Sul senso dello studiare la teologia oggi, di Antonio Sabetta

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 05 /11 /2010 - 15:18 pm | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione sul nostro sito l’intervento del preside, il prof. Antonio Sabetta, pronunciato in occasione dell’apertura dell’anno accademico dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose Ecclesia Mater della diocesi di Roma il 4/11/2010. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Le sigle EM e ISSR vogliono dire Ecclesia Mater e Istituto Superiore di Scienze Religiose. Sono stati omessi i ringraziamenti diretti alle diverse persone e le informazioni sulle novità riguardanti il corpo accademico. 

Il Centro culturale Gli scritti (5/11/2010)

Vorrei iniziare questo mio breve intervento ponendo la domanda: ha ancora senso oggi fare e, a maggior ragione, studiare la teologia? Ha ancora senso che i laici studino la teologia?

La teologia non è forse ormai accomunata al destino di quelle prove di Dio che Hegel nel 1829 denunciava essere cadute nell’oblio e nel discredito al punto da venir considerate come qualcosa di antiquato, «appartenente alla metafisica di un tempo, dalla cui sterile tediosità noi ci siamo messi in salvo in una fede vivente e dall’arido intelletto delle quali ci siamo di nuovo innalzati al caldo sentimento della religione»?

Le ragioni di un simile discredito e oblio per Hegel nascevano dalla rinnovata opposizione tra fede e ragione che alimentava il pregiudizio sul provare Dio, al punto da essere «ritenuto irreligioso far affidamento su una simile conoscenza e su questa strada cercare di convincere quanto a Dio e alla sua natura, o anche solo quanto al suo essere», e dalla crisi della ragione che aveva rinunciato ad interrogarsi sull’assoluto col terribile esito di aver dato vita al «singolare spettacolo di un popolo civile senza metafisica [noi potremmo dire senza teologia] - simile a un tempio riccamente ornato, ma privo di santuario».

Pur nella diversità di contesti tra quel periodo e l’attuale, direi che il momento presente traduce ed esprime una situazione e una preoccupazione simile. Sembra infatti che studiare la teologia non abbia più alcun senso e nessuna utilità, anzi ci faccia correre il rischio di smarrire il “merito della fede”. Questo intanto perché viviamo nel tempo della crisi della ragione; come ha scritto S. Hawking nel suo ultimo libro “la filosofia è morta” e non serve più interrogarsi sul senso delle cose; ci basta la taumaturgica scienza che si è accollata l’onere di rendere la vita più umana nonostante non abbia più un senso.

La denuncia hegeliana di una ragione rachitica, confinata all’ambito del sensibile (per colpa di Kant) non richiama forse il warning di Benedetto XVI a Ratisbona quando ha messo in guardia da un riduttivismo della ragione che si autoesilia dal luogo più proprio, cioè la verità, e si confina ad essere ragione strumentale incapace di elevarsi al senso delle cose, mentre invece si accontenta solo del sensibile, dell’apparire empirico? Inoltre, quante volte oggi si deve registrare una fede che ha poco a che spartire con la ragione, anzi che si ritiene prenda un’inclinazione pericolosa quando vuole essere pensata, mentre quello che conta è il sentimento, il condividere i gesti della fede, testimoniare la carità (non di rado ridotta a mera filantropia) ed esercitare il dialogo che diluisce la differenza cristiana? Il buonismo che tutto livella, il politically correct non sta diventando uno stile anche nel modo di concepire la fede allontanandola dall’arido intelletto e consegnandola al calore dei sentimenti e delle emozioni?

Eppure come ci ricorda Fides et ratio il connubio tra una ragione debole e una fede debole è cosa nefasta né possiamo declinare in termini autentici la fede se non viviamo una passione per la ragione; leggiamo al n. 48: «È illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione. Alla stessa stregua, una ragione che non abbia dinanzi una fede adulta non è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità dell’essere».

