Paolo Rossi: «La felicità è ascoltare i miei figli», Dietro la leggenda e al di là del successo planetario, c’è un uomo che è sempre restato ancorato ai valori importanti della vita. Che rivela in questa intervista, di Francesca D’Angelo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 15 /12 /2020 - 13:08 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Famiglia cristiana un’intervista a Paolo Rossi pubblicata il 20/2/2020. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Tempo libero e sport.

Il Centro culturale Gli scritti (15/12/2020)

Paolo Rossi, la leggenda. Il Pablito del Mundial di Spagna ’82. Il fuoriclasse del calcio italiano. Abbiamo imparato a conoscerlo così: seguendolo tra stadi e vittorie, correndo dietro ai suoi successi con i tacchetti alle scarpe. Con lui siamo diventati campioni del mondo e, da allora in poi, il calcio stesso ha assunto una nuova fisionomia. Eppure tutto questo — i riflettori, la fama internazionale, i gol — raccontano solo una piccolissima parte di Rossi: la sua vita, e lui stesso, sono molto di più.  «Il successo è sempre stato solo un aspetto, pur gratificante, della mia storia», conferma Rossi, con quella flemma tipica di chi è certo del fatto suo. Anche nel suo nuovo libro Quanto dura un attimo, scritto a quattro mani con la moglie Federica Cappelletti (Mondadori editore), Rossi sembra volerci ricordare che prima del calciatore (e che calciatore!) c’era e c’è l’uomo. Un uomo, per esempio, che non aveva escluso di entrare in seminario…

E così, da giovane, ha accarezzato l’idea di diventare prete?

«Fin da piccolo ho frequentato la chiesa: facevo il chierichetto e all’epoca nel mio paese, Santa Lucia, una frazione di Prato, la parrocchia era il principale luogo di aggregazione. Pensi che ho scoperto la passione per il calcio proprio lì: a 10 anni giocavo nella squadra messa in piedi da don Sandro. Di fatto sono cresciuto in mezzo ai preti ed è stato quasi naturale avere la curiosità di vedere come fosse un seminario: cosa facevano, com’erano le giornate. Non avevo la vocazione al sacerdozio ma ho voluto fare, diciamo così, una piccola prova, dettata dalla simpatia che provavo verso quel mondo. Così ho frequentato il seminario per una settimana, ma mi è stato subito chiaro che non era la mia strada».

Possiamo dire che il primo, a marcarla stretto, è stato proprio Dio?

«La mia era una generazione dove i valori cristiani erano ancora importanti: facevano parte integrante della nostra cultura e permeavano i nostri comportamenti. Personalmente la fede mi ha aiutato molto, soprattutto nei momenti di difficoltà. Non sono un bigotto ma credo fermamente che siamo di passaggio su questa Terra e che tutto non si esaurisce dopo la morte. Tra l’altro, dal punto di vista calcistico, ho giocato per quattro anni in una squadra a Firenze, che si chiamava Cattolica Virtus della Comunità giovanile San Michele: era una realtà agonistica molto quotata a livello regionale, gestita da due preti. Uno dei due era don Ajmo Petracchi e con lui sono rimasto in contatto anche in seguito, fino a quando non è morto nel 2001».

Che tipo di rapporto avevate instaurato?

«Non riuscivamo vederci di persona: io ero spesso via e a sua volta don Ajmo era diventato prima segretario del cardinale Benelli e poi vicario generale del cardinale Piovanelli. Tuttavia ci scrivevamo: lui mi mandava lettere e dei libri da leggere, come per esempio le poesie di Rabindranath Tagore. Ancora oggi ricordo con molto affetto gli anni trascorsi alla Comunità giovanile San Michele: lì sono cresciuto non solo dal punto di vista tecnico, ma anche umano.  Mi è sempre piaciuto l’ambiente che si respirava in quella squadra…».

Quanti calciatori possono oggi dire la stessa cosa per le proprie squadre?

«Dagli anni Novanta, il mondo del calcio è cambiato profondamente. La mia è stata probabilmente la generazione che ha rotto il ghiaccio: in seguito le aziende sono entrate prepotentemente nel business calcistico e il campione è diventato colui che è ricco e famoso. Sinceramente non li invidio: probabilmente noi abbiamo guadagnato meno ma abbiamo vissuto un’epoca dove il calcio aveva ancora qualcosa di romantico ed era inteso anche a livello di amicizia. Con molti giocatori sono rimasto molto legato perché, giocando insieme, siamo diventati amici. Oggi è più difficile che questo accada, anche per via dei frequenti cambi di squadra. Temo non ci sia nemmeno il tempo per stringere legami forti».

Il calcio è cambiato ma l’ebbrezza di essere un fuoriclasse o di vincere un Campionato del mondo è la stessa, oggi come allora. Come è riuscito a rimanere con i piedi per terra?

«Sono state decisive l’educazione ricevuta, così come la fede e la mia famiglia, che ho sempre vissuto come un porto sicuro. Inoltre sono sempre stato convinto che il successo fosse una cosa effimera. Per carità, ho raggiunto dei risultati importanti, sono stato molto gratificato dal mio lavoro e ho vinto tutto quello che potevo vincere, ma alla fine trovavo sempre molta più soddisfazione nell’uscire con gli amici, nel vivere il rapporto con la famiglia e con mia moglie. Queste sono le cose salde, solide, che tengono nel tempo: questa è la felicità vera. Il successo e la fama sono cose bellissime, che esplodono in modo fragoroso e si spengono altrettanto velocemente. La strada che ti porta alla felicità è un’altra ed è quotidiana…».

Eppure oggi sempre più persone – non solo i calciatori –  ripongono nel lavoro le principali aspettative in termini di gratificazione e affetto…

«Ognuno fa le sue scelte. Però, personalmente, quest’idea mi rattrista un po’. Il lavoro ci deve essere, è una parte importante della vita e fa crescere sotto molto aspetti, ma non può assorbire completamente le persone. Bisognerebbe provare a trovare un equilibro tra vita privata e carriera perché gli affetti sono fondamentali: quando torno a casa e mia figlia mi sorride, o mi racconta un aneddoto divertente, provo una gioia indescrivibile. Da qui, per esempio, la mia scelta di non accettare lavori che mi porterebbero, magari per anni, lontano dai miei cari».

Una curiosità: quanto le piace avere un Papa che si appassiona anche di calcio?

«Moltissimo!» (risponde ridendo). «Di papa Francesco amo in particolare la semplicità: è “arrivabile”, non tiene le distanze, e questo lo rende il Papa di tutti. Se dovessi paragonarlo a un’altra persona che è stata così amata dagli italiani, direi Sandro Pertini: l’ultimo presidente della Repubblica stimato da tutti per il suo modo gentile di porsi».