Leggendo Ortodossia di G. K. Chesterton: perché i dogmi sono così importanti nella chiesa?

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 15 /01 /2010 - 00:04 am | Permalink | Homepage
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da G. K. Chesterton, Ortodossia, Morcelliana, Brescia, 2005, pp. 112-139

Quello che ci turba in questo mondo non è che sia un mondo irragionevole e nemmeno ragionevole; quello che ci turba è generalmente che sia un mondo quasi ragionevole ma non completamente. La vita non è illogica; pure, è un trabocchetto per i logici. Sembra un poco appena più matematica e regolare di quel che non sia; la sua esattezza è ovvia, la sua inesattezza è latente; la sua stravaganza è come in agguato. Do un esempio grossolano di ciò che voglio dire: supponete che qualche matematico venga dalla luna a fare dei calcoli sul corpo umano: egli vedrebbe subito che la essenziale caratteristica di questo è di essere duplice. Un uomo è due uomini, dei quali quello di destra somiglia esattamente a quello di sinistra. Visto che c’è un braccio a destra e uno a sinistra, una gamba a destra e una a sinistra, egli potrebbe andare più in là e troverebbe ancora da entrambe le parti lo stesso numero di dita e poi due occhi, due orecchi, due narici e perfino due lobi cerebrali. Prenderebbe questa per una legge e, trovando un cuore da una parte, ne dedurrebbe che c’è un altro cuore dall’altra. Proprio allora, quando egli si crederebbe sicuro di aver ragione, avrebbe torto.

[...]

Ora è questo che io propongo si dica del cristianesimo; non pure che deduce verità logiche, ma che se talora diventa illogico vuol dire che ha trovato – diciamo così – una verità illogica. Non solo va diritto nelle cose, ma va di traverso (se così si può dire) quando le cose vanno di traverso. Il suo piano segue le irregolarità segrete e aspetta l’inaspettato. È semplice intorno alle verità semplici, è ostinato intorno alle verità sottili. Ammetterà che un uomo ha due mani; non ammetterà (sebbene i modernisti lo deplorino) l’ovvia deduzione che egli ha due cuori. Mio solo scopo di questo capitolo è di mettere in rilievo ciò, di mostrare che ogni qualvolta nella teologia cristiana c’è qualche cosa di strambo, troveremo che c’è qualche cosa di strambo nella verità.

[...]

Dal momento che uno accetta un credo, dev’essere orgoglioso della sua complessità come gli scienziati sono orgogliosi della complessità della scienza: ciò ne mette in rilievo la ricchezza. Se tutto è esatto, è un vanto poter dire che è elaboratamente esatto. Un bastone può turare un buco o una pietra una fossa, per combinazione; ma una chiave e una toppa sono più complicate, e se una chiave gira nella toppa vuol dire che è la chiave buona.

[...]

Se si domanda a bruciapelo a una persona di intelligenza comune: «Perché preferisci la civiltà alla barbarie?», egli guarderà intorno sbalordito oggetto per oggetto, e riuscirà soltanto a rispondere vagamente: «Perché c’è lo scaffale dei libri e il carbone nel secchio del carbone… e il piano forte… e i poliziotti». Tutta la questione della civiltà è che è una questione complicata. Essa ha fatto molte cose; ma quella stessa molteplicità di prove che dovrebbe rendere la risposta schiacciante, la rende invece impossibile.

[...]

Tutto quanto avevo appreso in giovinezza di teologia cristiana, me ne aveva allontanato: a dodici anni ero pagano, a sedici completamente agnostico, e non posso capire come uno oltrepassi l’età di diciassette anni senza essersi posto un problema così semplice. Conservai sempre, però, un oscuro rispetto per una divinità cosmica e un grande interesse storico per il fondatore del Cristianesimo; certo, lo considerai come uomo, sebbene forse pensassi che, anche su questo punto, Egli aveva un vantaggio su taluno dei suoi moderni critici. Lessi tutta la letteratura scientifica e scettica del mio tempo - quella almeno che potei trovare scritta in inglese e a portata di mano; e non lessi nient’altro: voglio dire nient’altro che seguisse altro indirizzo filosofico…

