[Giovanni Battista Montini – Paolo VI.] Linee di formazione e giovani universitari nella Fuci degli anni ’24-’33, di Xenio Toscani

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 02 /06 /2019 - 15:09 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito, per gentile concessione, la relazione tenuta dal prof. Xenio Toscani il 7/5/2019 presso il Centro culturale Paolo VI – Sant’Ivo alla Sapienza in un incontro organizzato insieme al Servizio per la Cultura e l’Università della Diocesi di Roma. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Università.

Il Centro culturale Gli scritti (2/6/2019)

Gli anni 1924-33 vedono G.B. Montini impegnato come assistente ecclesiastico prima del Circolo fucino romano (1924-estate 1925), poi, dall’autunno 1925, di tutta la Fuci. Un decennio tra gli studenti universitari che fu di grande importanza per la Chiesa e per il Paese. Con la collaborazione di un gruppo di giovani dirigenti di eccezionale qualità, che egli seppe animare e educare, il suo ministero trasformò la Fuci nella grande scuola di formazione religiosa e intellettuale della parte più viva e migliore della classe dirigente cattolica che ebbe la guida del Paese negli anni ’40-’70. Giovani cresciuti con lui e raccolti da lui in frequenti e feconde giornate o settimane di studio (e di preghiera), abituati a riflettere su tematiche ecclesiali, civili e professionali, costituirono una élite civile che con lui gettò le basi, col Codice di Camaldoli, dell’ordinamento del Paese che usciva dal Fascismo e dalla guerra. Molti furono attivi nella Resistenza, non pochi fecero parte della Assemblea Costituente che scrisse la Costituzione, parecchi ebbero ruoli di primo piano nella vita politica, occuparono cattedre universitarie, guidarono grandi istituzioni come l’Unesco e la Fao. Tutto ciò ora gli è riconosciuto concordemente dalla storiografia.

In questo decennio Montini ebbe un preciso obiettivo: la formazione di coscienze capaci di una forte testimonianza cristiana. Diversamente dai pure molto stimati don Sturzo e Romolo Murri, dediti alla lotta e alla azione politica o all’impegno direttamente sociale, Montini sulla scena italiana interpretò il ruolo del prete educatore alla fede[1].

Può stupire che una grande responsabilità, di rilievo nazionale, sia stata data a un giovane di 26 anni (tanti ne aveva quando fu nominato assistente del Circolo fucino romano nel dicembre 1923, e 27 e pochi mesi quando ebbe il ruolo di Assistente generale di tutta la Fuci, nel settembre 1925), ma vi giungeva con esperienze significative: un grande impegno nelle organizzazioni giovanili bresciane tra 1916 e 1920, partecipe delle attività della Fuci dopo il 1918. Ordinato sacerdote nel maggio 1920, fu subito mandato a Roma per studi teologici alla Gregoriana, e per studi letterari e storici alla Sapienza; immerso dunque tra gli studenti universitari e i loro problemi, le difficoltà materiali, gli scontri frequenti e violenti tra le fazioni politiche negli anni della progressiva affermazione del fascismo, ma anche gli stimoli che Roma offriva. Così lo ricorda Giampietro Dore nel 1963:

«Il Circolo Romano non era una sinecura, e la più grossa difficoltà era costituita non soltanto dalla forte mobilità dei soci, ma sovrattutto dalla loro eterogeneità. In gran parte provenivano, con diversa mentalità e formazione, dalle varie regioni dell’Italia centrale e meridionale (dove esistevano solo l’università di Roma e quella di Napoli). Né era più omogeneo il gruppo romano, che comprendeva ai poli opposti studenti formati nell’ambiente di alta borghesia dell’Istituto Massimo e studenti che avevano frequentato solo i circoli parrocchiali. Si aggiunga a questi, che erano dati costanti, la estrema tensione politica propria di quegli anni».

«Piazza della Minerva era quasi al centro della zona che, avendo come confini Piazza Navona e il Corso, comprendeva allora buona parte delle attività culturali, religiose e laiche, del tempo. A Piazza Navona abitava Giulio Salvadori; traversata la piazza, erano i Missionari del S. Cuore coi Padri Genocchi e Ceresi, di fronte l’università colla sapienza e Palazzo Carpegna; dopo il Pantheon la Gregoriana, col p. Garagnani; alla Minerva i Domenicani con p. Cordovani e i Gesuiti a S. Ignazio. L’Apollinare e il Collegio Capranica erano caratterizzati per gli studi giuridici il primo e per una larga apertura verso il rinnovamento religioso il secondo. Nella stessa zona c’erano poi le grandi biblioteche, già di proprietà degli ordini religiosi e avocate dallo Stato: la Casanatense e la Nazionale; le più note librerie religiose e infine i due alberghi, S. Chiara e Minerva, frequentati in prevalenza da esponenti del mondo cattolico (…) in fondo a via della Scrofa, all’altezza di S. Luigi dei francesi, era il Circolo Universitario (…) Erano quelli veramente anni di grandi avventure. Dalla Francia ricevevamo la “Revue des Jeunes” e nelle omonime edizioni iniziavamo la conoscenza di Maritain col suo Antimoderne; leggevamo Péguy, Bloy e Claudel. Né ci limitavamo agli autori cattolici e alla letteratura religiosa. Un’altra rivista, la ”Nouvelle Revue françoise”, ci metteva al corrente dei grandi nomi di quello che è stato il periodo aureo della letteratura francese del primo terzo di secolo; in traduzioni francesi gran parte di noi conoscevano anche gli autori inglesi e tedeschi»[2].