Ma credo che qui basterebbe semplicemente e più autorevolmente rimandare all’icastica e riassuntiva espressione di Agostino quando diceva “la fede se non è pensata è nulla”, proprio perché la fede è quel “pensare assentendo”, ovvero un credere che cerca la comprensione di ciò che crede per poter credere ancora di più, quel trasformare le verità credute in verità sapute, come accade in ogni esperienza significativa nella vita per cui si desidera sempre più andare a fondo di ciò che più conta.

Credo che non dobbiamo mai rassegnarci a questa trascuratezza verso la teologia e mai pensare che andare a fondo della fede (il che non può che accadere con la ragione) sia qualcosa di tramontato che non definisce più le urgenze del presente, che non ci aiuta più a stare nella realtà testimoniando la fede e annunciando il vangelo. Troppo spesso lo studio della teologia è visto qualcosa di cui si farebbe volentieri a meno piuttosto che qualcosa a cui appassionarsi. Eppure la prima lettera di Pietro, in un contesto segnato dalla drammaticità della persecuzione, invita la comunità ad abitare la circostanza difficile che vive rendendo ragione della speranza, raccontando ed esplicitando i motivi dotati di senso che rendono la fede più grande e più importate della sofferenza che sta procurando.

Ora quell’invito l’autore della lettera lo rivolge a tutti i cristiani, non lo affida come compito soltanto ad alcuni battezzati che hanno un ruolo particolare nella comunità. E questo ci dice un’altra cosa che credo vada sottolineata. Se oggi c’è tanta disaffezione verso la teologia, c’è un’altrettanto grande tentazione a pensare che la teologia sia un ufficio dei presbiteri e dei consacrati, qualcosa che non deve riguardare i laici e tutti i battezzati. Sinceramente non credo né che esista una teologia di primo livello e una di secondo livello, né che la teologia debba essere di appannaggio esclusivo del clero sia quanto al suo studio sia quanto al suo insegnamento.

Del resto l’EM testimonia esplicitamente proprio questo, in riferimento al primo aspetto. Credo infatti che sia un dato altamente positivo la presenza in istituto di numerosi docenti stabili che lo sono anche in facoltà perché questo è garanzia di poter contare su persone che sono totalmente dedite all’insegnamento e alla ricerca e che non insegnano teologia solo come appendice alle loro agende già sovraccariche. E che la teologia insegnata in EM sia la stessa di una facoltà di Teologia lo testimonia il fatto che voi studenti potete seguire i corsi dei docenti anche al mattino quando sono gli stessi a tenerli per la pressoché totale sovrapposizione di programmi.

Certo ci si potrebbe chiedere, allora, che senso ha un ISSR se non è distinto dalla Facoltà di Teologia? Quello che ci caratterizza è un’attenzione maggiore e uno spazio necessariamente dato alle altre scienze umane che, soprattutto nei bienni di specializzazione, catalizzano buona parte degli insegnamenti. La fede non è mai né disincantata né disincarnata e se il compito nostro è abitare il presente portandovi il Vangelo, questo compito non sarà mai assolto credibilmente e fecondamente se, per quello che tocca a noi, non conosciamo bene questo presente, i contesti nei quali si vive e si opera. Conoscere la società, le sue dinamiche, conoscere l’uomo nella molteplicità delle sue dimensioni è imprescindibile per chi è chiamato a insegnare religione nelle scuole di ogni ordine e grado o per chi è chiamato a vivere i ministeri, in primis il diaconato, nella propria vita.

Quando viene meno questa incarnazione della fede, la fede si condanna all’irrilevanza culturale e pubblica, diventando un fatto soggettivo, intimistico, sentimentale, caritatevole, qualcosa di personale che non ha diritto di parola nell’agorà culturale. Pensiamo invece a quello che accadde ad Atene ad opera di Paolo (cf At 17): la fede entra nel dibattito pubblico filosofico.

