Scuola, cultura, religione [Il problema e l’opportunità dell’Insegnamento della religione nella scuola italiana, alla luce della persona, della storia e del diritto], di Carlo Cardia

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 13 /11 /2016 - 21:50 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito la relazione tenuta dal prof. Carlo Cardia per il ciclo Stato – Chiesa – Scuola, organizzato dall’Ufficio catechistico e dall’Ufficio scuola della diocesi di Roma e ospitato presso il Liceo “E. Q. Visconti”. L’incontro si è tenuto il 26 ottobre 2016. I neretti sono nostri ed hanno l’unica finalità di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sotto-sezioni Educazione e Insegnamento della religione (IdR) e Educazione e intercultura.

Il Centro culturale Gli scritti (13/11/2016)

INDICE

1/ PREMESSA

Un’esperienza specifica, nell’orizzonte da cui è nata l’idea del nostro incontro, c’è. Ed è l’esperienza che ho avuto modo di fare, in tanti anni d’insegnamento universitario, nel rapporto con i miei studenti, nella percezione che ho avuto della loro conoscenza della religione, del loro interesse per la religione in quanto tale. Questo rapporto ha anche una dimensione numerica. Perché ho insegnato a Siena, Cagliari, Pisa, e Roma, ma a Roma ho avuto, per circa 22 anni, tra i 250 e i 300 ragazzi a lezione. E tutti gli anni, ad un certo punto del corso, ho sempre chiesto ai ragazzi se avessero frequentato a scuola la c. d. “ora di religione”, o avessero avuto altri rapporti con uomini di Chiesa, cattolici, o d’altre Chiese o confessioni religiose. La risposta è sempre stata apparentemente positiva, perché – al di là di un certo declino degli ultimi tempi – mi veniva detto che avevano frequentato l’ora di religione in percentuali molto alte: tra il 70 e l’80 per cento. E che a volte avevano fruito di incontri di tipo culturale-religioso.

Ma il profilo qualitativo più importante della mia esperienza è un altro, sta in una contraddizione sempre più forte che ho avvertito. Da una parte, in modo progressivo, soprattutto negli ultimi anni, ho avuto la netta impressione che la conoscenza della religione (quella cristiana, ancor più le altre) si facesse sempre più limitata, debole, a volta con delle carenze, dei vuoti, impressionanti. D’altra parte, però, ho sempre registrato un interesse vero, direi palpitante, dei giovani per la religione, per la storia della Chiesa e delle Chiese, un desiderio di capire tante cose, alcune belle, qualcuna brutta, che scaturiscono della fenomenologia religiosa. Insomma, quasi una contraddizione tra il grande interesse per la religione – non dobbiamo mai dimenticare che è propria della giovinezza la grande curiosità per tutto ciò che ci circonda – e una scarsa conoscenza storica e culturale di tutto ciò che la religione e le Chiese sono state e hanno prodotto.

Tenete conto che insegno diritto ecclesiastico e canonico, storia dei rapporti tra Stato e Chiesa, in aggiunta per 10 anni ho insegnato anche Filosofia del Diritto. Quindi, la conoscenza della religione è un po’ il presupposto (una condizione necessaria) per comprendere materie che hanno alla base il pensiero umano, ciò che gli uomini pensano, o credono, o cui aspirano. Bene, io ho dovuto un po’ per volta modificare l’insegnamento, un po’ anche il linguaggio, renderli semplici, dedicando spazio a spiegare concetti, illustrare eventi storici, che un tempo consideravo ovvii, scontati, quasi banali, e che oggi sembrano essere, almeno per alcuni, assolutamente sconosciuti.

Racconto due aneddoti che chiariscono ciò che voglio dire. Una volta, parlando delle Scritture, pronunciai a lezione la parola “Apocalisse”, e vidi lo sconcerto nei volti dei ragazzi, che sono sempre molto espressivi: si guardavano l’un l’altro, assai perplessi, come se avessi detto qualcosa d’incomprensibile. Per curiosità chiesi chi di loro sapesse cosa era l’Apocalisse, e una sola mano si alzò per dirmi che era un Libro del Nuovo Testamento: era la mano di una Signora di circa 50 anni, cioè di una “anziana” che seguiva il corso. L’altro aneddoto, se possibile, è ancora più singolare, oltre che, se posso dire, esilarante. All’inizio dell’esame di un ragazzo mi resi conto che impapocchiava (termine tecnico) parecchio sulle Religioni del Libro, e sui libri (Testi Sacri) delle Religioni, in particolare citando senza alcun costrutto il Vecchio Testamento. Gli chiesi allora di dirmi cos’era, e dopo molte esitazioni, mi rispose che non lo sapeva ma poteva arrivarci con il ragionamento. Dopo un ulteriore riflessione mi disse che forse il Vecchio Testamento è quel testamento che una persona deposita dal Notaio, e che diventa vecchio quando viene sostituito da uno nuovo che cambia le ultime volontà. Io gli avrei dato il Nobel per la fantasia e l’acume dimostrato, anche se ho dovuto bocciarlo. Ma è tornato dopo un mese ed era bravissimo.

A questi due aneddoti fa da contorno la realtà che citavo prima. Una realtà di impoverimento serio di cultura e di conoscenza delle più essenziali questioni religiose, a cominciare da quelle attinenti al cristianesimo, in senso storico e dottrinale. Questa constatazione ha su di me un valore ancor più deprimente, in quanto sono stato, lo sono tuttora, tra i più strenui sostenitori dell’insegnamento religioso nella scuole, e lo sono stato in termini concreti e fattivi, avendo partecipato alle Trattative per il Concordato dal 1976 al 1984, e avallato proprio l’insegnamento religioso a nome del maggior partito della sinistra dell’epoca. Pochi sanno che fu proprio Enrico Berlinguer a sostenere l’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, motivandolo con l’esigenza di parlare ai ragazzi dei valori e dei principi etici fondamentali. E questo sostegno, molto apprezzato dal Card. Agostino Casaroli, fu decisivo per mantenere un rapporto positivo e salutare tra scuola e religione in Italia.

Oggi, a distanza di tanto tempo dal 1984, l’anno della riforma del Concordato, mi sono posto il problema se l’insegnamento religioso che si impartisce nelle nostre scuole sia ancora all’altezza delle sue finalità primarie, e cosa si possa fare soprattutto perché nella nostra società si riapra un circuito di conoscenza della religione, e del cristianesimo in particolare, che sta sempre più scemando, e che invece è sempre più indispensabile nell’attuale fase di interculturalità e di pluralismo religioso che stiamo vivendo. Vi chiedo però di non considerare ciò che dirò come critica agli insegnanti di religione, di cui conosco le difficoltà e l’impegno, soprattutto in una scuola che non sempre è prodiga di riconoscimenti nei loro confronti.

2/ LA RELIGIONE È VITA VISSUTA, PER L’INDIVIDUO E PER LA SOCIETÀ

Vorrei allora allargare un po’ l’orizzonte e porre una domanda di carattere generale, per impostare introdurre il tema del rapporto tra scuola e religione. Cosa è per noi la religione, cosa pensiamo che sia, e come dobbiamo conoscerla e studiarla, e farla conoscere. Certo, c’è una dimensione teologica della religione, come ce n’è una dottrinale ed etica, e poi una istituzionale della Chiesa e delle Chiese. Sono tutte importanti, ma ciascuna di esse, isolatamente considerata, è inadatta a dare un quadro d’insieme del fenomeno religioso, e del suo rapporto con la società, e ciò soprattutto per i giovani.

Per capirci, brevemente. La teologia, da sola, ci dice poco, e presenta elementi di pericolosità, per la sua natura dogmatica. Dobbiamo all’esclusivismo teologico quell’animus persecutionische ha prodotto infinite tragedie, guerre di religione, che hanno fatto agire alcune Chiese (compresa la cristiana) in antitesi alla dignità, ai diritti umani. All’esclusivismo teologico dobbiamo, poi, l’introduzione di quella logica amico-nemico, che è stata innestata nel cuore degli uomini, e della quale stentiamo ancora oggi a liberarci.

