John Henry Newman e Roma, di Brigitte Maria Hoegemann. In appendice: Il discorso “del biglietto”, di John Henry Newman

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 29 /09 /2010 - 16:49 pm | Permalink | Homepage
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Come è nostra consuetudine riproponiamo articoli che aiutano a ripercorrere i passi della storia della chiesa in Roma. Riprendiamo per questo dal sito http://www.newmanfriendsinternational.org/ un articolo della dott.ssaBrigitte Maria Hoegemann FSO, apparso con la seguente indicazione: “Questo articolo è apparso in John Henry Newman in His Time, Oxford 2007, Family Publications, 61-81. Viene qui pubblicato, in versione ampliata, per gentile concessione dell’Editore”. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

L’articolo aiuta a localizzare i luoghi più significativi della presenza di Newman in Roma, dalla basilica di San Pietro, che egli visitò più volte recandovisi in pellegrinaggio anche a piedi nudi, alla Chiesa Nuova che elesse a suo punto di riferimento in Roma quando decise di diventare oratoriano, dalla basilica di San Giovanni in Laterano dove venne ordinato diacono alla Cappella di Propaganda Fide (l’Oratorio dei Re magi del Borromini) nel quale fu ordinato sacerdote, dai luoghi della Roma antica che visitò a San Giorgio al Velabro di cui divenne cardinale, fino al Palazzo della Pigna nel quale pronunziò il famoso discorso “del biglietto”, quando ricevette la notizia del cardinalato. Su Newman e Roma, cfr. anche C. Gasbarri, John Henry Newman e Roma, “Strenna dei romanisti” 1981, 200-206.

Il Centro culturale Gli scritti (28/9/2010)

Roma, già molto tempo prima che John Henry Newman imparasse a conoscerla veramente, rievocava in lui, con il suo nome, non solo immagini dei suoi tremila anni di storia, della sua ascesa e caduta, ma anche le memorie della sua incomparabile cultura sia pagana che cristiana. Fin da quando era ancora un semplice studente di Oxford, l’antica Roma era per lui un soggetto di particolare interesse.

In seguito deve averla considerata anche come il centro visibile della Chiesa cattolica fin dai tempi degli apostoli. Eppure il professore aveva ancora la convinzione, formatasi sin da ragazzo ad Ealing, che la fede cristiana a Roma fosse divenuta col tempo così corrotta da essere considerata da molti l’opera dell’Anticristo. Pertanto, il semplice nome della città faceva sorgere in Newman idee, emozioni e convinzioni di gioia e di dolore. In uno dei suoi lavori racconta di un anglicano che, guardando la città, esclama: “il cristiano non può mai contemplar(la) senza i più amari, amorosi e malinconici pensieri”[1].

Nel corso del suo sviluppo personale, l’atteggiamento di Newman verso Roma cambiò gradualmente in senso sempre più positivo. Visitò la Città Eterna quattro volte: la prima, poco più che trentenne; la seconda, appena quarantenne; poi da cinquantenne e, infine, quasi ottantenne. Queste visite sono come tappe biografiche che mostrano la trasformazione progressiva del suo atteggiamento verso la città e la Chiesa. Permettono di ricostruire qualcosa di ciò che ‘Roma’ significò per Newman, nei vari momenti della sua vita.

Quando visitò Roma per la prima volta, nella primavera del 1833, su invito di alcuni amici, per accompagnarli in un lungo viaggio nell’Europa meridionale, era un giovane studioso di Oxford, professore già famoso dell’Oriel College e ministro della Comunità Anglicana. I suoi sermoni ed insegnamenti erano influenzati dai suoi studi sulla Chiesa antica.

Tredici anni più tardi, nel novembre 1846, vi tornò da seminarista, visse, per poco più di un anno, al Collegio di Propaganda Fide per prepararsi alla sua ordinazione sacerdotale. In questo tempo maturò la sua futura vocazione. Quando lasciò Roma, nel dicembre 1847, era pronto a fondare un Oratorio inglese a Maryvale, vicino a Birmingham.

Dieci anni dopo, il Dott. Newman, Prevosto dell’Oratorio di Birmingham e Rettore dell’Università Cattolica di Dublino, si recò a Roma per un breve periodo - dal 12 gennaio al 4 febbraio 1856 - “per affari circa l’Oratorio”[2]. Alcune differenze nell’interpretazione della vocazione di un Oratoriano inglese da parte delle due case di Birmingham e di Londra lo spinsero a chiarire la questione con la Propaganda Fidee la Santa Sede.

Infine, su invito di Leone XIII, appena eletto al soglio pontificio, ritornò a Roma all’età di settantanove anni, per alcune faticose settimane, dal 24 aprile al 4 giugno 1879. Il 12 maggio, durante una cerimonia nella residenza del cardinale Howard, ricevendo ufficialmente la notizia che Papa Leone XIII lo aveva eletto Cardinale, lo ringraziò nel famoso Biglietto “Speech”. Il 15 maggio seguente Leone XIII lo insignì del cappello cardinalizio.

I. Prime impressioni su Roma (1833)

1. Roma è un luogo meraviglioso, Roma è un luogo crudele 

Per quanto riguarda Roma, è il luogo del mondo che desta più meraviglia. Non serve prendere l’empio governo di Babilonia come esempio degli antichi sforzi del nostro Grande Nemico contro il Cielo (che ora utilizza modi più scaltri). Il Colosseo è una torre di Babele - e non è che uno dei tanti vasti edifici che stupiscono. Quando poi si entra nel Museo ecc., si entra in un altro mondo - quello del buon gusto e dell’immaginazione. La collezione statuaria è infinita e affascinante. L’Apollo è indescrivibile … è travolgente. E i grandi quadri di Raffaello [sic], nonostante richiedano un gusto scientifico per criticarli, vengono accolti in modo naturale dai non iniziati. Non avrei mai pensato a qualcosa di così ultraterreno come le espressioni dei volti. La loro strana semplicità di espressione e quasi fanciullezza è il loro grande fascino. - E poi ancora, dopo questo, bisogna vedere Roma come un luogo di religione - e quale mescolanza di sentimenti si accende allora. Ci si trova nel luogo del martirio e della sepoltura di Apostoli e di Santi - si hanno intorno gli edifici e i panorami che hanno visto loro - e si è nella città a cui l’Inghilterra deve la benedizione del Vangelo - ma, d’altra parte, le superstizioni o, piuttosto - ciò che è ancora peggiore - la loro solenne ammissione come parte essenziale della cristianità - e tuttavia l’estrema bellezza e sontuosità delle chiese - e poi, al contrario, la consapevolezza che la più famosa di esse è stata costruita (in parte) con la vendita delle indulgenze - la rendono un luogo veramente crudele (LD III, 240-241)[3].

Newman scrisse questo profilo generale di Roma il 7 marzo 1833, durante un lungo viaggio con alcuni suoi buoni amici. L’arcidiacono Froude lo aveva invitato ad accompagnare lui e suo figlio Richard Hurrel Froude, amico di Newman, che aveva bisogno di cambiare clima a causa della sua salute delicata. Erano partiti l’8 dicembre 1832 con la Hermes, una nave militare di rifornimento destinata ai presidi inglesi nel Mediterraneo. La nave era dotata anche di servizi confortevoli per i passeggeri a bordo. Si fermò prima a Gibilterra, poi a Malta, dove restarono per un mese prima di arrivare via Napoli, a Roma, la sera del 2 marzo.

Newman scrisse molte lettere dalla Città Eterna, dove si trattenne, con i suoi amici, fino alla prima settimana di aprile del 1833. Nella maggior parte di queste lettere egli lascia il lettore perplesso per i suoi commenti contrastanti, persino contraddittori, quando descrive le sue impressioni che mostrano la natura complessa delle sue reazioni iniziali. Nella citazione suddetta egli distingue tre visioni principali di Roma.

Prima di tutto c’è la Città Antica e l’Impero, che Newman richiama alla mente del lettore non tanto per la sua importanza e il suo potere politico, quanto per la sua “grandezza pagana” (249) o per la rivolta del paganesimo contro l’unico ed eterno Dio, evocata nelle visioni di Daniele. Il Colosseo viene descritto come la torre di Babele. “L’odioso potere romano” è paragonato a Babilonia o alla “quarta bestia della visione di Daniele e il persecutore della Chiesa nascente” (253).

Ciò è ancora più chiaro in un altro esemplare delle sue lettere da Roma:

La prima opinione che si ha di Roma è quella di grande nemica di Dio, la quarta monarchia - e la vista della città in quest’ottica è terribile… l’immensa grandezza delle rovine, il pensiero degli scopi a cui erano dedicate, la vista della stessa arena dove soffrì Ignazio, le colonne dell’orgoglio pagano con le iscrizioni ancora leggibili, il candelabro ebraico ancora perfettamente intagliato sull’arco di Tito, il marchiano come l’abietto strumento dell’ira di Dio e ancora della malignità di Satana (231).

La seconda visione di Roma è quella di un mondo di eccezionale bellezza. Newman sente con gioia la “bellezza intellettuale nel panorama” (240) di Roma. Cita esempi famosi di sculture antiche e quadri rinascimentali[4]; parla delle chiese stupende, dei ponti meravigliosi, delle fontane e di altri eccezionali esempi di architettura, condividendo con i suoi corrispondenti questo mondo così diverso e “fresco”, un mondo di “buon gusto e immaginazione” (240). Il modo in cui Newman cattura il fascino vivace delle due fontane in Piazza San Pietro è incantevole e può servire qui come esempio. Le paragona a “due leggiadre oneste signore abbigliate da vesti raffinatissime e argentate”.