Il Circolo lo aveva già frequentato, studente tra studenti, nel 1920-21; l’inserimento come studente gli fu molto facile e confessò ai suoi genitori il suo ottimismo ed entusiasmo:

«Confido proprio che il Signore mi vorrà aiutare a sua gloria a fare un po’ di bene, tanto più quanto a questo genere di lavoro sento doveroso trasporto»[3].

«La mia giornata ha due periodi di fretta: il lavoro del mattino e le chiacchere della sera (…) i giovani mi distraggono assai, ma mi danno la consolazione di lavorare direttamente su delle coscienze, non solo indirettamente su delle povere carte»[4].

«Questa vita intrapresa richiede più che non sembri la rinuncia alla propria indipendenza, alla propria personalità; ed è questo aspetto, schiettamente cristiano, del cammino apertomi davanti, che mi riconcilia con esso, e mi lascia sperare di non perdere il proposito sacerdotale: “oportet me minui, illum autem crescere”»[5].

Non mancavano affatto i problemi, a partire dal clima di tensione e di violenza di quegli anni di fascismo montante. Gli studenti, divisi in varie organizzazioni di diverso orientamento ideologico e politico (comunisti, socialisti, fascisti, popolari, liberali, anarcoidi e massoni) partecipavano spesso agli scontri, nelle vie e piazze del Paese e di Roma, e i circoli fucini (e i singoli iscritti) furono spesso oggetto di violenze. Le difficoltà tuttavia a Montini venivano non solo dal lato “politico”, ma anche dal lato ecclesiale: la Azione Cattolica era ostile al fatto che i fucini avessero una organizzazione autonoma e non fossero inquadrati nelle file della GIAC (Gioventù Italiana di Azione Cattolica), e la loro autonomia poté conservarsi solo grazie al fatto che il Papa riteneva essenziale che i giovani più intellettuali avessero specifica e autonoma formazione; gli atti di ostilità e le diffidenze tuttavia non mancarono. A questo si aggiungeva che una parte della Curia, e persone anche molto vicine al Papa, temevano che la libertà di azione e di impegno dei fucini, causa di frequenti scontri con i GUF, irritasse Mussolini e i suoi consiglieri, nella fase delicata delle segrete trattative per una Conciliazione.

In questo contesto, politicamente durissimo, ecclesialmente difficile e pieno di diffidenze, Montini operò un profondo, radicale rinnovamento 1) delle linee di formazione della Fuci, 2) della figura dell’Assistente ecclesiastico, sia a livello nazionale che locale, 3) della apertura a una cultura teologica larga e a una salda spiritualità. Egli puntò subito a contrastare le frequenti crisi di fede dei giovani che entravano a contatto con la vita e l’insegnamento dell’università, che descrisse con penetrazione psicologica sulle pagine della rivista fucina “Studium”:

«Succede non di rado che una straziante disarmonia si produca fra un primo complesso di verità, portato nell’anima venendo all’Università (la fede familiare), e quest’altro (la scienza) che sembra più del primo autorevole ed organico; quello forse resiste per motivi sentimentali e personali, o per incapacità ad escluderlo totalmente dalla mente, questo però ha da parte sua l’adesione pacifica della ragione. E quello talvolta coincide colla “Fede”, nozione religiosa vaga, non approfondita, non sollevata mai al livello e alla dignità d’uno studio serio e completo; mentre questo si chiama “scienza” cioè patrimonio di asserzioni esatte e controllabili (…) La libertà concessa allo studente universitario è una vocazione sublime ad una laboriosa autodeterminazione, ad una volontaria ed appassionata disciplina di pensiero (…) Discepoli sì, e fedeli ed attenti; ma non mai ad occhi chiusi! Ma non mai inerti ripetitori! Ma non mai fiacchi entusiasti d’una dottrina non nostra! (…) Non bisogna mai assopirsi in una passiva accettazione di qualsiasi insegnamento; bisogna continuamente rendersi conto di ciò che si sta imparando, di ciò che si sta assimilando. Non vogliamo una endosmosi incosciente del pensiero altrui! Vogliamo una revisione subitanea, cosciente e riflessa di ciò che si legge e di ciò che si ascolta (scindere ciò che è scienza da ciò che è metodo suo; ciò che è esperienza provata, da ciò che è principio o conclusione gratuita; ciò che è reale da ciò che è definizione sintetica; ciò che è vero da ciò che è seducente»[6].

