Da Platone a Tocqueville. Tredici lezioni sui classici del pensiero etico-politico, di Stefano De Luca

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 24 /12 /2010 - 00:05 am | Permalink | Homepage
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Presentiamo on-line sul nostro sito, per gentile concessione, le dispense preparate dal prof. Stefano De Luca, docente di Storia delle dottrine politiche presso l'Università suor Orsola Benincasa di Napoli e presso l'Università La Sapienza di Roma (Facoltà di Filosofia, Lettere, Scienze umane e studi orientali). come sussidio di riferimento per il corso istituzionale.

Il Centro culturale Gli scritti (23/12/2010)

Indice

Premessa

Nelle pagine che seguono il lettore troverà i testi delle lezioni da me tenute presso la Fondazione Nuovo Millennio, nel quadro di un corso di storia del pensiero politico. Tale corso, articolato in dodici lezioni, aveva lo scopo di fornire, ad un pubblico di non-specialisti, un profilo generale e sintetico del pensiero etico-politico occidentale, attraverso quelli che possono essere considerati i momenti salienti del suo sviluppo.

Inutile dire che un corso così concepito mi ha posto dinanzi a due compiti assai difficili: il primo è stato quello di costringere i grandi classici della filosofia politica nel numero di dodici, con l'inevitabile sacrificio di personaggi di primo piano (due esempi per tutti: Agostino e Montesquieu); il secondo è stato quello di riuscire, nel brevissimo tempo a disposizione per ogni singolo autore, a dire qualcosa di significativo, senza cadere negli specialismi e, al tempo stesso, senza scolorire nella genericità. Quanto al primo problema, non ho molto da dire: la scelta dei classici è sotto gli occhi del lettore; mi limito a sottolineare che la decisione di non andare oltre la seconda metà dell'Ottocento risponde al bisogno di fornire agli studenti quei capisaldi della nostra tradizione culturale che sempre più spesso vengono sacrificati sull'altare di un'attualità tanto effimera quanto superficiale. Quanto al secondo problema, ho cercato di risolverlo facendo due scelte ben precise: anzitutto, andare diritto, per ogni autore, ai grandi nuclei concettuali, sforzandomi di restituirne, in un linguaggio chiaro e asciutto, la struttura teorica nella sua essenzialità (senza appesantimenti, dunque, ma anche senza eccessive semplificazioni); in secondo luogo, pur nei limiti del tempo a disposizione, ascoltare gli autori dalla loro stessa voce, attraverso un'attenta selezione di testi. Inutile dire, infine, che questo lavoro, dovendo spaziare su un periodo così vasto, ha grandi debiti verso l'opera di alcuni importanti studiosi: in particolare, esso deve molto, per la parte antica e medievale, agli studi di Francesco Valentini, e per la parte moderna alle monografie di Norberto Bobbio e di Giuseppe Bedeschi.

Date queste spiegazioni, penso che sia pressoché superfluo sottolineare i limiti entro i quali si muove il presente lavoro: esso non contiene nulla di più che tredici[*]sintetici profili di grandi pensatore politici. Ogni capitolo è in realtà una lezione, con tutte le caratteristiche, i pregi e i difetti di qualcosa di pensato per la comunicazione orale e non per la scrittura. E sebbene abbia sottoposto questi testi ad un'attenta revisione, non ho comunque inteso trasformarli in qualcosa di diverso da ciò che erano originariamente. La mia unica speranza è che essi costituiscano, per chi li leggerà, l'occasione di ascoltare nuovamente la lezione dei grandi classici e di meditarla.

Roma, 7 gennaio 1998

Stefano De Luca

1. Platone

Cenni biografici

Platone nasce ad Atene nel 428/427 a.C. da famiglia di antica nobiltà. Intorno al 408 probabilmente conosce Socrate.

Nel 399, in seguito alla condanna a morte di Socrate ad opera del tribunale popolare di Atene, Platone si allontana dalla vita politica e si reca a Megara con un gruppo di altri socratici.

Nel 388/387 Platone viaggia in Magna Grecia, dove conosce i pitagorici, e soggiorna presso Dioniso I (tiranno di Siracusa), stringendo amicizia con il cognato Dione. Il suo ritorno in patria sarà assai avventuroso, perché Dioniso, irritato con lui, avrebbe dato ordine di sbarcarlo a Egira, allora in guerra con Atene.

Nel 386 e negli anni seguenti viene fondata l'Accademia. La scuola viene consacrata al culto delle Muse e di Apollo: ne fanno parte Speusippo, il nipote di Platone, Senocrate, Eudosso e, successivamente, Aristotele.

Nel 367 muore Dioniso di Siracusa e Platone accetta l'invito a recarsi in Sicilia presso il giovane successore Dioniso II; il tentativo di riforma in senso aristocratico, caldeggiato da Dione, fallisce e il ritorno di Platone ad Atene, ostacolato, avverrà solo nel 365.

Nel 361, dietro pressante sollecitazione, Platone accetta nuovamente di recarsi a Siracusa, dove tuttavia non riesce ad ottenere il richiamo di Dione dall'esilio e dove va incontro ad un nuovo fallimento politico. E' tenuto prigioniero da Dioniso II e solo con l'aiuto degli amici di Taranto riuscirà a sottrarsi al tiranno.

Muore nel 348/347, a 81 anni. Delle opere di Platone, secondo la tradizione, rimangono un'Apologia di Socrate, 34 dialoghi e 13 lettere.

Il pensiero politico

All'origine della filosofia platonica sta un problema eminentemente etico-politico: il "problema Socrate". Se non partiamo dalla condanna a morte di Socrate - avvenuta nel 399 a.C., quando Platone ha, all'incirca, 28 anni - non possiamo comprendere la riflessione di Platone, perché è proprio da quel drammatico evento che quest'ultima prende le mosse. Alcuni critici arrivano a sostenere che l'intera filosofia platonica consista, in ultima analisi, nel tentativo di chiarire a sé e agli altri il "problema Socrate". Anzi, forse potremmo dire lo "scandalo Socrate". Cosa era accaduto, infatti? Era accaduto che l'uomo «più giusto del suo tempo», come lo definisce lo stesso Platone, colui che aveva dedicato la sua vita alla ricerca filosofica - praticando come nessun altro la virtù, il sapere e la giustizia -, era stato accusato del contrario, ossia di essere un uomo empio e corruttore, pericoloso per i suoi concittadini e il suo Stato; e per tale ragione era stato condannato a morte.

La verità "scandalosa" contenuta della vicenda di Socrate è l'evidente incompatibilità tra filosofia e politica. E poiché filosofia significa sapere - e il sapere, nella concezione platonica, coincide con la virtù e con la giustizia - allora è evidente che la politica si è separata tanto dalla virtù, quanto dalla giustizia. Lo Stato che condanna un uomo come Socrate è insomma uno Stato ingiusto. Non a caso, dunque, il problema centrale della riflessione platonica sarà quello di fondare uno Stato giusto; e tale obiettivo fa dell'intera filosofia platonica, come ricordavo poco fa, un tentativo di risolvere il "problema Socrate".

La condanna di Socrate si inserisce in un contesto già fortemente negativo. La seconda metà del V sec. a.C. era stata caratterizzata dalle guerre peloponnesiache, l'ultima delle quali, conclusasi nel 404, aveva sancito la disfatta di Atene e la sua sottomissione a Sparta. Nello stesso anno il regime democratico veniva sostituito, ad Atene, da un regime oligarchico, che divenne poi noto con il nome di regime dei Trenta tiranni; quest'ultimo, a sua volta, durò ben poco, giacché appena un anno più tardi Trasibulo restaurò la democrazia. Fu tuttavia proprio il regime democratico a mettere a morte Socrate. Come si può comprendere, sia pure da questi rapidissimi cenni, quelli della giovinezza di Platone sono anni di drammatico disordine politico, che segnano la fine dello splendore e dell'egemonia ateniese, nonché il progressivo disfacimento dell'unità stessa della polis. Platone è profondamente segnato, anche sul piano personale, da questi eventi. Ascoltiamo come egli stesso descrive la sua vicenda.

Quando ero giovane, io ebbi un'esperienza simile a quella di molti altri: pensavo di dedicarmi alla vita politica, non appena fossi divenuto padrone di me stesso. Ora mi avvenne che questo capitasse allora alla città: il governo, attaccato da molti, passò in altre mani, e cinquantuno cittadini divennero i reggitori dello Stato [...]; sopra costoro, trenta magistrati con pieni poteri. Tra costoro erano alcuni miei familiari e conoscenti, che subito mi invitarono a prendere parte alla vita pubblica, come ad attività degna di me. Io credevo veramente (e non c'è niente di strano, giovane come ero) che avrebbero purificata la città dall'ingiustizia traendola ad un viver giusto, e perciò stavo ad osservare attentamente che cosa avrebbero fatto. Mi accorsi subito che in poco tempo fecero apparire oro il governo precedente: tra l'altro, un giorno mandarono, insieme con alcuni altri, Socrate, un mio amico più vecchio di me, un uomo che io non esito a definire il più giusto del suo tempo, ad arrestare un cittadino per farlo morire, cercando in questo modo di farlo loro complice, volesse o no; ma egli non obbedì, preferendo correre qualunque rischio che farsi complice di empi misfatti. Io allora, vedendo tutto questo, e ancora altri simili gravi misfatti, fui preso da sdegno e mi ritrassi dai mali di quel tempo. Poco tempo dopo cadde il governo dei Trenta e fu abbattuto quel regime. E di nuovo mi prese, sia pure meno intenso, il desiderio di dedicarmi alla vita politica. [...] Bisogna riconoscere che gli uomini allora ritornati furono pieni di moderazione. Se non che accadde poi che alcuni potenti intentarono un processo a quel mio amico, a Socrate, accusandolo di un delitto nefandissimo, il più alieno dall'animo suo: lo accusarono di empietà, e fu condannato, e lo uccisero, lui che non aveva voluto partecipare all'empio arresto di un amico degli esuli d'allora, quando essi pativano fuori della patria. Vedendo questo, e osservando gli uomini che allora si dedicavano alla vita politica, e le leggi e i costumi, quanto più li esaminavo ed avanzavo nell'età, tanto più mi sembrava che fosse difficile partecipare all'amministrazione dello Stato, restando onesto. Non era possibile far nulla senza amici e compagni fidati, e d'altra parte era difficile trovarne tra i cittadini di quel tempo, perché i costumi e gli usi dei nostri padri erano scomparsi dalla città, e impossibile era trovarne di nuovi con facilità. Le leggi e i costumi si corrompevano e si dissolvevano straordinariamente, sicché io, che una volta desideravo moltissimo di partecipare alla vita pubblica, osservando queste cose e vedendo che tutto era completamente sconvolto, finii per sbigottirmene. Continuavo, sì, ad osservare se ci potesse essere un miglioramento, e soprattutto se potesse migliorare il governo dello Stato, ma per agire, aspettavo sempre il momento opportuno, finché alla fine m'accorsi che tutte le città erano mal governate, perché le loro leggi non potevano essere sanate senza una meravigliosa preparazione congiunta con una buona fortuna, e fui costretto a dire che solo la retta filosofia rende possibile vedere la giustizia negli affari pubblici e in quelli privati [...]. Vidi dunque che mai sarebbero cessate le sciagure delle generazioni umane, se prima al potere politico non fossero pervnuti uomini veramente e schiettamente filosofi, o i capi politici delle città non fossero divenuti, per qualche sorte divina, veri filosofi.

Penso che la straordinaria ricchezza di questo brano giustifichi la lunghezza della citazione. In esso possiamo infatti rintracciare tutti gli elementi che concorrono a determinare la posizione di Platone: la passione di fondo per la politica, la delusione derivante dell'esperienza oligarchica, la rinnovata fiducia (anche se meno intensa) determinata dal ristabilimento della democrazia, infine il dramma del processo a Socrate, con il definitivo allontanamento dalla vita pubblica. Platone si dichiara «sbigottito»: la crisi politica gli si rivela, in realtà, come una crisi civile ed etica. Leggi, costumi e vita politica sono travolte da una corruzione straordinaria, e tale crisi si estende al di là della stessa Atene, per investire l'intera civiltà greca delle poleis, ossia delle città-Stato. Di qui nasce la convinzione che solo una profonda riflessione filosofica possa risolvere la crisi politica: solo la filosofia, secondo Platone, è infatti in grado di sollevarsi al di là delle mutevoli opinioni, per individuare con certezza ciò che è giusto. Filosofia e politica devono perciò essere strettamente congiunte, al punto che la fine delle sciagure, come dice Platone, è collegata all'arrivo al potere della filosofia. La filosofia deve farsi potere: o i filosofi diventano capi politici, o questi ultimi diventano buoni filosofi. Solo così il problema politico potrà essere risolto.

In queste posizioni affiorano due punti fondamentali. In primo luogo, la politica appare come il motivo ispiratore della riflessione platonica; non a caso, alcuni studiosi hanno sostenuto che quest'ultima sarebbe «il risultato di una vocazione politica mancata: l'idealista sublime, l'utopista, il mistico avrebbe sempre tenuto gli occhi sulla città terrena, ansioso di renderla conforme a ragione e a virtù»[2]. In questa aspirazione alla conformità tra ragione e virtù possiamo rintracciare, in secondo luogo, la "catena di identità" che sta al fondo del pensiero platonico: virtù, sapere e politica sono indisgiungibili. La virtù concide infatti con il sapere e, al tempo stesso, con il vivere giusto, con la vita politica; dunque la politica è anche sapere. Il problema conoscitivo o scientifico (il sapere) è congiunto con il problema etico (la virtù) e con quello politico (l'ordine politico giusto). Non a caso, nella Repubblica troveremo tali dimensioni strettamente intrecciate tra di loro; ma prima di esaminare l'opera politica della maturità - e forse la più organica - ci soffermeremo, molto brevemente, sul Gorgia; concluderemo infine con il Politico e con le Leggi, che costituiscono le opere della vecchiaia.

Nel Gorgia troviamo una serie di temi importanti. In primo luogo, la condanna dell'azione politica degli Ateniesi si estende anche a rappresentanti di primo piano come Temistocle, Cimone, Milziade e lo stesso Pericle. Vi sono qui chiari accenti anti-democratici: l'espansione di Atene, negli anni della democrazia periclea, costituisce, agli occhi di Platone, la causa dei mali attuali. Per illustrare la sua posizione, Platone ricorre ad un parallelo con la medicina[3]: gli ateniesi di oggi, egli dice, sono come coloro i quali si sono ammalati per eccesso di stravizie alimentari e, invece di prendersela con i cuochi, se la prendono con i medici che cercano di rimediare alla loro indigestione. Fuor di metafora: se Atene oggi è malata, ciò dipende dalla dissennata politica democratica che l'ha «riempita senza temperanza e senza giustizia di porti, cantieri, mura, tributi e simili inezie». Gli eccessi democratici (eccessi di sviluppo economico) hanno fatto sì che il corpo sano della città si ammalasse: si tratta di un concetto fondamentale, sul quale tornerò in seguito, giacché in esso si manifesta la concezione negativa della ricchezza (e, in un certo senso, dello sviluppo economico) che caratterizza il pensiero di Platone. Ma Platone svolge un'ulteriore considerazione, sulla quale vale la pena di soffermarsi.

Quando la città tratta uomini politici come colpevoli, sento che questi si sdegnano e si lamentano di patire un gran torto; dopo aver fatto grandi benefici alla città, essi vengono condannati ingiustamente, come dicono loro; ma è tutta menzogna. Nessuno che governi una città può perire ingiustamente per opera di essa. E' presso a poco lo stesso caso di quelli che pretendono di essere uomini politici e maestri di retorica. Anche questi, persone dotte del resto, commettono tali assurdità: affermano di essere maestri di virtù e spesso accusano i loro discepoli di fare ingiuria proprio a loro, privandoli dello stipendio e negando loro il ricambio di qualche favore, pur essendo stati beneficati da essi. Che cosa di più irragionevole di un simile discorso? Ossia di uomini che, divenuti buoni e giusti, mondati dell'ingiustizia per opera del loro maestro e in possesso della giustizia, facciano ingiuria con ciò che non hanno!

Gli uomini politici, come i rètori - dice in sostanza Platone - ricevono ciò che hanno seminato. Non è forse contraddittorio sostenere di avere insegnato la virtù e di ricevere, in cambio di ciò, comportamenti non virtuosi? Attraverso queste considerazioni emerge la dura polemica di Platone contro sofisti; non possiamo soffermarci a lungo su questo tema, ma qualcosa dovremo dire.

La sofistica si sviluppa tra il culmine della civiltà ateniese e i primi sintomi della sua decadenza: mentre un tempo 'sofista' era semplicemente 'colui che sa' ed è in grado di comunicare il suo sapere - insomma sofista era il sapiente in senso generale, e quindi anche il poeta, il letterato -, ora sofista sta ad indicare un insegnante (in genere di retorica), che trasmette a pagamento le proprie conoscenze ed abilità. I sofisti offrono, nella seconda metà del V secolo, una formazione che risponde alle esigenze individualistiche di una società in pieno sviluppo economico-culturale: tale formazione si incentra sull'uomo e sulle sue capacità effettive, mettendo da parte, come irrisolvibili, tanto il problema religioso (Protagora scrive: «riguardo agli Dèi, non ho la possibilità di accertare né che sono, né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l'oscurità dell'argomento e la brevità della vita umana»), quanto quello conoscitivo e ontologico. Vale a dire: come non vi è alcuna possibilità di accertare o meno l'esistenza degli Dèi, così non vi è alcuna possibilità di rinvenire un criterio di verità assolutamente valido, né vi è la possibilità di cogliere le strutture reali dell'essere, della realtà. Almeno con Gorgia arriviamo a questa posizione. Di qui il ruolo cruciale della retorica - anche per la natura politica delle città ateniesi, che implicava il confronto pubblico attraverso discorsi - come arte del discorso e della persuasione, nonché la tendenza a proporre un sapere strumentale, che si proponeva esclusivamente di fornire all'individuo i mezzi per affermarsi. La Sofistica, pur nelle sue diverse sfumature, aveva finito per proporre un'immagine "spregiudicata" del filosofo, come di colui che insegna, a pagamento, l'arte di sostenere e negare le stesse tesi, a seconda delle convenienze, senza alcuna preoccupazione morale o religiosa. E' Socrate il primo a distanziarsi dalla Sofistica: mentre per i sofisti il sapere (che non ha alcuna oggettività) serve ai fini dell'affermazione personale, per Socrate esso serve a far emergere la consapevolezza di sé, la scoperta non solo del valore intellettuale, ma anche di quello etico e spirituale. In ciò consiste la virtù: soltanto conoscendo noi stessi in profondità possiamo sapere ciò che è bene e ciò che è male. Tuttavia Socrate si paragona ad una levatrice: egli non può insegnare la verità, ma solo aiutare a partorirla.

Quella contro i sofisti è, in Platone, una polemica costante. A loro va imputato, egli dice, il disprezzo di cui la filosofia è circondata: essi l'hanno trasformata in un sapere illusorio, dove si afferma tutto e il contrario di tutto, privo di ogni ancoramento morale e di ogni verità. In tal modo essi hanno anche creato l'impressione cha la filosofia sia inutile. Ma i sofisti, secondo Platone, non sono filosofi (ossia amanti della sapienza e della verità), bensì filodossi, ossia amanti dell'opinione: essi pensano di sapere, ma in realtà non sanno niente. Viceversa, il vero filosofo attinge la verità, che si trova nella sfera intellegibile delle idee e non nel mondo mutevole e ingannevole della realtà sensibile. Con la dottrina della reminiscenza e la teoria delle idee Platone supera il sapere socratico, che coincideva con la ricerca, senza poter addivenire ad affermazioni certe; Platone ha reso il sapere un oggetto definito e conoscibile, per cui la filosofia si configura come una scienza e non una mera opinione.

Il vero filosofo, possedendo la scienza delle idee (al cui interno l'idea di bene svolge il ruolo di "sole") sarà anche il vero politico, perché sarà l'unico che potrà rendere migliori i cittadini. Platone ha infatti una concezione "educativa" della politica: il fine della politica consiste nel rendere migliori i cittadini. Al contrario Callicle - il suo interlocutore sofista all'interno del Gorgia - ha una visione utilitaristica della politica: quest'ultima ha infatti il fine di soddisfare gli interessi dei cittadini. Ma se i fini della politica sono educativi, il vero politico sarà allora il sapiente, o meglio, il filosofo. Socrate è il vero politico. Alle soglie della Repubblica, è chiaro che la riforma dello Stato deve avvenire, in primo luogo, costruendo lo Stato ideale, vale a dire prescindendo, almeno per ora, dalla sua concreta realizzazione.

Che lo Stato tracciato nella Repubblica sia uno Stato ideale è esplicitamente affermato (e argomentato) dallo stesso Platone. Nel dialogo, come sempre, Platone affida a Socrate l'esposizione delle sue idee.

E allora, feci io [Socrate], prima di tutto dobbiamo ricordarci che siamo giunti qui dove siamo, cercando che cosa sono la giustizia e l'ingiustizia. - Sì, dobbiamo ricordarcene; ma che cosa significa?, chiese. - Niente: ma se scopriremo che cosa è la giustizia, pretenderemo anche che l'uomo giusto non debba differirne in nulla, ma essere sotto ogni riguardo tale quale è la giustizia? O ci contenteremo che le si accosti più che può e che ne partecipi molto più degli altri? - Così, disse; ci contenteremo. - Era dunque per cercare un modello, continuai, che cercavano cosa fossero la giustizia e l'uomo perfettamente giusto.

Per illustrare ulteriormente la sua posizione, Platone fa anche l'esempio del pittore che dipinga il modello dell'uomo bellissimo; se dopo averlo dipinto, si potesse dimostrare che un tale uomo non esiste, si dimostrebbe forse con ciò che il pittore è meno bravo? Certamente no. Dunque Platone parla consapevolmente di uno Stato "ideale"; ma ciò non diminuisce affatto il suo valore. Anzi: ciò che costituisce la sua idealità è la sua verità, perché ne fa il modello cui approssimarsi. Tale modello risponderà infatti alla domanda fondamentale di Platone - creare lo Stato giusto - rintracciando in cosa consista la giustizia sia nello Stato, sia nell'individuo.

Ma vediamo quali sono le caratteristiche dello Stato platonico. Anzitutto come nasce:

Secondo me, ripresi, uno Stato nasce perché ciascuno di noi non basta a se stesso, ma ha molti bisogni [...]. Così per un certo bisogno ci si vale dell'aiuto di uno, per un altro di quello di un altro: il gran numero di questi bisogni fa riunire in un'unica sede molte persone che si associano per darsi aiuto, e a questa coabitazione abbiamo dato il nome di Stato.

Come si può vedere, l'origine dello Stato è descritta in termini naturalistici e utilitaristici: lo Stato sorge dall'insufficienza delle forze individuali rispetto ai bisogni. Ognuno di noi ha bisogno degli altri: e ciò lo conduce ad associarsi con i suoi simili e a fondare lo Stato. Quest'ultimo viene dunque fondato in nome del bisogno, dell'utilità e della non-autonomia del singolo.

Platone passa quindi a vedere come si sviluppa lo Stato. Il concetto-chiave è sempre quello di bisogno. In primo luogo, gli uomini hanno bisogno di nutrirsi, quindi di avere un abitazione e dei vestiti. Di qui la prima configurazione dello Stato platonico, composto da 3 o 4 individui: un agricoltore, un muratore, un tessitore e, al limite, un calzolaio. Sorge il problema del tipo di organizzazione che si darà al lavoro: ogni individuo dovrà provvedere personalmente a tutti i propri bisogni, oppure sarà bene che ognuno di essi si "specializzi" in un mestiere, provvedendo, per quel ramo, anche ai bisogni degli altri individui? Platone si schiera risolutamente per la seconda ipotesi, affermando quindi con forza il principio della divisione del lavoro o della specializzazione. Tale scelta si basa su due considerazioni: in primo luogo, esiste una naturale diversità di talenti negli uomini, la quale fa sì che ogni individuo abbia maggiori attitudini per un tipo di lavoro, piuttosto che per un altro; in secondo luogo, la specializzazione consente di migliorarsi, cosa che invece non può accadere quando si devono svolgere funzioni diverse tra loro.

Ma proprio in virtù della divisione/specializzazione del lavoro, lo Stato platonico dovrà allargarsi: ogni lavoratore, infatti, avrà bisogno di determinati strumenti, che dovranno essere realizzati da individui appositamente specializzati. Di qui la seconda configurazione dello Stato: oltre ai quattro individui iniziali, vi sarà bisogno di falegnami, fabbri e molti altri operai; vi sarà anche bisogno di pastori. Lo Stato si fa dunque grande. Ed essendo grande è molto difficile che i suoi bisogni possano essere soddisfatti integralmente dal mercato interno. Sorge la necessità di importare merci dall'esterno e dunque anche la necessità di esportare una quota delle proprie. Di qui la necessità di produrre un surplus di beni, il che implica la necessità di aumentare il numero dei contadini e degli operai; il tutto abbisogna poi di commercianti, che svolgano le attività di esportazione e importazione. Dal commercio marittimo, poi, nasce un intero settore, con numerosi addetti. E così via: lo Stato diventa sempre più grande.

Quello che ci interessa è che Platone, dove aver dimostrato che lo Stato assume via via una configurazione molto estesa, conclude illustrando il suo regime di vita, il quale appare caratterizzato da un'estrema semplicità.

Vediamo in che modo vivranno uomini così organizzati. Non forse producendo alimenti, vino, abiti e calzature? E si costruiranno abitazioni e nella stagione calda lavoreranno per più seminudi e scalzi, nella fredda ben vestiti e calzati. Si nutriranno di farine ricavate dall'orzo e dal frumento ora cuocendole ora impastandole, e serviranno belle focacce e pani su canne o foglie pulite. Sdraiati su giacigli cosparsi di smilace e di mirto, banchetteranno bene in compagnia dei loro figlioli e ci berranno sopra vino, inghirlandati e cantando inni agli dèi, lieti di stare insieme. E non metteranno al mondo più figli di quanto consentano i mezzi di vita, per timore della povertà o della guerra. [...] Così passeranno la vita, come è naturale, in pace e buona salute, moriranno in tarda età e trasmetteranno ai discendenti un sistema di vita simile a questo.

Di fronte a questo quadro di semplicità agreste, dal sapore arcaicizzante, interviene Glaucone, il quale, potremmo dire, fa avanti le esigenze del benessere:

Se, o Socrate, avessi costituito uno Stato di porci, con quali altri cibi li avresti pasciuti, se non con questi? - E allora, Glaucone, come si deve fare?, chiesi. - Adeguarsi all'uso comune, rispose. Per non sentirsi a disagio, dovranno stare sdraiati su letti, credo, e prendere i loro pasti a tavola, con quelle pietanze e quei pasticcini in uso anche oggidì.

La replica di Socrate a Glaucone è assai interessante, perché contiene quella polemica contro la ricchezza e l'eccessivo sviluppo economico alla quale ho già accennato[4]:

Bene, risposi, comprendo. A quanto sembra, non vogliamo soltanto sapere come nasce uno Stato, ma uno Stato gonfio di lusso. Forse però non è male, perché così vedremo probabilmente come nascono negli Stati giustizia e ingiustizia. Lo Stato vero è, a mio giudizio, quello di cui abbiamo parlato ora, uno Stato sano. Ma se voi volete che consideriamo anche uno Stato rigonfio, nulla ce lo impedisce.

Platone prosegue enumerando i molti bisogni di uno Stato 'rigonfio' e le numerosissime categorie di uomini necessarie per soddisfarli; di qui un aumento esponenziale della popolazione, che rende insufficiente il territorio dello Stato per rispondere ai bisogni di quest'ultima. In breve: il bisogno di molte altre professioni condurrà alla impossibilità, per il prodotto interno agricolo, di essere sufficiente. Di qui la necessità di stabilire delle colonie e quindi di fare la guerra. Da questa, in base al principio della specializzazione, la necessità di un esercito professionale. In conclusione: lo Stato sano risponde ai bisogni essenziali dei propri cittadini, senza moltiplicarli e sofisticarli eccessivamente; quando ciò avviene, lo Stato si 'gonfia', si ammala, ed è destinato a corrompersi.

Le riflessioni sull'esercito professionale ci permettono di passare alla discussione sulle diverse 'classi' dello Stato: esse saranno tre (governanti, guerrieri o custodi, produttori), come in tre parti è divisa l'anima (l'anima razionale, la cui virtù è la sapienza, l'anima irascibile, la cui virtù è il coraggio, e l'anima concupiscibile, che è il principio di tutti gli impulsi corporei). Platone si sofferma soprattutto sulle classi dirigenti (governanti e custodi), perché da esse - nel suo modo di vedere - dipende principalmente la possibilità di uno Stato giusto.

Vediamo anzitutto cosa dice sui guerrieri o custodi. In primo luogo, i custodi devono essere scelti tra coloro nei quali prevale l'anima irascibile; essi devono inoltre essere dotati fisicamente ed amanti della sapienza:

[...] il nostro futuro ed eccellente guardiano dello Stato sarà per natura filosofo, animoso, veloce e vigoroso.

Tutto ciò perché i guardiani dovranno essere coraggiosi e duri con i nemici esterni, ma miti con i propri concittadini. L'educazione che riceveranno li dovrà mettere alla prova, per vedere se hanno memoria, se sono leali, se resistono alle tentazioni dei piaceri. Conclude Platone:

e a chi superi le successive prove, nell'infanzia, nell'adolescenza e nella maturità, e risulti integro, si devono affidare il governo e la guardia dello Stato e conferire onori da vivo e da morto.

Il fine essenziale è che i custodi interiorizzino la norma secondo cui devono sempre agire per il bene supremo dello Stato. Qui Platone inserisce la famosa "menzogna della fratellanza". Quello di dire menzogne è un atto che, ancora una volta, avvicina la medicina alla scienza politica. Se la verità va tenuta in gran conto, è d'altra parte vero, dice Platone, che il falso rappresenta talvolta per gli uomini un farmaco; e come tutti i farmaci, il loro uso deve essere riservato ai medici e a nessun altro. Con una sola eccezione: se c'è qualcuno che ha il diritto di dire il falso, questi sono i governanti, per ingannare i nemici o i concittadini nel superiore interesse dello Stato.

Premesso questo principio, Platone passa ad illustrare la "nobile menzogna" che è necessario raccontare ai custodi e ai reggitori. Platone è consapevole del fatto che tale menzogna urterà il senso comune e quindi premette che sarà necessario essere degli abili persuasori, perché gli interessati possano prestarle fede. Ma l'interlocutore lo invita a mettere da parte gli scrupoli e ad illustrare finalmente la sua idea.

Ebbene, parlo: pure non so con quale coraggio o quali parole mi esprimerò. Cercherò di persuadere prima gli stessi governanti e i soldati, poi anche il resto dei cittadini, che tutta quell'educazione fisica e spirituale che noi davamo loro, essi credevano di sentirla e di riceverla, ma non erano che dei sogni; e veramente allora essi si trovavano entro la terra, già plasmati ed allevati, essi stessi, le loro armi e, bello e fabbricato, tutto il resto del loro equipaggiamento. E quando in ogni dettaglio fu ultimata la loro preparazione, la terra loro madre li mise alla luce: ora essi sono tenuti a provvedere e a difendere la terra che abitano come fosse la loro madre e nutrice, se qualcuno l'assale, e a considerare gli altri cittadini come fratelli e "nati dalla terra". - Non era senza ragione, disse, che da un pezzo esitavi a dire questa menzogna. - Molto naturale! risposi; ciononostante ascolta anche il resto del mito. Continuando il racconto, diremo loro così: voi, quanti siete cittadini dello Stato, siete tutti fratelli, ma la divinità, mentre vi plasmava, a quelli tra voi che hanno attitudine al governo mescolò, nella loro generazione, dell'oro, e perciò altissimo è il loro pregio; agli ausiliari, argento; ferro e bronzo agli agricoltori e agli altri artigiani. Per questa generale comunanza di origine dovreste generare figli per lo più simili a voi; ma v'è caso che da oro nasca prole d'argento e da argento prole d'oro, e così reciprocamente nelle altre nascite. Perciò la divinità ordina prima e particolarmente ai governanti di non essere di nessuno tanto buoni guardiani e di non custodire nulla con tanto impegno quanto i figli, osservando attentamente quale tra questi metalli si trova mescolato nelle anime loro; e se uno stesso loro figlio ha in sé alla nascita bronzo o ferro, di non averne alcuna pietà, ma di usare alla natura il riguardo dovutole e di respingerlo tra gli artigiani o tra gli agricoltori; e reciprocamente, se da costoro nascono figli che abbiano in sé oro e argento, di rendere loro gli onori dovuti e d'innalzare quelli ai compiti di guardia, questi ai compiti di difesa [...].

La "nobile menzogna" riflette due esigenze tipicamente platoniche. La prima è l'unità dello Stato, che è anche il suo bene supremo, così come il male supremo sta nella divisione, nelle discordie interne; da questo punto di vista, la comune origine determina la fratellanza dei cittadini e quindi stabilisce una sorta di vincolo familiare fra tutti costoro; in un certo senso, fa dello Stato un'unica famiglia. Ciò dovrebbe determinare grande attaccamento allo Stato e grande collaborazione reciproca. L'altra esigenza è che lo Stato sia aristocratico, ossia che in esso prevalgano i migliori: il fatto che ogni individuo riceva la propria natura prima di nascere - e con essa il proprio compito - fa sì che la distinzione gerarchica dei ruoli sia assicurata, scoraggiando altresì emulazioni e conflitti che sarebbero causa di discordie. I ruoli sono pre-destribuiti: ognuno nasce per andarsi a collocare in un ruolo ben preciso, che la natura gli ha assegnato; il tutto all'interno di un ordine ferreo.