Per rimanere in casa nostra, la giuridicizzazione che il cristianesimo ha subito nell’Impero romano ha portato a scrutare fino all’inverosimile la sostanza e la forma del Dio biblico, fornendo quasi un circostanziato stato di famiglia della Trinità, provocando eresie a non finire, e infinite repressioni. E ricordo con disagio quanto mi disse un teologo in un recente Convegno, sostenendo che la questione del “Filioque” resta fondamentale ancora oggi per l’umanità e il suo destino. Devo confessare che in quel momento ho pensato con vera gratitudine al nostro legislatore liberale che con grande lungimiranza nel secondo Ottocento chiuse le Facoltà di teologia, e abolì l’insegnamento istituzionale di teologia dalle Università statali. Impedendo così che in Italia ci si dividesse anche su questioni teologiche, con la loro carica esclusivista, a mio avviso quasi insopprimibile. Questa considerazione non toglie nulla all’importanza dell’elemento teologico, che deve essere conosciuto, ma esso non esaurisce la dimensione della conoscenza della religione e del suo rapporto con la persona e la società.

Anche la dottrina, quella etica in particolare, ci offre un quadro parziale della religione, e qualche sofferenza umana patita a causa sua, ma ci dice qualcosa di più sulla sua capacità evolutiva. Conosciamo ad esempio le indicazioni che i testi sacri danno in materia di cibi, di rapporti con gli animali, con la natura. E mentre il cristianesimo ha abolito ogni regola, eliminando i sacrifici cruenti degli animali (ma non la loro soggezione agli uomini), altre religioni hanno tenuto fermi antichi costumi, come derivati da Dio.

Un esempio ancora riguarda l’etica sessuale, che è fondativa quasi in ogni religione, ma è soggetta anche a cambiamenti sorprendenti. Ne indico due molto recenti. La Chiesa cattolica considerava un tempo (non lontano) i conviventi pubblici peccatori e concubini, con tutte le conseguenze che ne derivavano in ordine alla loro dignità personale e sociale. È rimasto celebre in Italia il caso del Vescovo di Prato che nel 1956 definì pubblici peccatori e concubini due persone che avevano celebrato il matrimonio civile (quindi, tecnicamente: neanche conviventi) in luogo di quello religioso. Ne seguì una querelle che fece molto bene all’Italia perché ci aiutò a uscire da quel clima confessionista che avvolgeva la vita pubblica. Bene, nel Sinodo del 2015 sulla Famiglia la convivenza viene vista sotto altra luce, parzialmente riconosciuta nella sua legittimità etica, fino al punto che si è detto che nelle convivenze ci sono anche elementi di santità. Ora, io sono ben felice di questa evoluzione, ma mi sembra che sia nelle definizioni di “pubblici peccatori e concubini”, sia in quella di “un po’ santi”, vi siano delle esagerazioni. Forse era meglio dire, nel 1956 e nel 2015, che i conviventi sono delle “persone libere di fare le proprie scelte”.

Più singolare ancora il caso dell’omosessualità, condannata da tutte le religioni con anatemi definitivi. Il cambiamento di questi ultimi anni è per un verso molto positivo. Quasi tutte le Chiese cristiane hanno fatto autocritica, riconoscendo che la dignità degli omosessuali è stata a lungo vilipesa, e la scelta omosessuale è legittima quanto meno perché inerente alla dignità della persona. Poi, però, alcune Chiese sono andate ben oltre, sostenendo che a ben vedere anche le Scritture considerano l’omosessualità positiva, addirittura parte integrante della dimensione dell’amore cristiano, contenuta nel Vangelo e perfino nelle lettere di S. Paolo. In un documento della Federazione delle Chiese protestanti in Svizzera del 2005 si sostiene che, pur essendo i giudizi della Bibbia apparentemente senza appello, in realtà le condanne di Paolo contengono fattori contingenti, e il termine stesso di “natura” è usato in modo evolutivo, con la conseguenza che le antiche condanne non hanno più alcun valore. Teologia e dottrina hanno, naturalmente, un posto importante nello studio delle religioni, ma il loro studio va strettamente unito ad un altro, alla riflessione sul rapporto tra le religioni, la persona, la società, può essere compreso solo all’interno di una linea evolutiva che tutti noi viviamo continuamente.

Chiediamoci ad esempio: come la religione (parlerò molto di cristianesimo, ma non solo) ha cambiato la storia, ha modificato, migliorandola, perfezionandola, o anche ferendola, la vita delle persone, la collettività, persino le istituzioni e lo Stato. Questa domanda, che io tratterò all’inizio in chiave storica ed evolutiva, può essere formulata al presente: in che modo la religione ha un senso oggi per noi, per la persona, per i problemi della società nella quale viviamo, e quindi in che senso è giusto conoscerla. E questa domanda si fonda su una convinzione, per la quale la religione è storia e vita vissuta, se ne possono cogliere i caratteri e le qualità, specie attraverso la sua incidenza sulla realtà e sulla sua evoluzione.

Una considerazione ancora. Quando parlo del rapporto tra fede, religione, società io intendo escludere la forma apologetica della narrazione, mentre credo che, più che in altre materie, la conoscenza della religione debba ispirarsi al “principio di verità”. Riflettiamoci un momento. In chi insegna religione, o ne parla, o ne discute, c’è a volte come un vizio d’origine, quasi istintivo, quello di dover trovare un filo conduttore sempre positivo e coerente (cioè, apologetico) nella vicenda religiosa. Quasi che questa sia frutto esclusivo e integrale di una dimensione sacra, di una superiore visione etica, di un qualcosa che avendo origine solo spirituale e/o divina, sia perciò stesso garantita dalla corruzione, dall’errore, da cadute anche gravi. E naturalmente, chi muove da una prospettiva non religiosa, o dichiaratamente atea, compie l’errore opposto, cede a una concezione anti-apologetica, di critica e negazione totale della religione, anche di ciò che è positivo e gratificante per tutti.

Direi di più. Gli uomini di Chiesa si sentono a volte quasi in dovere di illustrare solo gli aspetti santi, spirituali, belli, gratificanti, della religione, come se, facendo diversamente, si rendesse un cattivo servizio alla religione, e si mettesse in cattiva luce agli occhi degli interlocutori, soprattutto se giovani. È un errore di carattere sistemico. Io penso che tacere, attenuare, giustificare gli aspetti negativi dell’azione della Chiese, e delle Chiese, o quelli derivanti da un certo modo d’intendere la religione, porti a due conseguenze esiziali. Quando i nostri interlocutori vengono a conoscere le negatività della fenomenologia religiosa, oltre a perdere fiducia in chi gliele ha taciute, pensano che comunque gli aspetti negativi superano quelli positivi, e scivolano poi in un atteggiamento scettico, agnostico, per il quale alla fine la religione non suscita più un grande interesse. D’altra parte, basta pensare alla riflessione critica di Giovanni Paolo II, e alle sue richieste di perdono, per comprendere come è parte integrante di una coscienza religiosa anche la capacità di autocritica e di riflessione storica su tanti aspetti del cammino cristiano nella storia.

La seconda conseguenza è quella per la quale non si comprende più il concetto di “incarnazione”, che noi sappiamo essere essenziale per il cristianesimo, il quale è come un seme gettato tra gli uomini, nel campo della storia, destinato a crescere, e far crescere, anche subendo e assimilando scorie e brutture umane, che inevitabilmente accumula, ne viene deformato, e da cui deve periodicamente liberarsi. Concretizziamo questo discorso, apparentemente astratto, su due grandi filoni di analisi. Per il primo, il cristianesimo ha cambiato la storia del mondo e continua ad essere la speranza del mondo futuro. Per il secondo, il coraggio con cui dobbiamo guardare agli errori e ai limiti delle Chiese deve essere base una coscienza critica che il cristiano deve avere, ed è la condizione per evitare altri limiti ed errori.

3/ IL CRISTIANESIMO HA CAMBIATO LA STORIA DEL MONDO ED È SPERANZA PER IL NOSTRO FUTURO.