Non avevo letto mai una linea di apologetica cristiana; anche oggi ne leggo il meno possibile. Furono Huxley, Herbert Spencer e Bradlaugh, che mi ricondussero alla teologia ortodossa; essi seminarono nel mio spirito i primi forti dubbi sul dubbio. Le nostre nonne avevano pienamente ragione quando dicevano che [...] i “liberi pensatori” ci sconvolgevano la mente. Era vero. La mia, la sconvolsero in modo orribile. Il razionalista mi costringeva a chiedermi se la ragione serva a qualche cosa; finito che ebbi di leggere Spencer, arrivai a dubitare (per la prima volta) se l’evoluzione si fosse mai verificata. E quando posai l’ultima delle conferenze atee del colonnello Ingersoll, un pauroso pensiero mi attraversò la mente: “Quasi quasi mi persuade ad esser cristiano”. Ero sulla via della disperazione.

Questo strano effetto dei grandi agnostici di suscitare dubbi più profondi del loro proprio dubbio potrebbe essere illustrato in parecchi modi. Ne prendo uno: quando lessi e rilessi tutto quel che di non-cristiano e di anti-cristiano era stato scritto sulla fede, da Huxley a Bradlaugh, un’idea lenta e tenace s’impresse gradualmente ma graficamente nel mio cervello - l’idea che il cristianesimo doveva essere una cosa straordinaria poiché non solo (a quanto io capivo) il cristianesimo aveva i più fiammeggianti vizi, ma aveva avuto evidentemente il mistico talento di combinare insieme vizi che parevano incompatibili l’uno con l’altro.

Era attaccato da tutte le parti e per motivi tutti contraddittori. Un razionalista aveva appena dimostrato che era troppo a levante e subito un altro dimostrava con altrettanta chiarezza che era ancora più a ponente. Non prima si era calmata la mia indignazione per la sua angolare e aggressiva quadratura che mi si chiamava ad avvertire e a deplorare la sua snervante e sensuale rotondità. Se qualche lettore non avesse fatto l’esperienza ch’io dico, ecco alcuni esempi, come mi vengono alla mente, di questa auto-contraddizione nella critica scettica […].

Ero stato colpito, per esempio, dall’eloquente attacco contro il Cristianesimo come cosa inumanamente oscura; perché io pensavo (ed ancora penso) che il pessimismo quando è sincero sia un imperdonabile peccato. Il pessimismo insincero è un accomodamento sociale, piacevole anzi che no; e fortunatamente quasi tutto il pessimismo è insincero. Ma se il Cristianesimo era, come diceva questa gente, puramente pessimistico e opposto alla vita, ero preparato a scaraventarlo giù dalla Cattedrale di San Paolo. La cosa straordinaria era invece questa: che essi mi provavano nel Capitolo I (con mia completa soddisfazione) che il Cristianesimo era troppo pessimista; e poi nel Capitolo II cominciavano a dimostrarmi che era eccessivamente ottimista.

Un’accusa contro il Cristianesimo era che impediva agli uomini con morbose lacrime e terrori, di cercare la gioia e la libertà nel seno della natura; un’altra accusa era che confortava gli uomini con una fittizia provvidenza e li trastullava come bambini in una nursery bianca e rosa: un grande agnostico chiedeva perché la natura non potesse mostrare tutta la sua bellezza e perché ci fossero tanti ostacoli alla libertà; un altro obiettava che era l’ottimismo cristiano era una “veste d’illusioni tessuta da mani pietose” e che ci nascondeva la bruttezza della natura e l’impossibilità di esser liberi. Un razionalista non aveva finito di chiamare il Cristianesimo un incubo che un altro si metteva a chiamarlo il paradiso di un idiota. Ciò mi scompigliava le idee: le accuse mi sembravano incoerenti.

Il Cristianesimo non poteva essere al tempo stesso una maschera nera su un mondo bianco e una maschera bianca su un mondo nero. La condizione del cristiano non poteva essere tanto comoda da essere una viltà l’aggrapparvisi, né tanto scomoda da essere una pazzia il rimanervi. Se falsificava la visione umana, doveva falsificarla per un verso o per l’altro: non poteva portare insieme gli occhiali verdi e gli occhiali color rosa. Io rimuginavo con terribile gioia, come tutti i giovani del mio tempo, l’insulto gridato da Swinburne contro l’aridità del Cristianesimo:

Hai vinto, o pallido Nazareno,
sotto il soffio del tuo respiro il mondo è triste e grigio.


