1/ Quando la luce sconfigge le tenebre. Il 13 ottobre prima giornata delle catacombe, di Fabrizio Bisconti 2/ L’abbraccio degli uguali, di Gianfranco Ravasi 3/ Esperimento coraggioso e audace, di Pasquale Iacobone

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 21 /10 /2018 - 22:56 pm | Permalink | Homepage
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1/ Quando la luce sconfigge le tenebre. Il 13 ottobre prima giornata delle catacombe, di Fabrizio Bisconti

Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 12/10/2018 un articolo di Fabrizio Bisconti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.

Il Centro culturale Gli scritti (21/10/2018)

Due testimonianze patristiche, riferibili all’ultimo scorcio del IV secolo e agli esordi del seguente, proprio quando le catacombe romane sfiorano, da un lato, l’apice del loro sfruttamento e, dall’altro, mostrano i primi espliciti segnali di un declino, che prelude a un progressivo abbandono, ci forniscono altrettante visioni della «Roma sotterranea cristiana», che corrispondono a due modi antitetici, ma in parte anche complementari, di concepire e di sentire le catacombe.

Il primo brano si riferisce al soggiorno romano di san Girolamo, quando, ancora studente, si recava, di domenica, a visitare le tombe degli apostoli e dei martiri, insieme ai suoi compagni di studio: «Entravamo nelle gallerie, scavate nelle viscere della terra, completamente interessate dalle sepolture e così oscure che sembrava si realizzasse il motto profetico: Discendevano vivi nell’inferno (Salmo 54, 16). Rare luci, provenienti dal sopraterra, attenuavano un poco le tenebre, ma il chiarore era talmente flebile che sembrava giungere da uno spiraglio e non da un lucernario. Si procedeva adagio, un passo dietro l’altro, completamente avvolti nel buio, tanto che veniva in mente il luogo virgiliano: Gli animi sono atterriti dall’orrore e dal silenzio (Eneide II, 755)» (Su Ezechiele 12, 40).

Anche l’altra testimonianza ricorda un sopralluogo nelle catacombe romane e, segnatamente, quello che effettuò presumibilmente in prima persona, il poeta iberico Prudenzio nel cimitero di sant’Ippolito sulla via Tiburtina, agli esordi del V secolo (Peristephanon 11). Secondo questo scritto poetico, Prudenzio si sarebbe recato a Roma alla ricerca di materiale epigrafico da mostrare a un certo vescovo Valeriano. Durante questa visita, si imbatté nel santuario della via Tiburtina, dove riposavano le spoglie del martire Ippolito, in una sede sotterranea, da identificare con il complesso monumentale ancora oggi visitabile. Prudenzio ripercorre l’itinerario che facevano i devoti provenienti anche dall’hinterland romano e dalle regioni vicine nel giorno della festa natalizia del martire, un percorso che prende avvio dalle mura per giungere in una “cripta” oscura, attraverso una scala tortuosa ed un cammino illuminato dalla luce fioca di lucernari sino al sepolcro del martire. Questa cronaca così particolareggiata è, poi, arricchita dalla descrizione di una pittura che avrebbe evocato, in un crescendo drammatico, tipico delle affabulazioni leggendarie, il processo e il supplizio cruento del martire, secondo una dinamica e una tipologia iconografica poco probabili per un periodo così antico.

In questo contesto prevale il concetto dell’oscurità che ispirerà le leggende medievali, i romanzi dell’Ottocento, come Fabiola, e i kolossal cinematografici del secolo scorso, come La tunicaBen Hur e Quo vadis?. Eppure l’habitat delle catacombe era squarciato dalla luce, attraverso la creazione dei lucernari, pensati per segnalare monumenti particolarmente importanti o decorati, affinché la luce potesse sottolineare le peculiarità architettoniche, i programmi iconografici delle decorazioni ad affresco e le sistemazioni degli arredi marmorei o degli apparati musivi.

La ricerca, prima discreta e poi sistematica, della luce condusse all’apertura di lucernari sempre più importanti nelle proporzioni e sempre più audaci nell’impegno architettonico: da quello che mette in comunicazione i due piani di Priscilla a quello che collega i cubicoli di Milziade e delle Stagioni a San Callisto. E questo gioco tra luce e ombra, o meglio, questo mai sopito desiderio di sconfiggere le tenebre con punti luminosi si riflette anche nei formulari epigrafici, quando, per evocare il Paradiso, si fanno riferimenti continui a un aldilà inteso come coelestia regnaregna beata polisidera omnipotens aulaluxlumenastra.

I lucernari furono disposti strategicamente per fugare le tenebre, per illuminare decorazioni e monumenti che, costituzionalmente, captano la luce, per rischiarare gli oscuri meandri catacombali, ma la luce viene intercettata anche da altri piccoli elementi. Nella malta di sigillatura dei loculi, infatti, appaiono materiali, talora minimi nelle proporzioni e nel pregio, come frammenti di marmi colorati, pezzi di pasta vitrea, valve di conchiglia, denti di mammiferi, recipienti vitrei e fittili, lucerne, bambole e statuette d’avorio, bottoni, fibbie, armillae, collane, campanelli metallici, monete, gemme, fondi di vetro dorato.

