1/ Letti da rifare 4. Non è un paese per figli, di Alessandro D’Avenia 2/ Letti da rifare 5. “Corpi” espiatori, di Alessandro D’Avenia

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 25 /02 /2018 - 22:55 pm | Permalink | Homepage
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1/ Letti da rifare 4. Non è un paese per figli, di Alessandro D’Avenia

Riprendiamo dal Corriere della Sera un articolo di Alessandro D’Avenia pubblicato il 12/2/2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi di Alessandro D'avenia, vedi il tag alessandro_d_avenia. Per approfondimenti, cfr. la sezione Adolescenti e giovani.

Il Centro culturale Gli scritti (25/2/2018)

«Tu vai, io sono qui, se cadi sono qui»: ricordo nitidamente il campetto di cemento screpolato sotto casa, la bicicletta gialla di mio fratello, gli alberi di mandarini di là dal muretto di protezione e l’espressione calma sul viso di mio padre quando mi insegnò ad andare in bicicletta, consegnandomi con fiducia alle strade del mondo e alle inevitabili sbucciature che dovevo imparare ad affrontare per diventare grande. Nitidamente ricordo anche i racconti di mia nonna sul nonno che non ho mai conosciuto: quando la guerra li aveva separati per troppo tempo, si era procurato una malattia al fegato mangiando non so quante uova. Il tutto per poter essere rimandato a casa e stare qualche giorno con lei, e io, bambino incantato dall’eroismo del nonno, decisi che da grande volevo amare così, come lui aveva fatto con lei. Ricordo il giorno in cui il mio professore di liceo mi prestò il suo libro di poesie preferito e mi disse di restituirglielo dopo due settimane. Mi immergevo nelle pagine di versi che non capivo, ricevevo la grande eredità della bellezza da un altro uomo, le cui note al margine dei versi diventavano più importanti dei versi stessi: mi introducevano nella sua storia e in quella di un poeta di due secoli prima che giungeva fino a me, diciassettenne in cerca di futuro.

Ricordo il sorriso costante di padre Pino Puglisi, che incrociavo nei corridoi del mio liceo dove insegnava religione, mentre le sue battaglie silenziose lo stavano portando alla morte, comminata dai mafiosi perché, come risulta dall’interrogatorio del sicario, «si portava i picciriddi cu iddu» (portava i bambini con lui). Dove? Verso una vita a testa alta, semplicemente perché mostrava loro il cielo stellato, li faceva giocare e studiare. Per questo era pericoloso quanto Falcone e Borsellino, perché ri-generava quei bambini strappandoli al controllo del padrinato e restituendoli alla paternità. Li rendeva liberi: figli responsabili del mondo. I liberi, nella lingua latina, erano infatti i figli che potevano ricevere l’eredità: la libertà è appartenenza a una storia che si riceve gratuitamente e che ci si impegna ad ampliare.

Non è un caso che alcuni istanti siano scolpiti nella nostra memoria di bambini e adolescenti. La mia memoria e quindi la mia identità è maturata nei momenti in cui qualcuno mi ha consegnato, a prezzo del suo sudore, dolore, amore, l’esperienza imperdibile del mondo perché io la custodissi e l’ampliassi. L’uomo che sono e voglio essere lo devo al bambino-adolescente che ha ricevuto un testimone da passare, da uomini e donne che, pur con le loro debolezze, non badavano solo a se stessi, ma erano occupati a generarmi alla vita interiore, dove si annida il nome proprio che ciascuno ha e dove si origina l’energica consapevolezza di un inedito da fare. Solo le relazioni vere riescono in questa impresa di aiutarci a crescere, ma per essere generative devono prendersi tutto il tempo che serve: che cos’è, alla fine, amare se non donare il proprio tempo a un altro? Me lo confermano tante lettere come questa: «Vengo da una famiglia che non subisce le conseguenze della crisi e ho due genitori, separati, con lavori che impegnano quasi la totalità del loro tempo. Ho tantissimi oggetti: telefono ultimo modello, motorino, vestiti firmati, tutto quello che voglio me lo comprano. So che starai pensando che sono un ingrato, ma non mi basta tutto quello che ho. Molte volte capita che i miei compagni di classe, all’uscita di scuola, vadano in ufficio dal padre per prendere un panino per pranzo al volo o che le ragazze passino la domenica con le madri per centri commerciali a fare shopping. Mi chiedo a cosa serva lavorare tanto se poi alla fine non ti rimane tempo per queste cose. Preferirei usare la metro o avere un cellulare scassato ma poter andare ogni tanto a prendere un gelato con mio padre e parlare di politica, calcio, scuola e lavoro. Oppure mi piacerebbe che mia madre ogni tanto venisse la domenica alla partita di calcio proprio come fanno tutte le altre mamme. Loro però sono talmente presi dagli affari che non si accorgono che io viva la situazione come un disagio. Non c’è niente di peggio che affrontare l’adolescenza senza la presenza dei genitori».