Cominciamo da un’affermazione che forse vi stupirà. Le religioni sono state, secondo le situazioni storiche e ambientali, in ragione della propria dottrina o di influenze esterne, fattori decisivi d’affermazione e promozione della dignità umana, e dei diritti della persona, ma a volte veicoli di negazione e umiliazione di questa dignità, di questi diritti. Di più, anche una singola religione può essere stata, nel suo cammino storico, entrambe le cose. Ha a volte cambiato la storia del mondo, con conquiste spirituali, civili, sociali, irreversibili, ma a volte crea o legittima meccanismi individuali, o sociali, di sottomissione, umiliazione, della personalità umana, fino a giustificare, decretare, la morte di individui o intere collettività.

Se andiamo indietro nella storia, quasi agli albori delle diverse civiltà, vediamo prevalere nettamente la seconda tendenza, a tutto discapito della prima. Noi guardiamo a volte a queste religioni primordiali con una visione quasi letteraria, fascinosa. Che però ci fa dimenticare che esse praticavano spesso sacrifici umani rituali, legittimavano le peggiori forme di schiavitù, offrivano la proposta di un dio, o di dei, crudeli, assetati di sangue e di servitù. Sarebbe bene che anche nelle patinate trasmissioni sulle civiltà precolombiane, o di altri continenti, non si tralasciasse di rammentare i loro lati oscuri, per segnalare la duplice potenziale natura delle religioni, in senso positivo o regressivo.

Veniamo ora alla svolta, realizzatasi nella storia umana, con l’affermazione del cristianesimo, e dell’ebraismo da cui proviene. Il cristianesimo, infatti, matura nell’ambito della prima rivelazione e in qualche modo universalizza valori e principi fondamentali dell’ebraismo. Ma il cristianesimo non si limita a universalizzare i valori dell’Antico Testamento, esso pone l’uomo al centro di un disegno divino, insieme universale e personalista. Ora dirò qualcosa che agli addetti ai lavori può sembrare banale ma che banale non è, visto che i nostri grandi “statisti” europei se ne sono del tutto dimenticati negando ripetutamente che si possa parlare delle radici cristiane dell’Europa.

Il primo cambiamento introdotto dal cristianesimo è materiale, architettonico, immediatamente umanizzante, perché abolisce la concezione mercantile della religione, pone fine alla pratica dei sacrifici cruenti alla divinità, concepisce un tempio nel quale si celebra la parola di Dio, mediata dalla coscienza. Se il rapporto con gli dei erano sino ad allora sanguinoso, per la ritualità violenta che ne derivava, con il cristianesimo nel tempio il silenzio si sostituisce alle grida delle vittime, ai rumori della folla, subentrano le preghiere rivolte a Dio, la menta dell’uomo si apre alla trascendenza. La nuova religione cancella la mediazione del sangue, si libera della responsabilità della violenza. La fine dei sacrifici cruenti si accompagna a un’altra liberazione dell’uomo, dai formalismi della legge, dei limiti dell’alimentazione, nel rapporto con la natura. Per la forza e la genialità di Paolo, nulla è immondo per i cristiani, i limiti nel mangiare sono dettati dall’intelligenza, dalla sobrietà, dall’astensione volontaria.

Il rifiuto della violenza e del sangue non si limita alla cultualità, investe la società, e le sue usanze che praticano e inneggiano all’uccisione di esseri umani. Il cristianesimo respinge lo spazio pubblico della violenza, i suoi fedeli si estraniano dai giochi violenti e dalle cerimonie idolatriche, infine la tutela della vita diviene legge: nel 390 i giochi gladiatori sono interdetti in tutto l’impero. E la tutela della vita si estende al suo inizio, con il rifiuto dell’aborto, l’esposizione degli infanti, l’infanticidio, la promiscuità sessuale, con la decisa promozione del matrimonio monogamico.

Il cristianesimo getta poi semi destinati a crescere nel tempo. S’introduce il dualismo tra sfera temporale e sfera spirituale, con una dialettica che produce storia politica, giuridica, religiosa. Imperatori e papi, imperatori e patriarchi, trattano, si contrastano, convergono e divergono, ma si tengono distinti, con il divenire storico si separeranno del tutto aprendo la strada alla moderna laicità. Pensiamo anche al grande tema della carità, nel quale oltre le grandi realizzazioni nel corso dei secolo, possiamo vedere la radice e l’origine del moderno Welfare State, di quello Stato sociale non dovrebbe dimenticare nessuno nell’opera di tutela e promozione dei diritti umani.

Un altro grande discrimine introdotto dal cristianesimo tra il vecchio e il nuovo, tra la sottomissione e la libertà, è il principio di eguaglianza tra gli esseri umani perché (secondo un’immagine biblica insuperabile, vera fondatrice della dignità umana) l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, e perché secondo le parole di Paolo, di fronte a Dio “non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più né uomo né donna” (Gal, 3,28). È l’embrione dell’eguaglianza tra uomini, tra uomini e donne, che germoglierà lentamente ma inesorabilmente fin quando non diverrà emblema dalle moderne rivoluzioni democratiche e delle infinite lotte combattute in Occidente (e non solo) contro la schiavitù, le forme di sfruttamento che nascono e si consumano dentro i processi produttivi ed economici, nella famiglia, nelle strutture sociali più diverse.

Ho lasciato per ultimo un aspetto che forse dovrebbe essere ricordato per primo. Ma in qualche modo l’avevo anticipato all’inizio. Il cristianesimo introduce il dialogo interiore, lo sviluppo della coscienza, nel rapporto con Dio, e nella riflessione su se stessi. Mi colpì molto l’osservazione di uno storico per il quale prima del cristianesimo non esisteva la “coscienza” religiosa, ma solo una coscienza “filosofica”, riservata a pochi sapienti, e dalla quale si cercava di trarre i principi del buon vivere e dell’appagamento intellettuale. Con il cristianesimo, lo sviluppo della coscienza personale, nel rapporto con Dio e con se sé stesso, si afferma per tutti gli uomini, produce cultura, arte, diffusione del pensiero, della istruzione per tutti, naturalmente in modo progressivo.

Voglio ricordare soltanto alcune considerazioni di grandi storici. Per P. Veyne, “l’originalità del cristianesimo non è il suo presunto monoteismo, ma il gigantismo del suo dio, creatore del cielo e della terra, un carattere estraneo agli dèi pagani, ereditato dal dio biblico; questi è così grande che, a dispetto del suo antropomorfismo (gli è stato possibile creare l’uomo a sua immagine), è riuscito a divenire un dio metafisico; conservando il suo aspetto umano, vivo, amorevole, protettivo, il gigantismo del dio giudaico gli avrebbe consentito un giorno di assumere il ruolo di fondamento e di Autore dell’ordine cosmico e del Bene, che nel pallido deismo dei filosofi greci veniva interpretato dal dio supremo”. Pincherle segnala invece con il suo Protreptico: “mostra la sostanziale incapacità, nonostante qualche barlume, della filosofia svoltasi nel politeismo a dare della divinità un’idea adeguata, quale è fornita dai profeti ebrei”. E ancora Veyne così interpreta l’orizzontalità pagana: “quando un pagano veniva a sapere che un popolo lontano adorava degli dèi a lui sconosciuti, non si preoccupava di sapere se fossero stati veri o falsi: si accontentava di questa informazione ‘oggettiva’. Per lui gli dèi degli altri erano dèi che non conosceva e che forse sarebbe stato meglio introdurre nelle proprie usanze, così come si trapiantano nel proprio paese utili piante esotiche; o ancora egli ammetteva che gli dèi fossero ovunque gli stessi sotto nomi diversi”.

Riprendendo ancora questo tema classico dell’interpretazione del cristianesimo, P. Veyne che tende a sminuire il peso che la dialettica paradiso-inferno ha avuto nel radicarsi del cristianesimo e osserva che “d’altro canto, quando nasceva il cristianesimo, nel mondo pagano circolavano già da un buon millennio migliaia di dottrine e leggende sull’aldilà o sull’immortalità dell’anima e tutti ne restavano colpiti. (…) Le conversioni non erano dovute a una speranza nell’aldilà, ma a qualcosa di molto più grande: alla scoperta da parte del neofita di un vasto progetto divino, che aveva l’uomo come destinatario e di cui l’immortalità e incertezza della salvezza non erano che aspetti secondari. Attraverso l’epopea storico-metafisica della Creazione e della Redenzione, con i suoi effetti di luci e ombre, ormai era chiaro da dove si veniva e a che cosa si era destinati. Senza questa epopea esaltante, credere nell’immortalità dell’anima sarebbe stata solo una pallida speranza”. Fermiamoci qui. Il cristianesimo cambia la storia universale, l’individuo diviene “persona” a tutti gli effetti, con alcuni diritti, con tante aspirazioni da realizzare nel futuro. È finita l’età antica, è iniziata la modernità. Si può cominciare a parlare di dignità umana, di diritti della persona, di nascita dell’Europa e dell’Occidente come li conosciamo oggi.