Ma l'educazione, prosegue Platone, non basta per avere dei buoni custodi; affinché ciò avvenga, è necessario che essi vengano messi in un regime di vita ben preciso.

Prima di tutto nessuno deve avere sostanze personali, a meno che non ce ne sia necessità assoluta; nessuno deve poi disporre di un'abitazione o di una dispensa cui non possa accedere chiunque lo voglia. Riguardo alla quantità di provviste occorrenti ad atleti di guerra temperanti e coraggiosi, devono ricevere dagli altri cittadini, dopo averla determinata, una mercede per il servizio di guardia, in misura né maggiore né minore del loro annuo fabbisogno. Devono vivere in comune, frequentando mense collettive come se si trovassero al campo. Per quello che concerne l'oro e l'argento, occorre dire loro che nell'anima hanno sempre oro e argento divino, per dono degli dèi, e che non hanno alcun bisogno di oro e argento umano [...]. Anzi a essi soli tra i cittadini del nostro Stato non è concesso di maneggiare e toccare oro e argento, e di entrare sotto quel medesimo tetto che ne ricopra; né di portarli attorno sulla propria persona né di bere da coppe d'argento e d'oro. E così potranno salvarsi e salvare lo Stato.

Di fronte al regime "comunistico" proposto per i custodi - un regime che esclude qualsiasi forma di possesso personale - Adimanto rivolge a Socrate un'obiezione: ma saranno felici, in tal modo, i custodi? Essi, in fondo, pur possedendo lo Stato, non ne derivano quei vantaggi che tutti gli altri invece ne ritraggono. La risposta di Socrate è fondamentale, perché rende esplicito come nello Stato platonico vi sia un primato assoluto dello Stato sull'individuo. Anzi, forse potremmo dire che per l'individuo non vi è spazio alcuno, se non nello Stato e per lo Stato.

Diremo - risponde Socrate - che non ci sarebbe affatto da meravigliarsi che anche così costoro [i custodi] fossero molto felici. Pure, noi non fondiamo il nostro Stato perché una sola classe tra quelle da noi create goda di una speciale felicità, ma perché l'intero Stato goda della massima felicità possibile. [...] Ora, noi crediamo di plasmare lo Stato felice non rendendo felici alcuni pochi individui presi separatamente, ma l'insieme dello Stato. [...] Così, per esempio, supponiamo che, mentre siamo intenti a dipingere una statua, si presenti uno a criticarci e affermi che alle parti migliori della figura non applichiamo i colori più belli, adducendo il motivo che gli occhi, che costituiscono la parte migliore, non sono colorati in vermiglio, ma in nero; ci sembrerebbe di rispondergli bene con queste parole: "Ammirevole amico, non credere che noi dobbiamo dipingere gli occhi tanto belli che non sembrino neppure più occhi; e così per le altre parti. Devi osservare invece se, colorando ciascuna parte con la tinta conveniente, rendiamo bello l'insieme. Così anche ora non costringerci ad assegnare ai guardiani una felicità tale da renderli qualunque altra cosa che guardiani. Sappiamo anche noi rivestire gli agricoltori di abiti fini, tuffarli nell'oro, invitarli a lavorare la terra per diletto; sappiamo anche noi far coricare al posto d'onore, accanto al fuoco, i vasai per bene e mangiare, mettendo loro vicino la ruota da vasi, ma con la facoltà di lavorare secondo la voglia che ne abbiano; e in simile modo rendere beati tutti gli altri per fare felice lo Stato intero. Però non ci devi dare di questi consigli: se ti obbediamo, l'agricoltore non sarà più agricoltore, né il vasaio vasaio; e non ci sarà più nessuno che mantenga il suo posto, condizione questa dell'esistenza dello Stato. [...] Si deve dunque esaminare se dobbiamo istituire i guardiani per far loro godere la massima felicità possibile; o se, guardando allo Stato nel suo complesso, si deve farla godere a questo; e costringere e convincere questi ausiliari e guardiani e così pure tutti gli altri a eseguire meglio che possono l'opera loro propria.

Lo Stato platonico è dunque un'unità in cui l'insieme è superiore alla somma della parti (che, nel suo caso, sono gli individui); è un insieme organico, nel quale le parti non sono relativamente autonome (come in una somma), ma hanno senso e prendono significato soltanto nella loro reciproca interrelazione, come funzioni di un unico corpo. Del resto, è lo stesso Platone a usare la metafora dell'organismo, all'interno della riflessione su quale sia il bene supremo dello Stato:

Possiamo dunque citare per lo Stato un male maggiore di quello che lo divide e lo fa di uno molteplice? O un bene maggiore di quello che lega lo Stato e lo fa uno? - Non possiamo. - Ora, non è elemento di coesione la comunanza di piacere e dolore, quando tutti cittadini si rallegrano e si addolorano, per quanto è possibile, in eguale maniera per i medesimi successi e per le medesime disgrazie? - Senz'altro, rispose. - E non sono un fattore dissolvente i piaceri e i dolori quando, pur essendo identici i casi che toccano sia allo Stato sia ai privati cittadini, gli uni provano massimo dispiacere, gli altri massima gioia? - Indubbiamente. - Ora, ciò non succede forse quando i cittadini non usano concordemente le espressioni, 'il mio' e 'il non mio'? e analogamente per 'l'altrui'? - Esatto. - Ebbene, quello Stato in cui la maggioranza usa con l'identico scopo e alla stessa maniera l'espressione 'il mio' e 'il non mio', non è uno Stato ottimamente amministrato? - Sì, certo. - E non è quello che più s'avvicina a un individuo? Per esempio, quando, supponiamo, veniamo colpiti a un dito, se ne accorge tutta la comunione del corpo con l'anima, ordinata in unico sistema sotto l'elemento che in essa governa; e sente tutta quanta insieme il dolore della parte offesa ed è così che diciamo che l'uomo ha male al dito. E non vale lo stesso discorso per qualunque altro organo umano, quando si parla di dolore se una parte soffre, di piacere se si risana? - Sì, rispose, vale lo stesso discorso; e, per rispondere alla tua domanda, assai prossimo a un simile individuo è lo Stato con ottima costituzione.

Tale posizione conduce Platone a sostenere, per le classi superiori, non solo la comunanza dei beni, ma anche quella delle donne e dei figli; insieme alla proprietà privata dei beni scompare così la famiglia. Investito della suprema missione di realizzare la giustizia, lo Stato platonico si insinua infatti in ogni aspetto della vita. Il numero dei matrimoni, nonché quello dei figli, viene stabilito dallo Stato; la procreazione è rigidamente controllata, secondo criteri quantitativi, eugenetici e cronologici; infine i figli vengono subito allontanati dalla famiglia ed educati in comune dallo Stato, in modo tale che nessun genitore possa riconoscere un singolo individuo come proprio figlio, ma riconosca come tali tutti gli individui aventi una certa età.

Infine, Platone affronta la questione cruciale: la condizione che rende giusto un simile Stato. Siamo di nuovo al tema dei filosofi-reggitori. L'educazione del filosofo non potrà limitarsi alla ginnastica per il corpo e alla musica (opportunamente depurata) per l'anima, come avveniva per i custodi; essa comprenderà un piano di studi, che consiste nel graduale elevarsi dal sensibile all'intellegibile mediante la matematica, l'astronomia, la musica e la dialettica. Il filosofo che avrà ricevuto tale educazione avrà il dovere di ridiscendere tra gli uomini, per assumerne il governo.

L'ultimo argomento della Repubblica sul quale vale la pena di soffermarsi è la teoria delle forme di governo. Alla fine del IV libro Platone determina in cosa consista lo Stato perfetto o giusto: è lo Stato nel quale le tre classi, come le tre virtù fondamentali, hanno la loro adeguata espansione, adempiendo il compito assegnato loro dalla natura. La giustizia consiste in questa virtù regolatrice, la cui assenza o la cui presenza insufficiente determina la degenerazione dello Stato, cioè la disarmonia dei fattori che lo compongono. Ciascuna forma degenere dello Stato è collegata all'altra, nel senso che la produce, secondo un processo di progressiva degradazione o allontamento dalla perfezione.

Dall'aristocrazia, che è lo Stato perfetto, si passa alla timocrazia, quindi all'oligarchia, alla democrazia e infine alla tirannia. La causa originaria della degenerazione è di tipo biologico. E' un errore nella regolamentazione della generazione: congiungendo fuori tempo le spose e gli sposi ne nascono figli imperfetti. Di qui una progressiva degenerazione individuale, un progressivo impoverimento culturale, che determinerà analoga decadenza nello Stato.

La prima forma degenerata è la timocrazia: in essa prevale l'elemento irascibile o animoso, e dunque l'ambizione e la tendenza alla ricchezza piuttosto che alla virtù. I membri della classe dominante divengono proprietari e riducono in servitù le classi inferiori, provvedendo essi stessi alla guerra. La classe dominante diviene un'aristocrazia militare. La tendenza a coltivare, sia pure in segreto, i piaceri della ricchezza conduce allo Stato oligarchico, basato esclusivamente sul censo. Si tratta di uno Stato imperfetto sotto un triplice riguardo: anzitutto, la direzione del governo non è affidata ai più capaci, ma ai più ricchi; in secondo luogo, lo Stato perde la sua unità, giacché al suo interno si formano lo Stato dei ricchi e quello dei poveri; in terzo luogo, va perso il principio della specializzazione, giacché tutti esercitano tutte le funzioni e ognuno può alienare (ossia vendere) ciò che possiede. Di qui la nascita della democrazia, che è economica e morale al tempo stesso: economica, perché la libertà di alienazione conduce ad una sempre crescente povertà e quindi rende la classe dei poveri largamente maggioritaria; morale, perché il povero vede nel governante soltanto un ricco, perdipiù illegittimamente arricchito. Ne risulta una lotta intestina, che si conclude con la vittoria dei poveri e l'instaurazione della democrazia: questa è caratterizzata dall'eguaglianza politica e dal sorteggio della maggior parte delle cariche. Nella democrazia, Platone distingue tre categorie: i cittadini politicamente attivi, guidati dai demagoghi; i cittadini più capaci, che divengono ricchissimi; e la classe più numerosa, quella degli operai e degli sfaccendati. I demagoghi, per accattivarsi il favore degli operai e degli sfaccendati, che rappresentano la maggioranza, redistribuiscono gli averi tolti ai cittadini più ricchi; questi ultimi tentano allora di difendersi e vengono accusati di mène oligarchiche. In questa situazione di scontro, nasce il tiranno, come capo del popolo; egli continua la politica democratica, mettendo a morte o esiliando i nemici e promuovendo le abolizioni di debiti o le redistribuzioni di beni e terreni. Stretto dalla necessità di mantenersi al potere, il tiranno è costretto a ogni sorta di ingiustizia o delitti.

A ognuna delle forme degenerate corrisponde un tipo umano: il timocratico è ambizioso, apprezza le virtù guerriere e, invecchiando, inclina alla brama di ricchezze; l'oligarchico ha le caratteristiche dell'avaro; il democratico è psicologicamente un dissipato, preda del variare dei suoi desideri immediati; il tirannico è addirittura un mostro, perché in lui si scatenano quegli istinti violenti e abnormi che, osserva Platone, qualche volta si manifestano nei sogni.

Sulle opere successive alla Repubblica - in genere interpretate in termini di maggiore realismo - è probabile che abbiano influito le esperienze personali di Platone. Platone effettua infatti tre viaggi in Sicilia, a Siracusa. Il primo nel 388, quando ha 39-40 anni; chiamato dall'amico Dione - il quale tenta di realizzare una riforma politica dello Stato, allora retto dal tiranno Dionisio il Vecchio - Platone si reca a Siracusa, ma i rapporti con il tiranno diventano ben presto difficili e il filosofo è costretto ad un ritorno burrascoso e drammatico. Il secondo viaggio avviene nel nel 366, quando il filosofo ha ormai 61-62 anni. A Dionisio è succeduto il figlio, sul quale Dione pensa di avere grande influenza; l'intenzione è quella di sostituirsi al tiranno, ma questi se ne accorge, bandisce lo zio Dione e tiene praticamente prigioniero Platone per qualche tempo. Il terzo viaggio è del 361, quando Platone ha 66-67 anni; il filosofo cerca di far revocare l'esilio nei confronti di Dione, ma non vi riesce e può tornare ad Atene solo grazie all'intervento di Archita.

Ma torniamo alle opere. Nel Politico la suddivisione delle forme di governo muta notevolmente: lo Stato perfetto è quello governato da un re intelligente, il quale possegga saldamente l'arte regia. Sarà questa - e non le leggi - ad ispirare l'esercizio del potere. La discussione sulle leggi è degna di rilievo. Platone svaluta lo Stato legale, perché la legge, in virtù della sua generalità ed astrattezza, non può prevedere l'infinita varietà dei casi. Le norme fisse presentano quindi due inconvenienti: il primo è quello già detto, per cui esse si rivelano inadeguate di fronte a nuove situazioni; il secondo è che il cambiarle getta il discredito sulle norme stesse. La fissità delle leggi nuoce a qualsiasi arte, giacché impedisce ogni perfezionamento e ogni ricerca. Ancora peggiore di uno Stato governato da leggi fisse è tuttavia uno Stato dove colui che presiede alle leggi sia scelto per alzata di mano o per sorteggio: evidente la polemica di Platone, di ispirazione conservatrice, contro la democrazia ateniese. E' bene non mutare le antiche leggi e non permettere che vengano infrante. Di fronte alla retta costituzione, ossia alla costituzione secondo scienza, avremo allora due vie diverse: la via legale e la via illegale. Nella prima avremo monarchia, aristocrazia e democrazia; nella seconda democrazia, oligarchia e tirannia. Quindi la democrazia è l'ultima (e la peggiore) delle forme legali e la prima delle forme illegali.

Il re è assimilato al tessitore, così come la politica è l'arte della tessitura e dell'intreccio: egli possiede strategia, arte del giudicare, arte retorica, sia pure sempre sotto la direzione della scienza politica. Il monarca, grazie all'arte regia, costituirà un'armonica orditura dei vari caratteri dei cittadini, temperando gli eccessi mediante l'educazione ed eliminando coloro i quali si rivelino incorreggibili.

Lo Stato ideale è quindi lo Stato senza leggi, governato da quella specie di dio in terra che è il re, fornito dell'arte politica. Ma Platone riconosce che nessun uomo, il quale eserciti un potere assoluto, riesce a non macchiarsi di ingiustizia e di violenze; se a governare è un uomo e non un Dio, è impossibile sfuggire alle sofferenze e ai mali e l'unica cosa che si può fare è cercare di «obbedire a quanto in noi vi è di immortale in pubblico e in privato, nel fondare gli Stati e le famiglie chiamando legge il precetto della mente».

Lo Stato di cui parla Platone nelle Leggi è per l'appunto uno Stato legale, nel quale il ruolo del filosofo, a differenza della Repubblica, non è quello del reggitore, ma quello del legislatore: egli si limita a conferire razionalità allo Stato mediante norme tratte dalla sua sapienza e poi si ritira. Il ricorso alle leggi è perciò - coerentemente con l'impostazione del Politico - una necessità di fatto e una rinuncia alla situazione ideale. Non esistono infatti leggi o ordinamenti, ribadisce Platone, superiori alla sapienza: la giustizia che è nelle cose dispone che l'intelletto non dipenda da nulla ma diriga tutto, se è un intelletto veramento libero e nobile. Purtroppo, continua Platone, «oggi non ci sono intelletti con queste qualità; solo qualcuno ne gode in minima parte. Noi quindi dobbiamo ricorrere a ciò che tiene il secondo posto dopo l'intelletto, l'ordinamento politico e la legge, che possono estendere la loro guida su moltissimi aspetti della vita, ma non su tutti». Alle osservazioni sui limiti insiti nella legge, per via del suo carattere generale, si aggiunge qui la costante valutazione pessimistica del mondo contemporaneo, che è tipica dell'atteggiamento platonico.

Le caratteristiche dello Stato delineato nelle Leggi sono comunque sostanzialmente coerenti con l'impostazione platonica di fondo, anche se presentano qualche accentuazione autoritaria. Anzitutto, lo Stato si configura come un'entità chiusa, ostile ad ogni rapporto commerciale:

Se fosse stata sul mare, la capitale [dello Stato], pur essendo fornita di porti ma avendo alle spalle una regione non fertilissima, e quindi priva di molti prodotti, io ti dico che tale Stato avrebbe avuto bisogno di legislatori divini e di un uomo non comune al timone, se - data la sua stessa configurazione naturale - non volesse accogliere in sé dal mare una varietà disordinata di costumi e di vita. [...] Il mare vicino alla regione abitata è cosa piacevole giorno per giorno, ma in sostanza è un'amara e salata vicinanza. Perché lo Stato si riempirebbe allora di traffici e di affari commerciali, e nascerebbe in lui costume di falsità e incostanza nelle promesse, sì che esso stesso ne diverrebbe infido e nemico di sé nei suoi rapporti interni, e parimenti sarebbe nei riguardi degli altri all'esterno. E' un rimedio contro questo male il fatto che esso sia fertile; ma se tu dici che la sua terra è accidentata è chiaro che la fertilità del suo suolo non è illimitata, così nella qualità come nella quantità dei prodotti. Se così fosse, sarebbe facile esportare in grande quantità, e si riempirebbe di moneta d'oro e d'argento; e di questo io dico che non c'è più grande male e più grande ostacolo perché uno Stato consegua costumi giusti ed elevati.

In secondo luogo, la suddivisione del territorio avviene secondo rigidi criteri matematici, di tipo egualitario. Lo Stato ideale viene quindi definito in termini rigidamente organicistico-unitari: è lo Stato «come un sol uomo».

Dico quindi che lo stato più civile e la forma di costituzione e l'ordinamento legislativo più perfetti si trovano là dove tutta la vita dello stato si può riassumere in questo detto antico: "La cosa dell'amico è dell'amico". Quanto ho detto vale sia nel caso che ciò già si realizzi in qualche luogo della terra, sia per il futuro, - comuni cioè le donne, i figli comuni e comune ogni avere - in tale caso con ogni mezzo ciò che si definisce privato viene strappato alla vita dell'uomo, d'ogni parte, con ogni sforzo ci si industria di collettivizzare in qualche modo anche ciò che la natura ha fatto particolare proprietà, e gli occhi e le orecchie e le mani hanno la sensazione di vedere insieme, udire insieme, agire insieme e concordemente tutti insieme, quanto più possono, danno l'approvazione o il biasimo come un solo uomo, delle stesse cose sanno la gioia o soffrono il dolore; e dove le leggi danno così la massima unità allo stato in ciò esse hanno la più giusta e più degna definizione della loro perfezione. In questo stato potrebbero vivere beati sia un gruppo di dèi, sia di figli di dèi. Non occorre perciò cercare altrove esempio di costituzione, ma attenersi a questo e cercare di realizzarlo meglio che sia possibile.

La proprietà privata viene ammessa, ma solo come "usufrutto" di una proprietà statale; inoltre l'ordinamento catastale, come quello demografico, è fissato una volta per tutte («è necessario stabilire che il numero dei focolari costituiti ora da noi, non dev'essere mutato mai, sempre uguale, non deve crescere di una unità né calare di una»). Vi è inoltre assoluto divieto di libertà economica:

Non c'è posto in questo ordinamento per gli affari e le speculazioni, anzi per l'intima natura di questo ordinamento nessuno ha diritto nè potere di mercanteggiare in speculazioni degne di schiavi, perché un mestiere così vergognoso travolge il costume e nessuno può ritenere dignitoso l'usare di questo mezzo per far denaro.

Al divieto di libertà economica si accompagna, ancora una volta, la concezione radicalmente negativa della ricchezza: l'obiettivo di rendere lo Stato virtuoso e felice è incompatibile con l'obiettivo di renderlo «quanto più ricco è possibile», giacché se è logico che chi è felice sia anche retto, è impossibile, dice Platone, essere insieme ricco e onesto, almeno nei limiti della nozione volgare di ricchezza. La conclusione è che nello Stato

non ci deve essere oro né argento, né grosse speculazioni finanziarie realizzate per vile mestiere e con l'usura, e nemmento illeciti guadagni sulla necessità dell'allevamento del bestiame, ma soltanto di doni che offre la terra e questi in misura da non costringere chi li raccoglie a trascurare il fine di ogni ricchezza: parlo dell'anima e del corpo che senza educazione morale e fisica non possono diventare degni di nessuna stima. E' per questa ragione che io ho ripetuto più volte che bisogna lasciare all'ultimo posto il pensiero della ricchezza; essendo tre sole le cose per cui l'uomo si dà cura, il pensiero della ricchezza se vuol essere al giusto posto dev'essere il terzo e l'ultimo, in mezzo la cura del corpo e avanti a tutto l'attenzione rivolta all'anima.

La divisione in classi avviene su basi censitarie, perché non si può fare altrimenti; Platone preferirebbe una rigorosa eguaglianza, ma riconosce che, al momento della formazione del nuovo Stato, alcuni individui si troveranno comunque in possesso di un numero maggiore di beni, rispetto ad altri. Ne consegue che la distribuzione delle cariche dovrà avvenire non solo sulla base della dignità personale, dell'appartenenza familiare e dei talenti individuali, ma anche sulla base della ricchezza, sempre però in modo misurato e facendo sì che non ne derivino dissensi. Platone prevede, in base al patrimonio, quattro classi di cittadini, tra le quali può realizzarsi anche una certa mobilità (ascensiva o discensiva); ma pone chiari limiti all'arricchimento e all'impoverimento, nella convinzione che l'eccessiva miseria o l'eccessiva ricchezza producano inevitabilmente una situazione di discordia, che rappresenta, ai suoi occhi, la «più grave malattia» che possa affliggere lo Stato.

Quanto ai matrimoni, questi sono rigidamente regolamentati dallo Stato e finalizzati ai suoi superiori interessi. Il criterio che li deve ispirare è la medietà, la temperanza: non dovranno essere fuggite le nozze con i poveri, né dovranno essere affannosamente cercate le nozze con i ricchi (e, in ogni caso, sono preferibili le prime). Inoltre, chi ha un carattere ardito e impetuoso dovrà cercare di «farsi genero di padri equilibrati; chi invece ha contraria natura, deve indirizzarsi verso una parentela contraria». In generale, anche se ognuno è portato ad unirsi con il proprio simile, è bene che nei matrimoni ciò non avvenga; altrimenti i ricchi cercheranno la ricchezza, i potenti il potere, e da ciò ne deriverà una diseguaglianza sempre più accentuata all'interno del corpo sociale. I matrimoni ispirati all'insieme di questi princìpi, conclude Platone, saranno di grande utilità sia per lo Stato che per le famiglie; e non è un caso che l'utilità pubblica preceda quella privata, giacché per il filosofo la regola universale delle nozze è che «ognuno deve contrarre matrimonio nell'interesse dello Stato, non per suo piacere».

Platone prevede inoltre una sorta di prima fase di imposizione delle leggi, affinché queste possano radicarsi nei costumi:

Ateniese: [...] noi stiamo per fondare uno stato proprio in modo coraggioso ed audace.

Clinia: Ma come tu puoi dire questo, ora? Dimmi perché.

Ateniese: Perché noi diamo leggi con facilità arrischiata a uomini che non hanno esperienza, senza sapere come le accoglieranno. E' chiaro, Clinia, e tutti vedrebbero, anche uno sciocco, che in principio non sarà facile che anche uno solo di loro le accetti, ma se sapremo resistere finché i bambini degustate le leggi e cresciutivi si siano sufficientemente assuefatti al loro spirito e partecipino alle elezioni comuni di tutto lo stato, se tutto questo avverrà, se in qualche modo o con qualche mezzo riuscirà, io vi dico che anche per tutto il tempo futuro a questo tempo presente avrà grande sicurezza di non dissolversi uno stato così ben avviato.[...]

Ateniese: Vediamo quindi di trovare una via buona per arrivarci. Io credo, Clinia, che i Cnossii più di tutti gli altri Cretesi non devono badare alla terra che ora colonizzate solo come per scaricarsi di un dovere sia pure verso gli dèi, ma impegnarsi seriamente per rendere le magistrature supreme della colonia quanto è più possibile buone e durevoli. Per le altre l'importanza è minore, ma è assolutamente necessario scegliere con massima cura i più alti custodi delle leggi.

Clinia: Quale è dunque la strada per attingere questo fine, e quali sono le ragioni di questa strada?

Ateniese: Questa. I Cnossii, o figli di Creta, sono fra voi quelli che hanno una più alta tradizione politica; bisogna quindi che essi insieme agli altri giunti nella nuova sede scelgano fra tutti 37 uomini, di cui 19 da tutti gli altri coloni e il resto solo da quelli di Cnosso; saranno questi un dono che i Cnossii faranno al nuovo stato e persuaderanno te o con una certa forza ti costringeranno ad essere cittadino della colonia nuova ed uno dei 18.

Per le elezioni Platone dice di aver cercato un sistema di compromesso tra monarchia e democrazia, distinguendo chiaramente tra l'eguaglianza immediata (e livellatrice) e l'ottima eguaglianza, che coincide con il principio dell'unicuique suum:

Schiavi e padroni non diventano amici, né lo diventano valenti e incapaci portati allo stesso livello, l'uguaglianza fra ineguali diviene ineguaglianza, se non c'è criterio di giusto limite. Per questi due fattori gli stati pullulano di sedizioni. E' vera l'antica sentenza che l'uguaglianza genera la concordia, è una formula esatta e logica, ma quale sia l'uguaglianza che può far ciò non è molto chiaro, e quindi il problema ci lascia molto perplessi. Ci sono due specie di uguaglianza, hanno lo stesso nome, ma nei fatti sono quasi l'una contraria all'altra per molte ragioni; l'una può realizzarla ogni stato ed ogni legislatore, nella distribuzione delle cariche; è uguaglianza immediata per misura, peso, quantità, e nelle suddette distribuzioni si può aiutarsi anche con un sorteggio. L'altra, la vera e ottima uguaglianza, non a tutti è facile vederla. Il discernerla appartiene a Zeus, gli uomini la godono sempre in misura minima, ma per quanto sia piccola la misura in cui è presente negli stati e negli individui, è sempre fonte di ogni vantaggio. E' dare di più a ciò che vale di più, di meno a ciò che vale meno, dare a ciascuno ciò che gli spetta secondo il suo valore reale; così più grande onore a chi è migliore, il contrario a chi è nella condizione contraria per virtù ed educazione; a ciascuno il suo.

La forma più notevole di intervento statale è infine di carattere religioso. Quello delle Leggi è uno Stato teocratico, imperniato su una teologia di carattere astrale e dotato di una legislazione religiosa molto severa, che vieta pratiche religiose diverse da quella della religione ufficiale e che punisce l'ateismo con la prigione o la morte. Il supremo organo teologico è il 'Consiglio notturno', composto dai dieci custodi più anziani delle leggi e da tutti i cittadini premiati per la loro virtù; a questi si aggiungono quelli che, tra gli osservatori andati all'estero alla ricerca di esperienza legislative, siano ritenuti degni di tale incarico. I componenti del Consiglio ricevono un'educazione speciale (come i filosofi nella Repubblica) e in sostanza si rinnovano per cooptazione; loro supremo scopo è rappresentare l'uno nella molteplicità, giacché unico è il principio informatore che regola lo Stato e anima le sue differenti istituzioni.

2. Aristotele

Cenni biografici

Aristotele nasce nel 384/383 (quando Platone ha 44 anni) a Stagira, una piccola città della penisola calcidica, all'estrema periferia del mondo greco. Stagira è sottoposta all'influenza del regno di Macedonia, alle cui vicende Aristotele rimarrà legato per sempre (il padre Nicomaco era infatti medico alla corte macedone). Due osservazioni: dalla professione del padre Aristotele riceve forse un incentivo verso gli interessi naturalistici; dalla collocazione sociale deriva invece il diverso rapporto con la politica, rispetto a Platone, visto che la contesa per il potere politico gli era preclusa tanto in patria (ove vigeva la monarchia), tanto in Atene (in quanto straniero). Comunque, in Aristotele la vita etico-politica non è più il fine, ma una parte ed un oggetto tra i tanti del sapere; in ciò egli prefigura, secondo alcuni studiosi, l'intellettuale ellenistico che, a partire dal III secolo, vive in un mondo dominato dalle monarchie assolute.

Nel 367 (quando ha 17 anni) Aristotele giunge ad Atene, dove diviene membro dell'Accademia platonica, forse dietro presentazione della corte macedone. Lo attirano in essa soprattutto le ricerche logiche e scientifiche. Nell'Accademia rimane per venti anni, fino alla morte di Platone, ossia nel 347. Allora Aristotele, che ha 37 anni, si reca ad Asso, in Asia Minore, dove entra in amicizia con Ermia, il signore della città, e ne sposa la figlia Pizia; anche Ermia era nell'area di influenza macedone. Lì conosce il naturalista Teofrasto, che rimarrà suo discepolo, seguendolo anche a Mitilene.

Nel 342 Aristotele viene invitato da Filippo II ad assumere l'incarico di precettore del futuro Alessandro Magno. Nel 338, in seguito alla vittoria di Cheronea, Alessandro Magno stabilisce la supremazia macedone sull'intera Grecia. In questo quadro Aristotele può tornare in tutta sicurezza, nel 335, ad Atene. Rotti i rapporti con l'Accademia, egli apre una scuola con corsi regolari presso il tempio di Apollo Licio, detta perciò Liceo (ma anche Perìpato). Il Liceo ha caratteristiche diverse dall'Accademia. Fra i suoi frequentanti non esiste alcun legame religioso o politico, alcuna regola comune di vita. Meno aperto alla libera discussione dialettica (l'insegnamento di Aristotele era in certo qual modo "ufficiale"), il Liceo lascia più spazio alle ricerche settoriali e specializzate. Esso ha un'organizzazione perfetta: i diversi corsi coprono quasi tutti i campi del sapere (filosofia, scienze naturali, politica, filologia, fisica, medicina, matematica), pur mantenendo tra essi un collegamento unitario. Inoltre per ogni campo viene curata una raccolta sistematica di materiali di studio (si pensi alla raccolta delle 158 costituzioni di città greche, andate purtroppo perse, con l'eccezione di quella ateniese), con il risultato di fornire la scuola di un'ampia biblioteca.

Nel 323 muore Alessandro Magno e riprende vigore, in Atene, il partito anti-macedone. Aristotele è quindi costretto a lasciare la città e a riparare a Calcide, in Eubea, dove muore nella casa della madre nel 322, a 62 anni.

Il pensiero politico

Per comprendere il pensiero politico di Aristotele bisogna prendere le mosse dall'Etica nicomachea, all'interno della quale il filosofo individua l'oggetto e il fine della scienza politica: l'oggetto consiste nelle prescrizioni legali su che cosa si debba e non si debba fare; il fine consiste nel bene dell'uomo.

Tra etica e scienza politica vi sono notevoli affinità. Anzitutto, entrambe sono scienze pratiche, ossia scienze che hanno come fine non il sapere in se stesso (come fanno le scienze teoretiche, ossia matematica, fisica e metafisica), ma un sapere finalizzato al concreto agire umano e al suo valore. Entrambe, inoltre, hanno per oggetto il mondo umano, caratterizzato dalla libertà, e si muovono dunque nell'ambito della conoscenza probabile, a differenza delle scienze teoretiche, che, avendo per oggetto il regno della necessità, possono raggiungere un sapere certo e rigoroso. In secondo luogo, entrambe sono scienze di natura politica, giacché anche l'etica presuppone i rapporti sociali tra gli uomini.

Aristotele, tuttavia, definisce propriamente "politica" solo la scienza che si occupa dello Stato, ossia della forma più alta e complessa di convivenza umana. A differenza dell'etica, infatti, la scienza politica non si occupa dell'individuo, ma dello Stato. La differenza tra etica e scienza politica risiede dunque nel passaggio dalla dimensione individuale a quella collettiva; essa non riguarda il fine, che è identico (il bene dell'uomo), ma l'oggetto, che non è il singolo, ma la collettività. Ed è tale differenza, secondo Aristotele, a segnare la superiorità della scienza politica sull'etica: egli infatti sostiene che se «il bene è degno di essere amato anche per un solo individuo», esso è tuttavia «più bello e più divino quando riguarda popoli e città».

A queste considerazioni si aggiunga il fatto che Aristotele, sempre nell'Etica nicomachea, preannuncia in qualche modo la Politica: egli rileva infatti come i filosofi precedenti non abbiano discusso la legislazione, cosa che invece egli intende fare, esaminando anche le forme di governo, sia per discernere quale sia la migliore, sia per comprendere come esse siano ordinate. Aristotele assegna dunque alla sua Politica tanto fini prescrittivi (o normativi), quanto fini descrittivi (o conoscitivi).

Nella Politica troviamo quattro punti di contatto con il pensiero di Platone:

1) la concezione organicistica dello Stato (che porta con sé la superiorità di quest'ultimo sull'individuo);

2) la concezione naturalistica dell'origine dello Stato (il quale sorge dai bisogni);

3) la concezione etica dello Stato (il quale ha un fine, che è la giustizia);

4) la concezione legale dello Stato (qui l'affinità si restringe, fermi restando tutti i necessari distinguo, al Platone delle Leggi).