«Come valorizzare l’idea cristiana in seno alle università, da dove essa è, col silenzio e con la polemica, bandita, se non col raccogliere, disciplinare, educare manipoli scelti di studenti, la cui convinzione cristiana sia tale da contenere potenzialmente le supreme armonie della scienza e della fede, da resistere con umile sicurezza e con ardente difesa agli attacchi che compagni e maestri fanno a Cristo (…) e la Fuci, la povera Fuci lavora modestamente a questo scopo»[7].

Bisognava dunque “sollevare al livello e alla dignità di uno studio serio e completo” la fede, il complesso di verità portato nell’anima venendo all’Università. Le conoscenze dottrinali andavano elevate in una “Scuola di religione” allo stesso livello delle conoscenze scientifiche, storiche, giuridiche che nelle facoltà gli studenti acquisivano, e andavano illustrate con “metodo universitario”, cioè rigorosa illustrazione della materia, delle fonti, della bibliografia, e con critico esame delle opinioni diverse espresse su di essa. La “scuola di religione” andava però accompagnata dalla preghiera (in particolare liturgica) e dall’esercizio pratico, impegnativo e comunitario, della carità, la carità materiale e quella intellettuale.

Le attività di formazione della Fuci degli anni precedenti, diverse da circolo a circolo e consistenti in lezioni su temi diversi, ora letterari, ora storici o filosofici, a seconda delle emergenze e delle occasioni, andavano irrobustite e composte in un progetto unitario, nel difficile contesto spirituale e culturale posto dall’idealismo gentiliano dominante nelle università. Alla vigilia del congresso nazionale del 1925 egli affermò:

«È necessario pertanto un richiamo continuo e progressivo allo scopo intellettuale della Fuci, richiamo che deve venir ispirato dall’opera non che dal magistero diretto degli Assistenti, perché la cronistoria della FUCI, la vita del suo organo “Studium” e il contenuto dei suoi congressi nazionali e dei convegni di zona offrono una prova delle deficienze dell’apostolato intellettuale vissuto fin oggi. Non si è tenuto conto abbastanza della condizione dello studente universitario “qua talis”. Non è possibile che lo studente resti estraneo ai particolari presupposti filosofici e religiosi che vivono, espliciti o impliciti, nelle conclusioni delle lezioni e delle dispense dei suoi professori; o dei testi particolarmente consultati. È perciò indispensabile che egli sia in grado di poter immunizzarsi contro di essi ove fossero contrarii alla sua fede e questo non è possibile se egli non ha vigile e forte il potere di discernere in ogni ricerca e in ogni risultato l’elemento specificamente tecnico dai presupposti filosofici o religiosi impliciti o espliciti. (…) La Fuci, chiamata all’apostolato della carità intellettuale per l’Azione Cattolica, deve educare, vigile e cattolicamente coerente, nei suoi universitari federati, la coscienza religiosa e filosofica che illumina e inquadra, caratterizza tutto lo scibile.

Qui sta la prerogativa della nostra schiera, qui la forza e la bellezza della nostra scuola: studio di principii. E i principii che dormono, o meglio, come latenti radici lavorano sotto la vegetazione delle discipline scientifiche, e danno buoni frutti se esse hanno buone radici, cattivi se cattive, devono essere conosciuti, selezionati, piantati nelle nostre coscienze»[8].

Nelle circolari inviate agli assistenti delinea un programma comune:

«Noi saremmo disposti ad inviare venti schemi di lezioni, semplici, ma fatti da competenti. Il tema scelto quest’anno è “la Chiesa” (suddiviso in quattro parti, quasi indipendenti fra loro: questione filosofica, esegetica storica teologica) e ripetiamo i concetti che ispirano l’iniziativa:

1 ) L’adesione al programma inviato è proposta, non imposta. Inoltre ogni assistente e ogni circolo resta libero anche di scostarsi dagli schemi proposti, purché sia mantenuto un certo ordine metodico di trattazione i cui scopi sono:

2 ) Coordinare in un programma unico lo studio della religione in tutta la federazione, e ciò per dare ai circoli unità di programma, emulazione nella attività, aiuto nelle difficoltà.

3 ) Fare dei circoli dei focolari di pensiero cattolico. Non basta la professione cattolica: occorre per noi un esame cosciente della dottrina cattolica. Un circolo che non promuove adeguatamente l’istruzione religiosa vien meno ad una delle proprie ragioni essenziali di esistenza

4 ) Dare idee chiare, fondamentali, semplici e sistematiche. Trattare però la materia secondo la mentalità, i bisogni intellettuali degli studenti. Elementare la dottrina, universitaria l’esposizione»[9].