Persino Ulisse diventò eroe da bambino e adolescente. Infatti proprio alla fine dell’Odissea, in una delle scene che amo di più, egli si presenta al padre Laerte ma non viene riconosciuto dopo vent’anni d’assenza. Allora sceglie due segni per rivelarsi come suo figlio. Gli mostra la ferita ricevuta durante la caccia al cinghiale alla quale Laerte aveva inviato il ragazzo e poi lo porta nel frutteto in cui, da bambino, il padre gli aveva insegnato uno per uno i nomi degli alberi che gli avrebbe consegnato in eredità quando sarebbe cresciuto. A quel punto Laerte riconosce (conosce di nuovo) Ulisse come figlio, attraverso i sicuri segni di una storia comune: la ferita che ha reso l’adolescente un uomo e la fedeltà alle cose e ai loro nomi di cui lo ha reso responsabile sin da piccolo.

La crisi dell’educazione oggi ha un’unica matrice: la difficoltà o la incapacità di generare simbolicamente le vite, cioè di narrare la storia di cui si è parte e di affidare una qualche eredità spirituale e morale da custodire e sviluppare, dopo averla coerentemente difesa a costo della propria vita. Nella lingua ebraica la parola per indicare la storia (Toledot) significa «generazioni» perché è una storia di nomi e di compiti che Dio consegna agli uomini, e loro ai figli: non una storia di eventi ma di figli. La crisi della trasmissione, sia di identità sia di eredità, mina alla base la crescita, perché taglia la radice che rende necessaria l’educazione: l’essere figli. È questa la condizione originaria e originale di ciascuno, una condizione non meramente biologica, ma spirituale, che si genera e rigenera attraverso racconti, gesti, azioni, proprio come quando mio padre mi prendeva in braccio e lanciava in aria, per spingermi nel futuro con la sua forza, mentre mia madre voleva tenermi ancorato alla terra del suo grembo: a che serve uno spazio di radici senza un orizzonte di attesa di rami e frutti? La difficoltà a consegnare un’esperienza credibile, una storia valida, un’eredità solida, rende sterile qualsiasi relazione impegnata a far crescere l’altro: la politica promette paternalisticamente il futuro ma nei fatti non lo apre; l’arte si chiude in discorsi incomprensibili che di fatto disprezzano l’uomo e poi, per raggiungerlo, si riduce a effimera provocazione o seduzione commerciale; la scuola diventa addestramento, scatola di prestazioni, ripetizione di pensieri altrui, anziché acquisizione di un’esperienza custodita e raccontata per essere vagliata e rinnovata da chi l’ha ricevuta.

Il letto da rifare di oggi, come mostra la lettera, è il silenzioso urlo di orfani e diseredati, ragazzi e ragazze generati alla vita ma non al senso della vita, riempiti di oggetti ma privi di progetti, dimenticati da una politica divenuta impotente (nel senso di sterile) di fronte alle cifre spaventose della dispersione scolastica, della disoccupazione giovanile e della crisi demografica. C’è una paternità che nutre i figli perché siano migliori dei padri e una invece che, come Saturno, li divora per paura che i figli caccino i padri. Due visioni antitetiche contenute nei due sogni, relativi al defunto padre, raccontati dal protagonista del libro di Cormac McCarthy Non è un paese per vecchi: «Il primo non me lo ricordo tanto bene, lo incontravo in città e mi regalava dei soldi e mi pare che li perdevo. Ma nel secondo sogno era come se fossimo tornati tutti e due indietro nel tempo, io ero a cavallo e attraversavo le montagne di notte. Faceva freddo e a terra c’era la neve, lui mi superava col suo cavallo e andava avanti. Senza dire una parola. Continuava a cavalcare, era avvolto in una coperta e teneva la testa bassa, e quando mi passava davanti mi accorgevo che aveva in mano una fiaccola ricavata da un corno, come usava ai vecchi tempi. E sapevo che stava andando avanti per accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e a quel freddo, e che quando ci sarei arrivato l’avrei trovato ad aspettarmi». I veri padri aprono la strada, portano il fuoco e lo donano ai figli, nella notte fredda e buia della storia, perché poi toccherà a loro fare altrettanto, di generazione in generazione.