Tali punti di contatto non implicano tuttavia una piena identità di vedute. Come vedremo, anche là dove sono riscontrabili delle affinità, tra Platone e Aristostele restano significative differenze. Anzitutto, nella concezione organicistica dello Stato, che in Aristotele è decisamente meno rigida e meno radicale; pur restando impregiudicata la superiorità del tutto sulle parti (ossia dello Stato sugli individui singoli), in Aristotele la totalità organica dello Stato consente, al suo interno, quella molteplicità e quella differenza che Platone tende ad annullare, in nome di una concezione radicalmente unitaria. Lo Stato di cui parla Platone - lo Stato «come un sol uomo»[5] - costituisce un'unità eccessivamente ristretta, che annulla tutte le differenze e sembra non sottintendere alcun molteplice; ma poiché il carattere essenziale della polis è per l'appunto l'unità nella molteplicità (molteplicità di funzioni, di classi sociali, di caratteri, ecc.), ne consegue che una unità concepita troppo radicalmente, sino ad annullare la molteplicità, distrugge la polis medesima. Dice Aristotele: «è come se si volesse ridurre l'accordo musicale a un solo tono e il ritmo a una sola misura».

Passiamo ora a considerare il modo in cui Aristotele spiega la nascita dello Stato: esso, come ogni altra associazione, dice il filosofo, viene costituito con il fine di raggiungere qualche bene. Se questo vale per ogni associazione umana, argomenta Aristotele, a maggior ragione dovrà valere per lo Stato, che rappresenta la forma suprema di associazione. Attenzione, però: da questa somiglianza tra tutte le forme di associazione (in quanto tutte caratterizzate da un orientamento finalistico al bene), taluni ne derivano una conclusione errata, e cioè che tra i diversi capi (padrone, amministratore, magistrato, re) dei vari tipi di associazione vi sia una differenza meramente quantitativa: in sostanza, la differenza starebbe nel numero dei membri dell'associazione sulla quale si comanda.

Per contestare tale conclusione Aristotele descrive la nascita dello Stato con metodo analitico e storico-genetico (vale a dire, con un metodo che dapprime scompone qualsiasi realtà nei suoi elementi più semplici e poi, a partire da essi, ricostruisce la genesi della realtà indagata):

Primieramente è necessario che si associno quegli esseri che non possono vivere l'uno separato dall'altro, come la femmina e il maschio a causa della riproduzione (e ciò non per libera scelta, ma, come negli altri animali e nelle piante, è naturale anche nell'uomo la tendenza a lasciare un altro essere simile a sé); e chi è per naturale disposizione adatto al comando e chi all'obbedienza, onde il consorzio umano può conservarsi. Poiché l'essere dotato di intelligenza e preveggenza è dominatore e signore per natura; chi può eseguire con le facoltà corporali le prescrizioni di questo, è soggetto o schiavo: perciò gli interessi del padrone coincidono con quelli dello schiavo. Per natura dunque è determinata la condizione dell'essere femminino e dell'essere servile, poiché la natura nelle sue creazioni non rassomiglia agli artigiani dozzinali, come quelli che fanno le spade delfiche, opera meschina; ma adatta ciascun essere alla sua funzione [...].

In questo testo sono presenti numerosi e importanti elementi. Anzitutto il carattere naturalistico della prima forma di associazione: la famiglia nasce da un bisogno naturale, addirittura biologico, e dunque assolutamente necessario. Qui naturale sta per necessario, ossia per "non-volontario". In secondo luogo, altrettanto "naturale" è la divisione degli uomini in "adatti al comando" e "adatti all'obbedienza": ne consegue che la divisione tra governanti e governati affonda le sue radici nella "naturale" diseguaglianza tra uomini e che è assolutamente necessaria al fine di conservare qualsiasi forma di associazione umana. La predisposizione naturale che giustifica il comando di alcuni uomini sugli altri sta nell'intelligenza e nella preveggenza: colui il quale possiede tali doni è dominatore e signore per natura, dice Aristotele, mentre chi può eseguire con le facoltà corporali le sue prescrizioni è soggetto o schiavo. Questa distinzione è data dalla natura, che adatta ciascun essere alla sua funzione. La famiglia, conclude Aristotele, è «l'associazione formata per i bisogni immediati della vita ... secondo natura».

Se torniamo al parallelo con Platone, vedremo che motivo comune è l'origine "naturale" dello Stato: esso nasce dai bisogni (qui dal bisogno biologico della riproduzione, in Platone dai bisogni primari di nutrizione e protezione). In Aristotele possiamo cogliere una sottolineatura della naturalità, in termini biologici; egli inoltre ci propone una ricostruzione storica dell'evoluzione delle forme sociali, partendo dalle forme minori di associazione; ma comune ad entrambi è la spiegazione in termini naturalistico-utilitaristici dell'origine dello Stato.

Riprendendo la ricostruzione aristotelica, la tappa successiva, dopo la famiglia, è il villaggio. La logica rimane la stessa: il villaggio è un'associazione di famiglie che si propone di raggiungere una utilità più ampia e complessa, rispetto alla famiglia. E' in sostanza l'aggregazione che nasce da un'espansione e sofisticazione dei bisogni: anch'esso dunque un fenomeno naturalistico. Infine abbiamo l'associazione di più villaggi, che è la città, la quale ha come caratteristica l'autosufficienza. Conclusione di Aristotele:

[...] ogni città è per natura, se per natura sono anche le prime associazioni, essendo la città il risultato finale cui tendono queste associazioni; e il fine determina la natura degli esseri.

Se la città è un fatto naturale, ciò significa che l'uomo sarà un essere naturalmente sociale. Ed infatti Aristotele afferma:

[...] L'uomo è animale per natura socievole: sicché l'uomo estraneo a ogni convivenza civile per natura e non per sorte è un essere o al di sopra o al di sotto dell'umanità [...]

Si tratta di uno dei capisaldi della teoria politica aristotelica: l'uomo è un essere socievole per natura e pertanto le istituzioni sociali e politiche nascono e si sviluppano altrettanto naturalmente. Questo modo di spiegare l'origine e lo sviluppo delle istituzioni politiche avrà una fortuna straordinaria. Bisognerà infatti aspettare Hobbes (e dunque 19 secoli!) perché esso sia rovesciato nei suoi assunti e nelle sue conclusioni: l'uomo, dirà il filosofo inglese vissuto nel '600, è un essere naturalmente asociale, che entra inevitabilmente in guerra con i suoi simili; dunque le istituzioni politiche, lungi dal nascere naturalmente, sono il frutto di una consapevole scelta dell'uomo - sono veri e propri artifici -, il quale se ne serve per salvare la propria vita dalla distruttività della propria natura.

Ma torniamo ad Aristotele. La sua ricostruzione della nascita e dello sviluppo dello Stato si conclude con una interessante riflessione sul linguaggio:

è quindi manifesto che l'uomo è animale socievole in grado maggiore delle api e di ogni animale che vive in gregge. Niente infatti, secondo noi, la natura fa invano; solo l'uomo tra tutti gli animali ha la parola. La voce può esprimere dolore e piacere, perciò l'hanno anche gli altri animali (fin qui infatti giunge la loro natura, d'avere la sensazione del dolore e del piacere e significarlo; la parola poi ha il fine di manifestare ciò che è utile e ciò che è dannoso) e per conseguenza anche ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Questo infatti è il carattere proprio dell'uomo rispetto agli altri animali, che solo ha la nozione del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto e di tutte le altre antitesi morali. L'associazione degli esseri forniti di queste nozioni crea la famiglia e la città.

Arrivata a questo punto, l'analisi aristotelica inverte la sua direzione, percorrendo il cammino opposto: dopo essere partita dal particolare (i due individui che formano la famiglia) per arrivare al generale (la città), ora dal generale torna al particolare, per dimostrare come la città sia condizione dell'individuo. Qui Aristotele presenta la classica concezione organicistica, in virtù della quale il tutto è qualcosa di superiore alla somma delle parti.

Per natura poi la città è la condizione della famiglia e dell'uomo singolo. Il tutto infatti è necessariamente condizione della parte, poiché tolto il tutto, non si ha né piede né mano, se non di nome, come se si dicesse una mano di pietra: essendo una mano staccata dal tutto soltanto una mano morta. Infatti il valore di ogni organo consiste nella sua funzione e nella sua potenza; così le membra ridotte in condizione di frammenti non si possono chiamare membra se non di nome. Adunque, che la città sia un fatto naturale e condizione per la vita dell'individuo appare manifesto: se infatti ciascuno da sé non basta a se stesso, sarà rispetto alla città nella stessa relazione, che le parti al tutto: e chi non è atto a partecipare alla vita civile o non ne ha bisogno, non può divenire membro della città, sicché o è belva o Dio. Per natura dunque tutti sentono l'impulso verso siffatta associazione.

Tale impulso naturale alla costituzione della città ha inoltre un'importante conseguenza etica:

il primo che ne gettò le basi, fu causa di grandissimo bene. Come infatti l'uomo, se ha raggiunto la perfezione inerente alla sua natura, è il migliore degli animali, così quando non si regola secondo le leggi e non s'ispira all'idea di giustizia, è il pessimo, poiché dannosissima è l'ingiustizia fornita di mezzi per recar danno. L'uomo infatti dispone di tutti i mezzi per usare prudenza e virtù, e questi mezzi può adoperare a fini perversi. Perciò senza la virtù l'uomo è l'animale più empio e più selvaggio, inclinato nel modo peggiore ai piaceri sensuali e al cibo. La giustizia è elemento e condizione della società civile; perché il diritto è norma della convivenza civile, e la pratica di esso consiste nella decisione di ciò che è giusto.

Qui appare la concezione legale ed etica dello Stato. Abbiamo dunque visto come Aristotele spieghi la nascita e lo sviluppo delle associazioni umane, attribuendo un carattere fortemente naturalistico a questo processo, e come egli delinei una concezione legale, etica ed organicistica dello Stato.

Ma, come abbiamo già evidenziato, l'organicismo teorizzato da Aristotele è ben diverso da quello di Platone. Ed è nella cornice di questa fondamentale differenza che possiamo inserire la celebre critica aristotelica al comunismo platonico. In primo luogo, Aristotele sostiene che il sistema collettivistico presenta un inconveniente di fondo, legato alla natura umana. Gli uomini tendono infatti a prendersi meno cura delle proprietà comuni, giacché «ciascuno attende con maggiore impegno ai suoi interessi privati che a quelli pubblici»; inoltre, quando la proprietà è comune, gli individui tendono a non impegnarsi in prima persona, ma a fare affidamento sull'attività altrui. Queste disposizioni naturali fanno sì che la comunanza delle donne e dei figli provochi effetti assai dannosi: poiché nella citta platonica, dice Aristotele, «ciascuno si trova in relazione con mille figli di tutti i cittadini» e la paternità rimane incerta, ne consegue che o gli adulti trascureranno egualmente tutti i giovani, o ciascun cittadino rivendicherà per sé i giovani in buone condizioni fisiche e morali.

In secondo luogo, Aristotele rivolge la sua critica alla comunanza dei beni. Esistono tre modi, egli dice, di risolvere il problema della proprietà: conferire ai privati la proprietà dei fondi, ma consumare collettivamente i frutti che in essi vengono prodotti; oppure, considerare comune la proprietà della terra, ma dividerne i frutti secondo i bisogni particolari; infine, stabilire che tanto la terra quanto i suoi frutti sono proprietà comune. Ora, le soluzioni che prevedono la proprietà comune della terra presentano due inconvenienti di fondo, di natura economica e di natura psicologica. L'inconveniente economico consiste nel fatto che «non potendo esservi sempre proporzione tra i godimenti che ne risultano e l'opera che si presta, di necessità si solleveranno querimonie contro quelli che godono o ricevono molto e lavorano poco, da parte di coloro che ricavano poco lavorando molto». E' vero che secondo Aristotele l'uomo è un essere socievole; ma il filosofo non manca di rilevare come tale socievolezza non sia priva di difficoltà: basta guardare, osserva realisticamente, «alle associazioni dei viaggiatori, dove quasi sempre nascono dissensi e attriti per le cause più ovvie e più meschine». A ciò si aggiunga il fatto che, in generale, la proprietà arreca grande soddisfazione all'uomo, poiché asseconda un aspetto fondamentale della sua natura. Veniamo così all'argomento "psicologico" a favore della proprietà: questa si radica nelll'amore verso se stessi, che - dice Aristotele - non «è effetto di capriccio, ma di natura». E' giusto biasimare l'egoismo; ma quest'ultimo non va confuso con l'amore di sé, che costituisce un sentimento naturale e indispensabile, comune a tutti gli uomini, il quale si trasforma in egoismo solo quando si spinge al di là del giusto. Infine, soltanto la proprietà individuale può consentire l'esercizio della generosità: venire in aiuto di amici, stranieri o compagni, dice Aristotele, è «cosa dolcissima», che dà reale soddisfazione (e ha vero valore) solo quando i beni che si impegnano in tale aiuto siano propri.

Infine Aristotele muove a Platone due obiezioni cruciali. La prima riguarda la causa delle discordie che avvelenano la convivenza tra gli uomini, causa che Platone collocava proprio nell'esistenza della proprietà privata. Si tratta, secondo Aristotele, di un formidabile errore, giacché tali discordie «sono mali inerenti non al sistema individualistico [della proprietà], ma alla perversità umana», come ci conferma il fatto che «vediamo spesso la discordia regnare molto più violenta tra pochi che hanno un sistema comunistico di proprietà che tra molti i quali hanno proprietà individuali». La seconda obiezione di Aristotele riguarda gli inevitabili effetti del sistema collettivistico sulla vita degli uomini:

inoltre è anche giusto rilevare non solo i mali di cui vanno immuni i sistemi a base collettiva, ma anche i beni di cui sono privi. Con essi infatti la vita ci appare insopportabile. L'errore di Socrate sembra derivare dalla base falsa del suo ragionamento: poiché se l'unità è necessaria per la famiglia e per la città, non bisogna spingere questo principio alle ultime conseguenze. La città, procedendo su questa via, finirebbe con l'annullarsi, o, non annullandosi, menerebbe vita assai grama; e sarebbe lo stesso che se si volesse ridurre l'accordo musicale a un solo tono e il ritmo a una sola misura. Ma conviene, come ho già detto sopra, creare con l'educazione l'unità e la socievolezza nella città, senza pregiudizio della molteplicità dei suoi elementi [...].

Veniamo ora alla concezione legale dello Stato. Noi sappiamo che in Platone lo Stato legale (nel Politico come nelle Leggi) è una soluzione di ripiego dettata dalla realtà, visto che lo Stato perfetto, quello senza leggi, è irrealizzabile. Viceversa, per Aristotele lo Stato legale non è un ripiego, ma la soluzione migliore. Il cuore concettuale di questo argomento sta nella contrapposizione tra governo degli uomini e governo delle leggi, che Aristotele sviluppa nelle pagine dedicate all'analisi della monarchia.

Dopo aver distinto tra le diverse forme in cui si è realizzata storicamente la costituzione monarchica (monarchia spartana, monarchia barbara, dittatura elettiva e monarchia dei tempi eroici), Aristotele si sofferma sulla monarchia come potere assoluto di uno, per contrapporlo al potere delle leggi. La questione cruciale, dice il filosofo, è «se convenga che [qualcuno] abbia un potere assoluto o non convenga»; in altre parole, «se convenga essere retto da un ottimo reggitore o da ottime leggi». Chi sostiene la prima ipotesi si basa sul carattere generale, astratto e fisso della legge, che le impedisce di contemplare tutti i casi particolari; in base a ciò, ritiene che sia meglio non affidarsi interamente alle prescrizioni scritte e alle leggi. La risposta di Aristotele a questa argomentazione è duplice. Anzitutto, chiunque governi ha comunque bisogno di prescrizioni generali: non è forse meglio, infatti, affidare il governo a qualcosa che non sia soggetto alle passioni, come la legge? In secondo luogo, quando tali prescrizioni non prevedono un caso particolare, con cosa dobbiamo affrontare quest'ultimo? Chi giudicherà del caso particolare? Uno solo che si distingua per merito o la totalità dei cittadini? Per Aristotele è migliore la seconda soluzione, perché il giudizio emesso dalla totalità dei cittadini, presa nel suo insieme, è sicuramente migliore del giudizio emesso da un singolo; inoltre la collettività è meno corruttibile delle piccole consorterie e meno condizionabile dalle passioni (giacché queste passioni dovrebbero prendere tutti contemporaneamente). In terzo luogo, è innaturale che ad un uomo solo sia concessa la sovranità su tutti i cittadini, quando la città è formata da eguali.

Riguardo poi alla monarchia assoluta (e abbiamo questa quando il re impera su tutti secondo la sua volontà) sembra ad alcuni che non sia conforme a natura che ad un uomo solo sia concessa la sovranità su tutti i cittadini, quando la città è formata da eguali: poiché esseri per natura eguali debbono avere gli stessi diritti e la stessa dignità; e quindi se è dannoso che uomini ineguali abbiano egual nutrimento e lo stesso vestiario, così sarebbe ingiusto stabilire tale livellamento per gli onori, ma altrettanto ingiusto sarebbe che uomini eguali avessero inegual trattamento. Perciò è giusto che nessuno abbia il potere più di quanto lo subisca, e si alterni la condizione di governante con quella di governato: in ciò consiste la legge; e l'ordine politico si identifica con la legge. E' preferibile infatti l'impero della legge a quello di qualunque cittadino [...] La sovranità della legge equivale adunque alla sovranità di Dio e della mente, la sovranità dell'uomo equivale a quella dell'animale: poiché la cupidigia e le passioni traviano, quando sono al potere, anche gli uomini migliori. Ma la legge è senza passioni.

Abbiamo dunque due argomenti: il più importante è che la legge è preferibile all'uomo, in quanto non è condizionata dalle passioni. La sovranità della legge è assimilabile ad una sovranità impersonale, come quella di Dio o della mente; mentre la sovranità dell'uomo singolo equivale alla sovranità dell'animale, soggetto alle passioni. Il secondo argomento, chiaramente anti-monarchico, consiste nella tesi secondo cui, quando è indispensabile prendere decisioni discrezionali (e Aristotele ammette senz'altro che si diano molti casi non previsti dalla legge e nemmeno prevedibili), allora è bene che decidano molti e non uno solo.

Quanto alla classificazione delle costituzioni, la suddivisione di Aristotele - che avrà, anch'essa, una fortuna straordinaria - è quella sestuplice, in base a due criteri: il criterio descrittivo del numero dei governanti (uno, pochi o molti) e quello valutativo del modo in cui viene esercitato il potere (se nell'interesse comune o nell'interesse dei governanti). Grazie a questo secondo criterio, valutativo o normativo, Aristotele può distinguere le forme di governo in rette e degenerate: abbiamo così monarchia, aristocrazia e politìa, che degenerano rispettivamente in tirannide, oligarchia e democrazia. Tale suddivisione non è comunque lineare, perché Aristotele esamina molte forme intermedie, con intento descrittivo.

La classificazione aristotelica potrebbe essere esaminata anche alla luce di un altro criterio valutativo. Il punto di partenza è costituito dalla netta opzione a favore del governo delle leggi (dotato dunque di un organo collegiale con compiti legislativi), e a scapito del governo degli uomini: tale scelta esclude sostanzialmente la costituzione monarchica, dato che questa, nella sua forma più pura, è il potere assoluto di un uomo (anche se, nella realtà, questa può venire più o meno sfumata; sembra inoltre di capire che Aristotele considera tale forma storicamente esaurita e superata). Diviene ovvio, a questo punto, che la tirannia rappresenti per Aristotele la costituzione peggiore, in quanto forma pura del potere più personale, assoluto e crudele. Rimangono quindi soltanto altri quattro tipi di costituzione, che possono essere suddivisi in base al criterio dell'equilibrio o della medietà: da una parte stanno le costituzioni "buone", nelle quali i vari elementi della città stanno in un qualche equilibrio tra loro, e sono l'aristocrazia (che contempera ricchezza, libertà e virtù - dunque ricchi, poveri e nobili) e la politìa (che contempera ricchezza e libertà, ricchi e poveri); dall'altro stanno le costituzioni "cattive", nelle quali prevale un solo elemento della città, e sono l'oligarchia (prevalenza della ricchezza) e la democrazia (prevalenza della libertà e della povertà). Queste ultime tendono a provocare, a causa della loro unilateralità, una situazione di disordine, dalla quale nasce la tirannia.

Nella trattazione della democrazia - dal punto di vista del criterio del numero - Aristotele insiste principalmente sulla superiorità dell'insieme sociale rispetto al singolo individuo:

l'affidare il potere piuttosto alla moltitudine che ai migliori, pochi di numero, potrebbe sembrare soluzione soddisfacente, e degna di favorevole accoglienza, forse anche la più pratica. Infatti la maggiornaza, della quale ciascun singolo membro può non essere un uomo superiore, tuttavia nella sua totalità vede più giustamente che ciascuno degli uomini superiori, come i conviti fatti per contribuzione sono migliori di quelli fatti a spese di uno solo. Essendo infatti molti, ciascuno ha la sua parte di virtù e di senno, e messi insieme, la moltitudine diventa come un uomo, dai molti piedi, dalle molte mani, fornita di molteplici sensi, con una morale e un'intelligenza avente tutti i vantaggi dell'unità e molteplicità. Per questa ragione la moltitidine giudica le opere misucali e poetiche più rettamente che i singoli individui competenti: poiché chi giudica meglio una parte, chi un'altra, e tutti complessivamente giudicano meglio.

Il filosofo, conscio dei rischi insiti nell'affidarsi alla moltitudine e non ai "migliori", precisa tuttavia che i diritti politici dei cittadini meno eminenti (che saranno la maggioranza) dovranno essere attivi e non passivi. La massa dei cittadini, dice infatti Aristotele,

è formata da quanti non sono ricchi né hanno alcuna qualità eminente. Certo, la partecipazione di questi alle maggiori magistrature non è cosa priva di pericoli (poiché per mancanza d'equità e di temperanza ora commetteranno ingiustizie ed ora incorreranno in errori): d'altra parte, il non conceder loro questa partecipazione è cosa pericolosa (poiché quando molti sono privi degli onori e delle ricchezze, la città sarà necessariamente piena di nemici). L'unica cosa che si può loro concedere, è di deliberare sugli affari pubblici e di prendere parte ai giudizi nei tribunali. Perciò Solone e alcuni altri legislatori riconoscono alla massa dei cittadini il diritto di eleggere i magistrati e di esercitare un sindacato sull'opera loro, ma non permettono di esercitare magistrature individuali. Tutti assieme infatti hanno una discreta dose di buon senso; e, trovandosi in mezzo ad essi uomini di senno, sotto l'influenza di questi, agiscono bene e giovano così alla città; [...] Ma gli individui ciascuno per sé non sono in grado di giudicare rettamente.

Aristotele rifiuta infine un'obiezione che potremmo definire "tecnocratica", ossia basata sulla competenza specialistica: in base ad essa, alcuni sostengono che la moltitudine non è in grado di eleggere i magistrati o di sindacarne l'operato, così come non avrebbe competenza per scegliere un medico o valutarne l'operato. Aristotele ritiene che tali obiezioni siano valide nell'ipotesi di un corpo sociale di livello molto basso; altrimenti, la citta, nel suo insieme, giudicherà meglio, o comunque non peggio, dello specialista. Infine Aristotele propone un ulteriore argomento: vi sono opere che devono essere apprezzate da chi ne usufruisce. Chi è miglior giudice di un pranzo? Il cuoco o il convitato? E chi è il miglior giudice di una casa? Il costruttore o colui che la deve abitare?

Sulla costituzione monarchica ci siamo già soffermati. Il fatto che Aristotele sia contrario al governo degli uomini e favorevole al governo delle leggi dimostra che egli non ha inclinazione per questo sistema. L'essenza della monarchia, infatti, è che il re ha per legge la propria volontà e null'altro: ma noi sappiamo che Aristotele è contrarissimo a tale scelta, sia per il problema delle passioni, sia perché in una collettività sviluppata non si dà un individuo che superi tutti, sia perché la totalità degli individui giudica sempre meglio di uno solo. Inoltre egli mette in luce altri problemi: quello dell'ereditarietà, che emerge nel caso in cui gli eredi non si rivelino all'altezza del compito; e quello dell'esercito, che deve consentire al re di imporre la sua volontà, ma deve sempre rimanere inferiore alla forza della moltitudine nel suo complesso. Infine Aristotele dà una spiegazione storica del sorgere delle monarchie, come fenomeno tipico di una comunità primitiva e poco differenziata, che con il suo sviluppo tende naturalmente ad abbandonare questa forma.

Aristotele conclude la sua trattazione cercando di individuare la costituzione migliore. Assai interessante, tuttavia, è lo spirito con il quale si accinge a tale impresa:

si deve ora ricercare quale sarà la migliore costituzione, e quale il miglior sistema di vita per la maggior parte delle città e degli uomini, volendo giudicare non in rapporto a una virtù superiore alla consueta, né a quella di un'educazione che abbia bisogno di una buona disposizione naturale e di un fortunato concorso di circostanze, né a quello di un governo ideale; ma a quella d'una vita cui tutti possono partecipare e d'una costituzione che possa venire attuata in molte città.

Emerge qui con chiarezza il rifiuto aristotelico della deriva utopistica, il suo saggio ed equilibrato realismo: è bene ricercare la costituzione migliore, ma sempre tenendo presenti i limiti umani e le condizioni di effettiva realizzabilità.

L'argomentazione prende le mosse dall'Etica nicomachea: in essa il filosofo aveva definito felice l'uomo virtuoso; e la virtù consisteva nella medietà, nell'equilibrio. Partendo da questo principio, Aristotele si sforza di mostrare che esso è posseduto soprattutto dalla classe media, che viene qui contrapposta ai ricchi e ai poveri.

In tutte le città - dice Aristotele - vi sono tre classi, quella dei molto ricchi, quella dei molto poveri, e la terza formata di quelli di fortune mezzane. Poiché adunque si conviene che la moderazione e la media rappresentino il meglio, è manifesto che tra gli strumenti di prosperità civile il più efficace sia quello fornito dalle fortune mezzane, poiché l'uomo in questa condizione di vita più facilmente ubbidirà ai dettami della ragione. All'incontro, è difficile che vi si uniformino uomini di qualità morali o forza o nobilità o ricchezza superiori, o viceversa poverissimi, o debolissimi e disonesti. Di queste ultime due genie infatti gli uni si comportano come tracotanti e facinorosi, gli altri come perversi e delinquenti volgari: i misfatti degli uni sono occasionati da petulanza baldanzosa, quelli degli altri invece da meschina malignità. Costoro rifuggiranno dai pubblici poteri, né avranno mai un'iniziativa: i difetti dei primi e quelli di questi ultimi sono egualmente dannosi al consorzio civile. Oltracciò quelli che hanno sovrabbondanza di prosperità, di forza, di ricchezze, di aderenze e di altre simili condizioni favorevoli, non vogliono né sanno obbedire (e contraggono sin da fanciulli questa repugnanza, poiché a causa della mollezza in cui sono educati non hanno abitudine ad obbedire neanche ai maestri); gli altri invece per la penuria di questi mezzi si trovano in uno stato di eccessiva degradazione: sicché questi ultimi non sanno comandare, ma ubbidire da schiavi, e i primi non sanno ubbidire in nessun modo, ma esercitare un impero da despoti.

Ne consegue che il miglior governo è possibile dove prevale la classe media. Ma l'analisi di Aristotele non si ferma qui. Per individuare la migliore delle costituzioni, egli si sofferma dapprima sulle condizioni teoriche, per poi passare a quelle materiali. Per quanto riguarda le prime, Aristotele parte dalla definizione di felicità: veramente felice è l'uomo virtuoso, ragion per cui soltanto la città virtuosa sarà felice. Tre sono le categorie di beni che conducono alla felicità: i beni esterni, quelli del corpo e quelli dell'anima. Su questo, dice Aristotele, sono tutti d'accordo; ma il dissenso

comincia a sorgere rispetto alla quantità e all'importanza dei beni richiesti per la felicità; poiché [alcuni] stimano sufficiente una dose di virtù per quanto piccola essa sia: ma all'appetito di ricchezza, di denaro, di potenza, di fama e di tutti siffatti beni non conoscono limite. A costoro invero faremo osservare esser facile persuadersi con l'esperienza che gli uomini non acquistano e posseggono le virtù coi beni esteriori ma, invece, i beni esteriori con le virtù: che la felicità della vita si ritrova per gli uomini o nel godimento o nelle virtù o in ambedue questi termini: ma è privilegio precipuo delle menti e degli animi più alti, anche se scarseggiano dei beni esteriori, piuttostoché di quelli i quali posseggono più del bisogno beni materiali, ma hanno difetto di questi che sono i veri beni.

Per quanto riguarda le condizioni materiali, Aristotele individua limiti di territorio e di popolazione, luogo strategicamente opportuno e di facile comunicazione con il mare, divisione in classi. Poiché la città avrà bisogno di molte cose (alimentazione, arti, armi, mezzi pecuniari, religione e politica), molteplici saranno le funzioni. Chi le dovrà adempiere? Tutti indistintamente o alcuni specificamente addetti ad esse? Se partiamo dal presupposto che la città felice sia quella virtuosa, allora dovremo escludere dalle funzioni direttive gli operai, gli artigiani e gli agricoltori.

Poichè ci troviamo a trattare l'argomento della migliore costituzione, che si può definire quella secondo cui la città sarebbe massimamente felice - e la felicità, come abbiamo detto sopra, è congiunta indissolubilmente con la virtù - è manifesto da ciò, che nella città meglio governata e che possiede cittadini giusti in modo assoluto, non già relativamente a ciascuna costituzione, non è l'ideale della vita civile quello dell'operaio meccanico o del commerciante (poiché il tenore di vita di costoro è ignobile e contrario alla virtù), e nemmeno quello di coloro che debbono esercitare l'agricoltura (poiché all'esplicazione della virtù e all'esercizio della vita civile si richiede tempo disponibile).

Quanto alla divisione delle funzioni tra le classi direttive (guerrieri e magistrati) essa avviene in base ad un criterio cronologico:

è chiaro anche perché sotto un certo aspetto queste competenze vadano accomunate, sotto un altro dissociate. Giacché in quanto ciascuna delle dette funzioni richiede diverso genere di vigore, cioè l'una ha bisogno di senno, l'altra di forza, bisogna assegnarle a persone diverse: in quanto poi è impossibile che si rassegnino alla sudditanza quelli che hanno in mano la forza, bisogna assegnarle ai medesimi; dipendendo dalla volontà di costoro la conservazione o l'abbattimento della costituzione. Adunque resta soltanto da attribuire questi diritti politici agli uni e agli altri egualmente, ma non nello stesso tempo: ma a quel modo che la forza è nei giovani, il senno nei vecchi, conviene ed è giusto che a questa stregua siano assegnate le funzioni, corrispondendo al merito questo criterio distributivo. Ma è necessario che costoro siano anche proprietari, poiché i veri cittadini debbono essere forniti di mezzi, e costoro sono cittadini. Gli operai meccanici infatti non partecipano alla vita civile, né alcun'altra genia che non sia operatrice di azioni virtuose. E ciò è reso evidente pel principio da noi posto, che la felicità della città debba essere accompagnata dalla virtù, e che non si può chiamare felice la città nel riguardo solo di una parte qualsiasi, ma di tutti i cittadini. E' manifesto inoltre che anche le proprietà debbano essere di costoro, se è necessario che gli agricoltori siano schiavi o barbari perieci. Degli elementi enumerati rimane la classe dei sacerdoti; ed è chiaro anche il loro ordinamento: poiché né dalla genia degli agricoltori, né da quella degli operai meccanici bisogna trarre i sacerdoti (essendo opportuno che gli dei siano onorati dai cittadini): ma siccome i cittadini si dividono in due parti, quella dei guerrieri e quella degli altri chiamati a deliberare, e conviene inoltre rendere agli dei il culto loro dovuto, e in queste cure possono trovar riposo quelli che sono affranti dall'età, a costoro si debbono dare mansioni sacerdotali.

Non rimane che fare un cenno al problema dell'educazione. Anche per Aristotele, come per Platone, essa è fondamentale: la solidità della costituzione dipende dall'educazione che riceveranno i giovani.

Non si può dunque dubitare che il legislatore debba mostrare la maggiore sollecitudine per l'educazione dei giovani. Poiché se questa nelle città viene trascurata, la loro costituzione ne verrà danneggiata. E' necessario infatti adattare l'educazione dei giovani al concetto informatore di ciascuna costituzione o addirittura improntarla; p.es., l'indirizzo democratico della gioventù suole conservare la democrazia, l'oligarchico l'oligarchia. Insomma con la migliore educazione politica si avvantaggia sempre la costituzione.

Inoltre, l'educazione deve essere uguale per tutti, perché unico è il fine dello Stato; e proprio per garantire tale uniformità l'educazione deve essere attribuita allo Stato. Tale scelta si inquadra in quella concezione organicistica dello Stato, che accomuna - sia pure con le forti differenze che abbiamo evidenziato - i due grandi filosofi dell'Antichità, conducendoli inevitabilmente a collocare su un piano subordinato le esigenze e i diritti degli individui.

E' di pubblico interesse - dice Aristotele - che l'esercizio delle singole attività sia subordinato all'interesse collettivo: nello stesso tempo non bisogna credere che ogni cittadino sia padrone assoluto di sé, ma invece che tutti appartengano alla città, essendo ciascuno parte della città; poiché la cura di ciascuna parte è subordinata alla cura della totalità.

3. Agostino

Cenni biografici

Nasce a Tagaste, in Numidia (l'attuale Algeria), nel 354. Il padre appartiene alla modesta classe dei curiales, piccoli proprietari terrieri; la madre, Monica, è cristiana.