Si tratta di un’arte alternativa, un succedaneo dei grandi interventi decorativi, che si consumano nei cubicoli destinati ai cristiani di elevato grado sociale, di alto potenziale economico, di importante livello gerarchico nell’ambito della comunità. Tutto si sbrigava rapidamente, con la complicità dei fossores, gli addetti alla sepoltura, che accontentavano i desiderata dei familiari del defunto, apponendo nella calce i pochi materiali colorati o luminescenti che avevano a disposizione, giustapponendoli al vero e proprio corredo, che, appunto, fuoriesce dal loculo per essere esibito all’esterno.

Ecco, quindi, che al “corredo in vista”, rappresentato dai giocattoli e dalle statuette, si affiancano i cosiddetti “vetri dorati”, ovvero i fondi dei recipienti vitrei, decorati con una sottile lamina aurea, per mezzo di temi iconografici pagani e cristiani e di iscrizioni propriamente augurali. Nel collocare questi singolari elementi vitrei, i fossori usano solo il fondo del recipiente, quello più decorato e riflettente.

Ogni espediente che illumina si inquadra nella tensione dei cristiani di liberarsi dall’oscurità. In questa tensione dobbiamo calare il desiderio insopprimibile di attirare l’attenzione sul sepolcro, con materie riflettenti, che catturano la luce tremula delle lucerne dei visitatori, costringendoli a dirigere lo sguardo verso quei flash variopinti, alimentando e arricchendo il significato profondo della luce per il pensiero cristiano, che ci accompagna verso il suggestivo concetto della illuminazione, che vede il fedele impegnato in un percorso spirituale, che dal battesimo giunge alla resurrezione finale.

2/ L’abbraccio degli uguali, di Gianfranco Ravasi

Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 12/10/2018 un articolo di Gianfranco Ravasi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.

Il Centro culturale Gli scritti (21/10/2018)

Vetro dorato infisso nella malta di chiusura di un 
loculo con l’immagine di sant’Agnese
(catacomba di Panfilo, Roma, IV secolo)

La particolare integrazione dei cristiani nel tessuto sociale della tarda antichità è rappresentato quasi in presa diretta da alcune suggestive testimonianze dell’epoca. Così, ad esempio, nella lettera A Diogneto — un testo che ci cala nel vissuto quotidiano alessandrino tra il II e il III secolo — si rievoca la condizione e la diffusione dei cristiani nelle città dell’orbis Christianus antiquus: «I cristiani non si distinguono dagli altri uomini, né per territorio, né per lingua, né per le consuetudini di vita. Non abitano città proprie, non usano un linguaggio particolare, non conducono uno speciale genere di vita... Disseminati nelle città elleniche e barbare, dove a ognuno è toccato vivere, si vestono secondo abitudini locali e mangiano gli stessi cibi» (n.6).

Incontriamo la medesima idea di convivenza e di coincidenza di luoghi e abitudini dei cristiani nel loro tessuto sociale anche attraverso la voce di Tertulliano: «Coabitiamo in questo mondo, frequentando gli stessi fori, gli stessi mercati, le stesse terre, le medesime botteghe. Insieme navighiamo, combattiamo, pratichiamo l’artigianato e l’agricoltura» (Apologetico 42, 2-3).

Ma, mentre i cristiani professano il loro desiderio di integrazione nel mondo, allo stesso tempo, tendono a distinguersi dal mondo, specificando la loro indole spirituale, così lontana dall’attaccamento alle realtà terrene. È ancora la lettera A Diogneto a illustrare questo atteggiamento: «Essi propongono il loro paradossale e meraviglioso stile di vita associativo. Abitano la loro patria, ma come pellegrini, prendono parte alla vita sociale, sopportando tutto come stranieri... Si sposano come tutti gli altri, ma non abbandonano la prole. Hanno comune la mensa, ma non il letto. Vivono nella carne, ma non secondo gli istinti della carne. Trascorrono l’esistenza sulla terra, ma sono cittadini del cielo».

Questa oscillazione tra “eguaglianza e diversità” trova un’ulteriore illustrazione in un celebre passo di Lattanzio: «Tra noi non ci sono né servi, né padroni; non esiste altro motivo se ci chiamiamo fratelli, se non perché ci consideriamo tutti uguali» (Divine istituzioni 5, 15).

La raffigurazione letteraria e documentaria che abbiamo finora evocato si riflette perfettamente nelle catacombe cristiane, scavate nel tufo e organizzate in gallerie, che sembrano abbracciare l’intera comunità. Le regioni più emblematiche degli spazi catacombali sono sfruttate intensamente, con la creazione di un fitto casellario di loculi.

