agressé par les brigands sans s’arrêter: la charité est pour eux un message. Le Samaritain, lui, s’arrête et se rend proche. Car telle est l’inversion opérée par Jésus à travers cette parabole: un scribe lui demande “Qui est mon prochain?”, et il répond en montrant que c’est la charité qui nous rend prochain, que c’est elle qui réalise la dimension de la proximité.

Dans le même sens, Mère Teresa écrivait à ses sœurs dans une lettre générale en 1961: “Si Jésus nous a rachetés, ce n’est qu’en devenant l’un de nous. Notre mission est d’en faire autant: toute la détresse des pauvres, non seulement leur pauvreté matérielle, mais aussi leur misère spirituelle, doit être rachetée, et nous devons y avoir notre lot.” La charité a fait que le Verbe s’est fait chair et qu’il a habité parmi nous. Autrement dit, ce qui distingue la charité de la philanthropie ou d’une œuvre humanitaire, c’est qu’elle se déploie éminemment dans une proximité physique, dans le face-à-face et le côte-à-côte, dans un convivium dont la célébration eucharistique est la source et le sommet.

Il ne s’agit donc pas d’envoyer des messages. Le Christ ne dit pas à ses disciples: “Envoyez des messages dans le monde entier”, mais Allez dans le monde entier. Le message de la charité est dans la proximité du messager, et cela est inestimable dans une postmodernité où l’on est rivé à son écran, et où l’on a tellement désappris les arts de la convivialité que l’on s’égare dans les artifices de la consommation.

13.  Cela permet de comprendre le lien entre la charité et le caritatif. Comment se fait-il que l’amour divin, l’amour qui regarde l’autre comme appelé à être un dieu par participation, ait pu être associé aux œuvres caritatives, à l’aumône, à ce qu’on appelle “faire la charité”? On peut voir dans cela une déchéance et une déformation diabolique. C’est ce que pensait à juste raison Léon Bloy: “On a trois cent mille francs de rentes, on donne quelques sous à la porte de l’église, puis on s’élance dans une auto pour vaquer à des turpitudes ou à des sottises. Cela s’appelle: Faire la charité. Ah ! il faudra qu’un jour, Dieu qui a fait la langue de l’homme venge terriblement cette outragée !”

Cette dénonciation du “faire la charité” est incontournable. Et cependant, d’un autre côté, il faut reconnaître que la charité implique aussi un faire, qu’il y a un faire de la charité, qui est très humble, parce que ce faire n’est pas d’abord du côté de la technologie, mais de ces choses simples dont nous avons déjà parlé plus haut: offrir à manger et boire, donner des vêtements à celui qui est nu, un toit à celui qui est sans logis, visiter les malades et les prisonniers.

Et c’est en cela que la vertu la plus haute rejoint l’appétit le plus bas. La charité répond à la faim. Son faire n’est pas celui des gadgets, mais des nourritures. Au début de Caritas in veritate, le pape Benoît XVI parle de la vie comme vocation, mais à peine a-t-il prononcé ce terme qu’il cite Paul VI et renvoie à l’interpellation de ceux qui ont faim. Il laisse entendre que la vocation divine répond à cette interpellation animale: elle nourrit les affamés. On sait qu’aujourd’hui toutes les cinq secondes un enfant meurt de malnutrition. Mais il ne s’agit pas que de ce scandale, il s’agit de repenser toute l’économie à partir de cette charité d’un Ressuscité qui pendant quarante jours est au milieu de ses disciples et partage leur repas.

La charité nous rappelle que la base de l’économie n’est pas dans la haute finance mais dans l’agriculture; que ce qui se joue dans la Silicon Valley est moins important, moins divin, que ce qui se déploie dans les cultures vivrières; que les nourritures, enfin, ne sauraient être traitées comme des marchandises sur lesquelles on spécule. Jésus dit que son Père est vigneron (Pater agricola), et non informaticien ou financier, pas seulement parce que les ordinateurs n’existaient pas à l’époque, ou qu’il n’appartenait pas à une famille de banquiers, mais parce que nourrir les hommes relève de la première justice comme de la première charité. Maître Eckhart note dans ses Entretiens spirituels (§ 10): “Si quelqu’un était dans un ravissement comme saint Paul et savait qu’un malade attend qu’il lui porte un peu de soupe, je tiendrais pour préférable que, par amour, tu sortes de ton ravissement et serves le nécessiteux dans un plus grand amour.”

Toute la charité est là. Elle relie le fini et l’infini, le charnel et le spirituel, la faim primaire et la fin dernière. Il ne s’agit pas de bons sentiments, mais de réalisme. Les personnes sont d’une richesse incomparablement plus grande que les choses, et partager une soupe avec un envoyé de la providence vaut mieux que toutes les orgies solitaires. Telle est, en nos temps de mirages technologiques, la simple humanité que restaure la charité divine.

Fabrice Hadjadj

Note al testo

[1] Josef Pieper, Sull'amore (Ed. italiana Morcelliana, Brescia 1974).

[2] Vita Nova, XI.

[3] Josef Pieper, Ibid.