4/ LE PAGINE OSCURE DELLA STORIA CRISTIANA, LA RELIGIONE COSCIENZA CRITICA ANCHE DI SE STESSA.

Il cristianesimo continuerà ad alimentare per secoli l’evoluzione dell’uomo, la crescita spirituale e morale dell’Europa, con un processo di unificazione e di crescita culturale unico nella storia del pianeta, con una spinta alla conoscenza del mondo e dell’universo, alla libertà individuale. Ma in questo orizzonte evolutivo si scrivono quelle pagine oscure della società cristiana che peseranno a lungo nella storia europea fin sulle soglie della modernità. Io vorrei riassumere queste pagine oscure in due grandi direttrici, che conosciamo bene perché è contro di esse che maturano e combattono le rivoluzioni democratiche che portano allo Stato di diritto, alla sua laicità, allo Stato sociale.

Mi riferisco anzitutto a quell’esclusivismo cristiano che porta all’instaurazione dell’Inquisizione in Europa (con qualche propaggine nel nuovo mondo) e alle guerre di religione che insanguinano l’Europa fino al XVII secolo. Ancora oggi filtra in qualche Autore un’inclinazione giustificazionista per i comportamenti delle Chiese cristiane che hanno legittimato l’estrema umiliazione della dignità umana, con l’accettazione della schiavitù moderna negli USA, nel Sud Africa, e in altri Paesi, poi della politica predatoria delle potenze cristiane al proprio interno e nei confronti di popolazioni soggiogate nel più autentico spirito imperialista protrattosi sin quasi al XX secolo, infine della divisione in classi prodottasi nelle società industriali con la nascita del moderno proletariato. Mai le Chiese cristiane hanno combattuto contro questi mali, di alcuni di essi sono state dirette protagoniste.

Dell’Inquisizione e delle guerre di religione sappiamo molto. E dobbiamo sempre ricordare che da allora, gli uomini sono divisi in due categorie. Si radica nell’animo umano una logica amico-nemico inesorabile, fondata sulla volontà divina, su un principio di assolutezza terribile, perché elimina ogni tratto di umanità, ogni parvenza di dignità, nei confronti dell’altro, del nemico, che diviene nemico di Dio e degli uomini. Questa logica ha prodotto le più grandi nefandezze nella storia cristiana. Se con l’Inquisizione l’uomo è ridotto a nemico di Dio, e punito in nome di Dio, con torture e con la morte, con le guerre di religione ciascuno diviene eretico per l’altro, tutti si combattono e si uccidono a vicenda in nome di un Dio che deve fare da paravento a eccidi, stragi, stermini, che atrocizzano l’Europa per quasi due secoli.

C’è poi un popolo, quello ebraico, che deve attraversare i secoli cristiani in una condizione di emarginazione e sottomissione, subendo a intermittenza pogrom e persecuzioni, che non si placano neanche con la Riforma protestante se è vero che Martin Lutero pronuncia parole terribili che mai erano state usate neanche Papi e da Roma. Nel suo scritto Contra Judeos et eorum mendaciis del 1544 Lutero formula dei “consigli salutari per estirpare la dottrina blasfema dei Giudei”. Anzitutto, afferma, “è cosa utile bruciare tutte le loro sinagoghe, e se qualche rovina viene risparmiata dall’incendio, bisogna coprirla di sabbia e fango, affinché nessuno possa vedere più neppure un sasso o una tegola di quelle costruzioni”. Aggiunge: “siano distrutte e devastate anche le loro case private. Nel frattempo puoi buttarli in stalle o in catapecchie con le loro mogli e i loro figli, come quei vagabondi che in tedesco si chiamano Zigeuner (zingari) affinché si rendano ben contro di non essere padroni della nostra terra (come si vantano), ma di essere veramente prigionieri in esilio. In terzo luogo, siano privati di tutti i libri di preghiere e i testi talmudici, nei quali s’insegnano idolatrie, menzogne, stupidaggini e bestemmie di tal fatta. In quarto luogo, sia tolto ai Rabbini, sotto pena di morte, il compito di insegnare”. Sono parole terribili, utilizzate dopo quattro secoli da Hitler per giustificare la sua follia antisemita.

Un altro regresso condanna per secoli milioni di uomini di colore a cadere vittime della peggiore schiavitù, introdotta dai mercanti e benedetta da alcune Chiese. C’è il calvinismo olandese che autorizza i Boeri a introdurre schiavitù e apartheid nelle terre del Sud Africa, sostenendo che la stessa Bibbia diversifica il destino dei camiti da quello degli altri uomini, e li predestina alla schiavitù. Ma quasi tutte le altre Chiese ammettono e benedicono la tratta dei neri dall’Africa all’America del nord, e il regime schiavistico negli USA che considera i neri – secondo le parole terribili della Corte Suprema degli Stati Uniti del 1857 – “talmente inferiori che essi non avevano alcun diritto che l’uomo bianco dovesse rispettare”, e talmente inferiori che il nero poteva essere “comprato e venduto, e trattato come un articolo ordinario di mercato e commercio, quanto poteva esserne tratto profitto”.

Anche alcune Chiese si servono degli schiavi e qualcuna consente che vengano evangelizzati, ma garantiscono i padroni che il battesimo non prelude affatto all’emancipazione dello schiavo, anzi conferma il suo statuto di sottomissione totale. Il Rev. Dr. Le Jean, nel secolo XVIII, prima di ammettere degli schiavi alla comunione fa loro sottoscrivere pubblicamente un testo del seguente tenore: “Voi dichiarate alla presenza di Dio e davanti a queste comunità che non chiedete il Santo Battesimo coll’intenzione di liberare voi stessi dal dovere di obbedienza che dovete al vostro padrone finché vivrete; ma soltanto per il bene della vostra anima e per partecipare alle benedizioni promesse ai membri della Chiesa di Cristo”.

La Chiesa cattolica non è stata tra le sostenitrici della schiavitù, anzi più volte condanna il comportamento disumano e crudele dei dominatori nei confronti degli indigeni del Sud America, e Urbano VIII, con lettera apostolica del 22 aprile 1639, proibisce “molto se veramente che qualcuno in futuro voglia ridurre gli Indiani in schiavitù, venderli, comprarli, scambiarli, o donarli, separarli della moglie e dai figli, spogliarli delle loro cose e beni, condurli o inviarli in altri luoghi, o in qualsiasi modo privarli della libertà”, e commina la scomunica contro chiunque si azzardi di fare schiavo un indiano, cristiano o no”. Ma si giunge soltanto nel 1888 alla condanna definitiva della schiavitù pronunziata da Leone XIII con l’Enciclica In Plurimis: inviata ai vescovi del Brasile nel 1888, essa dichiara che il traffico degli schiavi e la schiavitù devono considerarsi in opposizione diretta della legge di Dio e di natura, e che nessun altro commercio è più disonesto e scellerato.