Nonostante qualche difficoltà economica, tra il 369 e il 373 (quindi tra i 15 e i 19 anni) frequenta la scuola di retorica a Cartagine, uscendone "oratore". E' a Cartagine che legge, per la prima volta, l'Hortensius di Cicerone, che lo infiamma di passione per gli studi filosofici; sempre a Cartagine si avvicina al manicheismo. La mancanza di mezzi gli impedisce di proseguire gli studi ad Alessandria o Atene. Si dà allora all'insegnamento della retorica, prima brevemente a Tagaste, quindi di nuovo a Cartagine, nel 374. Conosce una donna, con la quale convive per dodici anni e dalla quale ha un figlio, Adeodato.

Nel 383, a 29 anni, si reca a Roma per aprirvi una scuola di retorica, seguito da alcuni amici, dalla madre e da Adeodato. Si distacca dal manicheismo e attraversa una fase di scetticismo, secondo l'insegnamento degli accademici che professavano il dubbio universale.

Nel 384 si reca a Milano, dove si è resa vacante una cattedra di retorica. Qui incontra Ambrogio e si avvia sulla strada del Cristianesimo, aiutato anche dalla lettura di Platone e dei neo-platonici. Nel 386 si compie la conversione completa; nel 387 viene battezzato. Nello stesso anno parte per l'Africa; ad Ostia muore la madre.

Nel 388, giunto in Africa, si stabilisce prima a Cartagine, quindi a Tagaste, dove fonda un cenobio, nel quale vive religiosamente con un gruppo di amici.

Nel 391 si reca ad Ippona, dove i fedeli lo riconoscono e chiedono che venga ordinato prete; Agostino accetta e fonda un monastero in Ippona. Nel 395 viene nominato vescovo coadiutore, per aiutare il vecchio Valerio. Alla morte di quest'ultimo, nel 396, viene nominato vescovo di Ippona. Da allora la sua vita è consacrata alla Chiesa.

Muore nel 430, a 76 anni. Tra le numerossime opere, ricordiamo soltanto le Confessioni (scritte nel 400, quando ha 46 anni) e il De civitate Dei (scritto tra il 415 e il 426).

Il pensiero politico

Lo sfondo storico del De civitate Dei - scritto tra il 415 e il 426, quando Agostino ha ormai superato i 60 anni - sta nella drammatica crisi dell'Impero romano, resa evidente dal sacco di Roma del 410. Tale disfatta poneva due problemi. Il primo era l'accusa che i pagani rivolgevano ai cristiani, in base alla quale il crollo di Roma sarebbe stato legato al rinnegamento della religione pagana, sostituita con quella cristiana; da questo punto di vista, era necessario difendere la religione cristiana dall'accusa di aver determinato il crollo dell'Impero. Per fare ciò Agostino sviluppa una visione provvidenziale della storia, che conferisce senso positivo ad ogni evento, anche se catastrofico. Il secondo problema, posto dal sacco di Roma, aveva un carattere più generale, coinvolgendo tanto i cristiani quanto i pagani: era il senso di drammatico smarrimento di fronte al crollo di un'epoca e di un sistema complessivo di vita. Su questo piano, si trattava di rassicurare i cristiani - che erano peraltro ormai inseriti nelle strutture dell'Impero - sul senso della storia umana, collocando il dramma in atto all'interno di una grandiosa e complessiva considerazione della storia, il cui esito finale era costituito dalla salvezza dei credenti. E' in tale ambito che Agostino sviluppa la teoria delle due Città, le quali, anche se intrecciate nella storia, sono ben distinte quanto al destino.

Il dualismo tra dimensione terrena e dimensione celeste - tipico degli scrittori cristiani dei primi secoli, e che ha condotto taluni a parlare di "lealtà divisa" - viene radicalizzato da Agostino, che afferma inoltre la netta superiorità della seconda sulla prima. Il testo dove più efficacemente viene rappresentato tale dualismo si trova nel XIV libro del De civitate Dei.

Due amori fecero dunque due Città: l'amore di sé fino al disprezzo di Dio fece la Città terrena; l'amore di Dio fino al disprezzo di sé fece la Città di Dio. Quella si gloria di sé medesima, questa si gloria nel Signore. Quella cerca la sua gloria dagli uomini, questa mette la sua massima gloria in Dio, testimone della sua coscienza. L'una si esalta nella sua gloria, l'altra dice al suo Dio: «Tu sei la mia gloria, tu mi fai rialzare il capo». In quella, sia nei suoi capi, sia nelle nazioni che essa sottomette, domina la libidine del dominio; in questa i cittadini servono reciprocamente gli uni agli altri, i governanti consigliando, i sudditi obbedendo. Quella, nei suoi principi, ama la sua propria forza; questa dice al suo Dio: «Amerò te, o Signore, mia unica forza».

La città terrena nasce dal delitto di Caino, ossia da un atto dovuto non alla rivalità per i beni terreni, ma all'invidia diabolica dei cattivi per i buoni. Il dualismo è insanabile e sarà consacrato dalla divisione finale delle due città, alla fine dei tempi, quando la città celeste godrà del sabato che non avrà sera e la città terrena languirà nelle pene eterne.

Ma se saranno separate alla fine dei tempi, nel corso della storia le due città sono mescolate. La città di Dio, pellegrina in terra, ha tra i suoi cittadini molti che in realtà appartengono alla città terrena, e viceversa. Tuttavia, è possibile tracciare le linee di una storia sacra, ossia delineare la storia della città celeste nel suo cammino terreno. Il criterio per individuare tale storia sarà la rivelazione: la storia sacra sarà dunque quella di Israele e della Cristianità. Ciò non significa, tuttavia, che la città celeste si identifichi totalmente con queste manifestazioni storiche; occorre infatti distinguere tra la Gerusalemme celeste e quella terrena. In quest'ultima vivono molti amici di Babilonia; e viceversa, in Babilonia vivono e hanno vissuto alcuni amici di Gerusalemme. L'appartenenza alla stirpe di Israele non è dunque condizione necessaria per la salvezza prima di Cristo; è tuttavia solo quest'ultimo che può dare la salvezza.

Ricapitolando: le due città, nel corso storico, sono mescolate; nonostante ciò, è possibile delineare una storia sacra, ossia la storia della città celeste nel suo cammino terreno. Per distinguere questa storia dalla vicenda della città terrena occorrerà rifarsi alla rivelazione: sarà sacra la storia di coloro ai quali Dio si è rivelato, dunque Israele e poi la Cristianità. Ma bisogna sempre tenere ferma la distinzione tra Gerusalemme celeste e Gerusalemme terrena: quest'ultima è una manifestazione storica che non esaurisce la prima. In altre parole, non tutti coloro che appartengono formalmente alla Gerusalemme terrena vi appartengono spiritualmente; così come alcuni che appartengono formalmente (o materialmente) a Babilonia, spiritualmente appartengono a Gerusalemme. Anche la Chiesa cristiana - quae civitas Dei est - va distinta dalla Città di Dio celeste: essa, infatti, come la Gerusalemme terrena, è un corpus permixtum, nel quale la zizzania cresce insieme al frumento. Ma il riconoscimento di tali limiti non conduce Agostino a concepire la vera Chiesa come un corpo spirituale (e quindi invisibile), composto da tutti coloro che sono veramente santi; egli accetta e sostiene il primato della Chiesa visibile e gerarchica, quale manifestazione di un Impero spirituale, universale e in divenire.

Pur con le dovute distinzioni, dunque, la Città di Dio ha precisi punti di "attacco" terrestre: prima Israele, poi la Chiesa di Cristo e la sua gerarchia. Tale riconoscimento getta le basi per una teologia della storia, nonché per una sacralizzazione della vita politica. La presenza del sacro nella storia poteva condurre a due esiti: il primo era la rivendicazione del primato della Chiesa, in quanto sede certa del sacro, sul potere politico; il secondo era la rivendicazione, da parte del potere politico (e quindi dell'Impero), di finalità e compiti sacri, di natura religiosa. Il secondo esito ha un suo esempio storico nella vicenda di Carlo Magno, che concepisce il suo potere come attuazione dei princìpi cristiani, giungendo a considerarsi protettore della Chiesa; il primo trova invece la sua realizzazione forse più pura nell'atteggiamento di Papa Gregorio VII, il quale, con il suo Dictatus Papae, rivendica l'assoluto primato della Chiesa sul potere politico, non lasciando quindi alcuno spazio a quel "diritto naturale" dello Stato che i cristiani dei primi secoli avevano invece teorizzato (fatta salva, ovviamente, la sfera religiosa). Il pensiero di Agostino contiene, per un verso, le premesse per una scelta teocratica come quella di Gregorio VII; ma tali premesse non sono completamente sviluppate, anche perché, per altro verso, nel pensiero del Vescovo di Ippona sono presenti i motivi del diritto e delle virtù naturali. Quest'ultimo è un tema molto importante. Esiste un quid medium tra la vera virtù, santificata dalla grazia, e il vizio: si tratta della virtù naturale, destinata ad essere perfezionata e non distrutta dalla grazia.

E' interessante vedere come questa nozione di virtù naturale giochi un ruolo importante nella valutazione agostiniana dell'Impero romano. Per un verso, Agostino critica a fondo l'Impero romano: egli sostiene, ad esempio, che una repubblica romana, come la intende Cicerone, non è mai esistita. Repubblica significa infatti "cosa del popolo"; per esservi una repubblica deve dunque esserci un popolo, ossia una moltitudine che riconosca un diritto e condivida degli interessi; il diritto, infine, altro non è che giustizia. Dalla insussistenza della causa ultima, la giustizia, Agostino deduce l'infondatezza della prima affermazione, ossia l'esistenza di una repubblica. A Roma non vi era affatto giustizia - dice infatti Agostino -, giacché questa significa "dare a ciascuno il suo", mentre a Roma l'uomo era sottratto al suo vero Dio e sottomesso a demoni immondi. Se non c'era giustizia, non poteva esserci diritto; e non essendoci diritto, non poteva darsi, per la definizione che abbiamo visto poco sopra, alcun popolo. Ma senza popolo non si dà alcuna cosa del popolo, quindi alcuna repubblica. La conclusione di Agostino, come possiamo vedere, è assai negativa: Roma non conosceva la giustizia, Roma non era una repubblica.

Per altro verso, tuttavia, Agostino fornisce un'interpretazione provvidenzialistica dell'Impero romano. Anzitutto riconosce le virtù naturali praticate dai Romani, attribuendo ad esse l'esistenza dell'Impero. L'Impero fu, in un certo senso, la ricompensa "laica" - l'unica possibile, essendo preclusa quella celeste - per le virtù naturali praticate dai Romani. E poiché Agostino è convinto che ogni potere derivi da Dio - secondo un disegno provvidenziale imperscrutabile, che guida la storia - egli finisce per "santificare" la funzione dell'Impero romano, pur con tutti i limiti che gli attribuisce.

Fermiamoci un attimo a considerare - in relazione al problema politico - le implicazioni di una visione religiosa della storia, dominata dalla volontà di Dio. L'assunzione di un orizzonte provvidenziale, determina, per un verso, il rafforzamento del potere. Anzitutto, ogni potere, in quanto esistente, è voluto da Dio e dunque ha una sua ragion d'essere, una sua giustificazione, che lo rende legittimo. Il potere trova la sua legittimità nel derivare da Dio; ma poiché ogni potere deriva da Dio, ogni potere è legittimo. Tale approccio rende inoltre molto più forte il principio stesso di legittimità: essa deriva infatti da Dio, dunque da una volontà infinitamente superiore a quella degli uomini e, in quanto tale, imperscrutabile. Ne consegue che il fondamento della legittimità è soprannaturale, assoluto e, in quanto tale, si sottrae ad ogni esame, ad ogni controllo da parte degli uomini. Se il potere deriva da Dio, chi lo discute mette in dubbio la volontà di Dio: è, in sostanza, un sacrilego. Il dovere dell'obbedienza, nel quadro di tale concezione, non può che uscirne rafforzato: obbedendo al potere, si obbedisce alla volontà di Dio. In conclusione: fondare il potere sulla volontà di Dio equivale a sacralizzarlo, con tutto ciò che ne può seguire. Un potere sacralizzato è un potere fortissimo, indiscutibile: di fronte ad esso l'uomo è, in linea di principio, senza argomenti, senza diritti. Per altro verso, tuttavia, il potere politico ne può uscire indebolito. Il fatto che la legittimazione sia di origine divina, fa sì che il potere perda il carattere di "fine in se stesso", per assumere quello di mero strumento. Il potere è soltanto il mezzo attarverso il quale si realizza la volontà di Dio; ciò significa che esso è, in un certo senso, "limitato". Non può, con tutta evidenza, andare contro Dio e contro le sue leggi. Anche l'obbedienza dei sudditi è quindi strumentale: essi obbediscono al potere in quanto strumento di Dio e non per se stesso. Di qui la possibile limitazione (e quindi l'indebolimento) del potere: i princìpi del Cristianesimo limitano la sfera d'azione del sovrano. Il potere politico assume dunque una connotazione strumentale, rispetto ad un fine che sancisce, oltretutto, l'assoluto valore di tutti gli individui in quanto figli di Dio. In teoria il potere politico non potrebbe far nulla che vada contro i princìpi della dottrina cristiana (anche se ciò si scontra con il problema della provvidenzialità della storia nella sua interezza): si dispone quindi di una serie di princìpi con i quali giudicare l'azione dello Stato e ai quali appellarsi per difendersi dallo Stato. Infine, dalla fondazione religiosa del potere politico può derivare la soluzione teocratica: poiché il potere deriva e dipende da Dio, e poiché la Chiesa è l'interprete autentica della volontà di Dio, il potere dipende dalla Chiesa, o quantomeno quest'ultima ha un chiaro primato su di esso.

Ma torniamo ad Agostino. Vediamo il profilo che egli traccia del principe cristiano:

noi diciamo felici gli imperatori, se essi regnano con giustizia, se non si levano in superbia, se si ricordano di essere uomini, anche in mezzo agli onori ed al servile ossequio che li circonda; se sottomettono il loro potere alla maestà di Dio, specialmente per estendere il suo culto; se, temono, amano ed onorano Dio; se prediligono quel regno in cui non temono di trovare chi li eguagli in dignità: se sono lenti a punire e pronti a perdonare; se unicamente puniscono per mantenere l'ordine e la tranquillità dello Stato, non per soddisfare il loro odio od il loro spirito di vendetta; se perdonano non perché l'iniquità resti impunita, ma nella speranza che il colpevole si corregga; se, talvolta, quando sono costretti a punire più aspramente, temperano questa necessità con la clemenza e la liberalità; se sono tanto più moderati nei loro piaceri, quanto più sarebbero liberi di eccedere nel piacere; se preferiscono comandare alle loro cattive passioni che a tutti i popoli della terra, e se questo fanno non per desiderio di vana gloria, ma per amore della felicità eterna; se, per i loro peccati, essi non trascurano di offrire al loro vero Dio sacrifici di umiltà, di misericordia e di preghiera.

Agostino si spinge a lodare la politica confessionale di Teodosio, perché, ai suoi occhi, il carattere tollerante della società pagana è inaccettabile. La città di Dio è dottrinalmente unitaria e quindi la società che ad essa si ispiri non può tollerare l'errore: l'intervento dello Stato in favore della vera fede e contro gli eretici è dunque legittimo e non si può confondere la persecuzione del cristiano con la persecuzione di chi si batte per una causa non vera e non giusta. Occorre aggiungere che il compiacimento mostrato da Agostino per l'atto di pubblica penitenza dell'Imperatore di fronte al vescovo di Milano ha un significato eminentemente etico-religioso e non politico. Il suo valore, agli occhi di Agostino, sta nel costituire un atto esemplare di penitenza individuale: il credente, sebbene sia l'Imperatore in persona, segue le indicazioni e le penitenze comminate dal suo vescovo. Tale atto non ha, invece, un significato politico; ossia, non configura la supremazia del potere religioso sul potere politico, della Chiesa sull'Impero.

Per comprendere il richiamo all'obbedienza nei confronti dell'autorità - che è presente in Agostino - è bene fare cenno a quella sorta di "metafisica della pace" che Agostino sviluppa nel De civitate Dei. Le istituzioni sono sempre buone, purché non impediscano alla religione cristiana di diffondersi e di insegnare il vero culto di Dio. La loro bontà deriva dal perseguire il fine della pace. La pace, per Agostino, ha un valore assoluto e si realizza su più piani per culminare nella pace di tutte le cose, che è la tranquillità nell'ordine.

Sicché la pace del corpo è l'ordinato temperamento delle parti, la pace dell'anima irrazionale è l'ordinato riposo degli appetiti, la pace dell'anima razionale è l'accordo bene ordinato tra il conoscere e l'operare, la pace del corpo e dell'anima è la vita e la salute bene ordinata della creatura animata, la pace dell'uomo mortale con Dio è obbedienza bene ordinata nella fede sotto la legge eterna, la pace degli uomini è l'unione nell'ordine, la pace domestica è l'unione e l'ordine del comandare e dell'obbeddire tra coloro che abitano insieme, la pace della città è l'unione e l'ordine del comandare e dell'obbedire tra i cittadini, la pace della Città Celeste è l'ordine perfetto, è l'unione suprema nel godimento di Dio, nel mutuo godimento di tutti in Dio, la pace di tutte le cose è la tranquillità nell'ordine. L'ordine è la disposizione che, secondo la parità o la disparità nelle cose, assegna ad ogni cosa il suo posto.

L'ordine è dunque la disposizione che assegna ad ogni cosa il suo posto. Qui la nozione di ordine sembra coincidere con quella di pace e di giustizia: tutte presuppongono un ordine delle cose, secondo il quale ogni cosa sta al posto che le è proprio ed è bene che tutto sia così. Ora, proprio nella pace abbiamo il punto di incontro tra le due città. Certamente, le due città perseguono fini diversi: Babilonia aspira ad una pace mondana, finalizzata cioè al godimento dei beni terreni; Gerusalemme, invece, aspira ad una pace spirituale, che consiste nel godimento dei beni eterni, e che la spinge ad un diverso atteggiamento nei confronti dei beni terreni. Dunque, conclude Agostino, l'uso dei beni è comune, ma il fine è diverso. Cionondimeno, Gerusalemme condivide, insieme con l'uso dei beni, anche la pace cercata da Babilonia, perché essa è condizione necessaria alla conservazione della vita mortale. Perciò il cristiano obbedisce alle leggi, perché condivide, in quanto mortale, l'esigenza di conservare le cose utili alla vita, tra le quali la stessa pace tra le due città. Ma sentiamo come lo stesso Agostino descrive questa "collaborazione" tra le due città.

Durante il suo pellegrinaggio sulla terra, la Città celeste recluta i suoi cittadini presso tutte le genti e, pur nella pluralità delle lingue, raccoglie insieme una società che va pellegrina, incurante di tutte le differenze e di costumi e di leggi e di istituzioni che servono ad ottenere o a mantenere la pace terrena, senza guastare o distruggere nulla, conservando, anzi, e adattandosi alle consuetudini di ogni singolo popolo, poiché, nonostante esse siano diverse da popolo a popolo, mirano tutte ad un unico e medesimo fine, la pace terrena, purché esse lascino alla religione la libertà di insegnare il culto del solo e vero Dio. Anche la Città celeste, in questo esilio, si giova dunque della terrena, e, per tutto ciò che concerne la natura morale dell'uomo, nei limiti in cui la pietà è salva e la religione lo permette, essa protegge ed incoraggia l'uinone delle volontà umane, riferendo la pace terrena alla pace celeste, la pace vera, la sola di cui possa gioire, la sola che la creatura razionale possa chiamare con questo nome, la pace che è ordine perfetto, l'unione suprema nel godimento di Dio, nell'amore scambievole di tutti in Dio. Là non ci sarà più vita mortale, ma vitalità piena e certa; non ci sarà più corpo animale, il cui fardello corruttibile appesantisce l'anima, ma corpo spirituale, senza alcuna indigenza, ed in tutto sottomesso alla volontà. Mentre va pellegrina nella fede, essa ha questa pace, e, nella fede, essa vive con giustizia, riferendo al conseguimento di questa pace tutte le buone opere che essa compie in relazione a Dio ed al prossimo, perché la vita della Città è una vita sociale.

In questo brano possiamo rintracciare il concetto di universalità come tratto saliente della missione della Chiesa, la quale non tiene conto di alcuna distinzione linguistica, storica, culturale e istituzionale, poiché si rivolge all'uomo. Poi abbiamo quello che si potrebbe definire l'agnosticismo politico della Chiesa: essa si propone infatti non solo di non guastare o distruggere nulla, ma anzi di conservare tutti i diversi tipi di ordinamento istituzionale e culturale nei quali si trova ad operare, nella convinzione che tutti mirino all'unico fine di garantire la pace. La sola condizione è che tali ordinamenti garantiscano alla Chiesa la libertà per svolgere la sua missione evangelizzatrice (insegnare il solo e vero Dio). Abbiamo infine il riconoscimento che la Città celeste non solo si giova, ma anzi incoraggia la pace terrena (purché non in contrasto con la religione) durante il suo esilio quaggiù, cercando di operare con giustizia soprattutto verso il prossimo. La vita della Città, conclude infatti Agostino, è una vita sociale: e qui torna la "naturalità" della socialità umana che abbiamo già incontrato nella filosofia classica greca. Quanto alla schiavitù, Agostino la ammette solo come nascente dal peccato; la natura degli uomini è uguale, e soltanto la colpa giustifica la schiavitù, ossia il dominio dell'uomo sull'uomo. L'esortazione di Agostino si rifà a Paolo: gli schiavi obbediscano al padrone, emendandosi interiormente; e i padroni li trattino con rispetto e pietà, senza superbia.

Infine Agostino ritiene che il cristiano non debba sottrarsi ad alcuna condizione sociale, giacché è stato stabilito che esso viva insieme ai non credenti, al fine di essere messo alla prova e purificato come l'oro nel crogiuolo. Quindi il problema non è quello di separarsi dal mondo, fondando comunità di santi e di giusti; il cristiano deve vivere mescolandosi ai peccatori, ma tenendo assolutamente fermi i fini ultimi che lo caratterizzano e quindi usando dei beni terreni solo come mezzi. Ciò significa che potrà fare il guerriero, ad esempio. Il concetto di guerra giusta ricompare dunque anche in Agostino; è giusta quella guerra conforme alla morale naturale, purché non leda la coscienza cristiana; ancora meglio se promuove la religione cristiana. Ma perché questi due fattori coincidano - facendo della guerra uno strumento della religione - bisognerà aspettare ancora qualche secolo.

Da sempre si discute sull'interpretazione delle due città, al fine di comprendere l'atteggiamento di Agostino verso la politica. Alcuni studiosi, come Corsini, sostengono che le equivalenze Città terrena/Impero romano e Città celeste/Chiesa cattolica sono il frutto di un equivoco. In realtà parlando di civitas Dei e civitas diaboli Agostino si sarebbe riferito a due entità spirituali, non identificabili con realtà storicamente determinate e precisamente demarcabili; tanto è vero che l'appartenenza visibile ad una di queste ultime (Impero o Chiesa) non coincide necessariamente con l'appartenenza vera e interiore. Gli sviluppi teocratici del pensiero di Agostino non sarebbero dunque imputabili all'ispirazione del vescovo di Ippona. Questa tesi è convincente se si pensa alla netta distinzione tra la Gerusalemme celeste e la Gerusalemme terrena, la quale è un corpus permixtum, dove vivono anche molti amici di Babilonia. Inoltre Agostino non pensa certamente ad un modello teocratico, nel senso di un'esplicita assunzione di responsabilità politiche da parte della Chiesa. Restano tuttavia due fatti: il primo è che Agostino riconosce il ruolo della Chiesa visibile e il suo primato, facendone la protagonista principale della storia sacra (questa empirica Chiesa romana, e non una chiesa invisibile e spirituale di santi); il secondo è che tale Chiesa, pur con tutta la zizzania presente in lei (come elemento di imperfezione umana), è spiritualmente superiore alla Città non cristiana ed è sede dell'unica e sola verità. Si tratta quindi di premesse che potevano condurre - anche se in Agostino non avviene - a determinati sviluppi. Sarà Orosio (che viene dalla cerchia di Agostino) a sviluppare, nelle sue Storie, il più completo compendio di teologia politica incentrata sull'Impero cristiano. L'Impero romano è il braccio secolare del Cristianesimo, il quale gli darà prosperità e durata perenni.

In una prospettiva più ampia - quella del profondo nesso complementare in Agostino tra poli a prima vista opposti, come fede/ragione, dipendenza del mondo da Dio/valore del mondo, libertà/grazia - Perone insiste anche in questo caso sul nesso tra Città di Dio e Città umana. Per un verso esse sono opposte; ma per l'altro si implicano. La città terrena, infatti, persegue fini che hanno qualcosa di buono (sappiamo infatti che il male per Agostino è non-essere): ed è nella ricerca della pace che le due città, come abbiamo visto, si incontrano. Insomma, le due città hanno fini diversi; ma ciò non significa che i fini della Città terrena siano completamente vani. Essi contengono qualcosa di buono, che trova la sua compiuta realizzazione, il suo senso, nella Città celeste. Solo nel Regno di Dio si compirà tale pienezza; per ora se ne può intravedere una anticipazione nella Chiesa. Ma in questa tensione escatologica sta anche la dimostrazione che Agostino è lungi dall'identificare la Chiesa storica con la Città di Dio (il che lo condurrebbe al modello teocratico).

4. Tommaso

Cenni biografici

Tommaso d'Aquino nasce a Roccasecca nel 1225. Dal 1239 al 1244 (dai 14 ai 19 anni) frequenta l'Università di Napoli, dove conosce l'Ordine dei Frati predicatori, nel quale decide di entrare, sebbene la famiglia sia contraria, nel 1244.

Ricondotto con la forza a Roccasecca dai fratelli, Tommaso non desiste dai suoi intenti e nel 1245 parte verso il Nord.

Dal 1248 al 1252 è a Colonia, alla scuola di Alberto Magno, il cui insegnamento lo dispone favorevolmente verso Aristotele.

Dal 1252 al 1259 risiede a Parigi, dove insegna con vari incarichi, sino ad ottenere nel 1257 la cattedra di teologia all'Università.

Dal 1259 al 1268 è in Italia, dove segue la corte pontificia nei suoi spostamenti, insegnando e scrivendo. In questi anni termina la Summa contra Gentiles, inizia la Summa theologiae e scrive l'incompiuto De regime principum.

Dal 1269 al 1272 è di nuovo a Parigi, dove continua a scrivere ed insegnare. Scrive numerosi commenti ad opere di Aristotele.

Dal 1272 al 1274 è a Napoli, dove insegna teologia all'Università. Chiamato al concilio ecumenico di Lione, muore durante il viaggio a Fossanova, nel 1274, quando ha 49 anni.

Il pensiero politico

In genere, il pensiero di Tommaso viene caratterizzato sottolineandone il "naturalismo", ossia la rivalutazione del fattore naturale di fronte al fattore soprannaturale. Ai dualismi agostiniani (mondo celeste/mondo terreno, natura/grazia) Tommaso sostituirebbe una concezione più moderata, in virtù della quale gratia non tollit naturam, sed perficit. Anche se la concezione positiva della natura può essere rintracciata in gran parte del pensiero cristiano e nello stesso Agostino, resta indubbio, secondo Valentini, che l'espressione "naturalismo" designi un tratto essenziale del pensiero tomistico, consistente nell'attribuzione alla natura di una sua autonomia.

Il naturalismo di Tommaso ha, sul piano del pensiero politico, precise conseguenze: esso infatti porta con sé una concezione naturalistica della socialità umana (l'uomo come animale naturalmente sociale e politico), dalla quale deriva una spiegazione in termini naturalistici sia dell'origine dello Stato, sia del rapporto governanti-governati, e che sfocia infine in una visione organicistica della società.

Certo ogni uomo è naturalmente dotato del lume della ragione, per mezzo del quale può, nei suoi atti, dirigersi al fine. E invero, se all'uomo si addicesse di vivere isolato, come vivono molti animali, non avrebbe bisogno di alcun'altra guida, ma ognuno, sotto Dio re supremo, sarebbe re di se stesso dirigendosi nelle sue azioni per mezzo del lume della ragione datogli da Dio. Senonché è proprio della natura dell'uomo di essere animale sociale e politico, vivente in comunità, più ancora degli altri animali, come appare anche dalla necessità naturale. Agli altri animali difatti la natura appresta il cibo, l'indumento peloso, i mezzi per difendersi, come i denti, le corna, le unghie, o almeno la capacità di fuggire rapidamente. L'uomo invece non è fornito di alcuno di questi doni di natura, ma in cambio ha ricevuto la ragione, per mezzo della quale può procurarsi tutte queste cose coll'opera delle sue mani, cose che tuttavia un uomo da solo non basta a procurarsi. Un uomo solo difatti non potrebbe di per sé condurre la vita con sufficienza (sufficienter). E' dunque naturale all'uomo di vivere in società con altri uomini. Inoltre: negli altri animali è insito un istinto naturale per tutto ciò che è loro utile o nocivo, così come l'agnello reputa istintivamente suo nemico il lupo. Ci sono persino degli animali che per istinto naturale conoscono talune erbe medicinali e altre cose necessarie alla loro sopravvivenza. All'uomo invece la conoscenza naturale delle necessità della vita è data solo in generale, appunto perché gli è possibile per mezzo della ragione di pervenire dai princìpi universali alla conoscenza delle singole cose che sono necessarie al vivere umano. Ora non è possibile che un uomo solo raggiunga colla sua ragione tutte queste conoscenze. E' pertanto necessario all'uomo di vivere in società, affinché l'uno aiuti l'altro, e uomini diversi si dedichino a raggiungere colla ragione conoscenze diverse, ad es., l'uno nella medicina, un altro in questo, un altro in quello.

Siamo in pieno aristotelismo. L'uomo è un essere naturalmente sociale e politico, la natura stessa ce lo dimostra; la socialità è un istinto ed anche un bisogno. Come in Aristotele, e come nello stesso Platone, esiste una sproporzione tra le capacità dell'individuo singolo e i suoi bisogni; lo Stato sorge naturalmente per sopperire a questi bisogni, riunendo insieme più individui.

Lo Stato quindi, per Tommaso, diversamente dalla maggior parte dei precedenti pensatori cristiani, non è una conseguenza (e un rimedio) alla caduta dell'uomo, alla sua condizione di peccatore. Per Tommaso l'uomo era sociale anche ante peccatum. Egli infatti distingue due tipi di soggezione: quella nell'interesse di chi comanda, detta anche soggezione economica o civile, la quale deriva dal peccato (come in tutto il pensiero cristiano, la schiavitù è effetto del peccato, giacché gli uomini, per natura, sarebbero uguali) e quella nell'interesse di chi obbedisce. Quest'ultimo tipo di "soggezione" altro non è che la naturale distinzione tra governanti e governati, della quale il consorzio umano non può fare a meno e che esisteva anche nell'età dell'innocenza. Senza tale distinzione mancherebbe infatti alla società umana il bene dell'ordine, in virtù del quale i più sapienti governano, riconducendo le disparate tendenze dei singoli ad unità. Naturale è dunque anche la diseguaglianza degli uomini, non solo per età o per sesso, ma anche per ragioni individuali, ossia per il possesso in grado diverso di sapienza, giustizia, bellezza, prestanza fisica.

Anche in Tommaso abbiamo insomma una visione naturalistico-organicistica della realtà. Ciò implica:

a) che esista un ordine naturale (e quindi necessario, oggettivo);

b) che tale ordine contenga diseguaglianze naturali tra le parti che lo costituiscono;

c) che tale ordine sia naturalmente gerarchico.

Come esiste una gerarchia nel mondo (ad esempio, gli uomini sono superiori agli animali e alle piante) che culmina in Dio creatore, così nell'uomo esiste una gerarchia che culmina nella ragione; la società, analogamente, deve essere ordinata in modo gerarchico e monarchico, giacché il sovrano sarà quell'uno che si trova al culmine della società e le imprime un ordine unitario.

Tommaso vede quindi nella monarchia il regime politico ideale. Anch'egli adotta il modello sestuplice di classificazione delle forme di governo già elaborato da Aristotele[6], ma - contrariamente al filosofo greco - ritiene che la monarchia sia la costituzione migliore. Egli si pone esplicitamente tale problema:

occorre ricercare che cosa maggiormente convenga ad un reame o ad una città; se esser governati da uno solo o da più. Ciò può esser stabilito considerando il fine stesso del reggimento politico.

Ma quale fine ha, per Tommaso, lo Stato?

Lo sforzo di qualsiasi reggitore deve essere inteso ad assicurare il benessere del suo dominio. Spetta infatti al nocchiero di guidare la nave nel porto di salvezza, preservandola illesa dai pericoli del mare. Ora il bene e la salute della comunità consociata sta nella conservazione della sua unità, che si chiama pace: ove questa venga meno, cessa il vantaggio del vivere sociale, anzi la discordia lo tramuta in un peso. A questo pertanto deve massimamente mirare il reggitore di una comunità: di assicurare l'unità della pace.

Riscontriamo, in questo passo, la fusione di temi platonici e agostiniani. Per Platone[7], come è noto, il bene supremo dello Stato consiste nella sua unità; quanto ad Agostino[8], egli stabilisce una vera e propria metafisica della pace (come tranquillità nell'ordine) ed è proprio nella pace che individua il fine perseguito dalla città terrena, nonché il punto di incontro di quest'ultima con la città celeste.