Vi è uno zampillo altissimo al centro, circondato da una moltitudine di altri, progettati in modo che nel ricadere non formino un ruscello o rassomiglino affatto ad acqua, ma siano trasformati in un vapore finissimo e quanto mai impalpabile che volteggia intorno agli zampilli, come il piumaggio di un cigno o, come dicevo, la mussolina della veste dell’onesta signora. Questo s’infrange su una sporgenza e poi contro un’altra - così che l’effetto totale è tale che posso solo usare paragoni - poiché non posso descriverne l’effetto. Quando soffia il vento, è come mussolina che ondeggia (264).

In terzo luogo, egli parla di Roma come di un luogo segnato in modo unico dalla sua storia cristiana e dalla presenza della Cristianità. Eppure, i testimoni di questa storia evocavano in lui collera e stupore.

Provava meraviglia alla vista delle tombe dei primi martiri, e, davanti alla tomba di Papa Gregorio I si sentiva pieno di gratitudine per S. Agostino di Canterbury che aveva portato la fede in Inghilterra. Ma altre cose lo facevano adirare. Non riusciva a godere pienamente della bellezza di San Pietro, perché gli ricordava la vendita delle indulgenze. Inoltre, le numerose statue di Santi nelle chiese e per le strade, e non solo le statue, ma le candele accese sotto di esse, le persone inginocchiate ai loro piedi, ai suoi occhi erano tutti segni di superstizione quasi “parte essenziale della Cristianità” (241).

In questa terza visione di Roma come “un luogo di religione”, le idee, le impressioni e i pensieri si contraddicono l’uno con l’altro, e si susseguono così rapidamente che Newman non riesce a formare più frasi complete, ma esprime solamente ciò che lo colpisce, comunicando così al lettore una “mescolanza di sentimenti”.

Eppure, per quanto severi possano essere alcuni suoi commenti e giudizi, provocati principalmente dalle impressioni suscitate dalle gigantesche rovine e da tutto ciò che egli associa ad esse, le sue lettere ad amici e famigliari contengono una costante lode della Città Eterna: “Roma… è di tutte le città la prima, e… tutte quelle che ho visto, compresa la cara Oxford, non sono che polvere a confronto con la sua maestà e la sua gloria” (230) - “Roma diventa più bella ogni giorno” (231).

Nella sua prima visita a Roma Newman, se da un lato subiva il fascino e la bellezza meravigliosa della città, dall’altro soffriva per le manifestazioni anticristiane di quello che lui chiamava “sistema romano”, o addiritttura l’opera dell’Anticristo[5] stesso nella Chiesa Cattolica Romana.

2. Amore per il Cattolicesimo, odio per il Cattolicesimo romano

In alcune delle lettere successive a quella prima visita, Newman sviluppa questa sua terza visione di Roma, sede della Chiesa Cattolica Romana, quasi simbolo del suo sistema. “Per quanto riguarda il sistema Cattolico Romano, l’ho sempre detestato così tanto… che non posso detestarlo di più nel vederlo, nonostante possa difendere meglio la mia opinione e sentirla più intensamente, ma al sistema Cattolico sono più attaccato che mai” (273). In realtà, egli suggerisce che la Roma cattolica del XIX secolo è “in qualche modo” ancora “l’unico residuo dei quattro grandi Nemici di Dio - Babilonia, Persia e Macedonia hanno lasciato poche tracce dietro di loro - l’ultima e la più terribile bestia giace davanti a noi come soggetto della nostra contemplazione, in tutta la visibilità delle sue piaghe” (248-249).

Egli dichiara anche:

Non posso privarmi dell’idea che la Roma cristiana sia in qualche modo sotto un’ombra speciale come lo era certamente anche la Roma pagana[6] - nonostante non abbia visto nulla qui che lo confermi. Non che si possa tollerare nemmeno per un istante la squallida alterazione della verità quivi autorizzata, ma non riesco a dire che ci sia qualcosa di insolito nella condizione di Roma - e il clero, anche se apatico, sembra sia costituito da uomini decorosi (258).

Le caute riserve e le prudenti limitazioni a cui Newman sottomette questi pensieri e opinioni sul Cattolicesimo romano, una volta giunto a Roma e avendone fatto esperienza in prima persona, sono tipici di lui. Il suo atteggiamento ci permette di dedurre che, nonostante fosse impegnato a sviluppare idee negative e opinioni critiche sulla Chiesa Cattolica Romana - che aveva, per così dire, ereditato - allo stesso tempo il suo cuore e la sua mente erano aperti non solo a una possibile nuova visione, ma all’intervento stesso della Provvidenza.

Newman era affascinato dalla scoperta che, in molte chiese di Roma, “i materiali e gli edifici dell’Impero” fossero stati riusati

… in favore della religione. Alcune di esse sono letteralmente antichi edifici - come il Pantheon e la porzione delle Terme di Diocleziano, che sono state trasformate in chiese. E tutte - S. Pietro, S. Giovanni in Laterano, ecc. - sono arricchite con marmi, ecc., che solamente l’antico potere di Roma ha potuto collezionare (235).

Ciò divenne per lui quasi un simbolo della Chiesa Cattolica Romana che, come era ancora convinto in quei tempi, non riusciva a salvaguardare l’insegnamento cristiano e la vita dell’Antica Cristianità, da lui tanto amata, dalle influenze del mondo pagano circostante, deformando così le grandi verità cristiane.

L’idea che Roma, pagana o cristiana, l’Antico Impero o la Chiesa Cattolica Romana come istituzione, saranno sempre sotto l’ira di Dio, era un pregiudizio che nutriva sin dalla fanciullezza. La sua convinzione protestante era che il sistema ecclesiastico di Roma, essendo centrato sul Papa, fosse in effetti centrato sull’Anticristo. Trentuno anni più tardi Newman descriverà nella sua Apologia[7] il lento processo del superamento di quel pregiudizio preliminare contro il sistema cattolico romano ispirato dal protestantesimo.

Nel secondo capitolo della seconda edizione riveduta dell’Apologia (1865), Newman ricorda che, sin dall’età di quindici anni, conosceva e difendeva i dogmi come principio fondamentale della religione e credeva in una Chiesa visibile con i sacramenti, i riti e un sistema episcopale. Ma sottolinea anche che, allo stesso tempo, era fermamente convinto che “il Papa fosse l’Anticristo“, come predicava ancora nei suoi sermoni, ben dieci anni più tardi, nel Natale 1824.

Egli dice che, sotto l’influenza di Richard Hurrel Froude e di Keble, ma, ancor più, attraverso i suoi studi ripetuti e sempre più approfonditi sui Padri della Chiesa, perse gradualmente un po’ dell’amarezza che provava verso il papato e la romanità. Negli anni 1822-1823 parlava meno dell’estrema convinzione protestante che attribuiva al Papa il ruolo di Anticristo, ma affermava ancora che, con il Concilio di Trento, la Chiesa Romanasi era “legata alla causa dell’Anticristo“.

Più tardi, continuava ad avere la convinzione che la Chiesa Romanafosse “uno dei molti anticristi” di cui parlava S. Giovanni. Ma alla fine quella opinione fu cambiata in una più mite:

secondo la quale la Chiesa Romana avesse qualcosa di “molto anticristiano o non-cristiano” (APO, 191). Gradualmente avrebbe sviluppato “sentimenti di tenerezza” verso la Chiesa Cattolica Romana, specialmente per “lo zelo con cui essa sosteneva la dottrina”; per l’apostolica “legge del celibato” ed altre norme fedeli all’antichità (APO, 193). Eppure, nel 1833, conservava ancora il suo giudizio negativo contro la Chiesa Romana come istituzione (APO, 193)[8].

Con tali convinzioni nella mente e nel cuore, Newman viaggiò attraverso l’Italia con i due Froude. Non sorprende, quindi, la sua affermazione del 1864: “durante tutto il viaggio evitammo il contatto con i cattolici” (APO, 170), e la descrizione di come essi cercarono di tenersi lontani dalla vita cattolica romana.

Tanto maggiore importanza rivestono le poche occasioni in cui effettivamente entrò in contatto con la fede cattolica romana vivente in Italia. Quando, cioè, assistette a una Messa pontificia; o in occasione di visite a chiese o santuari; o d’incontri con sacerdoti; o quando gli capitò di osservare giovani seminaristi. In una delle sue lettere[9] parla di una funzione a cui assistette in S. Maria sopra Minerva per la Festa dell’Annunciazione[10]. Dopo aver descritto in circa settecento parole il fasto, lo spettacolo, i lussuosi addobbi dell’altare e dei paramenti, la comparsa del Sommo Pontefice e della religiosa “corte di Roma” con tutti i cardinali e sacerdoti sontuosamente vestiti, le molteplici cerimonie, afferma semplicemente:

“Tra le altre cose, è stata celebrata la Messa”. Dopo altre trecento parole di descrizioni e di commenti, che inevitabilmente richiamano la visione delle quattro bestie del profeta Daniele, e la solenne dichiarazione che la Chiesa Romana si è unita al nemico di Dio, conclude: Eppure mentre guardavo e vedevo eseguire tutti gli atti cristiani, esporre il Santissimo Sacramento, e donare la benedizione, ricordandomi di essere in chiesa, potevo solo pronunciare con molta perplessità le mie stesse parole, ‘Come devo chiamarti, luce dell’immenso occidente, o detestabile sede dell’errore?’ (232)[11], - e sentire la potenza della parabola della zizzania - chi può separare la luce dalle tenebre se non la Parola creatrice che profetizzò la loro unione? E così sono costretto a lasciare la questione, non riuscendo a vedere come uscirne. - Come devo chiamarti? (268).