Ma quando lessi le descrizioni che lo stesso poeta ci dava del paganesimo (come in “Atalanta”) conclusi che il mondo era, se possibile, più triste prima del respiro del Nazareno che dopo. Il poeta sosteneva, del resto, che la vita è per sé stessa come nera pece. E tuttavia, in qualche modo, il Cristianesimo l’aveva resa più nera. Lo stesso uomo che denunciava il Cristianesimo per il suo pessimismo era egli stesso un pessimista.

Pensai che ci dovesse essere qualche cosa di sbagliato; e mi attraversò la mente il pensiero che, forse, non potevano essere i migliori giudici dei rapporti della religione con la felicità quelli che, per loro dichiarazione, non avevano né l’una né l’altra. Ben inteso, non conclusi frettolosamente che le accuse fossero false o gli accusatori pazzi. Ne dedussi semplicemente che il Cristianesimo dovesse essere più esiziale e più cattivo di quanto lo dipingevano. Una cosa può avere due vizi opposti; ma deve essere, in tal caso, una cosa assai strana. Un uomo può essere troppo grasso in un posto e troppo magro in un altro; ma sarà buffo. A questo punto mi si presentò al pensiero l’idea che la religione cristiana avesse una forma bizzarra; non attribuii alcuna forma bizzarra al pensiero razionalistico.

Ecco un altro esempio della stessa specie. Sentivo che un forte argomento contro il Cristianesimo riposava sull’accusa che ci fosse qualche cosa di timido, di monacale, di non-virile in tutto ciò che si chiama “cristiano”, specialmente nel suo atteggiamento riguardo alla resistenza e alla combattività. I grandi scettici del diciannovesimo secolo furono virili nel senso più lato. In confronto, pareva sostenibile che ci fosse qualche cosa di debole e di passivo nell’insegnamento cristiano.

Il paradosso del Vangelo sull’“altra guancia”, il fatto che i preti non hanno mai combattuto, cento altre cose rendono plausibile l’accusa che il Cristianesimo è un tentativo di far diventare l’uomo simile a una pecora. Queste cose che avevo letto le credevo e, se non avessi letto altro, avrei continuato a crederle. Ma lessi qualche cosa di molto diverso: voltai la pagina del mio manuale agnostico e anche il cervello mi diede di volta.

Ora trovavo che bisogna odiare il cristianesimo non perché è troppo poco battagliero, ma perché lo è troppo: il Cristianesimo (a quanto pareva) era il padre delle guerre; il Cristianesimo aveva fatto del mondo un lago di sangue. Ero in collera coi cristiani perché non erano stati mai in collera; ora mi si diceva di essere in collera con loro perché la loro collera era stata la più enorme e orribile cosa della storia umana; aveva inondato la terra e oscurato il sole. Quelli che rimproveravano al Cristianesimo la mansuetudine e la non-resistenza dei monasteri erano gli stessi che gli rimproveravano anche la violenza guerresca delle Crociate. In qual mondo di enigmi erano nate questa mostruosa criminalità e questa mostruosa mitezza? La forma del Cristianesimo diventava più bizzarra ad ogni istante.

Prendo un terzo esempio; il più strano di tutti perché implica la sola reale obiezione alla fede. La sola reale obiezione alla religione cristiana è semplicemente che è una sola religione. Il mondo è grande, pieno di popoli di diversa razza; il Cristianesimo (si può ragionevolmente dire) è un fatto limitato principalmente ad una sola area del mondo: cominciò in Palestina, si è praticamente fermato in Europa. Questo argomento quando ero giovane mi faceva la debita impressione, e mi sentivo molto attirato verso una dottrina spesso predicata nelle società etiche - la dottrina secondo la quale esiste una inconsapevole grande Chiesa di tutta l’umanità fondata sull’onnipresenza della coscienza umana.

I credi, si diceva, dividono gli uomini; la morale li unisce. Lo spirito può frugare nelle più strane e remote terre ed età, e troverà sempre un essenziale sentimento etico comune. Troverà sotto gli alberi di oriente Confucio che scrive “Tu non ruberai”; decifrerà i più oscuri geroglifici nel deserto e il loro significato sarà “I bambini non devono dire bugie”. Io credetti vera questa dottrina della fratellanza di tutti gli uomini nel possesso di un unico sentimento morale e la credo ancora - ma insieme con qualche cos’altro. Ero fortemente irritato verso il Cristianesimo perché ammetteva (almeno supponevo) che intere età ed imperi sfuggissero totalmente a questa luce di giustizia e di ragione.