Poste queste due premesse (il modello migliore è quello che meglio realizza il fine; il fine è l'unità nella pace) Tommaso tira le sue conclusioni:

quanto più dunque un governo sarà efficace a conservare l'unità della pace, tanto più sarà utile. Invero, noi diciamo che è più utile ciò che meglio conduce al fine. Ora è evidente che l'unità può essere assicurata meglio da ciò che di per sé è già uno, che non da una pluralità: come ciò che per sé è caldo è il mezzo più atto a riscaldare. Il governo di uno solo pertanto è più utile di quello di molti.

Tommaso argomenta la sua tesi con una serie di esempi. Per poter governare è necessaria sempre una certa unità tra i molti: basta pensare ad una nave per la quale è necessario stabilire la rotta; anche se molti partecipano alla determinazione della rotta, tale determinazione sarà raggiunta soltanto quando questi molti troveranno un accordo. Ma se l'unità è necessaria, incalza Tommaso, meglio una vera e propria unità, piuttosto che una molteplicità la quale si sforza di diventare unitaria. Ancora: la natura, la quale opera sempre per il meglio, ci insegna che ogni governo è governo di uno solo:

difatti le membra hanno un solo motore, il cuore; e le parti dell'anima sono dominate da una forza superiore, cioè la ragione. Anche la api hanno un solo re, e nell'intero universo vi è un Dio solo, creatore e rettore di tutte le cose. E ciò è conforme a ragione. Ogni molteplicità deriva dall'unità.

Vista l'importante funzione svolta dai re, essi avranno diritto a grandi ricompense (appare qui, tra l'altro, l'immagine vetero-testamentaria del re proposta da Tommaso, ossia di un uomo buono e pio, tutto preso dai beni religiosi):

rimane ora da considerare ulteriormente quale eminente grado di celeste beatitudine sarà concesso a coloro, i quali adempiono degnamente e lodevolmente al loro dovere di re. Invero, se la felicità è il premio della virtù, ne consegue che ad una maggiore virtù sarà dovuto un grado maggiore di felicità. Ma la virtù, mediante la quale un uomo riesce a governare non solo se stesso ma anche gli altri, è la più alta fra tutte; e lo è tanto più, quanto più si estende ad un numero maggiore di uomini.

Da osservare, ancora una volta, l'idea della superiorità del bene comune su quello individuale, che poco dopo Tommaso formula quasi con le stesse parole di Aristotele: «il bene della comunità è più grande e più divino del bene di uno solo».

Se la monarchia è il regime migliore, la tirannide, che è il suo opposto speculare, non potrà che costituire il regime peggiore. Il ritratto che Tommaso fa del tiranno è classico:

[...] il tiranno, disprezzando il bene comune, e perseguendo il suo bene privato, deve necessariamente gravare i sudditi in varie maniere, a seconda delle diverse passioni cui soggiace nel perseguimento dei suoi interessi. Chi invero è posseduto dalla passione della cupidigia, rapina i beni dei sudditi; come dice Salomone (Prov. XXXIX, 4): <<Il re giusto ristabilisce la terra, l'uomo avaro la distrugge>>. Se per contro soggiace alla passione dell'ira, per nulla sparge il sangue, come si legge in Ezechiele (XXII, 27): <<I loro principi in mezzo a loro come lupi anelanti alla preda, a spargere il sangue>>. E il Sapiente ammonisce di rifuggire da questo governo, dicendo (Ecclesiastico, IX, 18): <<Tienti lontano dall'uomo che ha potere di uccidere>>, poiché invero egli si serve del suo potere per uccidere non in vista della giustizia, ma per sfrenata passione. E così non vi potrà essere alcuna sicurezza, ma tutto diventa malsicuro, poiché ci si allontana dal diritto, né si può fare alcun affidamento su ciò che dipende dalla volontà, per non dire dal capriccio di un altro. Né egli grava i sudditi soltanto nelle cose corporali, ma ostacola altresì il loro bene spirituale, poiché coloro i quali mirano più al potere che al bene, impediscono ogni progresso dei sudditi, sospettando in ogni preminenza di questi una minaccia al loro iniquo dominio. I tiranni difatti sospettano più i buoni che i cattivi, e la virtù altrui fa loro sempre paura. Essi cercano pertanto di impedire che i loro sudditi, divenendo virtuosi, concepiscano pensieri magnanimi, mal sopportando il loro iniquo dominio; che fra di essi si stabiliscano vincoli di amicizia e possa godersi reciprocamente del beneficio della pace, affinché, diffidando gli uni degli altri, nulla possano macchinare contro il loro potere. Perciò seminano fra di essi le discordie, favoriscono quelle già esistenti, e proibiscono tutto ciò che conduce gli uomini a unirsi, come nozze e conviti e simili, che sogliono ingenerare familiarità e fiducia fra gli uomini.

Come Aristotele, Tommaso individua nel perseguimento o meno del bene comune il criterio per distinguere le forme rette dalle forme degenerate. Ciò lo condurrà, tuttavia, a vedere nella democrazia la forma migliore (o la meno peggiore) tra le degenerate; se infatti non si governa nell'interesse comune e secondo virtù, allora, in questo caso, è meglio che siano in molti a governare:

se un governo degenera nell'ingiustizia, conviene piuttosto che sia di molti, perché sia più debole, e si ostacolino a vicenda. Perciò fra le forme ingiuste di governo la democrazia è più tollerabile, e la tirannide è la peggiore.

Compare qui l'idea della limitazione del potere, anche se soltanto quando si ritiene che il potere possa essere nocivo (i pensatori liberali moderni, guardando al potere con disincanto e alla natura umana con realismo, sosterranno che bisogna sempre diffidare del potere e che è quindi è sempre necessario limitarne l'estensione, a prescindere da chi si trovi momentaneamente a detenerlo).

Tuttavia, Tommaso non si limita a impostare il problema dello Stato (e quindi del potere politico) in termini etico-religiosi. Egli lo affronta anche in termini giuridico-istituzionali. Non basta insomma confidare nelle virtù del re e nel suo timore di Dio; occorre anche disporre le cose affinché il suo potere sia temperato e giusto. Tale impostazione compare in tre luoghi:

a) in primo luogo, nel De regime principum, dove Tommaso dice che occorre organizzare il governo in modo tale che il potere del re sia temperato e non possa divenire tirannico;

b) in secondo luogo, nella Summa theologiae, quando Tommaso parla di governo misto, che ricomprende in sé i tre princìpi (monarchico, aristocratico e democratico; qui Tommaso fa anche riferimento all'Antico Testamento, ricordando che Mosè e i suoi successori governavano con l'aiuto degli anziani, eletti dal popolo);

c) infine, abbiamo l'importante riflessione sul tema della legge.

La legge, per Tommaso, è espressione della ragione. Essa è presente ovunque, nelle cose e negli atti degli uomini, come una regola che presiede alla loro struttura. La stessa inclinazione del corpo al piacere fisico, dice Tommaso, è chiamata legge del corpo. Ora, la ragione ha come sua caratteristica quella di ordinare un fine; essa ha però bisogno della volontà per realizzare quel fine, ossia per farsi ragione pratica. Ma non tutte le volontà sono razionali; dunque non tutti gli atti di volontà sono legge, bensì soltanto quelli che possiedono un'intrinseca razionalità. Questa impostazione ha enormi conseguenze, in campo politico.

La ragione ha il potere di muovere (all'azione) grazie alla volontà, come è stato detto più sopra: in quanto appunto un fine è voluto, la ragione comanda tutto ciò che è necessario a raggiungerlo. Ma perché la volontà nei suoi comandi abbia valore di legge, occorre che essa sia dotata di una intrinseca razionalità. In questo senso va inteso il detto che la volontà del principe ha valore di legge: altrimenti la volontà del principe sarebbe piuttosto un'iniquità che una legge.

Facciamo attenzione: il principe è l'elemento volontaristico della legge, ciò che conferisce ad essa forza coattiva. Da questo punto di vista, ha ragione ancora Ulpiano: il princeps è legibus solutus, nel senso che egli, non potendo auto-costringersi e non essendo soggetto a sanzioni, è al di sopra delle leggi. Il principe è inoltre a lege solutus, nel senso che può modificare le leggi o dispensarne momentaneamente dall'obbligo. Ma è anche vero che il principe è moralmente obbligato a sottostare alle leggi, e che di ciò deve rispondere a Dio. In conclusione: il potere del principe è condizione necessaria ma non sufficiente perché si possa parlare di legge; a tal fine è altrettanto essenziale il carattere razionale della norma. Se una legge non è razionale, non è giusta, quindi non è nemmeno una legge.

Abbiamo qui l'abbozzo di una logica giusnaturalistica, per cui esiste un diritto naturale (o razionale), uguale per tutti gli uomini, in tutti i tempi e in tutti i luoghi; e le leggi positive sono valide solo se conformi a tale diritto. Ma vediamo cosa dice Tommaso. Egli parte dalla legge divina che regola il mondo:

ora è evidente - partendo dal presupposto che il mondo sia retto dalla divina Provvidenza altrove dimostrato - che l'intera comunità dell'universo è governata dalla ragione divina. Pertanto la ragione stessa del governo delle cose (create) in quanto esiste in Dio come reggitore del tutto, ha natura di legge (...). Questa legge conviene chiamare legge eterna.

Poiché tutte le cose sono regolate dalla legge divina o eterna, è evidente che tutte le cose ne parteciperanno in qualche modo. Ma fra tutte le creature, l'uomo è quello soggetto in misura più perfetta alla Provvidenza, della quale diviene partecipe provvedendo a sé e agli altri: è questa partecipazione della creatura razionale alla legge eterna, conclude Tommaso, che viene chiamata legge naturale. La legge naturale ci permette di distinguere il bene dal male; ed essa, dice Tommaso, altro non è che l'impronta in noi della luce divina. Come si può vedere, qui abbiamo una vera e propria dottrina della legge naturale, come legge derivante da Dio e corrispondente all'ordine delle cose. Esiste dunque una legalità universale avente valore assoluto. Ma in cosa consiste, più precisamente, questa legge naturale? Quali sono i suoi articoli?

Il primo precetto della legge consiste appunto nel doversi fare e perseguire il bene ed evitare il male; e su questo si fondano tutti gli altri precetti della legge naturale, onde tutte le cose che bisogna fare o evitare sono di pertinenza della legge naturale, che la ragione pratica apprende naturalmente come beni umani. E poiché il bene ha natura di fine (naturale), il male invece natura del contrario, tutte quelle cose verso le quali l'uomo ha naturale inclinazione, sono apprese come buone dalla ragione naturale, e per conseguenza da perseguirsi nelle opere; le cose ad esse contrarie sono invece apprese come cattive e da evitare. L'ordine dei precetti della legge naturale corrisponde dunque all'ordine delle inclinazioni naturali. In primo luogo difatti si trova nell'uomo l'inclinazione al bene secondo la natura che gli è comune con tutte le sostanze (create); nel senso cioè in cui qualsiasi sostanza aspira alla conservazione del suo essere secondo la sua natura. In corrispondenza a questa inclinazione, appartiene alla legge naturale tutto ciò che assicura la conservazione della vita dell'uomo e ne impedisce la distruzione. In secondo luogo, si trova nell'uomo l'inclinazione ad alcuni beni più particolari, secondo la natura che gli è comune cogli altri animali. In questo senso si dicono appartenere alla legge naturale <<quelle cose che la natura ha insegnato a tutti gli animali>>, come l'unione del maschio e della femmina, l'allevamento dei figli, ecc. In un terzo modo, infine, si trova nell'uomo l'inclinazione al bene conforme alla natura razionale che gli è propria: come, ad esempio, l'uomo ha una naturale inclinazione a conoscere la verità nei riguardi di Dio, oppure a vivere in società. E in questo senso appartengono alla legge naturale le norme relative a tale inclinazione: come, ad esempio, che l'uomo eviti l'ignoranza, che non rechi offesa a coloro coi quali deve aver relazione, e tutte le altre norme di questo genere.

Se esiste una legge naturale, siamo dunque in possesso di un criterio per giudicare le leggi positive, per determinare se esse siano giuste o ingiuste e quindi per decidere se obbedirvi o meno. Le leggi, dice Tommaso,

possono essere dette giuste sia in considerazione del loro fine, quando sono ordinate al bene comune; sia in considerazione del loro autore, quando la legge che viene emanata non eccede i poteri di chi la emana; sia infine in considerazione della loro forma, quando cioè gli oneri che esse impongono ai sudditi sono ripartiti secondo un'uguaglianza proporzionale in vista del bene comune. Poiché difatti l'uomo è una parte della comunità, ogni singolo uomo, in ciò che è e in ciò che possiede, appartiene alla comunità: così come ogni singola parte, in ciò che è appartiene al tutto. E' per questa ragione che anche la natura talora sacrifica la parte per salvare il tutto. In base a questo principio, le leggi che ripartiscono gli oneri in modo proporzionale sono giuste, e obbligano nel foro della coscienza, e sono leggi legittime.

Quindi le leggi sono giuste quando sono finalizzate al bene comune, quando emanano da un'autorità legittima e infine quando rispettano la giustizia distributiva. Ne consegue che in tutti i casi contrari le dobbiamo considerare ingiuste. Ma cosa dobbiamo fare di fronte ad una legge ingiusta? Possiamo disobbedire o dobbiamo comunque obbedire? Le leggi ingiuste, dice Tommaso, non sono nemmeno leggi, sono violenza; esse quindi, nel foro della coscienza, non ci obbligano. A meno che, aggiunge prudentemente Tommaso, non si tratti «di evitare lo scandalo e il disordine, come c'insegna S. Matteo (V, 40-41, "Se ti trascinerà a correre per un miglio, va con esso altre due miglia; e si ti avrà tolta la tunica, dagli anche il mantello"». Ma se si tratta di leggi che si oppongono al bene divino (norme, ad esempio, che obbligano all'idolatria) allora esiste il dovere assoluto di disobbedire. Occorre tuttavia tenere conto del fatto che la ragione pratica non ha lo stesso rigore della ragione speculativa: quindi, man mano che ci avviciniamo alla realtà e al contingente, si apre la possibilità per la legge di regolarsi secondo tempi e luoghi, fermo restando il principio del riferimento alle norme fondamentali delle leggi naturali.

In conclusione, sul grande tema dell'obbedienza Tommaso formula una importante distinzione. In linea generale, l'obbedienza è un dovere naturale:

come l'operare degli agenti naturali deriva dalla forza della natura, così l'operare dell'uomo deriva dall'umana volontà. Ora nelle cose naturali occorre che le più alte inducano le più basse alle azioni che sono loro proprie, mediante la preminenza delle virtù naturali ad esse conferita da Dio. Così anche nelle cose umane occorre che i superiori determinino colla loro volontà gli inferiori, in forza dell'autorità stabilita da Dio. Ma determinare colla ragione e la volontà non è altro che comandare. Perciò come nell'ordine naturale creato da Dio le cose più basse devono sottostare alla direttiva di quelle più elevate, così pure nelle cose umane, secondo l'ordine del diritto naturale e divino, gli inferiori sono tenuti ad obbedire ai loro superiori.

Ma vi sono casi in cui l'obbedienza non è un obbligo assoluto: anzitutto, quando il comando di un'autorità è in contrasto con il comando di un'autorità superiore, o differisce da esso; in secondo luogo, quando il comando si riferisca ad una materia nella quale l'autorità non ha competenza. In riferimento a quest'ultimo caso, Tommaso fa esempi molto significativi.

In quelle cose che dipendono dal moto interiore della volontà, l'uomo non è tenuto ad obbedire all'uomo, ma solo a Dio. L'uomo è obbligato bensì ad obbedire all'uomo per quanto riguarda l'operato esteriore del corpo; ma anche in questo, per quanto riguarda la natura del corpo, l'uomo non è obbligato ad obbedire all'uomo, ma soltanto a Dio, perché tutti gli uomini per natura sono uguali; così, ad esempio, per quanto riguarda il sostentamento del corpo e la generazione della prole. Perciò nel contrarre matrimonio, o nel far voto di castità, e in altri casi simili, la schiava non è obbligata ad obbedire ai padroni, né i figli ai genitori. In quelle cose invece che riguardano la disposizione degli atti e delle cose umane, il suddito è tenuto ad obbedire al suo superiore secondo la ragione della superiorità: così il soldato al condottiero dell'esercito per quanto riguarda la guerra; il servo al padrone, per quanto riguarda il compimento delle opere servili; il figlio al padre, per quanto riguarda la disciplina della vita e la cura della famiglia, e così per il resto.

Nell'idea che esistano una serie di "materie" sulle quali il comando dell'autorità non è lecito, si può intravedere il concetto di diritto individuale come limite all'azione dello Stato (e sarà il concetto della cosiddetta "limitazione materiale" del potere statale). Infine, tornando sul problema dell'obbedienza di fronte al potere ingiusto, Tommaso ribadisce la sua posizione abbastanza moderata, tranne che su questioni religiose:

ai prìncipi secolari l'uomo in tanto è tenuto ad obbedire, in quanto lo esige l'ordine della giustizia. Perciò, se questi non abbiano un potere giusto, ma usurpato, oppure se comandino cose ingiuste, i sudditi non sono obbligati ad obbedirli, tranne forse in taluni casi particolari, quando si tratti evitare uno scandalo od un pericolo.

Ma se, per esempio, il principe viene colpito da scomunica, allora i sudditi sono sciolti ipso facto dal giuramento di fedelta e quindi dal dovere di obbedienza.

In Tommaso abbiamo dunque una serie di posizioni che vanno nella direzione di una concezione razionalistico-giusnaturalistica della legge (concezione che, ovviamente, conduce diritta alla limitazione del potere); ma abbiamo anche il permanere della Chiesa, quale fonte certa di razionalità. Abbiamo infatti visto come la possibilità (anzi, il dovere) della disobbedienza sia affermato solo quando nasce da una pronuncia della Chiesa contro il potere, in genere per ragioni religiose. Inoltre abbiamo una concezione parziale della tolleranza.

Fra gli infedeli - dice Tommaso - vi sono quelli che non accolsero mai la fede cristiana, come i gentili e i giudei: e questi non devono in alcuna maniera essere costretti ad abbracciare la fede e a credere, perché il credere dipende dalla volontà. Possono tuttavia i fedeli, se vogliono, costringerli a non ostacolare la fede cristiana con atti blasfemi o con malvagie persuasioni, o addirittura con aperte persecuzioni. E per questa ragione frequentemente i fedeli di Cristo muovono guerra contro gli infedeli: non già per costringerli a credere (ché se anche riuscissero a sconfiggerli, ed a ridurli in cattività, li lascerebbero liberi di voler credere o no), ma per obbligarli a non ostacolare la fede di Cristo. Diverso peraltro è il caso di quegli infedeli che un giorno abbracciarono la fede, e ne fanno professione, come gli eretici e tutti gli apostati: questi devono essere costretti, anche fisicamente, ad adempiere quello che hanno promesso, e ad osservare quanto hanno accettato, una volta per sempre.

Infine, abbiamo una subordinazione del fine sociale (la virtù) al fine religioso (la beatitudine), che può condurre a configurare il primato della Chiesa sul potere politico. Dice infatti Tommaso: il fine della comunità deve essere determinato in maniera identica al fine del singolo. Ad esempio: se il fine ultimo dell'uomo fosse la salute, questo dovrebbe essere anche il fine dello Stato (la cui guida, in tal caso, sarebbe convenientemente affidata ai medici); oppure, se il fine ultimo dell'uomo fosse la ricchezza, lo Stato dovrebbe avere lo stesso fine (e quindi ci si potrebbe affidare a degli amministratori). Ma in realtà, poiché il fine per cui gli uomini si associano tra di loro è 'vivere insieme bene', e poiché la 'vita buona' è quella secondo virtù, il fine dello Stato e della società sarà quello di vivere secondo virtù. Ma l'uomo, vivendo in tal modo, è ordinato ad un fine ulteriore: l'uomo vive secondo virtù per potere infine godere di Dio, nella beatitudine. Conclude Tommaso:

l'ultimo fine della comunità consociata non sarà pertanto di vivere secondo virtù, ma di pervenire, per mezzo di una vita virtuosa, al godimento di Dio.

Ma come si raggiunge questo fine supremo della beatitudine? E' alla portata della virtù umana o richiede un intervento soprannaturale? Se fosse alla portata della virtù umana, il compito di guidare gli uomini verso di esso spetterebbe ai re, giacché sono questi ultimi a guidare gli uomini nelle loro aspirazioni alle cose umane. Ma poiché soltanto con la virtù divina si può giungere alla beatitudine,

solo un governo divino, e non un governo umano, potrà condurre a tale fine. Un governo di tale fatta spetta pertanto a quel re, che non è soltanto un uomo, ma anche un Dio, e cioè a Gesù Cristo nostro Signore, che, elevando gli uomini a figli di Dio, li ha introdotti nella gloria del Cielo.

Tommaso conclude ribadendo la distinzione tra potere politico e potere religioso, ma anche la subordinazione del primo al secondo:

pertanto, affinché le cose spirituali fossero distinte da quelle terrene, il ministero di questo regno è stato affidato non ai re della terra, ma ai sacerdoti, ed anzitutto al Sommo Sacerdote, successore di Pietro, Vicario di Cristo, al Romano Pontefice, al quale è necessario siano sottomessi tutti i re del popolo cristiano, come allo stesso Signore Gesù Cristo. Così invero a colui, cui spetta la cura del fine ultimo, debbono esser sottomessi coloro, cui spetta la cura del fine anteriore, ed esser diretti dal suo comando.

5. Machiavelli

Cenni biografici

Nasce a Firenze nel 1469, da famiglia relativamente agiata.

Nel 1498 (a 29 anni) si presenta per due volte candidato alla segreteria della seconda cancelleria (affari interni e straordinari, guerra); a febbraio fallisce (vince il candidato dei savonaroliani), a giugno riesce. A luglio viene inoltre nominato segretario dei Dieci di Balìa, magistratura addetta ai rapporti con gli altri Stati. Questi uffici gli daranno modo di raccogliere un vasto materiale storico e politico. Per 15 anni, infatti, egli riceve numerosissimi incarichi diplomatici, che lo portano presso Luigi XII, presso Cesare Borgia e presso l'imperatore Massimiliano.

Nel 1513 i Medici tornano al potere e Machiavelli viene epurato. Accusato di aver preso parte ad una congiura viene arrestato e torturato; riconosciuto innocente, può ritirarsi in una villetta presso San Casciano. Verrà pienamente riabilitato agli uffici politici soltanto nel 1525.

Nel 1513 scrive Il Principe; nel 1515 lo presenta a Lorenzo de' Medici.

Nel 1517 termina i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.

Nel 1518 scrive la Mandragola, Belfagor e il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua.

Nel 1520 termina Dell'arte della guerra. Nello stesso anno riceve dall'Università l'incarico di scrivere la storia di Firenze. Le Istorie fiorentine lo occuperanno per circa cinque anni.

Nel 1525 scrive un'altra commedia, la Clizia. Nello stesso anno si reca a Roma per offire a Clemente VII le Istorie fiorentine; rientra quindi nella vita politica.

Nel 1526 riceve l'incarico di provvedere alla difesa di Firenze, contro Carlo V.

Nel 1527, anche in seguito al sacco di Roma, una sollevazione popolare rovescia il governo mediceo e ristabilisce la costituzione repubblicana. Machiavelli viene esluso da qualsiasi carica. Muore a Firenze in povertà, a 58 anni.

Il pensiero politico

«Il problema di Machiavelli - è stato giustamente osservato - è il problema dello Stato: della fondazione, della conservazione, del governo dello Stato. Lo Stato è l'ultimo orizzonte delle sue riflessioni e della sua etica: egli infatti si pone sempre dal punto di vista di chi prende delle decisioni aventi per fine ultimo la salute dello Stato»[9]. Di qui il suo realismo o - secondo i suoi critici - il suo immoralismo o amoralismo. In realtà, il momento morale ha il suo ruolo, nel pensiero di Machiavelli; solo che esso è concepito aristotelicamente, ossia come qualcosa che sta dentro al più vasto bene della città. In ultima analisi, dunque, al di sopra di qualsiasi considerazione, per Machiavelli vale il principio secondo cui salus rei publicae suprema lex.

Quanto alle accuse di cinismo, rivolte da sempre all'autore del Principe, è stato osservato che se per un verso Machiavelli descrive con crudezza le efferatezze della politica, per altro verso non mancano in lui accenti accorati davanti ad esse e alla loro necessità. In secondo luogo, alcuni studiosi hanno evidenziato come tali 'efferatezze' costituissero mezzi di lotta politica largamente diffusi in quella terribile epoca che fu la prima metà del Cinquecento (e dunque Machiavelli altro non avrebbe fatto che studiare il suo tempo, con l'avalutatività propria dello scienziato). Infine, si è ricordato come la crudezza del Machiavelli derivasse anche da un dato caratteriale, essendo il suo spirito alieno da qualsiasi moralismo o pietismo e piuttosto incline all'ironia.

Ma veniamo alle tesi di questo controverso autore. Il celebre realismo viene esplicitamente "teorizzato" nel XV capitolo del Principe. Si tratta di un passo molto noto.

Resta ora a vedere quali debbano essere e' modi e governi di uno principe con sudditi o con gli amici. E, perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso, partendomi, massime nel disputare questa materia, dagli ordini degli altri. Ma sendo l'intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla imaginazione di essa.

Machiavelli sottolinea con forza ciò che lo differenzia dai molti altri autori che si sono occupati del medesimo argomento: il suo intento è cogliere la verità effettuale della cosa, mentre gli altri andavano dietro l'immaginazione di essa. In altre parole, Machiavelli si propone di comprendere la realtà politica per quello che è realmente, senza sovrapporre ad essa desideri o princìpi. Il suo è un intento scientifico, nel significato weberiano di a-valutativo: dunque realistico e spregiudicato nel senso letterale del termine. Per la verità, un intento Machiavelli lo dichiara: scrivere cosa utile a chi la intende, ossia scrivere qualcosa che sia utile per chi governa. Si manifesta, in questa opzione di Machiavelli, il suo punto di vista, al quale abbiamo fatto riferimento all'inizio: per il pensatore fiorentino lo Stato (e la politica) costituiscono l'orizzonte ultimo, il che lo conduce a porsi, nell'esame del problema politico, ex parte principis, dalla parte del potere. Ma si tratta di intento che non falsa l'indagine; anzi, proprio per essere veramente utile al principe, l'indagine deve essere veritiera, deve guardare alla realtà senza infingimenti.

Sempre in nome di quello che noi oggi chiameremmo il principio di realtà, Machiavelli ci richiama alla differenza tra i nostri desideri e la realtà:

molti si sono imaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare impara piuttosto la ruina che la preservazione sua: perché uno uomo, che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini infra tanti che non sono buoni.

Dunque la differenza tra essere e dover-essere, tra realtà e princìpi (o desideri), è grande, al punto che essa parrebbe, almeno in questo passo, incolmabile; sembrerebbe una caratteristica ineliminabile della realtà medesima. La realtà, dice Machiavelli, è molto meno bella dei nostri princìpi morali; chi non ne tiene conto - massimamente colui il quale detiene il potere - e guarda soltanto ai princìpi, si procura la propria rovina e non il proprio successo. Conclusione realistica (o, se preferite, pessimistica) di Machiavelli: il buono, tra molti cattivi, è destinato a soccombere. Di qui il consiglio per il Principe:

onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, e usarlo e non l'usare secondo la necessità.

Nel secondo paragrafo del capitoletto, Machiavelli fa un elenco delle buone e delle cattive qualità di un principe: liberalità o avarizia, crudeltà o pietà, infedeltà o fedeltà, paura o coraggio, debolezza o energia, umanità o superbia, lascivia o castità, schiettezza o astuzia, religiosità o incredulità, e così via. A tale elenco, nel paragrafo successivo, Machiavelli accompagna il seguente commento:

io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa in uno principe trovarsi, di tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute buone; ma, perché non le si possono avere, né interamente osservare, per le condizioni umane che non lo consentono, gli è necessario essere tanto prudente, che sappia fuggire l'infamia di quelli vizii chi li torrebbano lo stato, e da quelli che non gnene tolgano guardarsi, se egli è possibile; ma, non possendo, vi si può con meno respetto lasciare andare.

Sarebbe "laudabilissima cosa" che il Principe possedesse soltanto doti positive: ma ciò non è possibile, per le condizioni umane che non lo consentono. Emerge qui la concezione machiavelliana della natura umana come una mescolanza di vizi e virtù, nella quale, in genere, non sono le seconde a prevalere. La conclusione è un esempio di come le regole di condotta, in Machiavelli, siano dominate dal fine ultimo della politica (ossia, dalla salus rei publicae, dalla salvezza dello Stato): posto che esistano due categorie di vizi - gli uni conducono alla perdita del potere, gli altri no -, allora il Principe dovrà sicuramente fuggire i primi e, quanto ai secondi, cercare di evitarli; ma se proprio non ci riesce, pazienza.

E' chiaro che tali posizione hanno alle spalle, come dicevamo, una concezione antropologica realistica o pessimistica che dir si voglia. Degli uomini, afferma Machiavelli, si può dire questo generalmente:

che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, offerenti el sangue, la roba, la vita, e' figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e' si rivoltano.

Inoltre essi «sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio», non mantengono la parola data e «si pascono così di quel che pare come di quello che è: anzi molte volte si muovono più per le cose che paiono che per quelle che sono». Gli uomini sono insomma ingrati, volubili, falsi e avidi (soprattutto di beni materiali); sono in generale "tristi", ossia di animo malevolo, cattivo; sono superficiali e stupidi. Il panorama non lascia adito a dubbi. E colui che li governa - se è un politico virtuoso - dovrà tenere conto di tutto ciò.

Dunque la virtù di cui parla Machiavelli - per il Principe, per il politico in genere - è qualcosa di molto diverso da ciò che si intendeva tradizionalmente. Per il Cristianesimo la virtù consiste nella paziente sottomissione alla volontà divina, nell'attesa di una vita ultraterrena; per Aristotele la virtù è il giusto mezzo, la perfezione morale raggiunta attraverso il dominio della ragione; per gli Stoici essa consiste invece nell'accettazione degli eventi; per gli Epicurei, infine, la virtù è un mezzo per raggiungere la tranquillità dell'animo. Nessuna di queste definizioni si attaglia alla virtù machiavelliana. Per il pensatore fiorentino, infatti, la virtù indica l'energia, la volontà e l'efficienza del politico; essa è la capacità di adattarsi alle circostanze e riassume tutte le doti - prudenza, tenacia, industriosità, valutazione obiettiva delle forze disponibili e loro adeguazione al fine - necessarie a fondare, riordinare e mantenere uno Stato. In ultima analisi, dunque, la virtù è la prudenza o l'avvedutezza politica del Principe, che permette di porre argini ai colpi della fortuna (ossia del destino, la cui azione è al di fuori della portata umana). All'interno del fine ultimo - ossia della salvezza dello Stato - vi è spazio per qualsiasi virtù in senso tradizionale; ma il fine ultimo è pur sempre politico e gli altri beni sono quindi inferiori rispetto alla salvezza dello Stato. Ne deriva che quando quest'ultima è in gioco (nella guerra o nella conquista dello Stato), il fine politico prenderà il sopravvento su qualsiasi altro fine o bene. Allora sarà lecito impiegare la frode o la forza senza tentennamenti:

ancora che lo usare la fraude in ogni azione sia detestabile, nondimanco nel maneggiare la guerra è cosa laudabile e gloriosa, e parimente è laudato colui che con fraude supera il nimico, come quello che lo supera con le forze.

Esempio classico della concezione machiavelliana del politico è la descrizione che egli fornisce delle imprese di Cesare Borgia (noto come il Valentino), figlio di Papa Alessandro VI. Si tratta di una ricostruzione storica all'interno della quale viene sviluppata anche la nota antitesi tra virtù e fortuna, la prima interpretata come abilità politica, come attività energica e intelligente, la seconda intesa come insieme di circostanze indipendenti dalla volontà e dall'azione dell'uomo. Le «cose del mondo», si chiede Machiavelli, sono guidate dalla fortuna e da Dio - per cui all'uomo non rimane che accettare il corso degli eventi -, oppure la «prudenza» dell'uomo riesce ad influire su di esse? Se prevalesse la prima ipotesi, dovremmo concluderne che non vale la pena di «insudare molto nelle cose», ma che conviene piuttosto «lasciarsi governare dalla sorte». Ed in effetti, prosegue Machiavelli, se guardiamo alla straordinaria mutevolezza delle vicende dei nostri tempi[10], verrebbe voglia di credere che solo la Fortuna tiene il bandolo di una tale matassa. Tuttavia, affinché non si debba rinunciare al nostro libero arbitrio - dice Machiavelli con accenti tipicamente rinascimentali -, sono propenso a credere che la Fortuna sia arbitra soltanto della metà delle azioni umane, e che quindi l'altra metà dipenda da noi. Il rapporto tra queste due 'forze' è descritto da Machiavelli con un'immagine assai efficace, dalla quale emerge chiaramente in cosa consista la "virtù" dell'uomo.

Assomiglio quella [la fortuna] a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s'adirano, allagano e' piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell'altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari e con argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l'impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né sì dannoso. Similmente interviene della fortuna; la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle; e quivi volta li sua impeti dove la sa che non sono fatti gli argini e li ripari a tenerla.