Per la prima volta in assoluto aveva assistito alla Messa, una Messa molto solenne con tante cose che lo distraevano dal mistero centrale. Descrive a lungo cosa alimentava la sua ripugnanza e il suo odio. Tuttavia, avendo fatto quella esperienza, non può che ammettere e riconoscere il grano tra le erbacce. Ricordando l’ammonimento del Signore nella parabola della zizzania, Newman confessa la sua perplessità, ammettendo che solamente Dio ha il compito di separare la luce dalle tenebre. Dichiara che non è lui quello in grado di risolvere la difficile questione. Cita due versi della sua prima poesia su Roma e, ripetendo le prime parole, le trasforma in un urlo di protesta proveniente dal suo cuore, una domanda rivolta alla Chiesa Romana che richiede una risposta: “Come devo chiamarti?”

Nell’Apologia racconta che in Sicilia era rimasto molto colpito dai santuari e dalle nobili chiese, come pure dalla devozione della gente. Ricorda “il conforto” provato nel visitare le chiese e ricorda in modo speciale come era stato attratto dai canti provenienti da una chiesetta nelle campagne siciliane durante una passeggiata alle sei del mattino. Era rimasto meravigliato nello scoprire che la chiesa, a quell’ora del mattino, era piena di gente. Poi aggiunge: “Naturalmente si trattava della Messa, ma allora non lo sapevo” (APO, 193).

Newman e i Froude incontrarono solo pochi preti durante il loro viaggio: il Decano di Malta, con cui parlarono dei Padri della Chiesa; l’Abate Santini, a Roma, che copiò per Newman i canti gregoriani; e anche il Dott. Wiseman, allora Rettore del Collegio Inglese, che una volta avevano sentito predicare e che Newman visitò due volte prima di lasciare Roma. L’unico altro sacerdote incontrato in Italia fu quello che si recò al suo capezzale in Sicilia.

Eppure, a proposito dei giovani seminaristi visti a Roma, Newman commenta: “Provo molto affetto per i piccoli monaci di Roma, sembrano così innocenti e intelligenti, poveri ragazzi”. E, ancora, quando parla dei “figli di tutte le nazioni e lingue” che vengono educati a Propaganda Fide “per scopi missionari” (273, 279). Nonostante la sua convinzione, maturata sin dall’età di quindici anni, che il Signore lo aveva chiamato alla vita celibe per essere libero di diventare Sua proprietà per il bene di molti (APO, 140-141), e nonostante egli ricordi nell’Apologia di aver avuto presto rispetto per la legge apostolica del celibato conservata nella Chiesa Romana, il suo commento giocoso “poveri ragazzi” sembra implicare una critica.

In una lettera, scritta solamente qualche giorno più tardi, parla in effetti della “usanza del ‘celibato forzato’ del clero” (289). Ovviamente, ancora non comprendeva che, se Dio chiama una persona al sacerdozio o alla vita religiosa consacrata, e se quella persona obbedisce liberamente alla Sua chiamata, quella risposta soprannaturale nella fede, nella speranza e nella carità, gli permette, con la grazia di Dio, di seguire, nel libero dono di sé, l’esempio di Gesù Cristo, che visse tra noi una vita celibe e verginale. A quel tempo Newman non poteva immaginare che, circa tredici anni più tardi, all’età di quarantasei anni, si sarebbe seduto tra i giovani seminaristi di Propaganda per assistere, come loro, alle lezioni in preparazione al suo sacerdozio.

Ripensando alla sua prima esperienza nella città di Roma, che era convinto non avrebbe mai più rivisto, dopo solo pochi giorni dalla partenza, scriveva:

Roma è un luogo molto difficile da descrivere a causa della sua mescolanza di buono e di cattivo - lo stato pagano era detestabile… e il sistema cristiano lì è deplorabilmente corrotto - eppure lì giacciono le polveri degli Apostoli, e il clero presente è formato dai loro discendenti (287).

E ancora:

O, se Roma non fosse Roma: ma mi sembra di vedere chiaro come il giorno che una unione con essa è impossibile. Roma è la Chiesa crudele - che ci chiede cose impossibili, che ci scomunica per la nostra disobbedienza, e che ora ci osserva ed esulta per l’avvicinarsi della nostra rovina (284).

Il semplice tono dell’esclamazione, l’identificazione di Roma con la Chiesa, la sua affermazione che la Chiesa Romanastesse “scomunicando” gli Anglicani del XIX secolo, e il fatto che parli delle richieste che essa avanza verso di loro - e che non è possibile assolutamente soddisfare - mostrano quanto profondamente soffrisse per la secolare ferita della separazione. Meno che mai riusciva a concepire una Comunità Anglicana priva di relazione con la Chiesa da cui si era separata. La sua supposizione che la Chiesa Cattolicaattendesse l’imminente rovina della Chiesa d’Inghilterra e gioisse di questa eventualità, spiega molte cose.

Nell’Apologia Newman ricorda la sua visita di commiato a Wiseman. Il Rettore aveva gentilmente espresso la speranza di rivederlo a Roma, e lui rispose “con gravità: «Abbiamo un lavoro da fare in Inghilterra»” (APO, 172). Quella solenne prospettiva di una missione che lo aspettava in Inghilterra assunse il carattere di una convinzione e di un bisogno esistenziale durante la sua grave malattia in Sicilia. Era convinto che non sarebbe morto gridando: “Dio ha ancora del lavoro da farmi fare!”[12].

Al suo ritorno a Oxford ascoltò Keble pronunciare, il 14 luglio 1833, il suo Sermone Apostasia nazionale ed ebbe la forte impressione che questo sarebbe stato l’inizio di un movimento di rinascita della fede anglicana. Newman riconobbe nel Movimento di Oxford “quel lavoro che avevo sognato e che sapevo così importante e appassionante” (APO, 181). Solo in maniera molto graduale realizzò, in effetti, che quello che aveva pensato essere suo compito, rafforzare cioè l’Anglo-cattolicesimo nella Chiesa d’Inghilterra, combattendo le forze del liberalismo nella religione, gli era stato strappato dalle mani. Via via accettò il fatto che Dio stava compiendo in lui la Sua opera e che voleva fare cose più grandi attraverso di lui, portandolo a chiedere di essere accolto in piena comunione con la Chiesa Cattolica.

II. Il ritorno a casa (1846-1847)

1. Gioia di essere cattolico

Quando Newman abbracciò la Chiesa Cattolica come vera erede della Chiesa dei Padri, e fu accolto a Littlemore in piena comunione con essa dal Passionista italiano Padre Domenico Barberi[13], fu Mons. Wiseman a impartirgli il sacramento della Cresima ad Oscott[14], insieme a St. John, Walker e Oakeley, il giorno di Tutti i Santi 1845.

L’ex Rettore del Collegio Inglese a Roma, che Newman aveva incontrato nel 1833, nel frattempo era diventato Presidente del nuovo Oscott College, vicino a Birmingham, e coadiutore del Vicario Apostolico del Midland District. Egli offrì a Newman e ai suoi compagni, convertiti insieme a lui, l’Old Oscott, l’ex Seminario del Midland District, “senza affitto, condizione, controllo o responsabilità di alcun genere” (79).

Nel febbraio 1846 Newman lasciò Littlemore per recarsi a Maryvale, nuovo nome dell’Old Oscott, per un altro periodo di vita in comune con alcuni dei suoi amici, ora cattolici. Sembrava un “luogo di rifugio” ideale, poiché dovevano “ancora trovare la vocazione di ciascuno”. La posizione della casa sembrava perfetta, a sole poche miglia da Birmingham, che a quel tempo era uno “dei principali nidi del Cattolicesimo” (79). Nonostante Newman avesse vissuto all’Oriel College per molti anni accanto alla cappella, avendo addirittura una porta che collegava la sua stanza con la cantoria dell’organo, trovava molto diverso vivere a Maryvale, dove soltanto una parete lo separava dal Signore eucaristico presente nel tabernacolo:

Sto scrivendo nella mia stanza accanto alla cappella. È una benedizione talmente incomprensibile avere Cristo in presenza corporea nella propria casa, entro le proprie mura, che fa sparire ogni altro privilegio e distrugge, o dovrebbe distruggere, ogni dolore. Sapere che Lui è vicino, potere andare da Lui più volte durante la giornata (129).

Poteva addirittura aprire una finestra che gli permetteva di guardare giù nella cappella e vedere il tabernacolo senza dover lasciare la stanza[15]. Questo gli aprì gli occhi su quanto fosse reale la fede cattolica, in cui tutto - la gioia e il dolore - acquista senso, per la grazia della personale e vera presenza e vicinanza del Signore.