Il loculo rappresenta la cellula elementare del sistema funerario cristiano, inteso in senso comunitario, rispondendo perfettamente alle caratteristiche di essenzialità e di sobrietà, richieste da una sepoltura semplice e facilmente ripetibile per tutti gli aderenti alla nuova dottrina. Il loculo risponde, insomma, a quello spirito egualitario, che anima le prime comunità e che è basato sulla visione evangelica e della cristianità delle origini soprattutto degli Atti degli apostoli (2, 42-47; 4, 32-35; 5, 12-16).

Se scorriamo con lo sguardo le gallerie catacombali ancora intatte, si percepisce perfettamente quell’atmosfera di uguaglianza, ma anche di solidarietà, che connotava i primi gesti funerari dei cristiani. Essi s’impegnavano a cercare aree proprie ed esclusive così da provvedere alla sepoltura di tutti, anche dei meno abbienti, che non potevano affrontare la spesa per la creazione e la cura di una tomba.

Percorrendo le interminabili gallerie costellate da migliaia di loculi tutti uguali, si avverte immediatamente l’idea di provvisorietà di questi grandi depositi, costituiti da semplici vani scavati nel tufo, disposti in pile, talora molto elevate, come fossero scansie di grandi armadi a muro.

Là i corpi erano deposti, in attesa di una migliore collocazione, quella definitiva, che i cristiani attendevano per la fine dei tempi: allora si sarebbero risvegliati-risorti dal sonno dei coemeteria, ovvero dei “dormitori”, come indica questa denominazione nella sua etimologia greca (da koimáô, “riposare, giacere”), un titolo che specificava la realtà e la finalità delle catacombe.

3/ Esperimento coraggioso e audace, di Pasquale Iacobone

Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 12/10/2018 un articolo di Pasquale Iacobone. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.

Il Centro culturale Gli scritti (21/10/2018)

Un esperimento audace, coraggioso ed inedito: la prima Giornata delle Catacombe, organizzata per il 13 ottobre dai responsabili della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, l’istituzione che, sin dal 1852, si occupa della custodia, della salvaguardia e della tutela delle catacombe cristiane dislocate nel territorio italiano.

Il progetto consiste, innanzitutto, nell’accesso gratuito al pubblico di ben dodici complessi monumentali paleocristiani. L’apertura non riguarda solo le catacombe normalmente visitabili, come quelle di San Callisto, di San Sebastiano, di Domitilla, di Priscilla, di Sant’Agnese e dei Santi Pietro e Marcellino, ma anche alcuni monumenti meno noti, come quelli di Pretestato, con lo splendido museo rinnovato e la spelunca magna che porta alla tomba del martire Gennaro; del museo della Torretta, una delle esposizioni dell’arte tardoantica più ricca e sofisticata della città; del museo di san Sebastiano appena inaugurato, e con un nuovo allestimento; del museo di Domitilla, arricchito da una collezione dedicata a Il mito, il tempo, la vita; delle catacombe di San Pancrazio a Monteverde; delle catacombe e della splendida basilica di Sant’Alessandro sulla via Nomentana; del cimitero di San Lorenzo al Verano, appena ripristinato.

Durante la giornata verranno aperte mostre, si terranno tavole rotonde, si svolgeranno laboratori didattici ed eventi musicali, per concludere con la celebrazione liturgica, presieduta dal cardinale Gianfranco Ravasi, nella basilica di San Sebastiano sull’Appia.

La finalità di questa prima Giornata è indicata dal titolo Dal buio alla luce: si tratta di “rimettere in luce” un patrimonio davvero unico e prezioso quanto suggestivo, che ci trasmette, se si sa ascoltare, un messaggio luminoso di vita, di speranza, di sguardo sereno sul futuro ma anche di testimonianza coraggiosa, di coerenza, di fedeltà.

Lo aveva già eloquentemente affermato Paolo VI, a cui è dedicata la mostra della tricora occidentale di San Callisto, nella splendida omelia pronunciata nella basilica dei Santi Nereo e Achilleo di Domitilla il 12 settembre del 1965. Così Paolo VI celebrava il valore delle catacombe: «Per noi le catacombe sono il ricordo d’una lunga storia di nascondimento, di impopolarità, di persecuzione, di martirio, a cui la Chiesa nei primi secoli del Cristianesimo fu sottoposta, a Roma e in tante parti del suo Impero; e nello stesso tempo sono il quadro e il ricordo d’una intimità religiosa, personale e collettiva, estremamente bella e feconda, d’una tranquilla ed umiliata professione di fede, che sarà per sempre esemplare nei secoli successivi e di un’invincibile convinzione che Cristo è la verità, Cristo è la salvezza, Cristo è la speranza, Cristo è la vittoria».

Alla vigilia della canonizzazione di Paolo VI e del martire monsignor Romero la visita alle catacombe romane ci riporterà, così, alle sorgenti dell’esperienza cristiana e ci ricorderà il valore della testimonianza nel cammino quotidiano della fede.