Dunque se la Fortuna è un fiume in piena - una forza della natura di fronte alla quale, una volta scatenata, l'uomo può ben poco -, la virtù degli uomini è l'insieme dei provvedimenti, dei ripari e degli argini che, predisposti in tempi calmi, consentono di evitare o limitare i danni. In sostanza, la virtù è per Machiavelli l'azione energica, previdente, intelligente ed efficace, attraverso la quale l'uomo cerca di affermare la propria libertà nel mezzo di quella vicenda incerta, rischiosa e non totalmente dominabile che è la storia.

Ma torniamo al ritratto machiavelliano del Valentino (Cesare Borgia), esempio significativo di "virtù" politica. Siamo in quella parte del Principe in cui viene trattato il problema dei Principati acquisiti con le proprie armi e la propria virtù (e dunque non per eredità). Tali principati si conquistano, dice Machiavelli, o per fortuna o per virtù, ma nel secondo caso la conquista si rivela in genere più stabile (e da quanto abbiamo appena detto su fortuna e virtù dovrebbe essere abbastanza evidente il perché). Machiavelli propone una serie di esempi di grandi uomini, per poi giungere a Francesco Sforza e al Valentino. Il primo, con mezzi opportuni e notevoli virtù, divenne con grande fatica duca di Milano e con poca fatica vi rimase; il secondo acquistò lo Stato grazie alla fortuna del padre (Papa Alessandro VI) e con quella lo perse. Eppure, osserva Machiavelli, dopo l'iniziale fortuna, il Valentino si era comportato con tale prudenza e virtù che avrebbe dovuto «mettere le barbe sue» in quegli Stati che la fortuna gli aveva concesso.

Machiavelli si sofferma sul Valentino perché, dice esplicitamente «io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua». E se la sua avventura ebbe esito infausto, ciò «non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna». La storia è la seguente: Alessandro VI, padre del Valentino, vuole fare di suo figlio il signore di uno Stato. Ma per fare ciò non ha altra strada che affidargli una parte del territorio influenzato dalla Chiesa, vale a dire quelle terre di Marche e di Romagna sulle quali la Chiesa aveva un antico titolo di possesso, ancorché non vi esercitasse direttamente il dominio. Ma su tali territori premevano tanto il ricco Ducato di Milano, quanto la potente Repubblica di Venezia; inoltre gli eserciti italiani ai quali il Papa poteva ricorrere erano nelle mani dei suoi nemici (cioè degli Orsini e dei Colonnesi). Occorreva dunque che la situazione mutasse. Il che avvenne, con la discesa di Carlo VIII in Italia (1494); il Papa non si oppose affatto, cosicché ebbe in cambio, dal sovrano francese, le truppe necessarie per l'impresa del figlio in Romagna. Conquistata la Romagna, il Valentino vorrebbe andare oltre: ma lo frenano la freddezza del re di Francia e il fatto di non poter disporre di truppe proprie. In breve: il Valentino si servirà abilmente dell'appoggio dei francesi e, quanto al versante italiano, corromperà la nobiltà romana (onde averla al suo fianco) e si sbarazzerà degli Orsini, uccidendoli a tradimento. Ascoltiamo l'asciutto resoconto di tali efferatezze dalle parole dello stesso Machiavelli.

Dopo questa, aspettò la occasione di spegnere e' capi Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna; la quale li venne bene, e lui la usò meglio. Perché, avvedutisi gli Orsini, tardi, che la grandezza del duca e della Chiesa era la loro ruina, feciono una dieta alla Magione, nel Perugino; da quella nacque la rebellione di Urbino e li tumulti di Romagna e infiniti periculi del duca; li quali tutti superò con lo aiuto de' Franzesi. E ritornatogli la reputazione, né si fidando di Francia né di altre forze esterne, per non le avere a cimentare, si volse agli inganni. E seppe tanto dissimulare l'animo suo, che gli Orsini medesimi, mediante el signor Paulo, si riconciliorono seco; con il quale el duca non mancò d'ogni ragione di offizio per assicurarlo, dandogli danari, veste e cavalli; tanto che la simplicità loro li condusse a Sinigaglia nelle sue mani. Spenti, adunque, questi capi, e ridotti li partigiani loro amici sua, aveva il duca assai buoni fondamenti alla potenzia sua, avendo tutta la Romagna con il ducato di Urbino, parendogli, massime, aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi tutti quelli popoli, per avere cominciato a gustare el bene essere loro.

Coronamento di tale vicenda è il famoso episodio di Remirro de Orco, «uomo crudele et espedito» al quale il Duca aveva dato carta bianca affinché riportasse l'ordine nelle riottose terre di Romagna. Qui si affaccia l'idea del bene al quale conduce il potere: il buon governo è quello che istituisce la pace e l'ordine.

Preso che ebbe il duca la Romagna, e trovandola suta comandata da signori impotenti, li quali più presto avevano spogliato e' loro sudditi che corretti, e dato loro materia di disunione, non di unione, tanto che quella provincia era tutta piena di latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di insolenzia, iudicò fussi necessario, a volerla ridurre pacifica e obediente al braccio regio, darli buon governo.

Ma il prezzo che Remirro de Orco fa pagare per la pace, l'unità e l'ordine è alto; la sua autorità spietata rischia di rendere odioso il potere del Duca. E allora il Valentino si comporta da par suo:

di poi iudicò el duca non essere necessario si eccessiva autorità, perché dubitava non divenissi odiosa; e preposevi uno iudicio civile nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo, dove ogni città ci aveva lo avvocato suo. E perché conosceva le rigorosità passate averli generato qualche odio, per purgare gli animi di quelli populi e guadagnarseli in tutto, volle mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita, non era nata da lui, ma dalla acerba natura del ministro. E presa sopr'a questo occasione, lo fece a Cesena, una mattina, mettere in dua pezzi in sulla piazza con uno pezzo di legno e uno coltello sanguinoso a canto. La ferocità del quale spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.

Da notare la notazione finale di Machiavelli, spietata nella sua ironia sui sentimenti popolari. Ma le cose si misero poi male. Anzitutto morì Alessandro VI, al quale successe un fiero avversario dei Borgia (Giulio II Della Rovere), e qualche tempo dopo si ammalò a morte lo stesso Valentino. La conclusione di Machiavelli è la seguente.

Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei reprenderlo; anzi mi pare, come ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l'arme d'altri sono ascesi allo imperio. Perché lui, avendo l'animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti; e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la malattia sua. Chi, adunque, iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi de' nimici, guadagnarsi degli amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere da' populi, seguire e reverire da' soldati, spegnere quelli che ti possono o debbono offendere, innovare con nuovi modi gli ordini antiqui, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia infedele, creare della nuova, mantenere le amicizie de' re e de' principi in modo che ti abbino a beneficare con grazia o offendere con respetto, non può trovare e' più freschi esempli che le azioni di costui.

Da questo accenno alla "intenzione alta" del Valentino, si intuisce che in Machiavelli non è soltanto il successo a costituire il metro sul quale misurare la grandezza del politico. Occorre anche che la sua intenzione sia alta e nobile: ed infatti Machiavelli stabilisce una chiara differenza tra le vicende del Valentino e quelle di Agatocle di Siracusa o di Liverotto. Agatocle era figlio di un semplice vasaio; ma percorse, dimostrando grande scelleratezza e virtù, tutti i gradi della milizia. Divenuto pretore di Siracusa, realizzò un colpo di Stato, imponendo il proprio dominio e sterminando i senatori e i ricchi; inoltre dimostrò grandissimo valore militare nelle guerra contro Cartagine. Nella vicenda di Agatocle, osserva Machiavelli, prevalgono sicuramente le virtù sulla fortuna; e tuttavia non

si può ancora chiamare virtù ammazzare e' sua cittadini, tradire gli amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza religione: li quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria. Perché, se si considerassi la virtù di Agatocle nello entrare e nello uscire de' periculi, e la grandezza dello animo suo nel sopportare e superare le cose avverse, non si vede perché egli abbia ad essere iudicato inferiore a qualunque eccellentissimo capitano; nondimanco, la sua efferata crudeltà e inumanità con infinita scelleratezza, non consentono che sia infra gli eccellentissimi uomini celebrato.

Il pensatore fiorentino stabilisce infatti una chiara distinzione tra «crudeltà male usate» e «crudeltà bene usate»:

bene usate si possono chiamare quelle (se del male è lecito dire bene) che si fanno a uno tratto, per la necessità dello assicurarsi, e di poi non vi si insiste drento, ma si convertiscono in più utilità de' sudditi che si può. Male usate sono quelle le quali, ancora che nel principio sieno poche, più tosto col tempo crescono che le si spenghino. Coloro che osservano el primo modo, possono con Dio e con gli uomini avere allo stato loro qualche remedio, come Agatocle; quegli altri è impossibile si mantenghino.

Insomma, dopo il momento della forza (ossia dopo la conquista del principato), occorre suscitare il consenso dei cittadini e promuoverne le virtù. Di fronte al Principe si aprono due strade: realizzare quel bene intrinseco della politica, che sta nel consentire la convivenza degli uomini (convivenza resa assai difficile dalla loro natura egoistica), oppure cadere nella tirannide. Se sceglie quest'ultima strada, il Principe è destinato, come insegna la storia, a rinunciare alla gloria, all'onore e alla quiete; ciò che lo attende è l'infamia e una costante situazione di pericolo e inquietudine. Come si può osservare, l'invito ad abbandonare la strada della tirannide non si basa su motivazioni di ordine etico, ma su una riflessione storico-politica: la politica non ha bisogno di desumere dall'esterno la propria moralità, perché ha in se stessa la norma della propria condotta: ricondurre gli uomini ad una forma ordinata e libera di convivenza. I limiti della politica stanno dunque nell'adeguatezza dei mezzi al fine suo proprio: e quindi i mezzi tirannici vanno rifiutati non perché immorali, ma perché impolitici, inefficaci. Il dominio dell'azione politica, come ha giustamente osservato Abbagnano, si estende, con Machiavelli, «a tutto ciò che offre la garanzia del successo, che è poi quella della stabilità e dell'ordine della comunità politica. Per la prima volta ... quel dominio viene scrutato e valutato con un criterio puramente intrinseco e si intravede il principio di una normativa inerente ai compiti umani come tali e non sopraggiunta ad essi dall'esterno come criterio e limite estranei»[11].

Altra importante osservazione viene fatta da Machiavelli circa le basi del consenso: in ogni città, egli dice, si trovano «dua umori diversi», i grandi e il popolo, aventi fini opposti:

il populo desidera non essere comandato né oppresso da' grandi, e li grandi desiderano comandare e opprimere il populo; e da questi dua appetiti diversi nasce nella città uno de' tre effetti, o principato o libertà o licenzia.

Più stabile sarà quel Principe che basa il suo potere sull'appoggio popolare; qui si possono cogliere alcuni accenti demofili:

colui che viene al principato con lo aiuto de' grandi, si mantiene con più difficultà che quello che diventa con lo aiuto del populo; perché si truova principe con di molti intorno che li paiano essere sua equali, e per questo non li può né comandare né maneggiare a suo modo. Ma colui che arriva al principato con il favore popolare, vi si trova solo, ha intorno o nessuno o pochissimi che non sieno parati a obedire. Oltre a questo, non si può con onestà satisfare a' grandi e sanza iniuria d'altri, ma si bene al populo: perché quello del populo è più onesto fine che quello de' grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso.

Ma come si conserva uno Stato, per Machiavelli? Anzitutto con buone leggi e buone armi; quindi la milizia non deve essere né mercenaria, né ausiliaria:

le mercenarie e ausiliarie sono inutile e periculose: e se uno tiene lo stato suo fondato in sulle arme mercenarie, non starà mai fermo né sicuro; perché le sono disunite, ambiziose, sanza disciplina, infedele; gagliarde fra gli amici; fra e' nimici, vile; non timore di Dio, non fede con gli uomini; e tanto si differisce la ruina quanto si differisce lo assalto; e nella pace se' spogliato da loro, nella guerra da' nimici. La cagione di questo è che le non hanno altro amore né altra cagione che le tenga in campo che uno poco di stipendio; il quale non è sufficiente a fare che voglino morire per te. Vogliono bene essere tuoi soldati mentre che tu non fai guerra; ma, come la guerra viene, o fuggirsi o andarsene. La qual cosa doverrei durare poca fatica a persuadere, perchè ora la ruina di Italia non è causata da altro che per essere in spazio di molti anni riposatasi in sulle arme mercenarie.

In secondo luogo, è necessario - ai fini della conservazione di uno Stato - un uso appropriato della "crudeltà" da parte del Principe:

scendendo appresso alle altre preallegate qualità, dico che ciascuno principe debbe desiderare di essere tenuto pietoso e non crudele: nondimanco debbe avvertire di non usare male questa pietà. Era tenuto Cesare Borgia crudele; nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace e in fede. Il che se si considerrà bene, si vedrà quello essere stato molto più pietoso che il populo fiorentino, il quale, per fuggire el nome del crudele, lasciò destruggere Pistoia. Debbe, pertanto, uno principe non si curare della infamia di crudele, per tenere li sudditi suoi uniti e in fede; perché, con pochissimi esempli, sarà più pietoso che quelli e' quali, per troppa pietà, lascino seguire e' disordini, di che ne nasca occisioni o rapine; perché queste sogliono offendere una universalità intera, e quelle esecuzioni che vengono dal principe offendono uno particulare.

Infine - considerando che la salvezza e la pace dello Stato costituiscono un bene supremo e tenendo conto della natura fondamentalmente infida dell'uomo - è bene che il Principe sia temuto, piuttosto che amato. O meglio: sarebbe bene che fosse tanto amato quanto temuto; ma poiché è difficile che ciò avvenga, occorre in genere scegliere tra i due sentimenti, e tra i due il migliore è il timore. Timore non significa però odio. Il Principe deve farsi temere, ma non odiare: e per evitare ciò sarà sufficiente che egli si astenga dalla «roba» e della «donne» altrui (e in questo spazio si sviluppa dunque la "libertà" del cittadini; ma su questo torneremo più avanti).

Machiavelli non manca di soffermarsi sulla integrità del Principe. E ancora una volta le sue considerazioni sono crudamente realistiche. Dice il Fiorentino: ciascuno capisce quanto sarebbe lodevole, in un principe, essere integro e fedele, piuttosto che astuto. Ma poiché gli uomini sono, come abbiamo già visto, «ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' periculi, cupidi di guadagno», allora è bene che il Principe conosca assai bene le arti dell'astuzia. Dalla realtà che ha osservato con i suoi occhi, Machiavelli ha tratto la seguente lezione: vi sono due modi di combattere, l'uno con le leggi, l'altro con la forza; e soltanto il primo è proprio dell'uomo, mentre il secondo si attaglia alle bestie. Ma visto che «el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l'uomo». E, restando nell'ambito del ferino, il Principe ha soprattutto bisogno delle arti del «lione» (per spaventare i lupi) e della «golpe» (per sventare le trappole). Machiavelli è consapevole della 'crudezza' di tale principio; ma è convinto che esso è perfettamente rispondente alle caratteristiche della natura umana:

se gli uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi e non la osservarebbono a te [la parola data], tu etiam non l'hai ad osservare a loro.

Per conservare lo Stato occorrono dunque buone (e proprie) armi, buone leggi, un Principe temuto ma non odiato (all'occorrenza crudele), una politica estera di accorte alleanze, il rispetto degli interessi privati dei cittadini e soprattutto delle loro proprietà, la nazionalizzazione della religione e un cauto riformismo. Queste massime, è stato giustamente osservato, hanno la loro origine e giustificazione nell'idea repubblicana classico-umanistica: il modello è la libera Repubblica romana (di qui i motivi anti-tirannici, anticesarei e anti-imperiali comuni a Machiavelli come a Petrarca, Salutati, Bruni e Bracciolini).

Classica è anche la preferenza machiavelliana - nell'ambito delle forme di governo - per il governo misto, che è per l'appunto quello della Roma repubblicana, frutto non della genialità di un legislatore, ma del caso. Le lotte tra patrizi e plebei avevano infatti condotto a tale equilibrato ordinamento; furono i Gracchi, con le loro eccessive richieste - non più soltanto politiche, ma anche economiche - a rompere tale equilibrio. La cautela deve quindi sempre ispirare l'azione di governo: anche le riforme devono apparire il meno possibile "innovative", offrendo piuttosto l'impressione della continuità. Soltanto il principe nuovo deve andare in direzione opposta, ossia essere ed apparire rivoluzionario.

Ma qual è il bene comune, per Machiavelli? Sostanzialmente, si tratta di una condizione di libertà e legalità. Per libertà egli intende la possibilità di fruire pacificamente, nella sicurezza, della propria sfera privata: godimento delle proprietà, sicurezza della famiglia e della propria persona. Vivere libero significa anche poter fare valere il proprio malcontento, attraverso le concioni. Quanto alla libertà politica, Machiavelli è convinto che la partecipazione al potere interessi un numero ristretto di individui, perché la maggioranza desidera la libertà per vivere sicura. Inoltre, l'effettiva direzione degli affari politici è compito di una classe ristretta. Per legalità si intende, all'interno del pensiero machiavelliano, il rispetto dei patti: ad esso, come abbiamo visto, il Principe può derogare, ma nel reggimento interno dello Stato è bene che vi si attenga. Il popolo che vede la sua sicurezza garantita da leggi che lo stesso Principe rispetta, vive tranquillo. Le leggi assumono inoltre, in Machiavelli, il classico ufficio educativo: la moltitudine regolata da leggi, come quella romana, è virtuosa più degli stessi governanti (anche in questo caso abbiamo qualche accenno di demofilia).

Alla salvezza dello Stato deve essere subordinata anche la religione. Vi è, in Machiavelli, una polemica anticristiana che vede nell'universalismo della Chiesa una forza sovversiva. Ciò nonostante, anche il Cristianesimo può divenire ottimo strumento di governo e di educazione, se concorre a rafforzare il senso di devozione allo Stato. Nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Machiavelli fa l'esempio di Numa: questi ereditò da Romolo un «popolo ferocissimo», che riuscì a civilizzare grazie alla religione.

Numa ... trovando un popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa al tutto necessaria a volere mantenere una civiltà, e la constituì in modo che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella republica; il che facilitò qualunque impresa che il Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare.

E' questa religiosità, osserva Machiavelli, ad aver fatto la grandezza di Roma: essa è all'opera nel suo valore militare e civile, nel mantenere gli uomini buoni e nel far vergognare i colpevoli. Tuttavia, non vi è in queste pagine alcun sentimento di autentica religiosità, se con questa intendiamo un vero e profondo sentimento interiore della divinità. La religione appare qui soltanto il rivestimento mitologico di cui hanno bisogno le fondamentali norme etiche e civili per radicarsi nel cuore dell'uomo. Numa, spiega Machiavelli, «simulò di avere dimestichezza con una Ninfa», la quale gli ispirava le sue decisioni; ma fece questo solo perché, volendo introdurre «ordini nuovi e inusitati ... dubitava che la sua autorità non bastasse». E così occorre fare in genere:

veramente mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio, perché altrimenti non sarebbero accettate: perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragione evidenti da poterli persuadere a altrui. Però gli uomini savi che vogliono tòrre questa difficultà ricorrono a Dio. Così fece Licurgo, così Solone, così molti altri che hanno avuto il medesimo fine di loro.

Insomma, la religione svolge il ruolo cruciale di "sacralizzare" i buoni ordinamenti politici, di dare loro profonde radici nel cuore degli uomini, radici che servono a superare la naturale debolezza o cattiveria degli uomini stessi. La religione possiede questa forza straordinaria, le cui alternative sono ben misera cosa, giacché

dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini, o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' difetti della religione. E perché i principi sono di corta vita, conviene che quel regno manchi presto, secondo che manca la virtù d'esso. Donde nasce che gli regni i quali dipendono solo dalla virtù d'uno uomo sono poco durabili, perché quella virtù manca con la vita di quello; e rade volte accade che le sia rinfrescata con la successione, come prudentemente Dante dice:

Rade volte discende per li rami
l'umana probitate, e questo vuole
quei che la dà, perché da lui si chiami.

6. Hobbes

Cenni biografici

Thomas Hobbes nasce nel 1588 a Malmesbury e riceve la sua educazione universitaria tra il 1603 e il 1608 a Magdalen Hall in Oxford.

Nel 1608 viene chiamato dal barone Cavendish come precettore per il figlio; Hobbes rimarrà sempre legato alla famiglia Cavendish.

Tra il 1610 e il 1615 accompagna il suo allievo in un viaggio sul Continente, entrando in contatto, a Venezia, con un collaboratore di Sarpi e familiarizzandosi con i grandi temi della polemica anti-papale. In questo periodo i suoi interessi sono umanistici; nel 1629, a 41 anni, traduce la Guerra del Peloponneso di Tucidide.

Nel 1630 intraprende un nuovo viaggio sul Continente, durante il quale scopre gli Elementi di Euclide, che danno avvio ai suoi interessi filosofico-scientifici, sviluppatisi anche con la frequentazione degli scienziati a casa Cavendish.

Tra 1634 e il 1636 è di nuovo sul Continente; a Parigi conosce l'ambiente intellettuale che ruota intorno a Mersenne, quindi lo stesso Mersenne e Cartesio, forse Galilei.

Nel 1640 completa e fa circolare il manoscritto degli Elements of law, natural and politic, con i quali prende posizione sulle controversie degli anni '30, schierandosi dalla parte del re. Di lì a pochi mesi si insedia il Lungo Parlamento e Hobbes, sentendosi in pericolo, torna in Francia.

Dal 1640 al 1651 vive in Francia, scrivendo, pubblicando o preparando le sue opere filosofiche. Nel 1642 esce la prima edizione del De cive; la seconda vedrà la luce nel 1647. E' in questi anni che matura l'idea di un sistema filosofico articolato in tre parti: De corpore, De homine, De cive.

Nel 1649, probabilmente dopo l'esecuzione di Carlo I, Hobbes compone il Leviathan, che gli crea problemi per la interpretazione eterodossa delle Scritture.

Alla fine del 1651 torna in Inghilterra. Nel 1655 pubblica il De corpore e nel 1658 il De homine.

Dopo la restaurazione diviene un bersaglio dell'episcopato; nel 1666 un disegno di legge rende punibile l'eresia e un comitato esamina il Leviathan; ma Hobbes ha potenti protezioni (anche il Re) e non viene disturbato. Le opere che scrisse negli anni successivi - e che non poté e non volle pubblicare - riguardano il tema dell'eresia e la sua non punibilità da parte del potere civile.

Nel 1666 scrive il Dialogo fra un filosofo e uno studioso del diritto comune d'Inghilterra, nel 1668 la Narrazione storica dell'eresia e nel 1670 Behemot, or the Long Parliament.

Nel 1675 lascia Londra; muore ad Hardwick nel dicembre del 1679, a 91 anni.

Il pensiero politico

A differenza della maggior parte degli scrittori politici, Hobbes non si occupò mai attivamente di politica, né come uomo di parte, né come consigliere di principi. In confronto a Machiavelli - ha osservato uno storico inglese - Hobbes rimane soltanto un dotto. Ciò non significa, tuttavia, che la sua opera non risenta delle questioni politiche contemporanee; al contrario, essa può essere considerata come una risposta al problema cruciale del suo tempo, ossia all'esigenza di garantire l'unità dello Stato contro le minaccie di disgregazione insite sia nelle discordie religiose e nel contrasto tra potere civile e potere religioso, sia nel dissenso tra corona e parlamento.

Sono anni, quelli della prima metà del '600, in cui l'Europa è dilaniata dalla Guerra dei Trent'Anni (1618-1648), mentre l'Inghilterra è scossa da fortissimi contrasti politici, religiosi ed economici, che culmineranno nella guerra civile tra sostenitori del re (cavalieri) e sostenitori del parlamento (teste rotonde), e che - tra vicende alterne (sconfitta del re e sua decapitazione nel 1647, dittatura repubblicana di Cromwell dal 1647 al 1658, restaurazione nel 1660 - condurranno alla Glorious Revolution del 1688, con la quale l'assolutismo, in terra inglese, viene definitivamente sconfitto. In questo scenario drammatico - caratterizzato dalla guerra civile - Hobbes si schiera dalla parte del re, elaborando una delle teorie politiche più rigorosamente e conseguentemente assolutistiche.

Hobbes, ha scritto Bobbio, è spinto a filosofare dal turbamento che suscita in lui il pericolo della dissoluzione dello Stato; la guerra civile torna quasi ossessivamente nelle sue pagine, come il peggiore di tutti i mali, come la morte del corpo politico, come ciò che desertifica la vita umana, impedendole qualsiasi sviluppo. Se è vero che il pensiero politico è dominato da alcune grandi antitesi - come autorità/libertà, unità/anarchia -, Hobbes è sicuramente sollecitato dal primo termine di tali antitesi e non dal secondo. L'autore del Leviatano, scrive ancora Bobbio, «è ossessionato dall'idea della dissoluzione dell'autorità, dal disordine che consegue alla libertà del dissenso sul giusto e sull'ingiusto, dalla disgregazione dell'unità del potere ... in una parola dall'anarchia che è il ritorno allo stato di natura. Il male che egli paventa maggiormente ... è non l'oppressione, che deriva dall'eccesso di potere, ma l'insicurezza, che deriva al contrario, se mai, dal difetto di potere»[12] .

La discordia e il conflitto nascono, secondo Hobbes, dalle false opinioni che gli uomini hanno intorno all'idea di giusto e di ingiusto: dunque la causa principale del disordine è di natura filosofica e filosofica dovrà essere la risposta. Essa dovrà venire dalla filosofia morale, la quale dovrà servirsi, secondo Hobbes, dello stesso metodo (il metodo geometrico) che ha permesso alla filosofia naturale di raggiungere risultati indiscutibili. Anche la filosofia morale, in tale modo, diverrà un sapere certo, dove non vi sarà spazio per il caos delle opinioni divergenti, e dal quale potrà nascere una scienza politica rigorosa. Quello di Hobbes è pertanto il tentativo di costruire un'etica e una politica dimostrative, aventi lo stesso rigore e la stessa certezza delle scienze naturali.

In questa battaglia per la costruzione di un'etica e di una politica dimostrative (o, come diremmo oggi, "scientifiche"), Hobbes si trova a combattere su diversi fronti. Anzitutto, contro la dottrina aristotelica, secondo la quale nella conoscenza del giusto e dell'ingiusto non è possibile raggiungere quei risultati certi cui perviene il ragionamento matematico e bisogna quindi accontentarsi di risultati soltanto probabili; in questa prospettiva - che aveva dominato per secoli la cultura occidentale - l'etica e la politica non fanno parte delle scienze teoretiche, che hanno per oggetto il 'necessario' (ciò che è così e non può essere altrimenti) e raggiungono risultati certi, ma delle scienze pratiche, che si occupano del 'probabile'. Ne consegue che se lo strumento delle scienze teoretiche, che si muovono nel regno del 'certo', è la logica (ossia l'arte della dimostrazione), quello delle scienze pratiche, che si occupavano del probabile (e dunque delle 'opinioni'), è la retorica (ossia l'arte di argomentare e persuadere). In secondo luogo, Hobbes deve combattere contro scolastici vecchi e nuovi, che fondano le loro teorie non sul ragionamento e sull'esperienza, ma sul principio di autorità, seguendo e ripetendo senza alcuno spirito critico l'insegnamento di Aristotele. Infine, il filosofo inglese deve combattere contro quelli che egli definisce gli "ispirati", ossia tutti i fanatici, i visionari e i falsi profeti che parlano non per ragione, ma per fede.

E' quindi evidente che il sostegno di Hobbes alla causa monarchico-assolutistica non prende nessuna delle strade tradizionali: il potere del re non viene difeso in nome del diritto divino, o in base ad argomenti religiosi, sentimentali o tradizionalistici. La teoria assolutistico-monarchica di Hobbes sarà basata su argomenti rigidamente razionalistici, ispirati ad una ragione matematico-geometrica eguale a quella delle scienze naturali. Essa procederà dunque scomponendo il fenomeno nei suoi elementi primi o semplici, dai quali, come punti di partenza certi, procedere attraverso dimostrazioni rigorose.

Dunque Hobbes è un teorico razionalista della sovranità assoluta. Non solo: egli è anche il sostenitore di una teoria artificialistica dell'ordine politico, in virtù della quale lo Stato è concepito come una macchina, un artificium, mediante il quale l'uomo tenta di rimediare ai difetti della natura. Anche su questo piano, la teoria di Hobbes si contrappone frontalmente a quella di Aristotele. Nel modello aristotelico il sorgere e lo svilupparsi dello Stato veniva spiegato servendosi non di una costruzione razionale, ma di una ricostruzione storica delle fasi attraverso le quali l'umanità si sarebbe evoluta, passando dalle forme più primitive a quelle più evolute di società, sino a quella forma perfetta di società (in quanto autosufficiente) che è lo Stato. Come è noto[13], le tappe principali di tale ricostruzione storica erano tre (famiglia, villaggio, città) e ognuna sorgeva "per natura": «la comunità che si costituisce per la vita di tutti i giorni - scrive Aristotele nella Politica - è per natura la famiglia. ... La prima comunità che deriva dall'unione di più famiglie volte a soddisfare un bisogno non più giornaliero, è il villaggio. ... La comunità perfetta di più villaggi costituisce ormai la città». Ognuna di queste tappe è dunque l'esito di un processo naturalistico, fondato sui bisogni degli uomini e sulla loro natura, che è costitutivamente socievole. E' stato giustamente osservato che la durata, la continuità, la stabilità e la vitalità di cui questo modello ha dato prova sono davvero sorprendenti: esso giunge immutato sino alle soglie dell'era moderna, se è vero che ancora Bodin e Althusius si rifanno ad esso. Tenendo conto di ciò, risulta evidente il posto di rilievo che spetta ad Hobbes nella storia del pensiero politico, dato che a lui si deve, in sostanza, l'elaborazione di un modello completamente diverso da quello aristotelico e che prenderà il suo posto, appunto come modo prevalente di spiegare l'origine e lo sviluppo dello Stato, almeno sino ad Hegel, vale a dire sino agli inizi dell'800.

Secondo il modello hobbesiano (che poi coincide con il modello giusnaturalistico), lo Stato non è l'esito di un processo naturalistico, che si evolve senza fratture da una forma minima di società ad una forma massima, ma è il frutto di una decisione consapevole, con la quale gli uomini decidono di abbandonare lo stato di natura e "creare" uno stato civile. Lo Stato non nasce dunque per una serie di cause naturali e attraverso l'operare di condizioni obiettive (e dunque per la "forza delle cose"), ma per una convenzione umana: esso è un artificium, un atto della volontà razionale. E tale artificium nasce come risposta ai problemi che affliggono l'uomo nello stato di natura, dove egli vive libero ed eguale a tutti gli altri. Tutti i pensatori giusnaturalisti condivideranno tale modello dicotomico, frutto non di una ricostruzione storica, ma di un'ipotesi razionale: l'uomo vive o nello 'stato di natura', dove tutti gli individui sono liberi ed eguali, o nello 'stato civile'. Tertium non datur. Ma poiché l'uomo, per le ragioni più diverse (ogni giusnaturalista darà infatti una caratterizzazione differente dello stato di natura), non può continuare a vivere nello stato naturale, allora egli deciderà di uscirne e, con un atto di volontà consapevole, fonderà lo stato civile.

Come si può vedere, il modello hobbesiano è sostanzialmente agli antipodi di quello aristotelico:

a) ad una spiegazione storico-sociologica dell'origine dello Stato subentra una spiegazione razionalistica (basata sull'ipotesi di ragione che nello stato di natura gli uomini siano tutti liberi ed eguali tra di loro);

b) ad una visione dello Stato come esito inevitabile della natura umana subentra una visione dello Stato come antitesi allo stato di natura;

c) ad una concezione organicistica dello Stato subentra una concezione individualistica (lo Stato è il frutto di un accordo che gli individui, liberi ed eguali, stipulano tra di loro);

d) ad una teoria naturalistica del fondamento del potere statale viene sostituita una teoria contrattualistica o artificialistica;

e) il principio di legittimazione dello Stato non è più la forza delle cose, ma il consenso degli individui che lo compongono.

Di tutte queste differenze, ha scritto Bobbio,

la più rilevante ... è quella che riguarda il rapporto individuo-società. Nel modello aristotelico all'inizio c'è la società (la società familiare come nucleo di tutte le forme sociali successive); nel modello hobbesiano al principio c'è l'individuo. Nel primo caso lo stato prepolitico per eccellenza ... è uno stato in cui i rapporti fondamentali sono rapporti fra superiore e inferiore, e quindi sono rapporti di diseguaglianza, quali sono appunto i rapporti fra padre e figli e fra padrone e servi. Nel secondo caso lo stato prepolitico, cioà lo stato di natura, essendo uno stato di individui isolati, viventi al di fuori di qualsiasi organizzazione sociale, è uno stato di libertà e di eguaglianza, ovvero di indipendenza reciproca, ed è quello stato per l'appunto che costituisce la condizione preliminare necessaria dell'ipotesi contrattualistica, giacché il contratto presuppone al suo sorgere soggetti liberi ed eguali. Allo stesso modo che nello stato di natura sono naturali la libertà e l'eguaglianza, nello stato sociale del modello aristotelico sono naturali la dipendenza e la diseguaglianza. In quanto stato di individui liberi ed eguali, lo stato di natura è la sede dei diritti individuali naturali, a partire dai quali viene costituita in varia guisa e con vari esiti politici la società civile[14].