Non avrei potuto concepire l’estremo ineffabile conforto che si prova nell’essere nella stessa casa con Colui che ha curato gli ammalati e insegnato ai suoi discepoli, come si legge nei Vangeli, nei giorni della Sua carne (131).

Fu provvidenziale il dono che il Santo Padre, Gregorio XVI, mandò a Newman e alla sua piccola comunità: un crocifisso d’argento e una scheggia della vera Croce. Il Cardinale Fransoni, Prefetto di Propaganda Fide, allegò una lettera personale ai due preziosi doni. Newman fu toccato dal loro interesse personale per lui; tuttavia fu ancora più commosso dalla “singolare coincidenza”, come scrisse a Miss Giberne,

che il certificato di donazione della sacra Reliquia sia datato allo stesso giorno in cui il N. 90[16] uscì 5 anni fa - e che la notizia mi giunse nell’anniversario del giorno in cui i Presidenti delle Camere fecero uscire il loro manifesto contro di esso - così che il processo di condanna è stato lungo quanto il tempo che ci è voluto per farmi onore (139).

Nel premuroso gesto personale del Papa, Roma era giunta a Maryvale molto prima che Newman lasciasse Maryvale stessa per recarsi a Roma.

Intorno alla festa di Pasqua, nel mese di aprile 1846, meno di due mesi dopo il trasferimento di Newman da Littlemore a Mary vale, Mons. Wiseman gli consigliò di andare a Roma per un anno di studi al Collegio di Propaganda Fide. Questo fu, come disse Newman, “semplicemente una mia decisione”, eppure avrebbe desiderato “lasciare l’intera questione a lui”. La scelta del Collegio fu la risposta di Wiseman al desiderio di Newman di “un’educazione regolare” (152), di andare da qualche parte, dove avrebbe potuto vivere “rigorosamente sotto l’obbedienza e la disciplina per qualche tempo” (283).

Il 1° giugno 1846, vigilia della Festa della SS. Trinità, John Henry Newman, Ambrose St. John e altri tre o quattro del loro gruppo[17], ricevettero gli ordini minori e la tonsura nella cappella di Oscott. Solo dopo il 9 giugno vennero a sapere che era lo stesso giorno della morte di Papa Gregorio XVI. Newman, che aveva sperato di andare a Roma con il dott. Wiseman entro la fine del mese, fu felice del fatto che la partenza fosse stata rimandata fino all’autunno.

Poco dopo l’elezione di Pio IX, il 16 giugno, anche il nuovo Pontefice mandò a Newman un premuroso segno, del quale si legge in una lettera a Dalgairns datata 21 luglio 1846: “Il nuovo Papa mi ha mandato la sua benedizione, e ho sentito dire che l’ultima cosa di cui stava parlando prima di entrare in conclave, fosse di Wiseman e me” (212)[18]. In agosto venne anche a sapere dal Dott. Wiseman che il Cardinale Fransoni lo aveva assicurato che il Collegio di Propaganda era pronto a soddisfare qualsiasi desiderio di Newman. Volevano “aiutare il movimento” (218). Wiseman suggerì che dovevano partire in due da Maryvale. Ambrose St. John sarebbe stato il compagno di Newman a Propaganda(219).

2. La religione cattolica, una vera religione

Dopo un breve soggiorno a Parigi, dove visitò anche il santuario di Notre Dame des Victoires, in segno di gratitudine per le preghiere offertegli da una Fraternità dell’Immacolato Cuore di Maria, che aveva come simbolo l’immagine della Medaglia Miracolosa[19], Newman e St. John andarono per cinque settimane a Milano. Le sue lettere ne danno un resoconto molto vivace. Come cattolico si sentiva a casa nel luogo in cui S. Atanasio era venuto “per incontrare l’Imperatore, nel suo esilio”; o presso la tomba di S. Ambrogio; o nel luogo in cui S. Monica aveva cercato suo figlio; oppure lì dove era stato battezzato S. Agostino[20]. Ebbe l’opportunità di conoscere e di amare anche il grande Arcivescovo S. Carlo Borromeo[21], il quale, nella forza di Cristo, aveva resistito a “quella terribile tempesta che travolse la povera Inghilterra”, salvando il suo paese dal protestantesimo. Newman andava quasi ogni giorno ad inginocchiarsi e a pregare davanti alla sua tomba, convinto di trovare in questo grande Santo della Controriforma un aiuto speciale per la sua futura missione in Inghilterra. Con questo semplice atto di devozione affermava il fatto che la Chiesa Cattolica di tutte le epoche era diventata la sua casa.

Più di ogni altra cosa, il grande convertito fu toccato dalla presenza del Santissimo Sacramento in tutte le chiese. Divenne uno degli argomenti principali delle sue lettere. A Maryvale aveva fatto l’esperienza personale di vivere concretamente con il Signore sotto lo stesso tetto. Ora, a Milano, l’esperienza: “io vivo con Dio”, si era allargata e trasformata nell’esperienza: “Ogni volta che entro in una chiesa cattolica, il Signore è lì che mi aspetta”. Scrive infatti:

È talmente una grande benedizione, mentre passeggiamo per la città, poter entrare nelle chiese - sempre aperte con grande generosa gentilezza - piene di sontuosi marmi da ammirare, e reliquiari, immagini, e crocifissi tutti disponibili al passante che voglia farli propri inginocchiandovisi davanti - il Santissimo Sacramento presente ovunque (251).

Durante il suo primo viaggio attraverso l’Italia, nel 1833, Newman non aveva fatto caso alla lampada vicino al tabernacolo, e neanche ne conosceva il significato, perché non capiva, e nemmeno voleva capire, la Messa (131). Ma ora vedeva all’interno delle chiese e davanti ad esse quella luce tremolante che lo invitava:

È veramente meraviglioso vedere questa divina presenza guardare fuori dalle varie chiese fin quasi nelle strade - così che a S. Lorenzo vedemmo la gente dall’altra parte della strada togliersi il cappello mentre passava - e nessuno a sorvegliarLo se non forse un’anziana signora seduta davanti alla porta della chiesa intenta a lavorare o a vendere qualche coccio (252).

Era stupefatto di come il Santissimo Sacramento fosse “pronto per il fedele ancora prima che egli entri” (254). Attraverso la visibile onnipresenza del Signore eucaristico - se si può dire visibile - Newman fece esperienza anche dell’unità della Chiesa:

Nulla mi ha aperto gli occhi sull’unità della Chiesa quanto la presenza, ovunque vada, del suo divin Fondatore. - Tutti i luoghi sono come uno solo. Mentre gli amici che ho lasciato a Maryvale godono della Sua presenza e Lo adorano a Maryvale, Lui è anche qui (254).

La vera presenza del Signore nell’Eucaristia, e il modo in cui i fedeli reagiscono a questa presenza, gli aprirono gli occhi su un’altra verità: Newman realizzò che la fede cattolica è la vera religione, non un semplice credo tra gli altri. Comprese che l’andare in chiesa segna le vite di coloro che sono all’altezza della loro fede, siano essi istruiti o no, ricchi o poveri, vecchi o giovani. La loro fede dona alle loro vite una caratteristica speciale, che li fa sentire a casa nelle cattedrali, nelle chiese e nelle cappelle. Permette loro di portarsi a casa la loro religione dopo le funzioni, in così tante forme di devozione, dando ai loro giorni una struttura, legando gli eventi naturali di ogni giorno al Creatore, al Salvatore e al Santificatore, alla Santissima Trinità.

Molti segni, simboli e immagini, ricordano loro che vivono alla presenza di Dio, ovunque si trovino, nelle chiese come nelle proprie case, nei luoghi di lavoro e di svago. Newman aveva realizzato da tempo che la fede viene dall’ascolto sempre più attento del messaggio dei Vangeli e degli insegnamenti degli Apostoli e dei Padri della Chiesa. Ora capiva sempre più che è vivendo la fede che questa diviene una forza vera e trasformatrice nella vita del cristiano: principalmente nei consueti, semplici gesti di risposta alla presenza di Cristo; nella santa Liturgia, nel divino servizio della Messa e negli altri sacramenti. Poi - in forza di questi - anche nelle condizioni reali della vita quotidiana.

Lui stesso afferma:

Non avevo mai capito cosa fosse l’adorazione, come fatto obiettivo, finché non entrai nella Chiesa Cattolica e presi parte ai suoi uffizi di devozione, quindi ora dico lo stesso sulla vista degli assembramenti davanti alle sue cattedrali (253).

È molto bello leggere come Newman descrive la vita in una cattedrale cattolica:

una Cattedrale Cattolica è una sorta di mondo, dove ognuno si occupa dei propri affari, ma affari religiosi; gruppi di fedeli, e credenti solitari - in ginocchio, in piedi - alcuni ai reliquiari, altri davanti agli altari - ascoltando la Messa e comunicando - correnti di fedeli che si intersecano e passano una affianco all’altra - altare dopo altare illuminato per l’adorazione, come stelle nel firmamento - o la campana che avvisa di cosa sta accadendo in parti della chiesa che non si vedono - e intanto i canoni del coro che cantano [le ore] mattutine e le lodi [o i Vespri], e alla fine, l’incenso che s’innalza dall’altare maggiore… infine, tutto ciò senza alcuno spettacolo o fatica, ma a cui tutti sono abituati - ognuno al proprio lavoro, lasciando gli altri ai propri affari (253).