I Circoli accolsero le proposte con buona prontezza e con successo: l’anno dopo, 1927, Montini ritenne possibile organizzare compiutamente la “Scuola di religione”:

«L’esperimento compiuto lo scorso anno ha dato per indiscutibile risultato la certezza della bontà dell’iniziativa (…) non resta quindi che andar avanti. La continuità della cosa ci obbliga ad una organica distribuzione della materia, non solo per quest’anno, ma anche per gli anni successivi. Proponiamo ai nostri assistenti

1 ) la distribuzione della materia in quattro parti, vale a dire in quattro anni di svolgimento. Calcolo questo suggerito dalla durata dei corsi universitari e dalla necessità di riesporre agli studenti tutta la nostra dottrina. Perciò svolgere L’apologia della religione cristiana il primo anno, il Dogma il secondo anno, la Morale il terzo anno, la Storia il quarto anno.

2 ) la Prevalenza della esposizione sulla apologia. Non già che si debba, specialmente tra gli studenti, prescindere dalle difficoltà e dall’interesse di particolari problemi della loro anima e dei loro studi, ma perché crediamo più serio, più utile, più necessario illustrare la nostra dottrina in modo preciso e quindi porla a confronto difensivo con l’errore, piuttosto che cominciare con la difesa senza conoscere sufficientemente il patrimonio, che non è solo da difendere, ma da vivere. L’apologia sia sempre preoccupazione vigile, ma, eccetto che nel primo corso, occasionale e laterale all’esposizione sistematica della dottrina»[10].

Il rinnovamento profondo del progetto formativo fucino non poteva non comportare un ripensamento della figura e del ruolo dell’assistente ecclesiastico, e questo tanto più in una fase di forte prevalenza, nell’università, di posizioni e orientamenti filosofici avversi al cristianesimo, e di ostilità fisiche da parte dei GUF. Le difficoltà e la serietà della situazione furono occasione perché Montini delineasse con lucida passione la missione del prete “educatore alla fede”:

«La figura dell’Assistente è emersa come quella che deve personificare la continuità e la stabilità e il possibile progresso dalla Associazione: a lui salvare la tradizione, a lui mantenere il movimento, a lui difendere il Circolo. A lui crearlo. Perché succede che il rapido passaggio dei giovani nell’associazione rende necessaria, nel giro di pochi anni, una nuova costituzione del circolo o del segretariato.

Ed allora ecco dalla triste situazione nascere una bellissima situazione. Se l’Assistente è reso indispensabile all’organizzazione, ecco che una eccezionale vocazione è annunciata al clero italiano: esso è chiamato a farsi l’educatore delle classi dirigenti cattoliche. È chiamato al suo posto. Al suo vero posto: di sale e di luce; di maestro di azione e maestro di pensiero. Non ci si pensava forse un tempo; ma era così: Il clero non aveva né mezzo né ardire di affrontare il problema in pieno dell’educazione completamente cristiana del laicato colto, laborioso. La Provvidenza ha forse permesso che vicende della vita cattolica italiana prospettassero in pieno ai preti, che hanno mente e cuore per compierlo, il loro dovere di carità intellettuale (…) L’ufficio di assistente diviene un vero ministero sacerdotale, paragonabile, anzi superiore a qualsiasi altro ministero di insegnamento e di cura d’anime»[11].

«La necessità che preti di grande cuore e di grande mente si consacrino a questo lavoro è resa ogni giorno più chiara. L’apostolato universitario è tal cosa, per ciò che rende, per ciò che merita, per ciò che rappresenta, per ciò che può divenire, da meritare una dedizione completa. Migliaia, dico migliaia di giovani studenti buoni e credenti vanno perdute o disperse all’Università perché non c’è chi si occupi di loro! (…) Hanno tanti professori questi studenti, sed non multos patres. Che il circolo sia famiglia»[12].

La Scuola di religione della Fuci, il dovere di carità intellettuale che Montini le assegnava come obiettivo e insieme come distintivo, dovere esigente, non poteva essere attuato senza una intensa vita di preghiera, personale e comunitaria, e senza un impegno di carità, materiale e morale, attivamente praticata, indicata come compito primario ai circoli, e in primo luogo a quello romano:

«Nel febbraio 1924, su iniziativa di un gruppo di studenti universitari e per impulso di Monsignor Montini e del padre Garagnani, si formò in Roma la conferenza di S. Vincenzo De Paoli per la parrocchia di S. Giovanni in Laterano. Erano sette di numero i primi ascritti (…) e lo spirito di Ozanam riviveva nel loro zelo e nel loro desiderio di apostolato. Scelsero come terreno d’azione la parrocchia di Roma dove si raccoglie più miseria, poiché nell’ambito di essa si annoveravano le disgraziate zone di Porta Metronia, del viale castrense e della Ferratella (…). Allora erano dei quartieri del tutto abbandonati e si può dire quasi ignorati. Il vizio trovava così acconcio terreno per vivere e prosperare. Nessuno o quasi si recava in parrocchia, né per la S. Messa e le funzioni religiose, né per l’istruzione catechistica (…). In questo ambiente penetrarono gli universitari cattolici (…) Passò così il primo anno di vita (…). Verso la fine si cominciò a verificare un fenomeno strano in apparenza ma tanto significativo e consolante; prima uno degli ascritti, poi il vicepresidente, poi altri e altri lasciarono il mondo dedicando tutta la loro vita al servizio di Dio, entrando in noviziato o in seminari; nel volgere di pochi mesi ben otto confratelli della conferenza abbracciarono così la vita religiosa»[13].

Oltre che la vita di preghiera comunitaria (con la messa domenicale per soli studenti, organizzata e animata dal circolo fucino), raccomandava quella personale, una «intensità interiore nuova, una intimità personale, orante e amante, del cuore con la propria fede, che illumini e riscaldi la cella dei santi pensieri e degli austeri propositi. Un abbandono più fiducioso e totale dell’anima all’invito divino. Vogliamo sempre essere fra gli eletti del mondo cattolico, del mondo sovrumano, e non sempre abbiamo silenzio per ascoltare, coraggio per accettare, letizia per gradire di essere eletti, cioè chiamati, scelti, comandati dalla Voce che parla dentro, e ancora non comprendiamo l’agile spontaneità di uno spirito che vive di Spirito Santo».

La novità della Conciliazione comportava, a suo modo di vedere, il rischio per la base fucina che la volontà di una incisiva presenza in università, lo spirito di missione e di conquista, subissero un calo di tensione:

«Valeva la pena di protestare sessant’anni a quel modo per così (almeno come si dice nelle chiacchiere) esiguo risultato? Valeva la pena di far tanta professione di indipendenza per poi cedere sul principio territoriale? Certo non è tutto qui: la cosa può essere tra le più grandi della nostra storia e anche tra le più belle. Ma è strano che chi ha più atteso questo momento, fra la gente perbene, sia ora meno disposto a goderne; non per una sopravvivenza di consuetudinaria protesta, ma per il sospetto di peggiori eventuali condizioni. Se la libertà del Papa non è garantita dalla forte e libera fede del popolo, e specialmente di quello italiano, quale territorio e quale trattato lo potrà? Bisogna indubbiamente pregare molto perché il Signore assista la Chiesa di Roma in questi frangenti e non permetta al suo Capo di acquistare una terrena libertà con la perdita di quella spirituale, sua e dei suoi figli»[14].

«Possiamo e dobbiamo ancora continuare su la via intrapresa? Se eravamo milizia, ora, con questa pace che s’è fatta, non cadono per ciò stesso dalle nostre mani le armi? Ma guardiamola senza pregiudizi di sorta questa ipotesi: non è poi vero che la milizia dell’idea cristiana era la sola ragione della nostra esistenza? (…) È poi vero che non ci sia più campo di battaglia per l’idea cristiana? Ha essa trionfato dovunque? Non so altrove: certo nell’università questa idea è tutt’altro, pure adesso, che vittoriosa (…) V’è una tendenza di pacifismo cattolico che non è buona quando trasporta fatti e valutazioni storico politiche in seno stesso alla dottrina e all’ascetica del cristianesimo (…) questa tendenza finisce per avere assai più fiducia per il trionfo della verità nell’aiuto delle circostanze esteriori che nella intima natura della verità stessa. Il che significa che tutta la ricchezza morale, tutta la spinta ideale tutta la bellezza programmatica del nostro movimento non vengono meno adesso per nessuna ragione»[15].

Egli riprese dunque con fermezza il programma indicato alla Fuci e avviato con rigore:

«Lo studio universitario non può non servirsi di alcuni criteri di contenuto e di metodo d’indole filosofica. Questi presupposti, spesso ignorati dagli stessi insegnanti, sono quelli che improntano tutto il valore scientifico di una dottrina, e che spesso contengono in germe errori grossolani o sottili, da cui poi è traviato tutto il resto dell’insegnamento.

È necessario avere un pensiero, di fronte alla molteplicità contraddittoria delle teorie e di fronte a quella che vorrebbe ammetterle tutte come legittime e fluenti con cieco processo dialettico dalle diverse fasi storiche della mentalità e della cultura» (manoscritto in archivio P. VI).