C’è una irrilevanza che nasce dal sospetto del nostro tempo verso la fede: in un’epoca di pluralismo della verità, di crisi della ragione e di pensiero debole, lo spazio della fede si riduce; ma allo stesso tempo c’è un’irrilevanza a cui la Chiesa si condanna per la trascuratezza verso il derivato costituirsi della fede in cultura capace di confrontarsi.

Mostrando la credibilità della fede renderemo un servizio all’umano poiché, come da sempre ci ripetiamo, la fede educa l’umano e dalla fede discende uno sguardo verso il reale, una posizione rispetto al reale altrimenti impossibile.

Se la fede educa l’umano, laddove l’uomo rinuncia al paragone con la provocazione che proviene della fede c’è sempre un impoverimento. La fede non è cultura, o visione del mondo ma implica una visione delle cose con una pretesa veritativa e come tale si incontra con quello che dice la ragione, con la quale essa non deve essere confusa ma dalla quale non può essere separata: è il paragone usato da Benedetto XVI nel discorso che avrebbe tenuto all’Università “La Sapienza”.

Dare spessore culturale alla fede significa contribuire a renderla credibile, perché ciò che non ha ragioni sa tanto di ideologia e oscurantismo, significa diventare provocazione per il mondo da tutti i punti di vista, rovesciando l’immagine che di solito vede nel mondo una provocazione per la fede cristiana. Il nostro compito sarà all’altezza delle aspettative se non si risolverà in sterile esercizio di scuola ma diventerà educazione all’umano e alla fede coniugando sempre sapere e amore.

La vera sfida oggi è essere all’altezza di un mondo complesso e frammentato dove spesso l’uomo è disperso e senza orientamento, quell’uomo a cui la rivelazione si rivolge proprio come “stella di orientamento”. Perciò una realtà come l’EM ha il compito anzitutto di preparare persone che vivendo lo studio come passione prendano sul serio la propria missione e cerchino di fare e dare il meglio.

Per questo la nostra priorità deve essere la qualità dell’insegnamento e dello studio. Non è pensabile che in istituto non ci sia serietà nell’insegnare e fatica nell’apprendere. Non si può fare in alcun modo bene il proprio lavoro se anzitutto non ci si impegna per garantire serietà.

L’EM non ha bisogno di docenti o studenti che si parcheggiano qui in attesa di fare qualcosa di migliore o che usano i ritagli del proprio tempo per tenere qualche lezione improvvisata. Ci vuole passione nelle cose; in fondo lo studium, nel senso etimologico latino, non significa in definitiva proprio “passione”? Senza questa passione potremmo mai noi riuscire in quello in cui il mondo presente fallisce, potremmo noi essere capaci di realizzare una sintesi nella vita ed essere testimoni ed offrirla ad un mondo frammentato?

Dunque la prima preoccupazione e priorità è garantire e avere a cuore una qualità accademica elevata, sacrificando, se necessario, anche altre cose; non possono essere i numeri ad avere il primato, anche se sono perfettamente consapevole che senza numeri si è irrilevanti e spero sempre che le persone che lasciano l’istituto, interrompendo lo studio, lo facciano non per un difetto di serietà ma piuttosto per un eccesso di serietà che non fa mai male nella vita. La qualità accademica di un’istituzione si misura anzitutto nella vita ordinaria, nel rispetto degli orari, nel fare lezione con fedeltà e dando il massimo; non sono le iniziative sporadiche o i grandi eventi le cose per cui una istituzione debba essere ricordata. Certo la qualità dell’insegnamento dipende da chi insegna e dagli stimoli che i docenti ricevono anche dagli studenti che non sono meri fruitori di prestazioni ma devono diventare parte attiva.