A Milano Newman capì cosa significava sentirsi a casa a Roma, nella fede e nella Chiesa Cattolica Romana. Quando era ancora un anglicano si era “diligentemente astenuto” dai servizi della Chiesa in Italia. Ora, tredici anni più tardi, li frequentava e veramente “entrava in essi” (253).

3. Formazione per l’ordinazione sacerdotale e la scoperta di una vocazione romana per l’Inghilterra 

John Henry Newman vide come un segno della Provvidenza il fatto che, dopo il loro arrivo a Roma, in occasione della loro prima visita alla basilica di S. Pietro, lui e Ambrose St. John poterono assistere alla Messa celebrata dal Papa Pio IX sulla confessione di S. Pietro[22]:

… la prima mattina ero qui a S. Pietro - andammo per prima cosa a recitare il Credo degli Apostoli sulla tomba di S. Pietro - e vi trovammo il Papa che diceva Messa - così che egli fu la prima persona che incontrai a Roma, e gli ero piuttosto vicino. La gente dice che una cosa del genere accade una volta ogni cento anni, poiché nessun altro può celebrare lì se non il Papa, e quella mattina ci andò in privato - nessuno sapeva che ci sarebbe andato (282).

Al Collegio di Propaganda fecero tutto il possibile per mostrare al loro eminente studente e al suo amico il loro rispetto e per dare ai convertiti una vera casa in una comunità cattolica. Newman descrive nelle sue lettere la grande cura mostrata dal Cardinale Fransoni, Prefetto del Collegio di Propaganda, da Mons. Brunelli, Segretario Generale del Collegio, e da Padre Bresciani, Rettore dello stesso, per farli sentire a casa, adattando ogni cosa “alle abitudini inglesi” (270).

Siamo certamente alloggiati in modo splendido… anche meglio che in Inghilterra. Hanno isolato la fine del corridoio con un divisorio opaco, unendo così due camere opposte e rendendo la porzione isolata di corridoio al tempo stesso una stanza di passaggio e di ricevimento per gli ospiti (269).

In alcune sue lettere Newman descrive “le camere molto belle” (268) e quanto contengono. Tutto sembra essere nuovo di zecca: i mobili, la carta da parati, le tende, le lenzuola, persino gli inginocchiatoi, gli scrittoi, e i crocifissi. Altrove, quando racconta di come trovarono i letti rifatti, il lettore può quasi vederlo sorridere mentre descrive la strana convinzione che in Inghilterra i letti abbiano un baldacchino (273).

“Con nostro grande disagio veniamo trattati come principi” (272) scrive, e ancora, con ironia, “come bambole di cera o soprammobili pregiati” (273). Egli afferma che al collegio stanno “anticipando ogni nostro desiderio nel modo più irritante”, e ancora, con grande senso d’umorismo: “quindi oggi siamo stati costretti a introdurre di nascosto alcune cose nelle nostre tasche” (269). Oltre ai pasti molto buoni, gli viene servito il tè la sera, gli portano una stufa in camera (276), e gli viene data “una chiave della biblioteca” (269) già dal primo giorno. Rimasero piuttosto commossi - Newman lo accenna molte volte nelle sue lettere - dal fatto che le loro finestre a Propaganda davano sulla chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, dove Nostra Signora della Medaglia Miracolosa era apparsa ad Alfonso Ratisbonne, il 20 gennaio 1842 (269)[23].

A Littlemore Newman realizzò che la sua vita di Oxford era stata sotto la protezione della Beata Vergine; ribattezzò Old Oscott col nome di Maryvale; la Medaglia Miracolosa e la speciale preghiera fatta per lui a Parigi giocarono un ruolo fondamentale nel suo cammino nella Chiesa Cattolica. I due amici avranno senz’altro riconosciuto come un segno della provvidenza amorevole di Dio l’essere così vicini al luogo della sua apparizione. Il quadro di Marie Giberne[24] mostra la sua consapevolezza della protezione della Madonna. Newman e St. John sono ritratti seduti in una delle loro stanze al Collegio, mentre Nostra Signora della Medaglia Miracolosa sta in piedi dietro di loro, come se vegliasse su di essi[25].

Newman rimase commosso dalla gentilezza che incontrò a Roma e si preoccupava del fatto che i suoi nuovi amici provassero rispetto per qualcuno che in fondo rimaneva un estraneo per loro: “Qualche figura della loro immaginazione che porta il mio nome” (294). Ma tali pensieri lo portarono a vedere Dio come Colui che lo aveva conosciuto e gli aveva sempre mostrato il suo amore, proteggendolo. Pertanto poté scrivere:

È così meraviglioso trovarmi qui a Propaganda - è come un sogno - eppure così tranquillo, così sicuro, così felice - come se vi appartenessi da sempre - come se non ci fosse stata nessuna violenta rottura o vicissitudine nella mia vita - anzi, più tranquillo e felice di prima. Ero felice ad Oriel, più felice a Littlemore, ugualmente o più felice ancora a Maryvale - e più felice che mai qui. Per lo meno, se fosse giusto o meno fare un confronto fra diversi periodi della mia vita, quanto può essere felice questo stato di vita in cui mi trovo ora per poterlo considerare il più felice di tutti. Non può esistere prova più schiacciante di quanto sia benedetto (294).

L’eminente teologo, pensatore e predicatore anglicano, allora autore già di un buon numero di libri, co-autore o editore di altrettante opere, guida del Movimento di Oxford e il suo erudito amico Ambrose St. John, entrambi laureati a Oxford, ora convertiti, si ritrovarono tra giovani preti e seminaristi la maggior parte dei quali provenienti dai paesi di missione. Tra i 120/150 studenti residenti (277, 296) si parlavano 32 lingue diverse. Newman ricorda “indiani, africani, babilonesi, scozzesi e americani” (272), e ancora “cinesi… egiziani, albanesi, tedeschi, irlandesi” (283), mentre lui e Ambrose St. John erano gli unici studenti inglesi.

In una delle prime lettere aveva espresso il suo disappunto nel trovare poca teologia e filosofia nelle scuole teologiche allora esistenti in Italia. Sperava che il Papa avrebbe fatto qualcosa perché S. Tommaso fosse non solo amato e venerato come Santo, ma anche studiato e considerato come un’autorità teologica. Citando un Padre Gesuita Newman scrive: “Non la filosofia, ma i fatti sono le cose importanti” (279). Fino al Natale del 1846, tuttavia, Newman e St. John, di loro spontanea volontà (”Anche in questo fummo liberi di scegliere”) seguirono con i seminaristi tre lezioni cinque giorni la settimana, “due di dogmatica, e una di morale” (273).

Quando smisero di frequentarle, non fecero altro che quello che i professori del Collegio di Propaganda si aspettavano sin dall’inizio. Infatti, al Collegio di Propaganda, il metodo d’insegnamento, ancor più che il contenuto, era destinato solamente ai giovani novizi. In una lettera ad uno del suo gruppo a Maryvale, interessato a studiare al Collegio, Newman spiega che, ai suoi tempi, a Propaganda non si teneva conto dei laureati. “I docenti sono completamente all’altezza della loro materia, ma il corso dura quattro anni” e ci vogliono “lezioni e lezioni di voce strascicata per fare un paio di pagine tediose - tutto ciò è necessario per dei ragazzi, ma non per degli uomini maturi”[26].

Newman e St. John sostituirono le lezioni con degli studi personali, riflettendo se prendere un dottorato a Propaganda. Newman, tuttavia, considerava come suo primo impegno far conoscere il suo pensiero teologico, specialmente sul rapporto fede e ragione. Era il motivo per cui era entrato nella Chiesa Cattolica. Si rendeva conto che, in alcune parti, la fraseologia doveva essere modificata per facilitarne la comprensione in un contesto cattolico con tradizioni accademiche diverse. Scrisse pertanto un’introduzione esplicativa alla traduzione francese di sei dei suoi Oxford University Sermons, fornendo ai lettori cattolici una conoscenza di base del suo pensiero sul rapporto fede e ragione[27].

Prima dell’inizio di marzo, inoltre, tradusse in latino quattro “dissertazioni” dal suo Athanasius destinate alla pubblicazione (60)[28] per contrastare la critica che girava da un collegio all’altro di Roma, che un “semplice teorico” avesse scritto l’Essay on Development (60). Le dissertazioni evidenziarono il fatto che lui aveva, in effetti, “studiato, analizzato, classificato e numerato” i fenomeni dei documenti della teologia antica, come un critico dovrebbe fare[29].

Newman e St. John parteciparono alle discussioni mensili al Collegio Romano, dietro invito del Rettore, Padre Passaglia (61). Parteciparono regolarmente agli incontri teologici al Collegio Inglese, dietro invito del Rettore, Dott. Grant (57). Newman era anche felice di discutere alcune sue idee sul rapporto fede e ragione e sullo sviluppo della dottrina con Padre Perrone[30], che allora era piuttosto famoso a Roma.

Soprattutto, i due convertiti lasciarono che Dio, al tempo fissato, mostrasse loro in che modo il loro gruppo dovesse servire la Chiesa d’Inghilterra. Il Dott. Wiseman a Maryvale li aveva già incoraggiati a prendere in considerazione la vocazione oratoriana. Poco dopo il loro arrivo a Roma contattarono l’Oratorio e fecero amicizia con l’erudito Padre Theiner. Da quel momento parteciparono alle funzioni nella Chiesa Nuova, e chiamarono l’Oratorio la loro “casa”. Si informarono sulla regola e la storia dell’Oratorio di San Filippo, pur interessandosi anche ad altre Congregazioni.