Ma torniamo ad Hobbes. Se dietro la concezione naturalistica dello Stato che caratterizzava la teoria aristotelica stava la visione dell'uomo quale essere naturalmente sociale, dietro la concezione artificialistica dello Stato che distingue il pensiero di Hobbes sta una visione dell'uomo quale essere naturalmente asociale. Partiamo dunque dall'antropologia hobbesiana, ossia dalla sua visione dell'uomo naturale, cercando di non dimenticare che l'uomo naturale è l'uomo che vive nello stato di natura, ossia in quella condizione che precede, logicamente e storicamente, la creazione della società e dello Stato (con le quali si entra nello stato civile).

Anzitutto, Hobbes sostiene che gli uomini sono uguali tra di loro; o meglio, che le differenze esistenti non intaccano una condizione di sostanziale eguaglianza.

La natura ha fatto gli uomini così eguali, nelle facoltà del corpo e dello spirito, che, quantunque si trovi spesso un uomo più forte o più intellignete di un altro, tuttavia in complesso la differenza tra uomo ed uomo non è tanto notevole che un uomo possa pretendere per sé un beneficio, il quale non possa pretendere un altro egualmente. Infatti, riguardo alla forza corporea, il più debole ha sempre abbastanza forza, per uccidere il più forte, o per mezzo di macchinazione segreta, o alleandosi con altri, che si trovano nello stesso pericolo. Ed in quanto alle facoltà dello spirito - lasciando da parte le arti fondate sulla parola, e specialmente l'abilità procedente da regole generali ed infallibili, chiamata scienza, che solo pochi posseggono, e per poche cose, non essendo una facoltà innata, né appresa, come la prudenza, senza studio - io trovo una eguaglianza anche più grande tra gli uomini, che per la forza materiale. Poiché la prudenza non è che esperienza, che, in un tempo eguale, egualmente si acquista da tutti gli uomini.

Da questa eguaglianza di mezzi nasce l'eguaglianza delle aspirazioni. E poiché i beni sono scarsi, quando due uomini aspirano ad uno stesso bene che non possono ottenere contemporaneamente, essi diventano nemici e tentano di distruggersi o sottomettersi a vicenda. Da ciò nasce uno stato di diffidenza reciproca permanente, che conduce ciascuno se non a fare la guerra, quanto meno a prepararvisi. Dunque l'eguaglianza di fatto, unita alla scarsità delle risorse e al diritto di tutti su tutto (lo ius in omnia), è destinata a generare uno stato di spietata concorrenza, che minaccia continuamente di degenerare in lotta violenta.

Fin qui le condizioni obiettive dello stato di natura, che non dipendono dalla volontà degli uomini. A tali condizioni si aggiungono però le passioni, che sono invece caratteristiche proprie dell'uomo. Per Hobbes l'uomo è in primo luogo un essere naturalmente asociale:

gli uomini non hanno piacere - al contrario molta molestia - di stare in compagnia di altri, dove non sia un potere, che li tenga tutti in soggezione.

Altrove Hobbes dice che gli uomini sono refrattari alla verità, perché sono attratti dalla brama di ricchezze o dall'appetito di piaceri sensuali, oppure dall'impazienza di stare a meditare e dall'avventatezza. Il filosofo inglese dedica una particolare attenzione alla passione della vanagloria, come movente di contrasto tra gli uomini. In sintesi Hobbes indica tre cause di contrasto tra uomini:

nella natura umana noi troviamo tre cause principali di lotta: la competizione, la diffidenza, la gloria. La prima fa combattere gli uomini per guadagno, la seconda per la salvezza, la terza per la reputazione; la prima usa la violenza, per impadronirsi di altri uomini, donne, fanciulli ed armenti, la seconda, per difenderli, la terza fa uso di inezie, come una parola, un sorriso, un'opinione differente e qualunque altro segno di disprezzo, o direttamente verso una persona o generalmente per mezzo di una riflessione sul suo parentado, sui suoi amici, sulla sua nazione, sulla sua professione, sul suo nome.

In ultima analisi, l'uomo è guidato da un inesausto desiderio di potere. Ne deriva che lo stato di natura - caratterizzato dall'eguaglianza, dalla libertà e dallo ius in omnia di tutti, nonché dall'assenza di qualsiasi potere superiore agli individui - è necessariamente uno stato di guerra permanente. Ciò non significa che gli uomini siano permanentemente in guerra tra di loro, ma che la disposizione di fondo è quella al combattimento e che la pace è sempre e soltanto una tregua tra due guerre. La condizione umana, nello stato di natura, è dunque terribile.

In tale condizione non v'ha luogo ad industrie, poiché il frutto di esse sarebbe incerto; e per conseguenza non v'è agricoltura, non navigazione né uso di quei comodi importati per via di mare, né di comodi edifizii, né di macchine, per rimuovere oggetti che hanno bisogno di molta forza, né v'è conoscenza della superficie terrestre, né del tempo, né delle arti, delle lettere e del vivere sociale: e, quel ch'è peggio di tutto, domina un continuo timore ed il pericolo di una morte violenta; e la vita dell'uomo è solitaria, povera, lurida, brutale e corta.

Una condizione così terribile che alcuni potrebbero metterne in dubbio la realtà: non è forse strano che la natura stessa abbia reso gli uomini atti a distruggersi tra loro? Non si tratterà forse di una conclusione viziata da un'eccessiva astrazione, dedotta com'è da una certa analisi delle passioni umane? E una ricerca maggiormente basata sull'esperienza non potrebbe rivelare che la situazione umana non è poi così fosca? La risposta del filosofo inglese è assai interessante: colui il quale avanza tali obiezioni, scrive Hobbes,

consideri allora che, quando egli stesso intraprende un viaggio, si arma, e cerca di andare bene accompagnato, e che, quando va a dormire, chiude la porta, e, anche stando in casa, chiude i suoi forzieri, pur sapendo che vi sono leggi e pubblici ufficiali armati per vendicare tutte le ingiurie che gli potessero venir fatte, e si accorgerà quale opinione egli ha dei suoi vicini, quando cavalca armato, dei suoi concittadini, quando chiude le porte, dei suoi figli e dei suoi servi, quando chiude i forzieri. Non accusa egli altrettanto con i suoi atti il genere umano, di quanto io faccia con le parole?

Hobbes non pensa che lo stato di natura fosse lo stato universale degli uomini nell'epoca primitiva; per lui lo stato di natura non è una realtà storica, ma un'ipotesi della ragione. Essa può tuttavia essere verificata in almeno tre contesti: nelle società primitive, nel caso della guerra civile e nei rapporti internazionali. In ognuno di questi casi, infatti, i soggetti interessati (anche nel caso in cui siano Stati) non riconoscono alcun potere superiore a loro stessi e si comportano come se godessero dello ius in omnia: la conseguenza è un permanente stato di guerra o di predisposizione alla guerra. La descrizione hobbesiana dello stato di natura è dunque fortemente pessimistica e si colloca agli antipodi di quella che sarà l'analisi rousseauiana: certo è che la vita, nello stato di natura hobbesiano, appare intollerabile e, quel che più conta, esposta al male capitale, ossia alla morte violenta.

Ma l'uomo non è composto solo di passioni asociali e pericolose; egli possiede anche la ragione, che gli suggerisce convenienti argomenti per la pace. Questi argomenti sono chiamati, dice Hobbes, leggi di natura. Le leggi naturali altro non sono che quei suggerimenti che la retta ragione dà all'uomo, partendo dal presupposto che il bene supremo sia la vita stessa. Sono quindi regole subordinate e finalizzate ad una prima regola fondamentale, che prescrive di cercare la pace. Queste regole vanno osservate solo se si è ben sicuri che raggiungano il fine voluto: se il fine è la pace, esso viene raggiunto solo se tutti rispettano la regola di cercare la pace. Ne discende che tale regola va seguita solo se tutti contemporaneamente la rispettano.

Dalla legge fondamentale di natura, con la quale è ordinato agli uomini di procurare la pace, deriva questa seconda legge, che un uomo volentieri, quando altri lo fanno, e per quanto crederà necessario alla pace ed alla difesa sua, rinunzii al suo diritto sopra tutte le cose, e sia contento di avere tanta libertà contro gli altri uomini, quanta è concessa ad altri uomini contro di lui; poiché, fin quando ogni uomo conserva questo diritto, di fare ciò che gli pare, tutti gli uomini restano in istato di guerra. Ma se gli altri uomini non lasceranno il loro diritto, come lui, allora non vi è ragione che se ne spogli lui solo: perché sarebbe un esporsi come preda - al che non è obbligato nessuno- piuttosto che un disporsi alla pace.

Molto semplicemente: le leggi naturali (o dettami della retta ragione) esistono anche nello stato di natura, ma obbligano soltanto in foro interno e non in foro externo, vale a dire in coscienza e non nei comportamenti esterni. Poiché nessuno, nello stato di natura, può assicurare che anche gli altri rispettino le leggi naturali, ne consegue che tali leggi, pur esistendo, sono inefficaci; seguirle sarebbe pertanto imprudente. E tutto ciò avviene perché non vi è nessuno che abbia il potere di costringere ad osservare le leggi naturali, nel caso in cui queste non vengano rispettate. Di qui la necessità dello Stato, ossia di un potere superiore a quello dei singoli individui. Per ottenere il bene supremo (la pace) occorre dunque uscire dallo stato di natura e costituire lo Stato.

Qui si inserisce la tematica contrattualistica: lo Stato nasce da un accordo, che gli individui stipulano tra di loro per conservare il bene supremo. Dunque lo Stato non è un fatto naturale, ma un fatto artificiale, il frutto di una decisione consapevole presa da individui liberi ed eguali. Sulla natura del patto Hobbes dà indicazioni molto precise. I primi giusnaturalisti moderni parlavano, in genere, di due tipi di patto: il pactum societatis, con il quale un certo numero di individui decidono di comune accordo di vivere in società e, in un secondo momento, il pactum subjectionis, con il quale tale società si sottomette ad un determinato potere politico. Il primo patto trasforma una moltitudo in populus; il secondo un populus in una civitas. Hobbes parla invece di un unico patto, che chiama pactum unionis, e che li contiene entrambi: esso coincide infatti, quanto ai soggetti contraenti, con il pactum societatis, giacché esso non prevede un patto tra popolo e sovrano, ma tra tutti gli individui tra di loro, in favore di un terzo (il sovrano, che non è un contraente del patto, bensì un suo beneficiario); e, quanto al contenuto, coincide con il pactum subjectionis, giacché altro non contiene se non la sottomissione ad un potere supremo, motivata dal fatto che soltanto essa può garantire quella sicurezza che nello stato di natura non esiste. Del resto, nella prospettiva di Hobbes il pactum societatis, preso isolatamente - come patto con il quale si costituisce una società, ossia un insieme di individui che condividono alcuni fini - non ha senso, perché tale società si reggerebbe esclusivamente sui dettami della retta ragione e dunque sarebbe precaria come lo stato di natura. Occorre pertanto che tale patto sia, al tempo stesso, un atto di sottomissione ad un potere comune, al fine di abbandonare la precarietà dello stato naturale. In conclusione: i contraenti del patto teorizzato da Hobbes sono i singoli individui tra di loro e non il popolo da un lato e il sovrano dall'altro; quanto al contenuto, tale patto prevede la sottomissione al potere sovrano, ossia la rinuncia a tutti i diritti naturali, tranne quello alla vita, purché gli altri facciano altrettanto; infine il sovrano (sia esso un'assemblea o un individuo) non è un contraente del patto, bensì un terzo, un beneficiario.

Il potere sovrano ottenuto da un simile patto, per conseguire realmente lo scopo per cui è stato creato - e cioè uscire irrevocabilmente da quella condizione terribile che è lo stato di natura - deve essere irrevocabile, assoluto, indivisibile.

L'irrevocabilità è una delle ragioni che hanno spinto Hobbes a dare al suo pactum unionis la forma di un pactum societatis. Se infatti il patto hobbesiano coincidesse con il semplice pactum subjectionis - che vede da una parte il popolo, già costituito, e dall'altro il sovrano - esso correrebbe il rischio di essere revocabile, giacché potrebbe essere interpretato come un rapporto tra mandante e mandatario, il quale implica sempre un potere condizionato e in qualche modo strumentale (e spesso temporalmente limitato). Insomma, se qualcosa appartiene a qualcuno (in questo caso, la sovranità al popolo), come questo qualcuno può cederla a qualcun'altro (in questo caso, al sovrano), così può decidere di riprendersela, se colui al quale l'ha affidata viola, a suo parere, le regole del patto. Contro tale pericolo Hobbes sceglie la formula che abbiamo visto, adducendo inoltre due argomenti. Il primo si basa su una difficoltà di fatto: se uno dei due contraenti fosse il populus (e non una semplice moltitudo), allora per rescindere il contratto sarebbe sufficiente la maggioranza di esso; ma quando i contraenti sono, indistintamente, tutti i membri della società in quanto singoli (cioè come moltitudine e non come popolo), allora la rescissione richiederebbe l'unanimità. E poiché non è pensabile, osserva Hobbes, che tutti i cittadini siano contemporaneamente d'accordo nel voler revocare il sovrano, ne consegue che tale revoca sarebbe di fatto impossibile. Il secondo argomento si basa invece su una impossibilità di diritto: poiché il patto di unione è concepito come un contratto a favore di un terzo (ossia come un contratto nel quale i contraenti assumono un obbligo non solo l'uno verso l'altro, ma anche verso un terzo), per rescinderlo non è sufficiente il consenso dei contraenti, ma è necessario anche quello del terzo verso cui tali contraenti si sono obbligati. Ciò implica che per rescindere un simile patto non basta il consenso di tutti i governati (consenso unanime che, come abbiamo già visto, è assai improbabile), ma è necessario anche quello del sovrano stesso.

Per quanto riguarda l'assolutezza del potere sovrano, Hobbes si contrappone a tutte le teorie che in vario modo tendono a limitare il potere dello Stato. Assoluto in Hobbes ha il significato classico di legibus solutus, sciolto dalle leggi, superiore alle leggi stesse. Insomma il potere sovrano, in quanto sovrano, è potestas superiorem non recognoscens. In quegli anni, tuttavia, si facevano sempre più strada le dottrine anti-assolutistiche e costituzionalistiche. Uno dei loro argomenti era legato proprio alla fondazione contrattualistica del potere: se il patto è avvenuto tra il popolo e il sovrano, il potere di quest'ultimo può essere condizionato dall'adempimento di certi obblighi. Ma abbiamo già visto che Hobbes elimina alla radice tale problema, configurando il patto come pactum societatis a favore di un terzo non contraente. Per Hobbes, infatti, il popolo non può esistere prima dell'istituzione del potere; è precisamente l'istituzione di un potere sovrano che trasforma una moltitudine dispersa e insicura in un popolo. Un altro argomento sul quale si misurerà la distanza di Hobbes dai pensatori liberali riguarda il contenuto del patto, ossia la quantità di diritti naturali che vengono ceduti al sovrano: per i liberali sarà una cessione sempre più ridotta, per Hobbes è una cessione quasi totale (gli individui conservano soltanto il loro diritto alla vita, che è precisamente quello per tutelare il quale hanno abbandonato l'insicuro stato di natura).

Quanto alla indivisibilità, è ovvio che se tutta la costruzione hobbesiana nasce dall'esigenza di garantire l'unità dello Stato, egli vedrà tanto nella divisione dei poteri, quanto nella separazione tra potere temporale e spirituale, una minaccia da scongiurare. La divisione dei poteri, dice Hobbes, o è inutile o è dannosa. E' inutile quando i diversi poteri vanno d'accordo, in quanto essi, sommandosi nell'accordo, costituiscono sempre un potere assoluto; è dannosa quando i poteri sono in disaccordo, giacché si produce una situazione di anarchia. Il filosofo inglese aggiunge a questo un altro ragionamento dilemmatico, che riguarda un esempio di come possa avvenire una divisione del potere. Si tratta del potere di fare guerra, che, in un sistema basato sulla divisione dei poteri, conferisce al sovrano il potere di dichiararla, ma al parlamento il potere di finanziarla. Commenta Hobbes: o il potere effettivo sta nelle mani di chi eroga i finanziamenti e allora la divisione è apparente, fittizia, e in sostanza vi è un unico potere, che è quello del parlamento; oppure il potere è veramente diviso, e allora lo Stato è sulla via della dissoluzione, perché non si può fare la guerra o conservare la tranquillità pubblica senza denaro. Hobbes, infine, offre anche una disamina dei vari poteri, sulla base della quale egli intende dimostrare come questi si implichino vicendevolmente e quindi debbano concentrati nelle stesse mani, pena la loro inefficacia.

Vediamo infine il problema dei rapporti con la Chiesa, al quale il filosofo inglese dedica molto spazio. La soluzione consiste in un'applicazione del principio che anima tutto il suo sistema, ossia del principio di razionalità. In base ad esso, tutto ciò che, nell'ambito della religione, rientra nella ragione (e per Hobbes è l'essenziale), è di pertinenza dello Stato; quanto non vi rientra (ad esempio, la natura di Cristo, i premi futuri, la resurrezione dei corpi, la natura degli angeli) appartiene alla sfera spirituale. Ma - osserva Hobbes - poiché definire ciò che è spirituale e ciò che è temporale è pur sempre opera della ragione, tale distinzione sarà rimessa al sovrano, ossia al potere temporale. Dunque delle questioni elencate poco sopra giudicheranno gli ecclesiastici, ma solo se il sovrano li investirà di tale compito. Nessun contrasto è dunque possibile tra Chiesa e Stato, tra doveri del cittadino e doveri del cristiano: Chiesa e Stato sono una cosa sola. Si può dare tuttavia il caso di un sovrano non cristiano che comandi ad un suddito cristiano. Ancora una volta, per tutto ciò che è temporale, il suddito dovrà obbedire al sovrano; viceversa, per quello che è spirituale dovrà obbedire a Dio. Dunque non obbedirà allo Stato; ma ciò non significa che possa ribellarsi ad esso. E allora? Rimane, per Hobbes, solo la strada del martirio. Nemmeno la religione rende dunque possibile la disobbedienza. L'unica possibilità di disobbedienza sta all'interno del patto, nella violazione della clausola dell'autoconservazione che regge l'intera impalcatura.

7. Locke

Cenni biografici

John Locke nasce nel 1632 a Wrington, presso Bristol. Il padre, procuratore e ufficiale giudiziario, fece parte dell'esercito parlamentare in lotta contro il Re durante la prima rivoluzione inglese.

Studia ad Oxford, dove nel 1656, a 24 anni, ottiene il titolo di baccelliere e nel 1658 quello di maestro delle arti; rimane al Christ Church College come insegnante di greco e di retorica.

Inizia la sua carriera universitaria come censore di filosofia morale, ma poi passa a studi di medicina e di scienza naturale, entrando in contatto con medici famosi e con Boyle. Pur non ottenendo il dottorato in medicina, svolgerà attività di medico e continuerà ad interessarsi di problemi scientifici, entrando anche a far parte della Royal Society.

La sua attenzione verso la politica risale agli anni di Oxford. Tra il 1660 e il 1662, dopo la Restaurazione degli Stuart, scrive due trattati sui poteri del magistrato civile in campo religioso. Tra il 1662 e il 1664 scrive dei saggi sulla legge di natura, nei quali appare come sostenitore della restaurazione e dello Stato assoluto.

Nel 1666 incontra Lord Ashley, che poi diverrà conte di Shaftesbury, cancelliere di Carlo II ed eminente esponente del partito whig. E' al seguito di Shaftesbury che Locke maturerà le sue idee liberali. Divenuto segretario di Ashley, Locke si trasferisce a Londra ed entra attivamente in politica.

Nel 1667 scrive il primo Saggio sulla tolleranza, che rimane inedito.

Nel 1671 scrive due abbozzi di quello che sarà la sua opera maggiore, il Saggio sull'intelletto umano.

Durante le alterne fortune di Shaftesbury si reca più volte in Francia, dove entra in contatto con la cultura cartesiana.

Nel 1683, in piena repressione anti-whig, si rifugia in Olanda, dove attende alla composizione delle sue opere.

Nel 1689 pubblica, anomimi, la Lettera sulla tolleranza e i Due Trattati sul governo civile. Nello stesso anno pubblica il Saggio sull'intelletto umano (che viene però datato 1690), il quale avrà quattro edizioni e grande successo.

Nel 1693 pubblica i Pensieri sull'educazione; nel 1695 il Saggio sulla ragionevolezza del cristianesimo.

Durante gli ultimi anni della sua vita si impegna nella politica attiva e in polemiche suscitate dalle sue idee religiose. Muore nel 1704, a 70 anni.

Il pensiero politico

Il 13 febbraio 1689, nella grande Sala londinese dei Banchetti, a Whitehall, la regina Anna e suo marito, il Principe di Orange Guglielmo III, accettano dal Parlamento inglese la corona resasi libera per l'espulsione di Giacomo II Stuart (padre di Anna). Ma, quel che più conta, essi accettano contemporaneamente una Dichiarazione dei diritti della Nazione nei confronti della monarchia. Tale Dichiarazione sancisce le grandi prerogative del Parlamento nei confronti della Corona (consistenti essenzialmente nella supremazia della legge su qualsiasi altro potere) e le libertà personali dei cittadini. Nello stesso anno, viene emanato il Toleration Act, con il quale viene sancito il principio della tolleranza verso le diverse religioni (con l'esclusione di atei e cattolici), chiudendo così un secolo di sanguinosissime guerre religiose. Inoltre si regolano i rapporti tra esecutivo e legislativo e viene stabilita l'indipendenza del potere giudiziario attraverso il principio dell'inamovibilità dei giudici. Anna e Guglielmo, accettando tutto ciò, danno vita al primo esempio europeo di monarchia costituzionale, ossia di monarchia in cui il potere del Re non è più assoluto.

Come esito della lotta contro lo Stato assoluto sorgeva così in Inghilterra lo Stato limitato, ossia lo Stato liberale, lo Stato in cui il potere è limitato sia materialmente, sia formalmente. Materialmente, in quanto vengono sottratte alla sua sfera di intervento una serie di 'materie', che vanno a costituire l'area dei diritti civili; formalmente, in quanto il suo potere, sulle materie in cui si esercita legittimamente, deve comunque seguire procedure legalmente prefissate, e in quanto deve essere suddiviso al suo interno. Tale complesso di norme e princìpi - dalla separazione dei poteri alla supremazia della legge, dall'indipendenza del potere giudiziario alle garanzie giudiziarie per i cittadini, sino agli eventuali princìpi generali riguardanti i diritti di libertà di questi ultimi - è generalmente contenuto in un documento scritto, definito costituzione. Costituzionalizzare il potere, nel senso moderno del termine, significa limitare il potere, definire per iscritto i suoi ambiti di competenza, la sua struttura, le sue procedure generali, gli strumenti per controllarlo e i princìpi che deve garantire. Come dirà Benjamin Constant, la costituzione è un atto di sfiducia verso il potere. E' questa l'accezione liberale di costituzione, ben diversa da quella meramente descrittiva di Aristotele (che verrà poi ripresa da Hegel), secondo la quale la costituzione di uno Stato è semplicemente la sua organizzazione (in questo senso, come si comprenderà, qualunque Stato ha una costituzione).

Dunque le espressioni Stato limitato, Stato liberale, Stato costituzionale sono, nel senso sopra indicato, sinomime: tutte rimandano all'idea fondamentale di un potere limitato, contrapposto al tradizionale potere assoluto; tutte sono guidate dall'idea della libertà e quindi da una forte ispirazione anti-autoritaria; tutte riflettono una vera e propria rivoluzione copernicana nell'ambito del problema politico, l'essere cioè passati dal punto di vista del governante a quello del governato. La politica, insomma, vista non più ex parte principis, ma ex parte populi.

Tradizionalmente, il pensiero di John Locke è considerato l'espressione più autentica di questo esito liberale e costituzionale con il quale si era concluso il tormentatissimo '600 inglese. Il suo pensiero politico - dai due trattati sul governo civile agli scritti sulla tolleranza - è considerato la prima grande concezione liberale moderna. Tanto più che, contrariamente a quanto si è pensato per anni, i due trattati, anche se pubblicati nel 1690, quindi dopo la Rivoluzione, furono in realtà composti dieci anni prima: ne consegue, come è stato giustamente osservato, che «la grande opera politica lockiana, di solito esaltata come la giustificazione di una rivoluzione già fatta, è da considerarsi piuttosto come la proposta di una rivoluzione da fare»[15].

I due bersagli polemici di Locke sono la concezione paternalistica del potere e quella assolutistica. In una parola, tanto Filmer, quanto Hobbes.

Filmer era il rappresentante del legittimismo monarchico e l'autore del Patriarca, alla cui confutazione Locke dedicò il Primo Trattato sul governo civile. Filmer sosteneva che il potere del re riposa sul diritto naturale di paternità e deriva, passando per i Patriarchi, da Adamo stesso. I Re sono i padri dei loro popoli; e il loro potere è assoluto, come assoluto è il potere di un padre sul figlio, per natura, ex generatione. E' assurdo, dice Filmer, che il potere nasca da un contratto, perché in virtù di esso il popolo, che è uno dei contraenti, potrebbe giudicare le eventuali infrazioni del sovrano, divenendo così giudice e parte in causa. E' insostenibile, asserisce ancora Filmer, che il re sia costituzionale, cioè sottoposto alle leggi, dal momento che è proprio il re l'origine della sovranità e quindi delle leggi.

Alle tesi di Filmer Locke muove più obiezioni. Anzitutto, il passo biblico citato a sostegno delle sue tesi è male interpretato. In esso si legge che Dio benedisse Adamo ed Eva, «e disse loro: siate fecondi, e moltiplicatevi, e riempite la terra, e sottomettetela, e dominate sul pesce del mare e sull'uccello dell'aria e su ogni vivente che muove sulla terra». Ora, quest'ultima espressione non indica gli uomini, secondo Locke, bensì gli animali, come si può comprendere dal contesto. Inoltre, anche se fosse bene interpretato - ragion per cui Adamo sarebbe il primo sovrano assoluto della storia -, le sue conseguenze non si rivelerebbero favorevoli per le monarchie legittime; chi sarebbe, infatti, il legittimo erede di Adamo? Tutti potrebbero considerarsi legittimi eredi del primo uomo e dunque un simile argomento non rafforzerebbe certo le monarchie esistenti, ma piuttosto alimenterebbe l'anarchia. In secondo luogo, il potere paterno, osserva Locke, è in realtà il potere dei genitori, dunque un potere dualistico. E poiché ragione e rivelazione - afferma il filosofo inglese con accenti assai moderni - ci dicono che la madre ha sui figli gli stessi diritti del padre, ne consegue che i fautori della teoria paternalistica del potere sovrano rendono un pessimo servizio alla monarchia assoluta, la quale verrebbe ad essere posta non in una, ma in due persone. In terzo luogo, il potere dei genitori è un potere temporalmente determinato, che può e deve esercitarsi soltanto nel periodo in cui i figli non sono nell'età adulta. In quarto luogo, il potere dei genitori sui figli non nasce ex generatione, ma solo in quanto i primi si dedicano alla conservazione dei secondi (come dimostra il diritto genitoriale pleno jure esercitato da genitori adottivi); dunque tale potere è limitato, perché non può violare la vita e i possessi dei figli medesimi.

La conclusione di Locke è che potere politico e potere paterno sono perfettamente distinti e separati, essendo fondati su basi diverse e perseguendo fini differenti. Dunque l'identificazione tra i due - base del legittimismo filmeriano a favore dei monarchi assoluti - non ha alcun fondamento. E' bene osservare che, al di là dei diversi argomenti usati da Locke, due sono i punti fondamentali della sua critica:

1) un potere concepito paternalisticamente è un potere anti-liberale, in virtù del quale gli individui non sono cittadini, ma sudditi, perdipiù assimilati ad eterni minorenni (la polemica anti-paternalistica è tipica del pensiero liberale e si farà particolarmente vigorosa in Kant);

2) l'approccio di Filmer, il quale sostiene che il potere supremo, al di là del modo in cui è stato conseguito (elezione, donazione, successione), è ciò che propriamente fa di un individuo un Re, è un approccio che abolisce il problema stesso della legittimità del potere e conduce quindi ad una totale accettazione della realtà di fatto, per cui ogni potere, dice Locke - sia esso di Cromwell, di Masianello o di Sancio Pancia - diventa degno di obbedienza.

Se Filmer aveva indebitamente identificato il potere politico con il potere paterno, Hobbes lo ha altrettanto indebitamente identificato con il potere dispotico. Questi diversi tipi di potere nascono, per Locke, su basi diverse e quindi si rifanno a diversi princìpi di legittimazione. Mettiamo a confronto il potere del politico, il potere del padre e il potere di un padrone. Il potere paterno nasce ex generatione (ad immagine e somiglianza del potere di Dio sugli uomini, ex creatione); unito alla cura, esso dà diritto, temporaneamente, al comando sui figli e, correlativamente, al dovere di obbedienza da parte di questi ultimi. Il potere del padrone, invece, nasce ex delicto, ossia dalla punizione di un atto criminoso; ad esempio, colui il quale fa prigioniero un uomo all'interno di una guerra giusta, ha su di lui un potere assoluto. Ma il fondamento del potere politico, secondo Locke, non può derivare né ex generatione, né ex delicto; esso deriva invece ex contractu, ossia da uno strumento che presuppone l'eguaglianza degli individui interessati e quindi il consenso dei medesimi.

Hobbes, anche se attraverso lo strumento del contratto aveva costruito il potere politico con le caratteristiche del potere dispotico, aveva in realtà trasformato il potere dispotico in un potere politico. Per Hobbes, infatti, il potere del padrone sullo schiavo non è fondato sulla conquista, ma su un contratto; come gli uomini promettono obbedienza assoluta ad un sovrano per amore della pace, così gli schiavi promettono (implicitamente) obbedienza assoluta al padrone, in cambio della vita. Per Locke, invece, il potere assoluto di un uomo su un altro non può nascere né dalla natura (giacché gli uomini per natura sono uguali e l'unica forma di dominio che deriva dalla natura è quella dei genitori sui figli e anche quella deve rispettare la vita dei figli), né da un contratto (perché nemmeno l'uomo ha tale potere assoluto sulla propria vita e dunque non può cederlo ad alcuno). Non avendo origine né naturale né contrattuale, il potere dispotico può, secondo Locke, essere solo e soltanto la conseguenza del fatto che un uomo aggredisce un altro e così, messosi in stato di guerra con lui, mette a repentaglio la propria vita. Ma tale circostanza è eccezionale.

La differenza che corre tra Locke e Hobbes è tuttavia ancora più profonda: oltre a riguardare il fondamento del potere politico, essa riguarda il modo di concepire lo stato di natura, l'uomo stesso, la forma e il contenuto del contratto e infine, ovviamente, le caratteristiche del potere politico.

Anche per Locke, come per Hobbes, gli uomini sono, nello stato di natura, liberi ed eguali. Ma la descrizione di questo stato è ben diversa: mentre per Hobbes lo stato di natura era uno stato di guerra, per Locke è uno stato pacifico, almeno inizialmente. Dice Locke: stato di natura e stato di guerra sono distinti tra di loro come «uno stato di pace, benevolenza, assistenza e conservazione reciproca» è distinto da «uno stato di ostilità, malvagità, violenza e reciproca distruzione». Dietro questa raffigurazione dello stato di natura si può scorgere una visione fondamentalmente ottimistica dell'uomo: l'uomo è un essere socievole, partecipe di una comune umanità, benevolo, ragionevole, avente il senso naturale della giustizia. I molteplici egoismi individuali coesistono senza urtarsi reciprocamente, anzi reciprocamente avvantaggiandosi e simpatizzando. La legge di natura è una legge di conservazione e di pace. Senonché può accadere che qualcuno violi questa legge, ossia che violi la libertà di un altro; e può accadere anche che quest'ultimo, una volta offeso, ecceda nella sua reazione, offendendo a sua volta l'offensore. Di qui può nascere un conflitto: conflitto che, una volta iniziato, non può terminare, perché manca un terzo superiore alle parti, manca un giudice imparziale che possa ristabilire la corretta osservanza della legge naturale.

Dunque lo stato di natura, per Locke, è pacifico; ma se al suo interno nasce uno stato di guerra, questo, una volta cominciato, non può terminare. Molti critici si sono soffermati su questa ambiguità lockeana; in particolare, Cox ha sostenuto che Locke la penserebbe come Hobbes, ma sarebbe troppo pavido per dirlo. In realtà, come ha osservato opportunamente Bobbio, l'ambiguità di Locke nasce da ragioni ben più complesse. Fare dello stato di natura uno stato di guerra, assolutamente negativo, non solo era contrario alle Sacre Scritture, ma costituiva anche la base per giustificare un potere assolutistico: solo il terribile Leviatano è infatti l'antitesi appropriata contro un simile stato di cose (ossia, contro uno stato di natura radicalmente negativo). A mali estremi, estremi rimedi. Viceversa, fare dello stato di natura uno stato totalmente pacifico (come, ad esempio, aveva fatto Pufendorf), significava elaborare un formidabile argomento per dichiarare superfluo lo stato civile. E' per questi opposti motivi - che rendevano sconsigliabile assimilare lo stato di natura tanto ad uno stato di guerra, quanto ad uno di pace - che Locke si propose di elaborare una teoria politica in cui fosse dimostrata, per un verso, la necessità dello Stato e, per l'altro, la necessità che il suo potere fosse limitato. Lo Stato di Locke, insomma, avrebbe dovuto essere non l'antitesi dello stato di natura, ma la sua redenzione, non l'abrogazione delle leggi naturali, ma la loro conservazione e garanzia. Per Locke, infatti, gli uomini non sono così ferini come in Hobbes; essi sono ragionevoli e quindi tendono a seguire le leggi di natura. Ma Locke è anche un realista e quindi sa che non proprio tutti gli uomini sono ragionevoli o riescono a seguire la voce della ragione: di qui le violazioni che trasformano il pacifico stato di natura in uno stato di guerra. La differenza che separa i due pensatori inglesi non è di poco conto: lo stato di natura di Hobbes è uno stato di guerra per principio, quindi in modo permanente ed esclusivo; quello di Locke, invece, può diventare, di fatto, uno stato di guerra, ma di diritto, secondo la sua essenza, non lo sarebbe, anzi sarebbe lo stato perfetto.