Influenzata dalla propaganda fascista e dal sempre più efficace uso dei media nella società, che allora andava prendendo caratteristiche di “società di massa”, la mentalità nel Paese andava cambiando, e perciò cambiava il possibile impegno dei cattolici. Nel 1930 Montini lo avvertì acutamente:

«Ieri il problema culturale dei cattolici era un problema principalmente di apologia. Oggi è un problema, sempre principalmente, d’esposizione e d’insegnamento. La fame di cultura oggi è superiore (…) anche perché vivacissime forme di vita sono nettamente negatrici della cultura stessa. L’importanza assunta dallo sport, dal divertimento, dagli affari fa avvertite le anime cristiane che la luce diminuisce sul mondo, e che gli effetti più strani e più spaventosi possono domani nascere da questo languire della luce, come, per esempio, ieri la guerra scoppiò furibonda e inattesa mentre la logica dei costumi accettati da lungo tempo la reclamava come piana, coerente, fatale conclusione (…) perciò tutti quelli che si propongono di sollevare il livello morale del mondo, si propongono di fare della cultura»[16].

Montini sosteneva che la razionalità filosofica fosse di grande importanza anche per la vita spirituale. Era necessario rifiutare l’atteggiamento mentale, diffuso nel clima culturale dell’idealismo, che contrapponeva cristianesimo e filosofia; occorreva realizzare e affermare l’unità tra la professione cristiana e quella scientifica. “La stagione, sosteneva, non è buona per la filosofia. La stagione non è favorevole. La gioventù è disorientata, e perde fiducia non solo nell’idea, ma anche nell’ideale. Ma i migliori reagiscono”

La Fuci reagiva. In contrasto con gli orientamenti di buona parte degli universitari nei primi anni ’30 la Fuci mantenne la linea montiniana, di rigore intellettuale, filosofico-teologico, e spirituale. Il 1931 (nonostante la dura ma breve “crisi del ‘31”) e il 1932 passarono in tale attiva linea di rigore, così che al congresso di Cagliari (settembre 1932) le giornate parvero a Montini «intensamente occupate da pensieri severi e occupazioni serie, ore raccolte, riunioni attente assemblee al completo, armonia fraterna, spirito religioso semplice e grave, nessuna retorica, schiettezza e vivacità rigorose, giovanili, assolutamente cristiane: ecco il Congresso: lo si sarebbe potuto dire un cenacolo»[17].

Uno spettacolo che si contrapponeva al prevalere in altri ambienti di un fenomeno di stanchezza culturale, di accademismo scientifico, di primato dell’attività esteriore, fisica ed empirica, sul pensiero. Cagliari, sostenne, «dice ancora ai giovani il primato dell’intelligenza, la nobiltà della speculazione pura, la capacità della ragione a raggiungere verità basilari inconcusse e verità scientifiche sufficientemente sicure. Dice della missione che spetta al cattolicismo, proprio perché è spirituale e dogmatico, di sorreggere nella nostra età questa stanchezza mentale e di confortare la ragione»[18].

Sempre molto vigile, attento e anche autocritico, volle contemperare, nella azione e nello spirito della Fuci, passione per la verità e apertura ad una grande carità. Alla presidenza della Fuci scrisse, nella giornata fucina 7 marzo 1931:

«Mi pare che non sia errato il nostro indirizzo, intellettuale e culturale. Esso ha avuto talora il solo difetto di essere difficile nella espressione: la verità, per delicata e complessa che sia, dovrebbe saper raggiungere formulazione così felice, da rendersi in qualche modo intuitiva e affascinante. Baderemo a vincere questa difficoltà (…) Baderemo poi a convincere i nostri della illogicità di certe resistenze anti-intellettualistiche, quasi che la nostra missione possa prescindere dall’attingere forza e ragion d’essere da una precisa e alta scuola di idee, da un sistema speculativo ben solido e ben formulato. Baderemo ad accendere anzi la passione della verità cristiana, l’amore ai principi dati dal magistero ecclesiastico, la fierezza di appartenere a una scuola filosofica che non piega alle malattie e alla morbosità mentale del soggettivismo e dell’irrealismo moderno, il desiderio di far confluire altre persone, altre dottrine, altri istituti nell’alveo del pensiero cristiano. Pensare bene, ecco il principio di intransigenza e di forza che ci è necessario.

Ma poi dobbiamo procurare di ravvivare un’altra direttiva, che abbiamo forse lasciato illanguidire. Dopo la verità, la carità. Un sistema di idee non basta per noi. Occorre un sistema di vita.

E la nostra vita sociale deve costruirsi col cemento della carità. Perciò bisogna procedere per gradi, partendo da un fondamentale di somma carità: bisogna partire dall’amicizia. Il piccolo gregge può essere piccolo in tutto, fuorché nell’amicizia. Vediamo quindi di acquistare questa virtù, iniziale alla nostra opera costruttiva, dell’amicizia. Della amicizia esercitata nella piccola cerchia dei nostri conoscenti, dei nostri colleghi. Come siamo amici? Come si possono fidare gli altri di noi? Che cosa diamo ai nostri amici? Come ci eleviamo reciprocamente per il fatto stesso che ci conosciamo? Come solidifichiamo subito in propositi concreti di bene le aspirazioni che fanno oggetto delle nostre conversazioni? Come ci impegniamo l’un l’altro a mantener la parola, a spendere attività buona, a pregare reciprocamente? Senza questi focolari di amicizia invitta e sentitissima non possiamo far sorgere fiamma d’apostolato.