Newman aveva grande rispetto per la vita piena di abnegazione dei Gesuiti, “il gruppo più meraviglioso e potente tra i regolari” (25), per la loro santità e la devozione altruistica (111), di cui fece esperienza diretta al Collegio di Propaganda. Aveva grande stima dei Passionisti, così “pacifici” e dei Cappuccini, così “allegri”, anche se gli sembravano gli Ordini più severi (62). Lessero la regola dei Redentoristi (7-8) e furono in contatto con i Francescani (10-11) e con i Rosminiani (5). Durante questo periodo si interessò ai Domenicani, mentre, più tardi, sviluppò un amore durevole per i Benedettini, anche se non riusciva ad immaginarsi monaco o un regolare moderno come i Gesuiti.

Era consapevole del fatto che, all’età di quarantasei anni, ciò non avrebbe significato soltanto rinunciare alla “proprietà” e “prendere nuove abitudini”, ma abbandonare tutta la sua vita precedente, che non era stata solo sua. Il suo nome, la sua persona, i suoi libri erano conosciuti da molti altri che non aveva mai incontrato di persona. Come regolare avrebbe dovuto lasciare tutto questo, e se avesse ancora predicato o scritto, la gente non avrebbe saputo se trasmetteva il pensiero della sua comunità (come “una sorta di strumento per gli altri”) o le sue proprie idee. In una parola, capì di aver bisogno di una “continuazione con il mio vecchio io”[31].

Da un lato, non si sentiva chiamato a diventare monaco, dall’altro, pensava che avessero “una chiamata ad una vita più severa di quella dei secolari”. Allora la Regola Oratoriana gli sembrò “una specie di Deus ex machina”(16). Il 17 gennaio scrisse una lettera a Mons. Wiseman: “È curioso e molto piacevole come, dopo aver riflettuto così a lungo sulla questione, siamo tornati all’idea originale di Sua Eccellenza, e sentiamo che non possiamo fare di meglio che essere Oratoriani” (19-20).

Quello fu anche il primo giorno di una novena di pellegrinaggi giornalieri a S. Pietro - dalla vigilia della festa della Cattedra di San Pietro, allora il 18 gennaio, a quella della conversione di San Paolo, il 25 gennaio - per essere illuminati sulla questione. Il 21 febbraio, giorno del compleanno di Newman, Mons. Brunelli, il Segretario di Propaganda, ebbe l’approvazione del Santo Padre alla richiesta di Newman di introdurre l’Oratorio di San Filippo in Inghilterra.

Papa Pio IX espresse la sua gioia offrendo il monastero di Santa Croce di Gerusalemme alla futura Congregazione Inglese di San Filippo Neri per la prima parte del loro noviziato, da luglio a dicembre del 1847, a Roma. Ciò fece notare a Newman che significava vivere nel cuore della Chiesa. S. Elena non solo aveva portato la Croce di Cristo da Gerusalemme a Roma, ma con essa la terra del Monte Calvario. Santa Croce è Gerusalemme stessa presente a Roma[32].

Un mese prima di trasferirsi a Santa Croce, il 26 maggio, giorno di S. Filippo, il Cardinale Fransoni ordinò Ambrose St. John e John Henry Newman suddiaconi “nella sua cappella privata” (84). Il 29 maggio furono ordinati diaconi a S. Giovanni in Laterano dal Cardinale Vicario. Il 30 maggio, festa della SS. Trinità, il Cardinale Fransoni li ordinò sacerdoti a Propaganda. La cerimonia si è svolta nella chiesa di Propaganda (84), visto che “tutti gli studenti”[33] erano presenti e che fu suonato anche l’organo. Dopo l’ordinazione andarono a vedere la casa a Santa Croce. Il giorno del Corpus Domini Newman celebrò la sua prima Messa a Propaganda, nella cappella dei Gesuiti, non lontano dalla sua stanza.

Si trasferirono a Santa Croce il 28 giugno e il giorno seguente Newman celebrò la Messa per la festa dei Santi Pietro e Paolo. Alla sera andarono tutti in pellegrinaggio a S. Pietro come in quei nove giorni di gennaio, questa volta per rendere grazie.

A Santa Croce, nel cuore della Chiesa, Newman avrebbe scoperto sempre più il cuore di S. Filippo e, sotto la sua guida, il cuore di Gesù, la luce della sua anima, che adorava nell’Eucaristia. Nella grazia della sua vocazione, e nel segno della croce, sarebbe diventato un padre di anime nel nuovo Oratorio di San Filippo. Quando Newman lasciò Roma, nel mese di dicembre, portò con sé il Breve papale.

III. Dono di sé (1856) e dignità cardinalizia (1879)

Anche solo un accenno al terzo e quarto viaggio di Newman a Roma permette al lettore di riconoscere due ulteriori aspetti di cosa significasse Roma per Newman.

Il suo terzo viaggio, ancora una volta insieme ad Ambrose St. John, fu compiuto nell’immenso sforzo di risolvere dei problemi che si erano sviluppati tra le due case in Inghilterra a proposito dell’interpretazione della Regola Oratoriana, prima che la ferita della separazione iniziasse ad inasprirsi, con conseguenze a lungo termine.

Tale missione fu molto ardua per Newman, in un periodo in cui era oppresso dal doppio incarico dell’Oratorio a Birmingham e della giovane Università Cattolica di Dublino. Era inoltre una “situazione di grande ansia”. Newman sapeva che non ce l’avrebbe fatta con le sue sole forze. Il primo giorno a Roma trasformò la visita a S. Pietro in un pellegrinaggio di mezza giornata, camminando a piedi nudi da Piazza di Spagna fino alla Basilica, in un freddo giorno invernale del 13 gennaio 1856, senza che nessuno lo sapesse se non Padre Ambrose[34].

E in effetti il viaggio a Roma non solo portò chiarezza nei fatti in questione, ma anche il consenso del Santo Padre a tutte le loro richieste e anche di più. Il modo in cui Newman aveva affrontato la delicata questione, venendo a Roma come un supplicante, affidando tutto a Dio nella Confessione di S. Pietro e rivolgendosi personalmente al Santo Padre e agli altri membri della gerarchia, manifestava la sua profonda fede in Cristo e la sua umile e semplice fiducia in Roma, nel Santo Padre e in coloro che, con lui, hanno autorità ecclesiale[35].

Quando Newman si recò nuovamente, e per l’ultima volta, nella Città Eterna, nella primavera del 1879, era stato chiamato dal Santo Padre Leone XIII che voleva onorare il grande inglese per il bene di tutta la Chiesa, creandolo cardinale. Newman fu uno dei primi nove cardinali nominati nel suo pontificato, e al Papa piaceva chiamarlo il mio Cardinale. La Provvidenza aveva agito.

In seguito, in occasione di una visita di Lord Selborne e sua figlia, nell’ottobre 1887, il Pontefice affermava:

Il mio Cardinale! Non è stato facile, non è stato facile. Dicevano che era troppo liberale, ma avevo deciso di onorare la Chiesa onorando Newman. Ho sempre avuto un culto per lui. Sono orgoglioso di essere riuscito ad onorare un uomo così grande[36].

S. E. Mons. Gioacchino Pecci, il futuro Papa Leone XIII, era stato Nunzio a Bruxelles (dal 1843 al 1846). Padre Domenico Barberi lo aveva visitato nell’ottobre 1845[37] durante il viaggio da Oxford in Belgio per il Capitolo dei Passionisti. George Spencer aveva già scoperto, a luglio del 1844, che il Nunzio era bene informato sugli uomini di Oxford[38]. Padre Domenico Barberi doveva essere stato felice di raccontargli gli ultimi eventi di Oxford e Littlemore. Aveva appena ricevuto John Henry Newman in quello che i convertiti chiamavano “l’unico gregge del Redentore”[39]. Come poteva non descrivere realisticamente il modo in cui trovò ai suoi piedi “uno degli uomini più umili ed amabili” che avesse mai incontrato, che lo pregava di “ascoltare la sua confessione e ammetterlo in seno alla Chiesa Cattolica”?[40] Di fatto, dal 1845 in poi, l’allora Nunzio mantenne il suo interesse per John Henry Newman per tutta la vita.

A giudicare dalle sue lettere e diari, Newman probabilmente non era nemmeno al corrente dell’interesse di vecchia data che Mons. Pecci provava per lui. Eppure, dopo che questi divenne Papa Leone XIII, ne parlava spesso nelle sue lettere. Il 27 ottobre 1878 scriveva:

…ho seguito con grande amore e partecipazione ogni suo atto riportato dai giornali dal giorno della sua elevazione, se solo fosse di 10 anni più giovane di quanto sia… È la sua unica colpa”[41].