Ma come possiamo crescere quando i padri rinunciano al loro ruolo di aprire la strada a chi viene dopo di loro? Come possiamo sperare quando i maestri perdono il fuoco?

Possiamo ancora essere figli di qualcuno?

Copyright Corriere della Sera

2/ Letti da rifare 5. “Corpi” espiatori, di Alessandro D’Avenia

Riprendiamo dal Corriere della Sera un articolo di Alessandro D’Avenia pubblicato il 19/2/2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (25/2/2018)

Dove sono finiti gli occhi? Dove le mani? Non c’è traccia dell’ordine divino del corpo, del ritmo armonico che regola la lunghezza delle membra e le lega in unità al luogo che accoglie e apre la vita. In Pamela ormai non c’è traccia di quella inesauribile promessa che è il corpo femminile, la grazia non ha più modo di dispiegarsi per ricordare all’uomo che è fatto per nascere e non per morire, che il corpo è carne luminosa dell’anima e non sua prigione oscura. Occorre un’accurata autopsia perché quel corpo ci dica tutta la verità, oltre lo sgomento, sulla violenza da cui gli uomini non sanno come liberarsi se non, troppo spesso, al prezzo di «corpi» espiatori: Sarah, Yara, Jessica, Pamela e tutte le giovani vittime dell’istinto sacrificale dell’uomo.

«Sorretta dalle mani degli uomini fu condotta agli altari,/non per essere accompagnata a luminose nozze,/ma per cadere vittima proprio nel tempo delle nozze/perché la flotta avesse una partenza felice./A un così atroce misfatto poté spingere la superstizione». Ifigenia, emblema mitico delle ragazze in fiore, sacrificate agli dei con l’inganno per far vincere agli uomini la loro guerra, come racconta senza sconti Lucrezio nel suo poema sulla Natura del Mondo, ci mostra quanto la cronaca odierna affondi le sue raggelanti radici nel cuore di tenebra degli uomini di tutti i tempi: il corpo delle donne è spesso destinatario dello sfogo della violenza, carne da sacrificio per idolatrie antiche e nuove. Perché?

Da come una cultura tratta il corpo della donna si può comprendere la verità su quella cultura. Per questo un nobel della letteratura poteva dire che l’anima «sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana,/a se stessa estranea, inafferrabile,/mentre il corpo c’e, e c’e, e c’e/e non trova riparo». Sono i versi della poetessa Wisława Szymborska in Torture a ricordare che il corpo delle donne c’è in modo assordante e non trova riparo, torturato e sacrificato sull’altare dell’abbandono e di abusi fisici e psicologici troppo spesso taciuti, sull’altare della pornografia e della prostituzione, delle guerre pubblicitarie, della droga che non è mai (chi sta a contatto con i ragazzi lo sa) leggera, sull’altare della perfezione, del piacere violento, di irrazionali regole religiose, e su tutti gli altari di chi costringe i corpi a essere solo superfici. Il corpo è invece il segno di una unicità fatta carne da custodire con tutte le gradazioni che l’amore — il gioco delle anime e dei corpi — sa inventare: una carezza, un abbraccio, un bacio, o soltanto un sorriso.

Soltanto così il corpo della donna diventa per noi, eterni principianti della vita, una mappa che dobbiamo imparare a comprendere con mani disarmate e occhi attenti. A volte capita di intercettare nelle movenze di una donna una strana leggerezza che rende gesti e sguardi di una stoffa rara, rivela e nasconde l’inizio o la pienezza di un amore, uno stilnovo di parole e gesti. C’è molto di più da sapere sulla vita nel corpo di una donna alle otto del mattino, senza trucco sugli occhi ancora assonnati, che nelle pagine di cronaca, perché ogni elemento di quel corpo, sinfonia di dettagli, non canta solo se stesso ma l’unità profumata della vita che vive quando ama ed è amata. Le ciglia sfarfallano, la luce esce dagli occhi più pura, e inattesi animali si nascondono nelle membra, il cigno nel collo, la tigre nelle gambe, i delfini nelle dita e i fenicotteri che cambiano colore, dal bianco al rosa, nel viso. Il corpo di una donna può contenere tutto il cosmo, per questo il racconto della Genesi coglie nel segno, narrando che, dopo che tutte le cose furono fatte, il corpo della donna fu modellato per ultimo, finale inatteso nel gran film delle origini. Quel mistero di carne è la sintesi di tutte le cose precedenti, il compimento e superamento di tutta l’opera fatta. Chiunque avesse sfregiato quel corpo avrebbe rovinato anche alberi, corsi d’acqua, orbite celesti, ordine delle stagioni e tutte le relazioni che da quel corpo dipendono. Così se viene ferita la donna viene ferita tutta la realtà, e non per un sentimentale luogo comune, ma perché se il corpo capace di albergare e dare la vita viene avvelenato, la vita tutta è avvelenata, come un fiume alla fonte. Forse per questo un giorno mia madre mi consigliò un libro di Julie Otsuka, Venivamo tutte per mare, dicendomi: «Narra di donne sfruttate durante la guerra mondiale e la protagonista è un noi corale». Incuriosito dall’artificio narrativo le chiesi come mai, e lei mi rispose: «Perché il dolore di una donna è il dolore di tutte le donne, e di tutte le cose».