Mi piacerebbe che l’istituto diventasse per ogni studente non un luogo dove si deve purtroppo andare perché la frequenza è obbligatoria, ma un luogo dove ci voglio stare perché ciò che esso mi offre umanamente, cristianamente e intellettualmente è qualcosa di serio e bello per la mia vita. Posso dire che tante persone vivono in istituto così, se penso a quanti fanno i salti mortali coniugando lavoro e famiglia per essere qui a seguire, studiare e dare il meglio, ed io sono edificato dalla loro testimonianza.

Allo stesso tempo sono contrari al senso dell’essere e dello stare in Istituto comportamenti volti solo ad ottenere riconoscimenti di crediti il più ampiamente possibili, tentativi per riuscire ad avere sconti nello studio o nei corsi da frequentare. Questo scambio mercimonioso non ci interessa e l’ho spiegato ad ogni studente, cercando di ascoltare le situazioni una per una, consapevole che dietro ogni piano di studi c’è una storia, un desiderio, una fatica, un bisogno, un entusiasmo. Sarei grato a tutti se al Preside venissero presentate perplessità non sulla vita dell’Istituto soltanto, ma anche su lui stesso, senza timore e nella verità.

Tornando alla questione della qualità, questa la fanno in particolare i docenti e la fanno anche con le pubblicazioni, arricchendo i propri curricula, vivendo il ministero della ricerca e dell’aggiornamento. Se un docente non pubblica, non partecipa a convegni significativi, non promuove iniziative nel suo ambito, può garantire un insegnamento serio? Importante poi credo che sia la presenza nell’Istituto di due aree di Ricerca e di un progetto di ricerca che durano da anni e che spero possano sempre più diventare luogo di coinvolgimento anche degli studenti non solo come terminali a cui offrire un prodotto finito ma anche come fruitori della ricerca e del lavoro dei docenti.

C’è un ultimo aspetto da sottolineare. Come sapete molto bene, il luogo della fede è la chiesa e quindi a maggior ragione la Chiesa è anche il luogo della teologia. Tuttavia la “Chiesa” non può essere un nome astratto ma per noi definisce il legame sorgivo e costitutivo dell’EM con la Diocesi di Roma, un legame particolare ed unico sancito anche dal fatto che solo nel caso dell’EM il Moderatore non è il Rettore dell’Università ma il Cardinale Vicario. Perciò credo sia fondamentale per l’Istituto curare sempre più l’aspetto della diocesanità (per quanto in fondo l’urbe è un orbe in miniatura). Devo dire che questo accade, grazie a Dio, nei termini di una collaborazione stretta con alcuni organismi diocesani come l’Ufficio Scuola o il Centro per il Diaconato permanente, la Pastorale Sanitaria e spero possa crescere una collaborazione stretta soprattutto con l’Ufficio catechistico. Segno di questo radicamento nella chiesa di Roma è anche la presenza in Istituto di un gruppo nutrito di docenti sacerdoti di Roma. Sono contento dell’intenzione del Cardinale Vicario, manifestatami diverse volte, di voler essere più presente nella vita dell’Istituto, di prendersi ancora più a cuore l’EM.

[...]

A conclusione vorrei ricordare a noi tutti che, nell’orizzonte della fede, siamo, in un certo senso, “liberi dall’esito”, ovvero l’opera che noi compiamo non è tanto o solo nostra ma è l’Opera di un Altro ed è a Lui che dobbiamo affidare noi e affidare l’opera, consapevoli del fatto che dalla sua grazia dipende la fecondità e il bene che possiamo contribuire a generare in questo luogo. Vorrei anche, però, che questo non diventasse un alibi, che non abbia ad accadere di trasformare le inadeguatezze molteplici e radicali del nostro umano in alibi per giustificare disimpegni e fallimenti. È vero, come ci ricorda il vangelo, che “siamo servi inutili” ma è altrettanto vero che tale espressione viene riferita ai servi non a prescindere ma dopo aver fatto quello che dovevano fare. Anche noi consideriamoci servi inutili dopo aver fatto quanto ci è stato chiesto di fare.

Buon anno a tutti