Newman era molto contento del fatto che Papa Leone XIII raccomandasse lo studio di San Tommaso d’Aquino nelle università pontificie e nei seminari, cosa che gli era mancata tantissimo nel suo periodo di studi a Roma, negli anni 1846-1847[42]. Fu commosso quando, nel dicembre 1878, Leone XIII gli inviò la sua benedizione papale e un’immagine sacra del suo breviario con l’autografo, attraverso un ex impiegato dell’Ambasciata francese a Roma, di cui Newman era diventato confessore.[43]

Poco dopo l’elezione di Papa Leone, in Inghilterra e a Roma iniziò a correre voce che Leone XIII avrebbe creato Newman cardinale. Newman non vi diede molto peso, ma il 1° marzo del 1879 scrisse ad Anne Mozley:

Oggi stesso sono venuto a conoscenza del fatto che mi verrà offerto il cappello cardinalizio con il privilegio di rimanere a vivere qui. Non posso resistere a una tale gentilezza, fatta con dei sentimenti così personali dal Papa, e la accetterò. Porrà fine a tutte quelle voci che reputano i miei insegnamenti non cattolici o i miei libri indegni, che mi hanno causato una sofferenza così grande per così tanto tempo[44].

Il 2 marzo, scriveva a Pusey:

Se le voci diffuse sono vere, l’attuale Papa, quando era cardinale a Roma, aveva una cattiva reputazione al pari di me. Sorge dunque in me un sentimento di simpatia per il suo particolare e significativo gesto nei miei riguardi. Egli sembra dire ‘Non ignara mali ecc…’. Come non portare a compimento il suo gesto se non dando il mio consenso[45]?

Quando ricevette il Biglietto nel palazzo del cardinale Howard a Roma, il cardinale Newman, nel suo discorso, fece notare:

Non ho nulla dell’alta perfezione propria degli scritti dei Santi, nei quali non ci possono essere errori; ma quello che posso ribadire per tutto ciò che ho scritto è questo: l’intenzione onesta, l’assenza di fini personali, la disposizione all’obbedienza, la volontà di essere corretto, la paura dell’errore, il desiderio di servire la Santa Chiesa e una buona speranza di successo. E gioisco nell’affermare che fin dall’inizio mi sono opposto a un grande male. Per trenta, quaranta, cinquanta anni ho resistito con tutte le mie forze allo spirito del liberalismo nella religione.

Poi descrisse il liberalismo nella religione al quale si era opposto sin dai primi tempi ad Oxford, e le sue parole riecheggiano ancora oggi.

Il liberalismo (in religione) è la dottrina secondo la quale non esiste verità positiva in religione, ma un credo vale l’altro. … La religione è un lusso privato, che può avere chi vuole, ma che si deve conservare solo per se stessi, che non si deve imporre agli altri, né si deve indulgere troppo in essa in maniera da procurare fastidio agli altri.

Con parole di consolazione ed un appello fervente conclude il suo discorso:

“La Chiesa non deve fare altro che proseguire nei suoi doveri, nella confidenza e nella pace; rimanere calma e aspettare la salvezza di Dio”[46].

Note al testo

[1] Vedere la discussione tra “due anglicani speculativi” indirizzata al rafforzamento della loro Chiesa, in: Home thoughts Abroad, pubblicato sul British Magazine nella primavera del 1836.

[2] Ch. St. DESSAIN (ed.), Letters and Diaries of John Henry Newman, vols. I-XXXII, London/Oxford, Nelson/Clarendon Press, 1961-2007, vol. XVII, p. 99: da ora in avanti abbreviato con LD XVII, 99.

[3] Se non indicato diversamente, i numeri delle pagine delle citazioni nel testo si riferiscono a LD III.

[4] A quel tempo aveva già visitato i Musei Vaticani una prima volta.

[5] Già Martin Lutero descrive il Papa come l’Anticristo, che subito dopo Gregorio Magno iniziò a regnare sulla Chiesa, incoronandosi nel tempio di Dio, rivendicando l’autorità sulla Parola di Dio. Cf. Schmalkald. Art. IV.

[6] Un resoconto più completo di questa teoria si trova nella lettera a Samuel Rickards del 14 aprile 1833 da Napoli, LD III, 287-290.

[7] J. H. NEWMAN, Apologia pro vita sua, a cura di F. MORRONE, Paoline Editoriale Libri, Milano 2001, pp. 191-193.

[8] Nel 1843 John Henry Newman ritira formalmente “tutte le parole dure” pronunciate contro la Chiesa di Roma (APO, 341).

[9] Cf. LD III, 266-269.

[10] Le altre due delle tre funzioni a cui sembra abbia assistito, sono gli uffizi vespertini del Giovedì Santo e del Venerdì Santo alla Cappella Sistina: “le Tenebrae” (272).

[11] Dalla sua prima poesia su Roma in una lettera a sua sorella Harriett.

[12] LD IV, 8.

[13] Dal 1963 Beato Domenico Barberi.

[14] Per gratitudine prese il nome di Maria, vedere LD XI, 23, nota 1. Se non indicato diversamente, i numeri tra parentesi dopo le citazioni nel testo, fanno riferimento ora a LD XI.

[15] La finestra di quella stanza si può ancora aprire, e vedere brillare la lampada accanto al tabernacolo nella cappella splendidamente restaurata. Il Maryvale Institute ha in progetto di convertire la stanza di John Henry Newman in santuario.

[16] Tract 90.

[17] Si deduce dalla lettera di Newman al Conte di Shrewsbury, del 23 agosto 1846, LD XI, 232.

[18] Cf. lettera a Knox, 20 agosto 1846 (227).

[19] Cf. LD XI, 245, diario, nota 1.

[20] Cf. 252s.

[21] Cf. 250s.

[22] Cf. Diario in LD XI, giovedì 29 ottobre 1846 (266).

[23] Cf. LD XII, 23.

[24] Marie Giberne, amica di lunga data della famiglia Newman, convertita da Newman.

[25] Cf. LD X, 658, nota 2.

[26] LD XII, 48. In questo contesto è interessante la lettera scritta da Newman al Rettore del Collegio, LD XII, 88-90.

[27] Cf. LD XII, 5. Se non indicato diversamente, i numeri tra parentesi dopo le citazioni nel testo si riferiscono ora alle pagine in LD XII.

[28] Queste erano le sue intuizioni relative alla sua traduzione dell’Athanasius, ivi pubblicate, nella Library of the Fathers.

[29] Loc. cit. Il 12 maggio Newman poté dare al Rettore la sua copia.

[30] Cf. LD XII, 55, nota 3 inclusa.

[31] LD XI, 306. Corsivo di Newman stesso.

[32] Cf. LD XII, 79.

[33] Cf. 84, nota 2.

[34] Secondo Padre Neville, cf. LD XVII, 119, nota 2 riferita a My Campaign in Ireland, p. 214.

[35] Per ulteriori dettagli cf. LD XVII, Opposition in Dublin and London October 1855 to March 1857, e i capitoli The Oratories in Opposition; in: M. TREVOR, Newman: Light in Winter, Londra 1962, pp. 73-84 e specialmente da 112 a 128 e da 129 a 141.

[36] LD XXIX, 426, Appendice 1. Questa non è la sede per trattare le immense difficoltà che si celano dietro l’elevazione di Newman al cardinalato, molto è stato già scritto in proposito.

[37] Quella visita è menzionata non solo da U. YOUNG, C.P., Life and Letters of the Venerable Father Dominic (Barberi), C. P., Founder of the Passionists in Belgium and England, Londra 1926, p. 259, e come tale citata nel 1975 da DESSAIN e GORNALL in LD XXIX, 426, Appendice 1, nota 2. Nove anni più tardi P. Urban pubblicò una lettera di P. Domenico, scritta il 26 ottobre 1845, tra le sue due visite a Littlemore, in cui parla in effetti del “Nunzio a Bruxelles a cui ho fatto visita” (“Nuncio at Brussels, whom I visited” [U. YOUNG, C.P., Dominic Barberi in England, A New Series of Letters, Londra 1935, p. 142]).

[38] Cf. LD XXIX, 425, nota 2.

[39] Per la ripetizione di questa espressione, vedere le numerose lettere che Newman scrisse durante la notte sull’arrivo di P. Domenico il Passionista, nelle prime pagine di LD XI.

[40] Lettera da Tournai, ottobre 1845, U. YOUNG, Dominic Barberi in England, Londra 1934, p. 138.

[41] LD XXIX, 415.

[42] Loc. cit., 431, nota.

[43] Cf., LD XXVIII, 435, nota 1.

[44] LD XXIX, 50.

[45] LD XXIX, 55-56, nota con riferimento all‘Eneide, I, 630: Non ignara mali miseris sucurrere disco.

[46] M. K. STROLZ (ed.), John Henry Newman. Saggio commemorativo nel Centenario del Cardinalato, Roma 1979, p. 110-112, 115.

Appendice. Il discorso di John Henry Newman a Palazzo della Pigna in Roma, in occasione della sua nomina a cardinale

Ripresentiamo sul nostro sito il famoso “discorso del biglietto”, pronunciato da Newman in occasione della sua nomina a cardinale il 12 maggio 1879 nel Palazzo della Pigna a Roma. Il testo fu subito trasmesso dal corrispondente romano dell’inglese “The Times” che lo pubblicò integralmente il giorno successivo. “L’Osservatore Romano” del 14 maggio lo pubblicò in una traduzione del gesuita Pietro Armellini e in seguito “La Civiltà Cattolica” commentò il discorso qualificandolo come importantissimo. Eccone il testo, così come è stato riproposto da L’Osservatore Romano del 9 aprile 2010:

La ringrazio, Monsignore, per la partecipazione dell’alto onore che il Santo Padre si è degnato di conferire sulla mia umile persona [parole pronunciate da Newman in italiano] e se Le chiedo il permesso di continuare il mio discorso non nella Sua lingua così musicale, ma nella mia cara lingua materna, è perché in questa posso esprimere meglio ciò che sento all’annuncio che Lei mi ha comunicato.