Nessun taglio è stato fatto a caso o risparmiato, raccontano i medici che hanno curato l’autopsia di Pamela e di Jessica. Allora penso a tutti i tagli che sui loro giovani corpi tante ragazze si infliggono pur di non sentire, almeno per qualche istante, il dolore di essere al mondo come in una prigione. Conservo la lettera di una di loro che aveva scoperto, attraverso un libro, la gioia di donare il sangue, e anche questo l’aveva aiutata a guarire dal suo autolesionismo. Mi scriveva parole da cui ho compreso quanto il corpo di una donna sia il vero campo di battaglia tra l’essere e il nulla per una intera civiltà: «Io con il sangue ho avuto un rapporto negativo. Il sangue l’ho cercato, desiderato, versato, sprecato. Tante notti in bianco alla ricerca del rosso di quel sangue… e quelle poche gocce che sgorgavano dai tagli non bastavano mai. Per quanto negativo l’autolesionismo è stato un mezzo per capire il dolore, la dipendenza, la solitudine: ora riesco a non giudicare chi si trova in situazioni simili, riesco a capire il mio ragazzo che viene da un’esperienza di abbandono. Una delle prime volte gli ho parlato del mio problema: lui mi ha preso il braccio, ha guardato le cicatrici e ha detto: “Beh, ti sei semplicemente graffiata passando vicino a delle rose”. Tanti hanno tentato di darmi consigli, ma solo questa frase mi ha dato la forza per smettere… una cosa così mostruosa come l’autolesionismo diventa un graffio di rose». Lo diventa grazie all’amore di un ragazzo che sa sfiorare quelle ferite.

Penso anche ai corpi che si dissolvono nel controllo totale del peso, fino a collassare sull’altare della vita come irraggiungibile perfezione. In questi anni di scuola ho visto tanti corpi disfarsi, lanciando segnali impossibili da ignorare.

Cambiano i nomi e volti degli dei di questi sacrifici ma, fino a che i corpi verranno martoriati, la vita non potrà scorrere pura, né il caos trovare ordine. Tutta la violenza sul corpo delle donne è indirizzata alla loro capacità di essere e tessere la vita, proprio come Ifigenia condotta al rito sacrificale mentre le era stato falsamente promesso quello nuziale: il mito ci ricorda ciò che non dobbiamo e possiamo dimenticare, perché purtroppo assai spesso pretendiamo di allontanare a colpi sterili di moralismo i mali di cui alimentiamo più o meno consapevolmente le cause.

Finché non smetteremo di usare il corpo delle donne come un campionario per altri scopi, come il catalogo più completo del consumismo, non smetteremo di distruggere le donne e con loro la vita stessa. In questo poeti e scienziati concordano, svelando molto più di migliaia di macabri dettagli di cronaca. Al nobel della letteratura Miłosz che in una poesia dice: «Quando c’è la luna e le donne in abiti a fiori passeggiano/provo stupore per i loro occhi, le loro ciglia e tutta l’organizzazione del mondo./Mi sembra che da una propensione reciproca così grande/potrebbe finalmente risultare la verità ultima», fa eco il nobel della fisica Heisenberg, quando scrive a sua moglie: «Credo che, durante l’estate, metterò la fisica in un angolo buio, per riprenderla più tardi, per prima cosa ho da imparare da te più che da tutti i trattati del mondo».

Sono infatti uomini le cui mani hanno creato bellezza duratura. Allora guardo le mie e le vostre e credo che il letto da rifare, come suggerisce la lettera della ragazza, sia ritrovare la forza gentile che, nel toccare il corpo di una donna, protegge, cura e guarisce la carne del mondo.

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