Ma allora mi capitava un fatto sorprendente: trovavo che quelli che dicevano che l’umanità era una sola chiesa da Platone a Emerson erano gli stessi che sostenevano che la morale è sempre cambiata e che quel che era vero in un’età era falso in un’altra. Se io cercavo, per esempio, un altare, mi si rispondeva che non ce n’è bisogno perché gli uomini nostri fratelli ci danno chiari oracoli ed una fede nelle loro universali consuetudini e idealità. Ma se timidamente osservavo che una delle universali consuetudini umane è quella di avere un altare, i miei maestri di agnosticismo rigiravano il discorso e dicevano che gli uomini sono sempre stati avvolti dalle tenebre superstiziose dei selvaggi.

La loro quotidiana offesa al Cristianesimo era che, mentre era stato la luce di un popolo, aveva lasciato tutti gli altri nell’oscurità; senonché era anche particolare vanto che la scienza e il progresso erano le scoperte di un solo popolo e che tutti gli altri erano immersi nelle tenebre. Quello che era un insulto per il cristianesimo doveva essere un elogio per loro, e sembrava esserci una strana malafede nella loro insistenza su queste due cose.

Se parliamo di un pagano o di un agnostico, siamo invitati a ricordare che tutti gli uomini hanno una religione; se parliamo di un mistico o di uno spiritualista, siamo invitati a considerare quali assurde religioni certi uomini abbiano avuto. Possiamo fidarci della morale di Epitteto perché la morale è sempre la stessa; non dobbiamo fidarci della morale di Bossuet perché la morale è cambiata. È cambiata in duecento anni, non in venti secoli. La cosa cominciava a diventare allarmante. Sembrava non tanto che il Cristianesimo fosse così cattivo da riunire in sé tutti i vizi, quanto piuttosto che ogni bastone fosse buono per bastonare il Cristianesimo.

A che dunque somigliava questa cosa stupefacente che tanti erano così ansiosi di contraddire da non badare se contraddicendola contraddicevano se stessi? Da tutti i lati vidi la stessa cosa.

[...]

Ancora, gli anticristiani dicono che certe frasi delle Epistole o della Messa nuziale dimostrano il disprezzo per l’intelligenza della donna; senonché gli anticristiani stessi mostrano disprezzo per l’intelligenza della donna: quando dicono sogghignando che in chiesa nel Continente non ci vanno che le donne.

[...]

Nella stessa conversazione un libero pensatore mio amico biasimava il Cristianesimo perché disprezzava gli ebrei e poi lo disprezzava perché ebraico. Io volli esser giusto allora, come voglio esser giusto ora; perciò non conclusi che l’attacco al Cristianesimo fosse infondato. Conclusi soltanto che se il Cristianesimo era falso, era falso davvero. Tante ostili ripugnanze possono concentrarsi su di una cosa, ma dev’essere una cosa veramente strana e solitaria. Ci sono degli avari che sono anche prodighi, ma sono rari; ci sono sensuali ascetici, ma sono rari. Ma se realmente esiste questo ammasso di folli contraddizioni, quacchero e assetato di sangue, troppo sfarzoso e troppo misero, austero e assurdamente ostentato alla concupiscenza degli occhi, nemico delle donne e loro pazzesco rifugio, solenne pessimista e sciocco ottimista, se questo male esiste c’è in questo male qualche cosa di supremo e di unico.

Non ho trovato nei miei maestri razionalisti nessuna spiegazione di una simile eccezionale corruzione. Il Cristianesimo (teoricamente parlando) non era ai loro occhi che uno degli ordinari miti ed errori dei mortali. Essi non mi davano la chiave di questa aggrovigliata e innaturale malvagità. Un tale paradosso di male raggiungeva la statura del soprannaturale: era quasi così soprannaturale come l’infallibilità del Papa. Una istituzione storica che non è mai andata diritta è certo altrettanto miracolosa che un’istituzione che non possa andare storta. La sola spiegazione che mi si presentava subito alla mente era che il Cristianesimo non venisse dal cielo ma dall’inferno. In realtà, se Gesù di Nazareth non era Cristo, doveva essere l’Anticristo.