Vorrei anzitutto esprimere lo stupore e la profonda gratitudine che ho provato e che ancora provo per la magnanimità e l’amore del Santo Padre per avermi prescelto ad un onore così immenso. È stata davvero una grande sorpresa. Non mi era mai passato per la mente di esserne degno e mi è sembrato così in contrasto con le vicende della mia vita. Ho dovuto passare attraverso molte prove, ma avvicinandomi ormai alla fine di tutto, mi sentivo in pace. Tuttavia non è forse possibile che io sia vissuto tanti anni proprio per vedere questo giorno?

Difficile anche pensare come avrei potuto affrontare una tale emozione se il Santo Padre non avesse compiuto un ulteriore gesto di magnanimità nei miei confronti, mostrando così un altro aspetto della sua natura piena di finezza e di bontà. Egli intuì il mio turbamento e volle spiegarmi le ragioni per cui mi aveva innalzato a tanto onore. Insieme a parole di incoraggiamento, mi disse che la sua decisione era un riconoscimento del mio zelo e del servizio che avevo reso per tanti anni alla Chiesa Cattolica; inoltre, egli era certo che i cattolici inglesi e perfino l’Inghilterra protestante si sarebbero rallegrati del fatto che io ricevessi un segno del suo favore. Dopo queste benevole parole di Sua Santità, sarei proprio stato insensibile e ingrato se avessi avuto ancora delle esitazioni.

Questo egli ebbe la premura di dirmi, e che cosa potevo desiderare di più? Nella mia lunga vita ho commesso molti sbagli. Non ho nulla di quella sublime perfezione che si trova negli scritti dei santi, cioè l’assoluta mancanza di errori. Ma ciò che credo di poter dire riguardo tutto ciò che ho scritto è questo: la mia retta intenzione, l’assenza di scopi personali, il senso dell’obbedienza, la disponibilità ad essere corretto, il timore di sbagliare, il desiderio di servire la santa Chiesa, e, solo per misericordia divina, un certo successo. E mi compiaccio di poter aggiungere che fin dall’inizio mi sono opposto ad una grande sciagura. Per trenta, quaranta, cinquant’anni ho cercato di contrastare con tutte le mie forze lo spirito del liberalismo nella religione. Mai la santa Chiesa ha avuto maggiore necessità di qualcuno che vi si opponesse più di oggi, quando, ahimé! si tratta ormai di un errore che si estende come trappola mortale su tutta la terra; e nella presente occasione, così grande per me, quando è naturale che io estenda lo sguardo a tutto il mondo, alla santa Chiesa e al suo futuro, non sarà spero ritenuto inopportuno che io rinnovi quella condanna che già così spesso ho pronunciato.

Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo cui non c’è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro, e questa è una convinzione che ogni giorno acquista più credito e forza. È contro qualunque riconoscimento di una religione come vera. Insegna che tutte devono essere tollerate, perché per tutte si tratta di una questione di opinioni. La religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e una preferenza personale; non un fatto oggettivo o miracoloso; ed è un diritto di ciascun individuo farle dire tutto ciò che più colpisce la sua fantasia. La devozione non si fonda necessariamente sulla fede. Si possono frequentare le Chiese protestanti e le Chiese cattoliche, sedere alla mensa di entrambe e non appartenere a nessuna. Si può fraternizzare e avere pensieri e sentimenti spirituali in comune, senza nemmeno porsi il problema di una comune dottrina o sentirne l’esigenza. Poiché dunque la religione è una caratteristica così personale e una proprietà così privata, si deve assolutamente ignorarla nei rapporti tra le persone. Se anche uno cambiasse religione ogni mattina, a te che cosa dovrebbe importare? Indagare sulla religione di un altro non è meno indiscreto che indagare sulle sue risorse economiche o sulla sua vita familiare. La religione non è affatto un collante della società.

Finora il potere civile è stato cristiano. Anche in Nazioni separate dalla Chiesa, come nella mia, quand’ero giovane valeva ancora il detto: “Il cristianesimo è la legge del Paese”. Ora questa struttura civile della società, che è stata creazione del cristianesimo, sta rigettando il cristianesimo. Il detto, e tanti altri che ne conseguivano, è scomparso o sta scomparendo, e per la fine del secolo, se Dio non interviene, sarà del tutto dimenticato. Finora si pensava che bastasse la religione con le sue sanzioni soprannaturali ad assicurare alla nostra popolazione la legge e l’ordine; ora filosofi e politici tendono a risolvere questo problema senza l’aiuto del cristianesimo. Al posto dell’autorità e dell’insegnamento della Chiesa, essi sostengono innanzitutto un’educazione totalmente secolarizzata, intesa a far capire ad ogni individuo che essere ordinato, laborioso e sobrio torna a suo personale vantaggio. Poi si forniscono i grandi principi che devono sostituire la religione e che le masse così educate dovrebbero seguire, le verità etiche fondamentali nel loro senso più ampio, la giustizia, la benevolenza, l’onestà, ecc.; l’esperienza acquisita; e quelle leggi naturali che esistono e agiscono spontaneamente nella società e nelle cose sociali, sia fisiche che psicologiche, ad esempio, nel governo, nel commercio, nella finanza, nel campo sanitario e nei rapporti tra le Nazioni. Quanto alla religione, essa è un lusso privato, che uno può permettersi, se vuole, ma che ovviamente deve pagare, e che non può né imporre agli altri né infastidirli praticandola lui stesso.

Le caratteristiche generali di questa grande apostasia sono identiche dovunque; ma nei particolari variano a seconda dei Paesi. Parlerò del mio Paese perché lo conosco meglio. Temo che essa avrà qui un grande seguito, anche se non si può immaginare come finirà. A prima vista si potrebbe pensare che gli Inglesi siano troppo religiosi per un modo di pensare che nel resto del continente europeo appare fondato sull’ateismo; ma la nostra disgrazia è che, nonostante, come altrove, conduca all’ateismo, qui esso non nasce necessariamente dall’ateismo. Occorre ricordare che le sette religiose, comparse in Inghilterra tre secoli fa e oggi così forti, si sono ferocemente opposte all’unione della Chiesa e dello Stato e vorrebbero la scristianizzazione della monarchia e di tutto il suo apparato, sostenendo che tale catastrofe renderebbe il cristianesimo più puro e più forte. Il principio del liberalismo, poi, ci è imposto dalle circostanze stesse. Consideriamo le conseguenze di tutte queste sette. Con tutta probabilità esse rappresentano la religione della metà della popolazione; e non dimentichiamo che il nostro governo è una democrazia. È come se, in una dozzina di persone prese a caso per la strada e che certamente hanno la loro quota di potere, si trovassero fino a sette religioni diverse. Ora come possono trovare unanimità di azione in campo locale o nazionale quando ciascuna si batte per il riconoscimento della propria denominazione religiosa? Ogni decisione sarebbe bloccata, a meno che l’argomento religione non venga del tutto ignorato. Non c’è altro da fare. E in terzo luogo, non dimentichiamo che nel pensiero liberale c’è molto di buono e di vero; basta citare, ad esempio, i principi di giustizia, onestà, sobrietà, autocontrollo, benevolenza che, come ho già notato, sono tra i suoi principi più proclamati e costituiscono leggi naturali della società. È solo quando ci accorgiamo che questo bell’elenco di principi è inteso a mettere da parte e cancellare completamente la religione, che ci troviamo costretti a condannare il liberalismo. Invero, non c’è mai stato un piano del Nemico così abilmente architettato e con più grandi possibilità di riuscita. E, di fatto, esso sta ampiamente raggiungendo i suoi scopi, attirando nei propri ranghi moltissimi uomini capaci, seri ed onesti, anziani stimati, dotati di lunga esperienza, e giovani di belle speranze.

Ecco come stanno le cose in Inghilterra, ed è un bene che tutti ce ne rendiamo conto; ma non si pensi assolutamente che io ne sia spaventato. Certo ne sono dispiaciuto, perché penso possa nuocere a molte anime, ma non temo affatto che abbia la capacità di impedire la vittoria della Parola di Dio, della santa Chiesa, del nostro Re Onnipotente, il Leone della tribù di Giuda, il Fedele e il Verace, e del suo Vicario in terra. Troppe volte ormai il cristianesimo si è trovato in quello che sembrava essere un pericolo mortale; perché ora dobbiamo spaventarci di fronte a questa nuova prova. Questo è assolutamente certo; ciò che invece è incerto, e in queste grandi sfide solitamente lo è, e rappresenta solitamente una grande sorpresa per tutti, è il modo in cui di volta in volta la Provvidenza protegge e salva i suoi eletti. A volte il nemico si trasforma in amico, a volte viene spogliato della sua virulenza e aggressività, a volte cade a pezzi da solo, a volte infierisce quanto basta, a nostro vantaggio, poi scompare. Normalmente la Chiesa non deve far altro che continuare a fare ciò che deve fare, nella fiducia e nella pace, stare tranquilla e attendere la salvezza di Dio. “Gli umili erediteranno la terra e godranno di una gran pace” (Ps 37, 11).