E poi vengono gli altri gradi; dall’amicizia alla compagnia, cioè alla diffusione della nostra spiritualità fra i colleghi, specialmente nei nostri circoli, e dai nostri circoli alle nostre scuole, dalle scuole alla vita sociale, alla azione cattolica, alle istituzioni civili, ecc. Noi ignoriamo spesso questo mondo che ci circonda, che cammina a fianco ma contro la nostra fede e la nostra concezione della vita; noi lo ignoriamo perché non lo amiamo come si deve, e non lo amiamo perché semplicemente non amiamo»[19].

Vorrei concludere con il legame spirituale della amicizia, sempre presente, cordiale e centrale nella sua relazione con i fucini di quegli anni. Il suo epistolario ne è una prova luminosa, intriso di gesti e pensieri di amicizia. Ne offro due esempi, tra gli innumerevoli presenti nelle quasi 8.000 lettere scambiate nel decennio.

Nel 1932 il venticinquenne Nello Vian, laureato in Lettere, era a Ann Arbor, nel Michigan, per studiare i sistemi bibliotecari e catalografici americani, in vista di un lavoro alla biblioteca vaticana. Aveva conosciuto Montini l’anno prima, a Roma, e ne aveva seguito un corso di lezioni, tenute al Circolo Universitario Cattolico Romano. Non ebbe contatti diretti, personali, con lui, ma ne fu colpito e nel settembre 1932 gli scrisse, dall’America, per chiedergli di guidarlo spiritualmente:

«Venerato Monsignore, da tempo desidero scriverLe. Anche a Roma tante volte ho sentito l’impulso di venire da lei, per parlarLe a lungo. Me ne ha trattenuto il mio carattere chiuso e schivo. Temevo inoltre di toglierLe del Suo tempo, così poco e prezioso. Qui, lontano dall’Italia, solo per molte ore coi miei pensieri, più libero a considerare le cose dello spirito, sento più vivo il bisogno di intrattenermi e di aprirmi un poco con Lei. Mi perdoni la libertà, ma Ella ha anima e generosità sacerdotali e sa quanto grande sarà la ricompensa per la carità spirituale. Per Lei ho sentito e sento quella profonda e intera fiducia, che è necessario provare per gli uomini ai quali si intende scoprire il proprio intimo»[20].

Montini gli rispose subito (25 settembre 1932):

«Caro Vian, ho ricevuto la Tua lettera (comincio subito col Tu!) e ho fatto un po’ di esame di coscienza per sapere per quale mai ragione mi potesse essere offerta la fortuna di godere della Tua fiducia e della Tua confidenza. Ho avuto un momento di perplessità e quasi di timore nel sentirmi così vicina e fraterna un’anima così a me superiore e ancor prima d’esser, come ora, oggetto di affezione, oggetto di stima cordiale e silenziosa. Ma ho subito riflesso che a noi il ministero sacerdotale ottiene queste fortune, e come dal Signore derivano al Signore le dobbiamo presentare e nel Suo nome godere.

Perciò, amico carissimo, sappi che la mia timidezza immeritevole è vinta dalla sicurezza che la bontà divina mi conceda di non deludere la Tua attesa, e con l’umiltà con cui si devono accettare le cose grandi accetto di tutto cuore la Tua conversazione, la Tua anima. (…) Ho letto con commozione la Tua lettera. Il Signore Ti ha voluto molto bene. Egli ha seminato molto, ha lavorato molto nel Tuo spirito. (…)

Mio caro, custodisco le Tue parole nella consolazione del cuore e nella pietà dell’orazione. E con l’affezione che il Signore m’ispira invoco ogni benedizione per Te. Sta’ di buon animo. Conservati laborioso e sereno. E prega anche per me»[21].

Una fraterna e cordiale franchezza è suggerita dalla amicizia, che non teme di avanzare consigli e progetti, con l’istinto di fedeltà immediata alla coscienza e ai suoi suggerimenti. Il 16 febbraio 1930 Montini scrive a Righetti:

«Caro Righetti, profitto di quest’ora di silenzio per conversare con te. E subito, cioè scrivendo, per non essere poi distratto da cose secondarie, appena ci incontriamo.

Prima di te. Ti ricordo, con fraterna insistenza il dovere che hai di fare la laurea: hai lasciato passare la sessione autunnale; vedi che non passi quella prossima estiva. Per quanto noiosa ti possa sembrare la mia raccomandazione, credo di non dover ometterla: ne avrei rimorso se non la facessi, perché Tu non debba aver rimorso poi di non averla seguita. Altra cosa. Bisogna che Tu accetti, almeno pro forma, l’incarico per il Segretariato di coltura. Cioè per quel tanto ch’ è necessario per darvi l’impronta e l’indirizzo utili ad assorbirvi l’attività degli ex fucini.