[...]

Infine (cosa più importante di tutte) questo fatto spiega quel che della storia del Cristianesimo resta inesplicabile a tutti i critici moderni; voglio dire le mostruose guerre intorno a minuscole questioni di teologia, i terremoti di emozione per un gesto o per una parola. C’era la differenza di un pollice, ma un pollice è tutto quando si tratta di raggiungere un equilibrio. La Chiesa non può sgarrare di un capello se deve continuare il suo grande e rischioso esperimento di irregolare equilibrio. Una volta lasciato che un’idea perda di potenza, un’altra idea diventerà troppo potente. Non è un gregge di pecore che il pastore cristiano deve guidare, ma un’orda di bufali e di tigri, di ideali terribili e di dottrine divoranti, ognuna abbastanza forte per trasformarsi in una falsa religione e devastare il mondo.

Non dimentichiamo che la Chiesa si affermò specificamente per le sue idee pericolose: fu una domatrice di leoni. L’idea della nascita dallo Spirito Santo, della morte di un Essere divino, del perdono dei peccati, dell’adempimento delle profezie sono tutte idee che (ognuno lo comprende) basta un tócco per trasformarle in qualche cosa di blasfemo e di feroce.

[...]

Una frase erroneamente formulato sulla natura del simbolismo avrebbe distrutto tutte le più belle statue d’Europa; una svista nelle definizioni poteva arrestare tutte le danze, poteva far seccare tutti gli alberi di Natale e rompere tutte le uova di Pasqua. Le dottrine devono essere definite entro limiti rigorosi, anche perché l’uomo possa godere delle generali libertà umane. La Chiesa deve avere tutte le cure se si vuole che il mondo possa essere senza cura.

Questo è il sensazionale romanzo dell’ortodossia. Taluni hanno preso la stupida abitudine di parlare dell’ortodossia come di qualche cosa di pesante, di monotono e di sicuro. Non c’è, invece, niente di così pericoloso e di così eccitante come l’ortodossia; l’ortodossia è la saggezza, e l’esser saggi è più drammatico che l’esser pazzi; è l’equilibrio di un uomo dietro cavalli che corrono a precipizio, che pare si chini da una parte, si spenzoli da quell’altra, e pure, in ogni atteggiamento, conserva la grazia della statuaria e la precisione dell’aritmetica.

La Chiesa nei primi tempi fu superba e veloce come un cavallo da guerra; ma è assolutamente antistorico dire che essa seguì puramente la facile via diritta di una idea - come un volgare fanatismo. Essa deviò a destra e a sinistra con tanta esattezza da evitare enormi ostacoli; lasciò da un lato la grande mole dell’arianesimo, dall’altro tutte le forze del mondo che volevano rendere il Cristianesimo troppo mondano, un momento dopo troppo allontanato dal mondo.

La Chiesa ortodossa non scelse mai le strade battute, né accettò i luoghi comuni; non fu mai rispettabile. Sarebbe stato facile accettare la potenza terrena degli ariani; sarebbe stato facile, nel calvinistico diciassettesimo secolo, cadere nel pozzo senza fondo della predestinazione.

È facile esser pazzi; è facile essere eretici; è sempre facile lasciare che un’epoca si metta alla testa di qualche cosa, difficile è conservare la propria testa; è sempre facile essere modernisti, come è facile essere snob. Cadere in uno dei tanti trabocchetti dell’errore e dell’eccesso, che, da una moda all’altra, da una sètta all’altra, sono stati aperti lungo il cammino storico del Cristianesimo - questo sarebbe stato semplice.

È sempre semplice cadere: c’è un’infinità di angoli da cui si cade, ce n’è uno soltanto a cui ci si appoggia. Perdersi in un qualunque capriccio, dallo Gnosticismo alla Teosofia, sarebbe stato ovvio e banale. Ma averli evitati tutti è l’avventura che conturba; e nella mia visione il carro celeste vola sfolgorante attraverso i secoli, mentre le stolide eresie si contorcono prostrate, e l’augusta verità oscilla ma resta in piedi.