Ancora. Noi sappiamo che la Chiesa cattolica ha difeso e sostenuto l’assolutismo, l’ançien regime, quasi ovunque. Ma un po’ dappertutto le Chiese cristiane nel loro insieme sono assenti, tacciono di fronte allo sfruttamento del proto capitalismo nei confronti della nuova classe proletaria, restano silenti anche di fronte al malthusianesimo teorizzato a lungo, secondo il quale lo Stato non deve intervenire nella dinamica dei rapporti economici tra privati, lasciati alla legge della prepotenza e della forza. Punto d’onore dello Stato borghese – che oggi tanti liberisti dimenticano con facilità – è quello di lasciar fare alle forze della natura, senza influenzare l’evoluzione dei rapporti economici tra privati, e tra classi sociali, guidata dalla logica della concorrenza e della selezione più spietata. Fare leggi per regolamentare i rapporti di lavoro, per sostenere economicamente le categorie più deboli, per diffondere cultura e istruzione, agli occhi dello Stato liberale è considerato quasi blasfemo, contrario alla tutela assoluta al diritto di proprietà e alla logica del profitto. E non è un caso che spetta all’economista e pastore anglicano Thomas Robert Malthus legittimare la crudeltà del moderno capitalismo attraverso l’immagine di uno Stato come “moderno anfitrione che deve scacciare gli intrusi dal gran banchetto della natura per garantire il benessere collettivo”. Per Malthus, “un uomo che nasce in un mondo che ha già un padrone, se non può ricevere sostentamento dai suoi genitori, e se la società rifiuta il suo lavoro, non ha diritto di esigere neanche una piccola parte di sostentamento”. E, nel gran banchetto della natura non vi è un posto riservato per lui: “esso lo invita ad andarsene e metterà rapidamente in pratica questo ordine, se non egli non susciterà compassione degli altri invitati”.

5/ IL CRISTIANESIMO COSCIENZA CRITICA DELLA MODERNITÀ.

Ciò che ho detto delle pagine oscure della storia cristiana, non va dimenticato. Ma queste pagine oscure ci insegnano un’altra cosa fondamentale che quegli stessi principi cristiani che hanno cambiato la storia del mondo, e di cui parlavo all’inizio, sono stati alla base di una reazione spirituale ed etica contro gli errori del passato, e poi contro i mali della modernità, che sinteticamente vorrei ricondurre agli orrori del totalitarismo di destra e di sinistra, del Novecento, e all’insorgere di un nuovo individualismo nichilista che sta attanagliando le società dell’Europa e dell’Occidente.

Come accennavo prima, noi sappiamo quante volte i Pontefici, in particolare Giovanni Paolo II, hanno chiesto pubblicamente perdono per gli errori e le tragedie del passato. E questa richiesta di perdono esprime proprio la capacità della Chiesa di essere coscienza critica di sé stessa. Inoltre, le Chiese cristiane, a cominciare da quella cattolica, sono state tra le più strenue sostenitrici dei diritti umani proclamati nel Novecento, dopo l’inferno dei totalitarismi nazista e comunista. La grande scrittrice Hannah Arendt ha definito questi diritti umani come “la nuova legge sulla Terra”, cioè il Nuovo Sinai per gli uomini di tutto il pianeta, quasi a significare due cose: che l’umanità è entrata nella fase della globalizzazione definitiva, senza separazioni di Stati e continenti, e che molti dei principi contenuti nei Dieci Comandamenti dovevano divenire patrimonio comune dell’umanità. E mi viene spontaneo ricordare a tutti noi che il prossimo anno si celebra il cinquantenario dell’Enciclica di Paolo VI, la Populorum Progressio, con la quale il più grande Papa della modernità ha voluto estendere oltre ogni confine, ideologico, religioso, di spazio e di tempo, i principi della giustizia e dell’eguaglianza a tutti gli uomini e a tutti i popoli. Vorrei leggere due brevi passi dell’Enciclica. “Nel disegno di Dio”, afferma Paolo VI, “ogni uomo è chiamato a uno sviluppo perché ogni vita è vocazione” (n. 15) , e aggiunge in un orizzonte programmatico: “non si tratta soltanto di vincere la fame e neppure di ricacciare indietro la povertà. La lotta contro la miseria, pur urgente e necessaria, è insufficiente. Si tratta di costruire un mondo, in cui ogni uomo, senza esclusione di razza, di religione, di nazionalità, possa vivere una vita pienamente umana, affrancata dalle servitù che gli vengono dagli uomini e da una natura non sufficientemente padroneggiata; un mondo dove la libertà non sia una parola vana e dove il povero Lazzaro possa assidersi alla stessa mensa del ricco. Ciascuno esamini la propria coscienza, che ha una voce nuova per la nostra epoca”.

La religione, specificamente proprio il cristianesimo, torna ad essere la coscienza critica della società nella quale viviamo. E torna ad essere coscienza critica di fronte allo sviluppo di un individualismo che sta minando le basi stesse di ogni progetto educativo, e i diritti fondamentali della persona che pure sono contenuti nelle Carte internazionali già citate, soprattutto in ambito familiare. Oggi, dobbiamo dirlo, insieme ai problemi della globalizzazione e della giustizia a livello planetario, il pensiero religioso e le religioni devono oggi affrontare la sfida inedita della secolarizzazione relativista che ha investito il nostro modo d’essere e pensare. La sfida è sottile, complessa, coinvolge quell’intreccio tra antropologia, scienza e religione, che determina scelte fondamentali della vita umana, sulla famiglia, la procreazione, le fasi iniziali e terminali dell’esistenza. Il conflitto tra concezioni antropologiche determina quasi una frattura coscienziale che interroga la persona nelle sue più intime convinzioni: riguarda l’istituto del matrimonio, esteso a ogni tipo di convivenza, come una porta girevole nella quale tutti entrano ed escono quando vogliono, fino alla previsione dell’adozione per le coppie non eterosessuali, nonché la procreazione realizzata fuori dell’alveo naturale, in diverse varianti. Sul versante del dolore e della sofferenza, si afferma il principio per il quale la vita merita tutela se risulta gratificante per l’individuo, mentre le patologie terminali, o connesse a handicap o malattie croniche, sono passività da rifiutare, se possibile espungere radicalmente.

Senza entrare nel merito delle tematiche, si può constatare che l’antropologia individualista imbocca una strada ancora una volta opposta a quella percorsa dal pensiero religioso. Essa pone al centro dei diritti umani la sovranità dell’Io, afferma che il politeismo etico non è che l’altra faccia del politeismo religioso già realizzato dall’illuminismo. La cultura individualistica va oltre il liberalismo e teorizza, e pratica, la ‘non-verità dell’etica’: “nell’etica non c’è verità. I valori di vero e di falso convengono alle proposizioni del discorso descrittivo-esplicativo; né un’etica può dirsi vera derivabile, come da assiomi, da principi auto evidenti”. Due mondi opposti, due universi che non possono incontrarsi, con conseguenze che conosciamo. Considerare il figlio come oggetto del desiderio che si può avere, comprare, selezionare, lo rende una variabile indipendente di rapporti disumanizzati, per i quali si contratta nei mercati della maternità surrogata, nei laboratori scientifici privi di controllo che si attrezzano in alcune parti del mondo. L’attivazione di cliniche che danno la morte su richiesta, per evitare le sofferenze, offrendo la soluzione più facile a chi rifiuta la vita, sceglie la solitudine piena, provoca così nuove forme di “sfruttamento dell’uomo sull’uomo”, uso mercificato della persona, selezione delle vite come scarto di produzione. Così riguardato, il tentativo di coniugare relativismo e laicità dello Stato nasconde l’obiettivo di delegittimare la presenza di religioni che non seguano l’individualismo estremo, perché la loro antropologia sarebbe contro il politeismo etico. Quindi, un altro scontro tra pensiero religioso e pensiero non religioso proprio in relazione ai diritti umani e alla dignità della persona.

E termino con qualche domanda che attualizza questa mia lettura preoccupata della realtà attuale. La religione, diciamo le Chiese, hanno spesso predicato una morale sessuofobica, con le conseguenze che conosciamo. Ma siamo sicuri che la soluzione stia nell’abolizione pura e semplice d’ogni etica in ambito sessuale e/o familiare? Siamo sicuri la dignità della persona sia rispettata quando si nega a chi nasce il diritto alla verità, il diritto a conoscere le proprie origini biologiche, o quando gli viene negato il diritto ad avere due genitori di sesso diverso? E certamente, la religione ha spesso esaltato il valore della sofferenza dell’uomo, quasi fine a sé stessa, o per espiare non si sa bene quali colpe, e ancora oggi alcune Chiese si oppongono ad una ragionevole accettazione del c.d. testamento biologico. Ma siamo sicuri che la risposta a questo limite, e al progredire della scienza, sia quello di rompere le righe, affermare il diritto a morire come e quando si vuole, come fosse un diritto fondamentale della persona, e non una porta nella quale entrerebbero tante altre cose, anche molto brutte? E possiamo dire che, come risposta al desiderio di maternità e paternità, sia ammissibile la c.d. “maternità surrogata” che sottopone la donna a una muova e umiliante servitù fisica, psicologica e morale, quale mai si era vista in precedenza?