Poi della Fuci. Lo sviluppo di essa ci porta davanti gravi problemi relativi al suo incremento. Accenno ora a due: all’Editrice, e al Pensionato a Roma. Sono due cose difficilissime, lo so bene. Ma non ci si è arrivati artificialmente, sognando o osando senza criterio, ma seguendo con fedeltà la linea del dovere. Ora, è vero, ci si potrebbe fermare; non c’è obbligo, per sé, di affrontare queste ed altre questioni del genere. Ma mi domando se la provvidenza non ci fa sorgere davanti questi problemi con la particolare intenzione di sperimentare la nostra buona volontà, la nostra capacità di sacrificio e di lavoro, e insieme di aiutarci a compiere ciò che sempre potremmo credere inattuabile. Credo di sì.

Perciò ti pregherei di guardare con fiducia queste nuove imprese; con quella fiducia che anticipa, nella maniera di trattarle, una certa sicurezza di riuscirvi. Di fatto poi l’esito reale non ci interessa gran che: lo lasciamo alla provvidenza di darcelo o meno. Non lasciamoci intimidire non solo dalle difficoltà, ma anche dalle eventuali novità che possono sorgere e nascere. (…)

Bisogna osare le pratiche per il Pensionato. Non ci mostra un’impresa simile a mettere in precedenza, su le tante cose da fare, molteplici e minute, le cose più importanti? Non ci perdiamo talora in cose delegabili ad altri? Non siamo un po’ troppo i segretari di noi stessi? (…) Ne riparleremo.

Ma ora ho fermato queste impressioni per un istinto di fedeltà immediata al suggerimento della coscienza, la quale fedeltà ed il quale suggerimento possono forse racchiudere segreti di qualche divino perché».

Note al testo

[1] M. Marcocchi, Introduzione a Giovanni Battista Montini, Scritti fucini (1925-1933), Brescia-Roma , Istituto Paolo VI – Edizioni Studium, 2004

[2] G.P. Dore, La vocazione e l’assistente della fuci, in «Studium» LXVI (1970) pp. 910-15 (la citazione a p. 917).

[3] Lettera ai familiari 27/11/1923.

[4] Lettera ai familiari 20/1/1925.

[5] Lettera ai familiari 21/4/1925.

[6] G.B. Montini, In tota mente tua, in «Studium» XXII (1926) pp.65-69.

[7] G.B. Montini, Parole chiare, in «La Sapienza» (settembre 1925) numero speciale in preparazione del XIII Congresso nazionale della Fuci, che si tenne a Bologna dal 5 al 9 settembre 1925.

[8] Appunto dattiloscritto intitolato da parole di mons. Trippodo, in Archivio dell’Istituto Paolo VI, cart. J.2.

[9] Lettera circolare inviata agli assistenti ecclesiastici dei circoli fucini, 25 ottobre 1926. Copia in Archivio dell’Istituto Paolo VI, Brescia, cartella J.19.1.

[10] G.B. Montini, Per gli assistenti ecclesiastici della Fuci. Norme per il Corso di Religione, in «Bollettino per gli Assistenti Ecclesiastici», 1927, n. 12.

[11] G.B. Montini, Per gli Assistenti ecclesiastici della Fuci, in «Bollettino per gli Assistenti ecclesiastici», 1927, n.6.

[12] G.B. Montini, Per gli Assistenti ecclesiastici della Fuci. Voce senz’eco?, in «Bollettino per gli Assistenti ecclesiastici», 1927, n.11

[13] Dattiloscritto di tre pagine, probabilmente scritto da Domenico Francini, in Archivio dell’istituto Paolo VI, Brescia, cart. J.14.

[14] Lettera ai familiari 19/1/1929.

[15] G.B. Montini, Parole buone dopo fatti grandi, in «Azione Fucina» 24 febbraio 1929.

[16] G.B. Montini, I cattolici e la cultura, in «Azione Fucina» 31 agosto 1930.

[17] G.B. Montini, Dove vanno i giovani?, in «Studium» XXVIII (1932) pp. 449-455.

[18] Ibidem.

[19] Lettera ai consiglieri nazionali della Fuci, 7 marzo 1925. Copia dattiloscritta in Archivio dell’Istituto Paolo VI, Brescia, cartella J.19.1

[20] Lettera conservata nell’archivio dell’Istituto Paolo VI, Brescia, ma edita in Atti della commemorazione nel primo anniversario della morte di Nello Vian (Città del Vaticano, 19 gennaio 2001). Testimonianze e corrispondenza con Giovanni Battista Montini-Paolo VI (1932-1975). Brescia-Roma, Istituto Paolo VI-Edizioni Studium, 2004.

[21] Ibidem.