6/ LA RELIGIONE E LA SCUOLA. UN TEMA CONFLITTUALE.

Qualcuno potrebbe dirmi che non ho parlato molto del rapporto tra religione e scuola e di insegnamento religioso. Apparentemente è così, nella sostanza ho proprio parlato di una grande dimensione della storia e della cultura che non può essere estromessa dalla dimensione dell’apprendimento, che non può essere ridotta ad un ambito tutto privatistico, e che deve invece trovare il suo spazio proprio nella crescita cognitiva e formativa dei giovani.

Adesso però mi soffermo specificamente su questo tema, segnalando un dato non positivo, dal momento che il rapporto tra religione e scuola è stato sempre, nella tradizione illuminista, un rapporto conflittuale, soprattutto perché è stato visto all’interno dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica. E poiché lo Stato moderno nasce, nell’area cattolica, in antitesi alla Chiesa cattolica, nella scuola non doveva trovare posto la religione cattolica, né altre religioni. Una presenza religiosa nella scuola voleva dire, nell’ottica ottocentesca, dare forza a quel cattolicesimo che era ritenuto simbolo dell’anti-modernità, strumento di oscuramento delle coscienze. L’insegnamento totalmente laico, al contrario, serviva per creare coscienze libere, aperte alle verità della scienza, emancipate dalla religione intesa come un sotto-prodotto culturale. La Francia è forse il Paese che più di tutti ha incarnato, e incarna tuttora, questa estraneità totale della religione rispetto alla Scuola. E questa estraneità s’è arricchita negli ultimi decenni di quella “guerra ai simboli” che in nome della laicité s’è voluta fare a tutti i segni religiosi, e con la scusa della presenza islamica si è proibito ai ragazzi e alle ragazze di portare indosso il velo e il crocifisso, la stella di Davide e qualunque ciondolo che avesse sembianze religiose. Questa guerra ai simboli è poi tracimata nel grottesco, perché la si è esportata anche fuori degli ambienti scolastici. Prima, proibendo di indossare simboli religiosi anche alle mamme, o ai padri, che accompagnassero i figli nelle gite scolastiche. Poi, con un virtuosismo francamente non degno di Voltaire o di Condorcet, proibendo il burkini sulle spiagge, e addirittura proponendo di inibire agli atleti sportivi di farsi il segno della croce quando entrano in gara, o quando fanno un gol per ringraziare per l’aiuto ricevuto.

Con lo Stato moderno, insieme alla conquista della laicità dello Stato, il mondo occidentale si spacca e segue due strade diverse, quasi opposte. Il separatismo americano è fondamentalmente amico della religione e delle Chiese, e insieme a una legislazione positiva prevede la presenza della religione della scuola per tutte le confessioni religiose. Entro certi limiti, anche i Paesi protestanti del Nord Europa – che faticosamente introducono nell’Ottocento il principio di libertà religiosa per i cattolici e altri culti – costruiscono la scuola pubblica con l’insegnamento della religione di Stato (luterana, protestante, anglicana, e via di seguito).

Nel campo illuminista, Francia, Spagna, e altri Paesi minori, interviene la prima glaciazione educativa, perché la scuola viene separata dalla religione in modo brusco, quasi brutale, e non esiste ipotesi di insegnamento religioso di alcun tipo, addirittura le scuole private, che pure esistono, sono osteggiate proprio in quanto ritenute emanazione della Chiesa cattolica.

Fa eccezione, voi lo sapete perché ne ho parlato in un recente incontro, la nostra Italia, perché i nostri Padri liberali, pur in un’ottica separatismo, seguono una politica moderata. Da noi la Legge Casati emancipa la scuola dal controllo dei Vescovi, ma mantiene il Crocifisso, e la Legge Coppino del 1877 prevede di fatto l’insegnamento religioso in via facoltativa: tutti, però, tutti scelgono di seguire tale insegnamento, con la conseguenza, storicamente decisiva, che mai nessun bambino italiano è andato alla scuola pubblica senza ricevere da questa l’educazione e l’insegnamento religioso basilare. Mai una cosa del genere è accaduta negli altri tipi di separatismi europei. I nostri Padri liberali capirono, e scrissero apertamente, che una scuola senza Dio incontrava l’ostilità della famiglie, e che la religione giovava a educare buoni cittadini. Una lezione di saggezza.

L’Europa si divide ulteriormente nel XX secolo perché interviene da un lato la nuova glaciazione comunista in Unione Sovietica del 1917-18, poi nei Paesi dell’Est europeo dopo il secondo conflitto mondiale. La glaciazione comunista è assai peggiore rispetto al separatismo francese. In primo luogo perché oltre a eliminare in radice ogni forma d’insegnamento religioso nelle scuole, vengono totalmente abolite le scuole private (essendo, in un sistema comunistico, tutto pubblico e statalizzato): con la conseguenza che la Chiesa ortodossa, e altre Chiese, non hanno più alcun contatto con i giovani e la realtà educativa. In secondo luogo perché il regime avvia una campagna ateistica che ha mille rivoli: per i credenti è preclusa la strada delle cariche civili e miliari, nelle scuole si insegna ateismo, ed alle associazioni religiose (le Chiese formalmente non esistono più) è fatto un divieto che è il più totalitario che mai sia stato immaginato in un ordinamento giuridico: esse non possono “organizzare riunioni religiose o d’altro genere, destinate in modo speciale ai fanciulli, ai giovani e alle donne, come pure riunioni, gruppi, sezioni, circoli generali a carattere letterario o biblico ecc., ovvero che abbiano come oggetto il cucito, i lavori manuali, l’insegnamento religioso ecc., come pure organizzare escursioni e giochi per bambini, aprire biblioteche e sale di lettura, organizzare sanatori e assistenza medica”. Non devo commentare questa norma, dettata da mentalità e cultura chiaramente luciferine.

Nei Paesi cattolici, Italia, Spagna, Portogallo, Austria, si realizza invece una mini-svolta confessionista perché con i Concordati degli anni ’20-’40, si reintroduce l’insegnamento religioso nelle scuole con una formula che può definirsi di quasi-obbligatorietà. Di qui, nell’Europa occidentale una rinnovata polemica laica contro una legislazione che eliminava la libertà di fruire o non fruire dell’insegnamento religioso (Italia: svolta gentiliana-idealista del 1923 e Concordato del 1929).

7/ I DIRITTI UMANI E LA LIBERTÀ DI INSEGNAMENTO

Entriamo ora nella più viva attualità. La fine dei totalitarismi, la proclamazione dei diritti umani nella Carte internazionali, cambiano il mondo occidentale, e nello spazio di alcuni pochi decenni, tutti gli ordinamenti europei conoscono cambiamenti radicali nel rapporto scuola-religione. Mi soffermo un attimo su questo aspetto perché c’è in giro una leggenda metropolitana, che spesso affiora anche in Italia: il nostro sarebbe l’unico Paese ad avere un Concordato con la Santa Sede, e quasi l’unico Paese ad avere l’insegnamento religioso nelle scuole.

Niente di più inesatto, direi meglio falso. L’Insegnamento religioso viene oggi impartito nell’80 per cento dei Paesi europei, nel Nord, nel Centro, ad Ovest e in Europa Orientale. È stato reintrodotto in quasi tutti i Paesi dell’Est europeo (i Paesi ex-comunisti), a cominciare dalla Russia, in Polonia, Romania, Croazia, Paesi Baltici, dove sono state nuovamente legittimate ad esistere e a svilupparsi le scuole private confessionali: ciò perché, dopo l’opera di spoliazione dei regimi comunisti, lo Stato sente oggi il bisogno di una dimensione sociale e morale che dia forza alla collettività, e ritiene che le Confessioni religiose siano le realtà più adatte a sostenere e diffondere una scala di valori necessarie a tenere unito un Paese, dopo la desertificazione precedente.

Nei Paesi cattolici che hanno un ordinamento concordatario (cui si sono aggiunti la Slovenia, la Croazia, i Paesi Baltici, l’Ungheria, la Polonia), l’insegnamento religioso è stato ricondotto ad una dimensione di facoltatività: non esiste più un Paese nel quale i ragazzi siano obbligati, o indotti con la quasi-obbligatorietà, a seguire l’insegnamento della religione. In Italia, voi sapete, abbiamo la formula con la quale si chiede ai ragazzi, e alle loro famiglie, se vogliono avvalersi o meno dell’insegnamento religioso. Nei Paesi protestanti dell’Europa del Nord si mantiene l’insegnamento religioso, con dei cambiamenti di cui parlerò più tardi.

Oggi però abbiamo una novità di cui non tutti tengono conto. Abbiamo la collocazione, tra i diritti umani fondamentali, del principio di educazione dei figli da parte dei genitori che ha una diretta incidenza sul nostro argomento. Cito solo qualche norma, tra le più importanti. Nell’articolo 26, 3° comma, della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, è scritto: “I genitori hanno diritto di priorità nella scelta di istruzione da impartire ai loro figli”. Più diretto ed esplicito l’art. 2 del protocollo Addizionale della Convenzione e europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1950, per il quale “lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e a tale insegnamento secondo la loro convinzioni religiose e filosofiche”. Principi analoghi sono contenuti nella Convenzione Internazionale sui diritti del fanciullo del 1989.

Vedete, i diritti umani enunciati dopo la fine del Totalitarismo, e indicati da Hannah Arendt come una nuova legge sulla Terra, un Nuovo Sinai, stanno vivendo uno strano destino. Dopo una fase di esaltazione della loro importanza, e di grande impatto a livello internazionale, oggi sono difesi e reclamati a seconda delle convenienze, alcuni addirittura sono pretermessi o dimenticati dal legislatore in più di un ordinamento. Basta pensare ai temi della procreazione e della famiglia, per i quali viene negato a chi nasce con forme nuove di maternità assistita (eterologa, maternità surrogata) il diritto di conoscere i propri genitori, o addirittura il diritto di avere due genitori di sesso diverso, o ancora alla umiliazione cui viene indotta la donna nella scelta della maternità surrogata, pratica contraria allo spirito e non so a quante norme dei diritti umani relative al rispetto della dignità della donna, e via di seguito.

Fermiamoci, però, alla questione dell’educazione dei figli. Le norme che ho appena citato ci dicono una cosa fondamentale, che la questione dell’educazione religiosa (e non solo) non è più questione limitata ai rapporti tra Stato e Confessioni religiose, ma inerisce direttamente ai diritti dei genitori (e dei ragazzi quando sono in età legale) di educare i figli secondo i principi e i valori cui essi si ispirano. E ciò apre un campo di grande interesse, e oggi anche potenzialmente conflittuale. Pensiamo ai tentativi reiterati di introdurre nella scuola, addirittura per i bambini in tenera età, le ideologie e gli stereotipi del gender, e a quanto essi siano contrari al diritto fondamentale dei genitori di educare i propri figli in una materia così delicata ed decisiva per il loro sviluppo. È un punto, questo, per il quale dovrebbe invocarsi il principio sancito dalla Carte internazionali dei diritti umani, che corre i rischio di essere vanificato da scelta di carattere amministravo o burocratico.

Tornando, poi, all’educazione religiosa, io credo che essa trovi oggi un più saldo fondamento nei diritti della famiglia, e dei genitori, di avere nella scuola uno spazio che corrispondente alle scelte e agli indirizzi familiari, se intendiamo la scuola come una palestra nella quale devono essere favorite e promosse le diverse dimensioni della persona. E qui si innestano i problemi più attuali, che si proiettano nel futuro della nostra scuola, e sui quali credo si debba riflettere anche da noi in Italia.

Quale tipo di educazione religiosa può concepirsi nella scuola, anche a seguito delle trasformazioni sociali e democratiche che stanno interessando la società italiana ed europea? Dobbiamo partire da due presupposti. In primo luogo non dobbiamo negare, o ignorare, queste trasformazioni che riguardano il nuovo pluralismo confessionale, ma anche la progressiva informatizzazione della scuola, e il nuovo rapporto che si sta delineando tra conoscenza e strumenti elettronici di diffusione del sapere. In secondo luogo, non dobbiamo farci fuorviare da una tendenza profondamente laicista, che riemerge periodicamente come un fiume carsico, e che ritiene superato il tipo di insegnamento religioso sin qui previsto che prevede un collegamento con le diverse Chiese e confessioni religiose.

8/ INSEGNAMENTO DI STORIA DELLE RELIGIONI. EVOLUZIONE DELL’INSEGNAMENTO RELIGIOSO.

Cominciamo da quest’ultimo aspetto, e affrontiamo una proposta reiterata in ambito laico, per la quale di dovrebbe cancellare ogni insegnamento religioso, come oggi lo conosciamo, e introdurre in sostituzione un insegnamento di storia delle religioni, con uno spettro il più ampio possibile. Guardate, è una proposta all’apparenza affascinante, che attira persone di ogni tendenza e orientamento, perché si presenta con una parvenza di obiettività, pluralismo, addirittura di uno storicismo che non dispiace a settori non indifferenti della cultura.

Però, io credo che si debba dire la verità, e si debba essere sinceri sino in fondo, nel valutare questa prospettiva. Essa è, nella sua vera sostanza, una proposta che non risponde a quella dimensione educativa cui facevo riferimento prima, e che è insita nel riconoscimento dei diritti dei genitori e della famiglia contenuto nelle Carte internazionali dei diritti umani. L’educazione religiosa di una persona implica che un giovane trovi nella scuola la possibilità di approfondire, sempre su un terreno di leale volontarietà, quella radice religiosa e culturale nella quale è nato, o alla quale appartiene, o alla quale si sente vicino, o dalla quale si sente attratto anche culturalmente: questo il significato della volontarietà piena e leale sulla quale io tanto insisto nei miei interventi sull’argomento.

Lo studio della storia delle religioni non deve essere affatto ignorato dalla scuola, ma esso trova la sede più naturale nelle diverse materie che hanno tanti contatti e aree di vicinanza con la fenomenologia: penso alla storia, alla letteratura, all’arte, alla filosofia, allo studio del pensiero scientifico, laddove la presenza religiosa, con tante cose bellissime, ma anche con tante negatività ha segnato il cammino dell’uomo. E noi abbiamo una tradizione, in Italia e in Europa, che facilita la soddisfazione di questa esigenza di conoscenza, e di approfondimento, per i ragazzi e i giovani. Pensiamo a quanti capolavori letterari hanno una radice religiosa, o a quanto scuole di pensiero sono intrecciate con i testi sacri e le culture che ne sono derivate, anche ai conflitti che hanno accompagnato il rapporto scienza/religione, e alle infinite meraviglie d’arte che il pensiero e l’afflato religioso hanno ispirato, o prodotto, e via di seguito. Queste sono le sedi per conoscere, approfondire, il rapporto delle religioni con la storia e il cammino dell’uomo.

Ma non sarei sincero se sulla questione della Storia delle religioni io non dicessi un’altra cosa, che riguarda diversi Paesi e il nostro in particolare. La storia delle religioni, oltre a diluire le diverse fedi in un calderone relativista irreversibile, è il luogo privilegiato per la faziosità, il sarcasmo, la contrapposizione, che da sempre caratterizza i rapporti tra religioni, e i rapporti tra ateismo e religione, e religione e ateismo. Vorrei dirvi qualcosa che forse nessuno vi dirà. Perché tutti, dico tutti, affermeranno che saprebbero insegnare storia delle religioni in modo obiettivo, pluralista, e senza offendere nessuno. Io non dubito ovviamente che ciò sia possibile. Però, attenzione, un insegnamento del genere non svolgerebbe comunque un’opera educativa, ma soltanto di diffusione della conoscenza (che può meglio essere svolta in materie diverse, appena detto) della fenomenologia della religione. Ma è anche vero che tremo solo al pensiero che il corso di Storia delle religioni possa essere affidato a soggetti fondamentalisti (di opposto segno), o a insegnanti pieni d’astio verso l’una o l’altra religione, o ad atei anch’essi fondamentalisti, che farebbero scorrere davanti ai ragazzi una sorta di film dell’orrore (per esempio, alla Dan Brown) dove anche il più bell’arcangelo sarebbe quanto meno il frutto di una fantasia depressa di un credente.

L’educazione religiosa, accennavo prima, è tutt’altro, certamente è veicolo di conoscenze, ma è proposta e sviluppata con un animus partecipationische trasmette alla coscienza valori e principi di cui si cerca di spiegare appieno la valenza e il significato profondo. E qui rinvio all’introduzione, con la quale ho cercato di delineare un campo di approfondimento nel quale si mischiano elementi dottrinali, etici, storici, che costituiscono l’eredità più autentica di una religione.

Naturalmente, anche questo identikit (se posso dire) dell’insegnamento religioso, che richiede un collegamento con la Chiesa o la confessioni di riferimento, è soggetto ad una evoluzione che va sempre attentamente seguita, e con la quale si deve entrare in sintonia, e tenere un costante collegamento. Il primo elemento di questa evoluzione è il pluralismo religioso, e ideale, che tende a crescere sempre più nella società e che richiede, oggi più di ieri, l’adozione di una laicità positiva, capace di fare dell’accoglienza il criterio essenziale del suo rapporto con la scuola.Il richiamo alla laicità positiva, tipica della tradizione italiana, non vuole avere un carattere semplicemente buonista, come si dice oggi, ma si fonda su quel profondo rispetto di tutte le fedi, e di tutte le credenze, che è all’origine, di tutte le formulazioni del diritto di libertà religiosa. Questo rispetto deve manifestarsi anzitutto nei confronti delle manifestazioni indirette dell’appartenenza religiosa, e quindi di una simbologia che può essere storica, socio-culturale, e personale. Vi propongo due riflessioni sul tema. Pensiamo a quante scuole, sedi universitarie, edifici pubblici, sono dedicate a personaggi della storia, della politica, della tradizione di un Paese. Sono scelte che possono anche dividere, perché la storia è controversa, perché le personalità eminenti spesso dividono anche a distanza di tempo, perché la politica divide per definizione. Eppure nessuno si è posto mai il problema di proibire la presenza di busti, ritratti, statue, anche imponenti che i ragazzi e i cittadini vedono e ammirano tutti i giorni nelle scuole e in tante sedi ufficiali.

In secondo luogo, ogni parte del mondo è caratterizzata da una simbologia religiosa che in qualche modo testimonia della tradizione e delle origini di ciascuna area o ciascuna nazione. Nei Paesi del Nord Europa la Croce è presente in quasi tutte le bandiere nazionali, nei Paesi ortodossi le icone con la Croce o altre immagini religiose sono presenti un po’ ovunque. Negli Stati uniti i Dieci Comandamenti costituiscono quasi il simbolo di una religione civile che ha segnato l’inizio del Paese nord-americano. In Asia la presenza di Buddha è un dato familiare in pubblico, nei centri di attività sociale, in edifici di ogni genere. Pensiamo per un momento se l’idea (sottoposta nel 2009-2011 alla Corte di Strasburgo) di eliminare il Crocifisso dalla scuola acquistasse un valore universale: saremmo di fronte ad una delle più grandi operazioni iconoclaste della storia, con effetti dirompenti proprio tra le popolazioni di ogni parte del mondo.

Invece, il simbolo religioso può diventare uno strumento di laicità positiva, di accoglienza, di riconoscimento di ogni fede, appartenenza, tradizione, religiosa e culturale, e può essere calibrato anche in funzione dei cambiamenti della società. Nulla da eccepire se in scuole buddiste, aperte a tutti, la simbologia legata alla figura e agli insegnamenti del Siddhartha Gautama esprime e riflette la natura e il carattere di quella scuola, così come per ogni scuola di natura confessionale. Così come non c’è nulla da eccepire, anzi andrebbe favorita e incentivata, se la presenza religiosa, sia per ciò che riguarda i soggetti, sia per ciò che attiene gli insegnamenti religiosi, si allarga, si estende per offrire ai ragazzi una pluralità di incontri, esperienze, scambi culturali nel corso dell’apprendimento scolastico e dell’arricchimento culturale che deve caratterizzare la scuola.

In questo modo veniamo all’ultimo punto che vorrei trattare. L’attenzione all’evoluzione della nostra società, la capacità di coglierne e favorirne gli aspetti positivi, così come i rischi, che sono abbondanti (gli uni e gli altri) anche nell’ambito dell’insegnamento religioso. Tra gli aspetti positivi vorrei indicarne due, molto importanti. Oggi è venuta meno una ostilità pregiudiziale che esisteva un tempo nei confronti della presenza religiosa nella scuola. L’Europa si è pacificata, la fine del comunismo ha permesso di abbattere i bastioni di un ateismo militante e aggressivo che si fondava sulla negazione della libertà religiosa (e la cancellazione dell’insegnamento religioso) da mezzo continente. Ma soprattutto si va sviluppando da tempo un dialogo interreligioso che, pur tra tante difficoltà e tanti limiti, potrebbe un giorno far cadere tanti muri, diffidenze, ostilità nascoste, tra le religioni, in primo luogo tra confessioni cristiane. Tutto ciò crea un clima diverso, e positivo per il nostro argomento, con ulteriori corollari. Quasi nessuno sa che esistono delle “scuole europee” (per la formazione della futura classe dirigente) nelle quali è previsto l’insegnamento religioso secondo le scelte che ciascuno intende fare. Inoltre, in Inghilterra, e in qualche altro Paese del Nord Europa, si tende a dare all’insegnamento religioso un carattere interconfessionale, con programmi concordati dai rappresentanti di diverse Chiese e confessioni.

Io non voglio enfatizzare questo ultimo esempio, difficilmente applicabile nel nostro Paese (sempre caratterizzato da una polemica storica verso la Chiesa cattolica per il carattere maggioritario). Certamente, però, credo sia necessario, e molto utile, che l’insegnamento religioso si apra al dialogo interreligioso, anche facendone conoscere contenuti e risultati, e che tutti noi siamo pronti a recepire gli effetti che scaturiranno dal crescente pluralismo religioso.

Questo è, infatti, il secondo aspetto su cui riflettere. Guardate, in Italia le minoranze religiose non sono soltanto più quelle storiche (ebrei, valdesi, qualche comunità ortodossa), perché due particolari insediamenti religiosi vantano oggi, ciascuno, poco più o poco meno di un milione di aderenti, o fedeli, e sono gli ortodossi romeni (cui seguono quelli russi, moldavi, e d’altri Paesi), e gli islamici. Sono insediamenti che, anche in ragione della curva demografica, avranno in un prossimo futuro una consistenza notevole. Allora noi dobbiamo prepararci, perché queste presenze porranno dei problemi, sia nel senso che chiederanno probabilmente di avere anche loro un vero proprio insegnamento religioso di cui poter fruire in ambito scolastico, sia perché porranno interrogativi proprio sul rapporto complessivo tra scuola e religione che verrà a crearsi in ragione di un pluralismo più cospicuo rispetto a quello cui eravamo abituati.

E qui, io mi, fermo, o meglio lascio il campo ad una riflessione, e alle tante domande che voi potete porvi, e potete fare. Io credo, ma lo dico con prudenza, che questa riflessione debba soffermarsi su due aspetti. Sul punto essenziale di saper resistere alla tentazione ricorrente di voler espungere l’insegnamento religioso dalla scuola, o di sostituirlo con quella nebulosa (quale io ritengo che sia) denominata “Storia delle religioni”, che credo costituisca quasi l’anticamera dell’irrilevanza della viva presenza religiosa nella scuola. E sull’altro aspetto, che richiede di accettare, favorire, e ben disciplinare un pluralismo religioso che può arricchire l’orizzonte culturale per la scuola, per i giovani, per le rispettive famiglie.