Per concludere: diversi i mali, diversi i rimedi. Per Hobbes, nello stato di natura, si dà guerra continua e inesistenza (nel senso dell'inefficacia) delle leggi naturali; lo stato civile dovrà quindi avere una forza immensa; le sue leggi non dovranno essere vincolate da alcun limite. Per Locke, viceversa, l'unico difetto dello stato di natura consiste nell'assenza di un giudice imparziale: dunque il compito principale dello stato civile sarà quello di rimediare a questa carenza. Lo Stato di Hobbes nasce con il compito di cancellare anche l'ultima traccia dello stato di natura, per riedificare la convivenza umana fin dai suoi fondamenti: a male radicale, rimedio radicale. Per Locke, invece, lo Stato nasce con il compito di correggere lo stato di natura e di farlo riemergere, con tutti i suoi vantaggi, quanto più è possibile, nello stato civile: a male parziale, rimedio parziale.

Questa diversità spiega anche il diverso modo di congegnare il patto. Per Hobbes esso viene stipulato tra i singoli (che non costituiscono ancora un popolo, bensì una moltitudine dispersa) a favore di un terzo, il sovrano, il quale, non essendo un contraente del patto ma un suo beneficiario, non è vincolato ad esso in alcun modo; inoltre, attraverso il patto, i singoli si accordano per cedere tutti i loro diritti al sovrano, tranne quello alla vita (che è anche il motivo per cui abbandonano lo stato di natura). Dunque in Hobbes il potere del sovrano sarà assoluto; e che sia l'obbedienza il fine essenziale di tutta la costruzione hobbesiana emerge con particolare chiarezza dal fatto in Hobbes il patto di unione (con il quale ci si unisce in società) coincide con il patto di soggezione (con il quale ci si sottomette ad un'autorità). Tra i due non si dà distinzione: gli uomini si accordano tra loro e la ragione di questo accordo, nonché il suo contenuto, altro non è che la sottomissione ad un potere sovrano. Per Locke, invece, il contratto è in primo luogo un pactum societatis, tra gli individui che si riuniscono in società, e poi un pactum subjectionis, il cui contenuto consiste nel conservare tutti i diritti naturali, cedendo al sovrano soltanto quello a farsi giustizia da soli. Insomma, lo Stato, in Locke, non nasce per abolire lo stato di natura, ma per conservarne e garantirne tutti i vantaggi. Inoltre Locke obietta ad Hobbes che se il sovrano rimanesse legibus solutus, egli non sarebbe nemmeno sottoposto al giudizio del giudice, la cui istituzione costituisce il fine principale dello stato civile; ciò significherebbe che il sovrano rimane nello stato di natura, il che contrasta con i fini stessi che determinano il passaggio allo stato civile, ossia la tutela dei diritti naturali (i quali sarebbero sempre esposti alla totale libertà naturale del sovrano). Se si verifica una tale situazione, non solo non si ha la società civile nel senso pieno del termine, perché il sovrano ne rimane fuori, ma per i singoli individui si ha una situazione peggiore di quella che avevano nello stato di natura; mentre lì, infatti, potevano giudicare del proprio diritto e difendersi, qui, di fronte al sovrano, non potrebbero far nulla.

Ma quale organizzazione dà Locke al suo Stato? I suoi princìpi di legittimazione sono fiducia e consenso. Il potere politico, dice Locke, è

quel potere che ciascuno, possedendolo allo stato di natura, ha rimesso nelle mani della società, e, in questa, ai governanti che la società ha stabilito sopra di sé, con la fiducia, espressa o tacita, che sia impiegato per il suo bene e la conservazione della sua proprietà.

Dunque il potere, una volta nelle mani del magistrato,

non può avere altro fine né altro criterio che quello di conservare i membri di quella società nelle loro vite, libertà e possessi, e quindi non può essere un potere assoluto e arbitrario ... Questo potere trae origine unicamente dal contratto e dall'accordo e dal mutuo consenso di quelli che costituiscono la comunità.

In sostanza: il potere nasce con un fine ben preciso, che è quello di tutelare e garantire i diritti naturali degli individui. Tale fine rende lo Stato uno strumento, rispetto ad esso (concezione strumentale del potere); inoltre lo rende limitato, giacché se deve garantire quei diritti, è ovvio che non dovrà violarli (concezione limitata del potere); a tale limitazione si aggiunge quella implicita nella sua nascita, dovuta all'accordo e al mutuo consenso in relazione ai fini da perseguire (concezione contrattualistica e consensuale del fondamento del potere), la quale implica che il disattendere quei fini o il venire meno al consenso renda illegittimo quel potere.

Ma di quale consenso si deve trattare? Il consenso di tutti - ossia l'unanimità - è evidentemente impossibile. Per due motivi: il primo è di natura pratica, e consiste nel fatto che, per motivi di salute o per affari, ci sarà sempre qualcuno che non potrà partecipare alle pubbliche decisisioni; il secondo motivo, assai più importante, nasce dall'ineliminabile varietà di opinioni e di interessi che caratterizza ogni società numerosa. Pretendere di governare una società con l'unanimità significa quindi rinunciare a governarla. Non rimane che la regola della maggioranza, ossia il consenso del maggior numero: una volta costituito il corpo politico, la maggioranza ha diritto di deliberare anche per la minoranza.

Ma, come abbiamo già visto, un potere consensuale non può essere illimitato. Quali saranno allora i limiti che anche la maggioranza incontrerà nell'esercizio del suo potere?

1) Anzitutto, i diritti naturali (limitazione "materiale" del potere): abbiamo visto che il potere sovrano, all'atto della sua creazione, riceve degli individui un solo diritto naturale, quello a farsi giustizia da soli; ne consegue che l'azione del sovrano non dovrà in alcun modo violare quei diritti naturali ai quali gli individui non hanno rinunciato e la cui tutela costituisce per l'appunto la stessa ragion d'essere dello Stato. Dunque al di sopra delle leggi positive si collocano le leggi naturali, che le prime non solo non devono violare, ma anzi devono garantire. In questo senso il pensiero di Locke è una delle forme più radicali di giusnaturalismo.

2) In secondo luogo, il principio di legalità (limitazione "formale" del potere). Il potere politico non può essere esercitato in modo estemporaneo ed arbitrario, ma - dice Locke - secondo «leggi promulgate e fisse e giudici autorizzati e conosciuti». E' il principio di legalità, che deve garantire la supremazia della legge, la sua certezza e l'eguaglianza di tutti di fronte ad essa.

3) In terzo luogo, il diritto alla proprietà. Nessun individuo può essere privato di una proprietà senza il suo consenso; se ciò accadesse, dice Locke, «si dovrebbe supporre che, coll'atto di entrare in società, si perda ciò che costituiva il fine per cui si è entrati in società: assurdità troppo grossolana perché possa essere ammessa da alcuno».

4) In quarto luogo, il potere non può trasferire ad organi diversi dal parlamento il potere legislativo.

Il potere legislativo rappresenta infatti per Locke il potere supremo; supremo non nel senso di illimitato, ma nel senso di collocato al di sopra del potere esecutivo. Questi due poteri devono essere separati, sulla base di una diversa funzione: il primo deve fare le leggi, il secondo farle eseguire. Ma ciò non significa che siano incomunicanti: tra di loro si dà un rapporto di subordinazione, che mette al primo posto il potere che fa le leggi. Accanto a questi due poteri, Locke non nomina il potere giudiziario, ma quello da lui denominato 'federativo', che si occupa dei rapporti con gli altri Stati e che costituisce quindi un'ulteriore articolazione dell'esecutivo. Quanto al potere giudiziario, probabilmente Locke lo comprende in quello legislativo, dal momento che spetta al legislativo sovrintendere al rispetto delle leggi.

La netta supremazia del legislativo-giudiziario sull'esecutivo fa sì che gli eventuali abusi di potere del secondo, ai danni del primo, mettano l'esecutivo in stato in guerra con il parlamento e quindi con il popolo; quest'ultimo, a sua volta, visto che il legame fiduciario è stato violato, ha il diritto di riprendersi la propria libertà e di usare persino la forza per difendere i propri diritti e per ristabilire un nuovo legislativo che goda della sua fiducia. Abbiamo dunque in Locke una piena giustificazione del diritto di resistenza, che non ritroveremo nemmeno nel pensiero, peraltro successivo, di Kant. A coloro i quali obiettano che tale diritto costituisce l'anticamera della dissoluzione dello Stato - giacché il popolo è ignorante e sempre scontento e quindi collocare nelle sue mani il fondamento del potere significa esporre quest'ultimo a continue rovine - Locke risponde che è vero il contrario. Vale a dire, che gli uomini hanno piuttosto la tendenza a conservare le proprie istituzioni, sopportando anche molti errori e vessazioni da parte dei governanti, e che soltanto una serie davvero lunga di abusi, inganni e prevaricazioni può spingere un popolo a ribellarsi[16].

Prima di venire al grande tema della tolleranza, è bene soffermarsi su un tema che al quale abbiamo dedicato soltanto qualche cenno e che costituisce anche il cardine delle interpretazioni marxiste di Locke. E' il tema della proprietà. Le interpretazioni marxiste - che per la verità sono in genere piuttosto infeconde, giacché applicano lo stesso schema a tutti i pensatori liberali, perdendo in tal modo le profonde differenze che passano tra di essi - sostengono che il pensiero di Locke consiste in una strenua difesa della proprietà privata. Dunque il liberalismo di Locke altro non sarebbe che un'ideologia borghese, palesemente classista, che accompagna il sorgere e lo svilupparsi della classe borghese. E' d'altra parte lo stesso Locke ad affermare, in un passo del Trattato, che per potere politico intende il diritto di fare leggi e imporre sanzioni al fine di regolare e conservare la proprietà. Sarebbe dunque evidente che la libertà di cui parla Locke non è universale, perché è la libertà dei soli proprietari, ossia dei soli borghesi: quella del pensatore inglese sarebbe pertanto una concezione classista della libertà, interessata soltanto alla egoistica difesa degli interessi economici della borghesia. Lo Stato, in questa prospettiva, non sarebbe che un comitato borghese d'affari.

Ora, sul fatto che la proprietà occupi, nel pensiero di Locke, un posto centrale, non v'è dubbio. Egli, del resto, la spiega in modo rivoluzionario, giacché ne fa un diritto naturale, basato sul lavoro e collocato nel seno stesso dello stato di natura, mentre Hobbes ne faceva un diritto convenzionale, che nasceva con lo stato civile.

Ma seguiamo da vicino il ragionamento di Locke. Egli parte dal passo biblico nel quale sta scritto che Dio, originariamente, ha dato la terra e tutte le cose in comune agli uomini. Tale proprietà originaria comune sembra costituire, come ammette lo stesso Locke, una grandissima difficoltà, al fine di giustificare la proprietà privata. Tuttavia, egli argomenta così: è vero che Dio ha dato il mondo agli uomini in comune, ma egli lo ha dato per la loro sussistenza e per il conforto della loro esistenza. Dal momento che terra, animali e frutti sono dati a tutti per il vantaggio di ciascuno, ci dovrà essere un modo per appropriarsene. Tale modo non può essere il consenso degli altri uomini, altrimenti ognuno, nonostante l'abbondanza, morirebbe di fame nell'attesa di tale consenso. Ora, se è vero che la terra è stata data agli uomini in comune, è anche vero che la proprietà della persona è invece rigorosamente individuale; e come ognuno possiede individualmente il proprio corpo e la propria mente, così possiederà tutto ciò che l'opera delle sue mani potrà procurargli. Con il lavoro, l'uomo trae i beni dallo stato comune in cui si trovano originariamente e vi aggiunge qualcosa di individuale, che quindi li esclude dal loro primitivo stato. Insomma il lavoro aggiunge ai beni qualcosa che essi non possedevano precedentemente; e poiché questo qualcosa in più è una proprietà rigorosamente individuale, tali beni escono dal possesso comune (ad es., la terra lavorata è proprietà di chi la lavora). Facciamo attenzione: con questa argomentazione la proprietà privata, per la prima volta nella storia del pensiero sociale e politico, viene collegata al lavoro. In tal modo la proprietà privata - da qualcosa di statico, dato una volta per tutte, o di convenzionale - diviene qualcosa di dinamico, frutto dello sforzo e dell'attività economica dell'uomo. E non si può certo negare che si tratti di una concezione che si attaglia molto bene alla mentalità dei nuovi ceti borghesi inglesi, terrieri e mercantili.

Ma andiamo avanti. Dapprima Locke pone dei limiti all'acquisizione della proprietà privata. Il primo limite è che occorre lasciare cose sufficienti e altrettanto buone agli altri; il secondo è che ci si può appropriare di quanto può essere goduto, per cui tutto ciò che eccede la nostra capacità di fruizione - e andrebbe quindi perso o deteriorato - oltrepassa tale limite. Ma tali limiti vengono superati sia grazie all'idea dell'abbondanza dei beni (per cui ne resterebbero sempre più che sufficientemente per gli altri), sia grazie all'istituzione della moneta, che espande illimitatamente il possesso, dal momento che non è deperibile. Ciò giustifica possessi che superano ampiamente i bisogni personali. Sembrerebbe proprio che Locke sia un teorico dell'accumulazione illimitata. Egli avrebbe proiettato nello stato di natura - sostengono con qualche ragione gli interpreti marxisti - un processo storico realmente realizzatosi, ossia il sorgere dell'economia borghese moderna, che non tollera limitazioni né vincoli. Tuttavia, non bisogna dimenticare che Locke adduce anche argomenti più solidi di quello della moneta, e cioè che un'economia fondata sulla proprietà privata e sull'accumulazione illimitata di ricchezza genera uno sviluppo economico complessivo infinitamente superiore ai modelli pre-borghesi: un piccolo pezzo di terra coltivato privatamente, osserva Locke, rende dieci, anzi cento volte di più di quanto renderebbe se lasciato in proprietà comune (tanto è vero, aggiunge Locke, che il re di un ampio e fertile territorio americano mangia, alloggia e veste peggio di un operaio giornaliero inglese). Ciò nondimeno, la teoria di Locke ha anche legittimato il processo storico e dunque non si può negare che, dal punto di vista storico, le sue tesi risentano dei forti influssi della borghesia in ascesa.

Ma se ci fermasse qui, si darebbe una visione molto riduttiva della concezione lockeana. Il filosofo inglese spiega infatti più volte che per proprietà intende qualcosa di molto più ampio della proprietà dei beni materiali. Gli uomini si riuniscono in società, dice Locke,

per la mutua conservazione della loro vita, libertà e averi, cose ch'io denomino, con termine generico, proprietà.

Non solo. Nell'Epistola sulla tolleranza, dopo aver specificato che lo Stato ha il suo fine essenziale nella tutela e nella promozione dei beni civili, dice:

chiamo beni civili la vita, la libertà, l'integrità del corpo, la sua immunità dal dolore, i possessi delle cose esterne.

E' questa proprietà, ha osservato Bedeschi, che Locke intende tutelare; e si tratta di una proprietà che non si può certo ridurre ad un significato esclusivamente economico e classista.

L'ultimo punto sul quale vale la pena di soffermarsi è il tema della tolleranza, che fu trattata da Locke nella famosa Epistola. L'argomento principale elaborato da Locke è il seguente: il potere del magistrato civile è un potere coattivo, anche se fondato sul consenso, ovvero è un potere che deve imporre, anche con la forza, determinate decisioni; il potere delle istituzioni religiose è invece un potere spirituale e dunque può esercitare solo un magistero spirituale, che può convincere, ma non può costringere. La religione vera e salutare, per Locke, consiste nella fede interna dell'anima: è un fenomeno interiore, senza il quale nulla ha valore di fronte a Dio. Ora, la caratteristica dell'interiorità è quella di essere inespugnabile dall'esterno: si possono confiscare i beni, tormentare il corpo con il carcere e la tortura, dice Locke, ma tutto ciò non può mutare le convinzioni interiori di un uomo. Queste mutano soltanto con la luce di una nuova convinzione, e non certo per effetto della forza. Perciò i confini tra sfera civile e sfera religiosa sono ben chiari:

chi vuol confondere le due società - afferma Locke - completamente diverse per la loro origine, per il fine che si propongono, per i loro contenuti, mescola due cose così separate come il cielo e la terra.

Stabilita tale distinzione, Locke sottolinea che i rapporti tra le varie Chiese - che sono tutte società libere e volontarie - devono essere improntati alla più larga tolleranza. Certo, ogni Chiesa ritiene di avere il monopolio della verità; ma si tratta, secondo Locke, soltanto di una convinzione soggettiva o di gruppo, dal momento che ognuna pensa ciò per sé e lo esclude per le altre. Ogni individuo entra spontaneamente in una Chiesa, sperando di aver trovato la vera religione e il culto più gradito a Dio; ma proprio per ciò, se cambiasse idea, deve poter abbandonare quella Chiesa, con la stessa libertà con cui vi era entrato. Ogni Chiesa ha il diritto di fissare i propri princìpi dogmatici, le proprie regole di culto e organizzative e di espellere chiunque non le rispetti; ma l'esclusione religiosa non deve avere conseguenze civili. Al decreto di scomunica, dice Locke, non deve seguire nessuna violenza, verbale o fisica, e nessun danno inflitto alla persona o ai beni.

Certo, la tolleranza lockeana - nonostante il suo respiro ideale e la sua modernità - conosce due limiti ben precisi: essa esclude dal suo godimento tanto i cattolici, quanto gli atei. I primi perché riconoscono un solo sovrano, cioè il Papa, e sono pronti a disobbedire al potere civile in nome di quello; inoltre, una volta al potere, non sarebbero tolleranti. I secondi, negando l'idea stessa di Dio, non riconoscono nulla di sacro e di stabile e quindi disconoscono tutti i legami della società. Con questi due limiti, ha osservato giustamente Bedeschi,

Locke pagava un prezzo al proprio tempo: nel primo caso, a una particolare situazione politico-religiosa; nel secondo caso, alla propria cultura cristiana, da lui profondamente sentita e vissuta. Ma pur con questi limiti, egli ha posto le fondamenta di una concezione della tolleranza che costituisce un patrimonio ideale irrinuniciabile del mondo moderno.[17]

8. Rousseau

Cenni biografici

Jean-Jacques Rousseau nasce a Ginevra nel 1712, da una famiglia di piccoli artigiani, di religione calvinista. Perde ben presto la madre.

Nel 1728, a 16 anni, lascia Ginevra e incontra ad Annecy, in Savoia, Madame de Warens. Sarà lei ad inviarlo a Torino, dove abiurerà il Calvinismo per il Cattolicesimo e verrà assunto come lacchè e poi come segretario in case nobiliari.

Nel 1729 torna in Savoia, presso Madame de Warens, dove rimane per 11 anni, legandosi a lei sentimentalmente.

Nel 1740 è a Lione come precettore, quindi a Parigi. Qui si guadagna da vivere con mestieri diversi (maestro, segretario privato, copista di musica); entra inoltre in contatto con la cultura illuministica, stringendo amicizia con Diderot e Condillac e collaborando all'Enciclopedia.

Nel 1745 inizia la relazione con Teresa Levasseur, dalla quale avrà vari figli, che abbandonerà all'ospizio dei trovatelli; sposerà Teresa solo nel 1768.

La sua amicizia con gli ambienti illuministici si incrina con la pubblicazione del primo Discorso (1750) e soprattutto con la pubblicazione del secondo (1755), che fu aspramente criticato da Voltaire.

Nel 1756 si reca a Ginevra, dove è accolto con grandi festeggiamenti; abiura il Cattolicesimo e si riconverte al Calvinismo.

Nel 1757 interrompe la collaborazione con l'Enciclopedia e rompe con D'Alembert. Si rifugia quindi nella pace della campagna, a Montmorency. In questi anni dà alle stampe le sue grandi opere.

Nel 1760 pubblica La Nuova Eloisa; nel 1762 l'Emilio; nello stesso anno il Contratto sociale. Queste due ultime opere attirano su Rousseau la condanna degli ambienti filosofici parigini e quella delle chiese cattolica e calvinista. Vengono emessi ordini di arresto a Parigi, Ginevra, Berna.

Dopo aver girovagato per l'Europa, accetta, nel 1766 l'ospitalità di Hume in Inghilterra, ma poco dopo fugge anche da lì.

Calmatasi la polemica, torna nel 1767 in Francia, risiedendo a Parigi e ritirandosi poi a Ermenonville, dove muore nel 1778, a 66 anni.

Il pensiero politico

E' difficile, se non impossibile, isolare il pensiero politico di Rousseau dalla sua riflessione morale sull'uomo, che egli conduce, in polemica con il proprio secolo e forse con la civiltà moderna in generale, a partire da se stesso.

Voglio mostrare ai miei simili - scrive all'inizio delle Confessioni - un uomo in tutta la verità della natura, e quest'uomo sarò io. Io solo. Sento il mio cuore e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di coloro che ho visto; oso credere di non essere fatto come nessun altro essere vivente.

E' per questo approccio - caratterizzato da un forte egocentrismo, vissuto con lucida consapevolezza e descritto con straordinaria intensità espressiva - che taluni critici ritengono necessario tenere sempre «presenti le pagine autobiografiche se si vuole comprendere intus et in cute ... il pensatore politico, il moralista, il romanziere, il musicista»[18].

Al nesso tra autobiografia e riflessione, occorre aggiungere la tensione tra emozione e ragione, tra immagine e concetto, che caratterizza la riflessione di Rousseau. Nel Ginevrino, infatti, l'emozione precede la riflessione e il concetto nasce lentamente dopo una tempesta di immagini. Scrive sempre nelle Confessioni:

due cose quasi incompatibili si uniscono in me senza che io sappia precisare in qual modo: un temperamento ardentissimo, passioni vive, impetuose, e idee lente a nascere, impacciate, che si presentano sempre in ritardo. Si direbbe che il mio cuore e la mia mente non appartengano al medesimo individuo. Il sentimento, più rapido della folgore, inonda la mia anima, ma anziché illuminarmi mi brucia e mi abbaglia. Sento tutto e non capisco nulla ... Questa lentezza nel pensare, unita alla vivacità nel sentire, non l'ho soltanto in conversazione, ma anche da solo, quando lavoro. Le idee si ordinano nella mia testa con la più incredibile difficoltà, circolano lentamente, fermentano fino a emozionarmi, eccitarmi, darmi palpitazioni, e in balìa di tale emozione non capisco nulla nettamente, non saprei scrivere una sola parola, debbo attendere. Poi a poco a poco questo gran movimento si placa, il caos si dissipa, ogni cosa si colloca al suo posto, ma lentamente, e dopo una lunga e confusa agitazione.

Questo tratto così personale e così legato alla sfera delle emozioni costituisce la singolarità della riflessione roussoiana; se a ciò aggiungiamo la forte polemica anti-illuministica, condotta con accenti calvinistici, e, nonostante questa, la costruzione razionale di un sistema politico ed educativo, avremo un'idea approssimativa di quale complessità porti con sé la figura di questo pensatore. Basti pensare che Rousseau è stato considerato, volta a volta, padre della Rivoluzione francese, del romanticismo, dell'anarchismo, del primitivismo, del socialismo, della democrazia, della mistica totalitaria, dell'esistenzialismo e così via. Per quanto approssimative e semplificanti possano essere tali attribuzioni di paternità, il fatto stesso che esse si siano verificate costituisce comunque un dato significativo, sul quale è bene riflettere.

Anche il suo pensiero politico ha sempre suscitato vivaci discussioni e opposte interpretazioni: alcuni autori, come Talmon, hanno visto nel grande Ginevrino il precursore della democrazia totalitaria e dunque un pensatore profondamente anti-liberale (e quindi, posto che la vera democrazia non sia totalitaria, anti-democratico). Altri studiosi, come Fetscher, sottolineando la critica di Rousseau alla società liberale-borghese, hanno visto in lui un precursore del socialismo; ciò ha condotto, soprattutto in Italia, con Della Volpe, a studiare a fondo il rapporto tra il pensiero di Rousseau e quello di Marx. Vi sono infine studiosi secondo i quali Rousseau è un pensatore democratico di ispirazione liberale, al quale non si possono attribuire né gli eccessi della Rivoluzione francese, che sarebbero nati da un'interpretazione errata del suo pensiero, né tantomeno i totalitarismi del XX secolo. Al di là delle interpretazioni fortemente caratterizzate dal punto di vista ideologico, Robert Derathé ha ribadito l'esigenza di collocare il pensiero di Rousseau nel contesto teorico sei-settecentesco, soprattutto con riferimento al rapporto critico con il giusnaturalismo.

Ed è proprio nel filone giusnaturalistico, ossia nella cosiddetta scuola del diritto naturale, che Bobbio ha collocato Rousseau, insieme a Hobbes, Locke, Spinoza e Kant. Ma cosa permette di accostare autori così diversi tra di loro, sia per le posizioni politiche, sia per quelle filosofiche? Bobbio individua due ragioni. In primo luogo, il metodo: «il metodo che unisce autori tanto diversi è il metodo razionale, ossia è quel metodo che deve permettere di ridurre il diritto e la morale (nonché la politica), per la prima volta nella storia della riflessione sulla condotta umana, a scienza dimostrativa»[19]. In altre parole, al di là delle divergenze, tutti questi autori condividono il tentativo di costruire un'etica razionale indipendente dalla teologia, capace quindi di fondare e garantire autonomamente (ossia, con le sole forze della ragione) le proprie asserzioni, senza smarrirsi in infiniti e insolubili conflitti d'opinione. Storicamente, sostiene infatti Bobbio, il diritto naturale costituisce il tentativo di dare una risposta rassicurante al relativismo etico determinatosi con la fine dell'universalismo religioso e lo svilupparsi del libertinismo. In secondo luogo, ciò che consente di riunire pensatori tanto diversi in un'unica scuola è il modello. Tutti questi autori condividono l'adozione di un nuovo modello teorico, che si sostituisce, nella spiegazione del problema politico, a quello aristotelico ed è costituito da due elementi antitetici: stato di natura e stato civile.

Vale forse la pena - visto che abbiamo già affrontato i loro creatori, Aristotele e Hobbes - di tornare ancora una volta su questi due modelli, al fine di cogliere in profondità le implicazioni di questo fondamentale mutamento nel modo di spiegare l'origine e il fondamento del potere politico. Come abbiamo già visto[20], Aristotele spiega l'origine dello Stato sulla base di una ricostruzione storico-naturalistica: partendo dal bisogno biologico che presiede alla formazione della famiglia, il filosofo greco descrive le tappe principali attraverso le quali la comunità umana si allarga progressivamente, sino a costituire la città. Tale modello rimane sostanzialmente immutato sino alle soglie dell'età moderna. Si tratta di una spiegazione storica (sia pure di una storia immaginaria) e non razionale: al posto dell'astratto stato di natura di cui parlano i giusnaturalisti - popolato di individui singoli, liberi ed eguali - che precede logicamente lo Stato, abbiamo una forma concreta, specifica e storicamente determinata di società naturale, che è la famiglia. Mentre il modello hobbesiano è dicotomico e chiuso (o stato di natura o stato civile), quello aristotelico è plurimo e aperto (dal momento che i gradi intermedi possono variare per quantità). Inoltre, mentre nel modello hobbesiano tra i due stati si dà una radicale antitesi (o si è nell'uno, o nell'altro, tertium non datur), in quello aristotelico tra i diversi stadi vi è un rapporto di continuità, nel senso della progressiva evoluzione. Infine, il passaggio da una fase all'altra - dallo stato pre-politico a quello politico - proprio in quanto avviene per un naturale processo di estensione della società, non è dovuto ad una convenzione (cioè ad un atto di volontà razionale), ma all'effetto di cause naturali e all'operare di condizioni obiettive: avviene insomma per la forza delle cose. Il che conduce a due princìpi di legittimazione ben diversi: nel caso della scelta volontaria, ci si fonderà sul consenso; nel caso della forza delle cose, su uno stato di necessità. Ricapitolando:

a) per ciò che riguarda l'origine dello Stato, abbiamo da un lato una ricostruzione logico-razionale, dall'altro una storico-sociologica;

b) per ciò che riguarda la natura dello Stato, gli uni lo considerano l'antitesi dell'uomo naturale, gli altri il suo complemento, il suo sbocco naturale (artificialismo contro naturalismo);

c) per ciò che riguarda la struttura dello Stato, abbiamo da un lato una concezione individualistico-atomistica, dall'altro una sociale-organicistica;

d) per ciò che riguarda il fondamento dello Stato, abbiamo una teoria contrattualistica e una naturalistica;

e) per ciò che riguarda il principio di legittimità, abbiamo da un lato il consenso, dall'altro la forza delle cose.

Adesso possiamo tornare a Rousseau. La sua originalità si rivela anche in rapporto alle categorie che abbiamo appena esaminato. Si potrebbe cominciare col dire che egli - a differenza di Hobbes, di Locke e dei suoi "fratelli-nemici" illuministi - non condivide la stessa fiducia nella ragione. Certo, la sua costruzione dello Stato sarà egualmente razionale; ma egli avanza molte riserve sulla raison dei philosophes, alla quale contrappone la naturalità dell'uomo, le sue passioni e il suo sentimento religioso.

In secondo luogo, con Rousseau lo schema si fa triadico: stato di natura, società civile, repubblica. E il contratto - quello vero, non quello iniquo - viene a collocarsi tra la società civile e la repubblica. Inoltre, il valore da attribuire ai diversi stadi viene rovesciato: mentre tutti gli altri giusnaturalisti, sia pure in modo molto diverso, descrivono comunque lo stato di natura come uno stato negativo, da abbandonare in favore di uno stato civile configurato come positivo, Rousseau ritiene che il primo fosse uno stato felice e il secondo, tuttora perdurante, la peggiore delle condizioni. Ed infatti il terzo stadio, la repubblica fondata sul contratto sociale, dovrà recuperare - sia pure in modo totalmente politico - tutti i benefici di cui l'uomo avrebbe goduto nello stato di natura e che avrebbe perso nella società civile. Ma alle spalle di questa diversa configurazione del modello giusnaturalistico c'è, per l'appunto, quella riflessione morale sull'uomo, intessuta di elementi autobiografici, dalla quale siamo partiti.

Fin dal suo primo apparire, il pensiero di Rousseau si configura infatti come una critica violenta contro la civiltà e la cultura del suo tempo, critica condotta in nome dell'uomo naturale. Nel 1749 l'Accademia di Digione bandisce un concorso sul tema "Se il rinascimento delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi". La semplice lettura del quesito provoca in Rousseau una vera e propria crisi emotiva - la famosa illuminazione di Vincennes - dalla quale nasce il Discorso sulle scienze e sulle arti (1750), che vincerà poi il concorso in questione. Sebbene sia in stretti rapporti, da qualche anno, con gli autori dell'Encyclopédie (per la quale aveva scritto alcune voci sulla musica), la tesi sostenuta da Rousseau in questo scritto è decisamente anti-illuministica. Ma vediamo come l'autore stesso, in un passo molto celebre, descrive l'origine di questo suo scritto e la tesi centrale che lo anima.

Dopo aver passato quarant'anni della mia vita in questo modo, scontento di me stesso e degli altri, tentavo inutilmente d'infrangere i legami che mi tenevano avvinto alla società di cui avevo così poca stima, e che mi costringevano a occupazioni sgradevoli per bisogni che ritenevo naturali, ma che erano in realtà artificiosi. Improvvisamente un caso fortunato m'illuminò riguardo alla mia condotta e all'idea che dovevo farmi degli altri; nei loro confronti, il mio cuore stava sempre in contraddizione con il mio intelletto, e pur avendo tante ragioni di odiarli, sentivo tuttavia di amarli. Vorrei, signore, potervi descrivere il momento che ha fatto epoca nella mia vita in modo tanto singolare, e che mi resterà sempre impresso, dovessi vivere in eterno. Andavo a trovare Diderot recluso a Vincennes; avevo in tasca un numero del Mercure de France, e lo sfogliai per via. Mi cade sott'occhio il quesito dell'accademia di Digione che ha dato origine al mio primo scritto. Se mai vi fu ispirazione improvvisa, tale fu l'emozione che mi dette quella lettura. A un tratto la mia mente fu percossa da mille luci: innumerevoli idee vive mi si presentarono insieme con un'energia e una confusione tali, da darmi un turbamento inesprimibile: m'invase uno stordimento simile all'ubriachezza. Una violenta palpitazione mi opprime e mi fa ansimare: col fiato mozzo, mi lascio cadere sotto un albero del viale, e resto lì una mezz'ora in una tale agitazione, che rialzandomi mi accorsi di avere l'abito tutto inzuppato di lacrime, senza che mi fossi accorto di piangere. O signore, se avessi potuto scrivere appena un quarto di ciò che vidi e sentii sotto quell'albero, con quale chiarezza avrei posto in rilievo tutte le contraddizioni del sistema sociale, con quale forza avrei descritto tutti gli abusi delle istituzioni, con quale semplicità avrei dimostrato che l'uomo è naturalmente buono e che soltanto a causa delle istituzioni gli uomini diventano malvagi. Quanto ho potuto rammentare della moltitudine di grandi verità che m'illuminarono in un quarto d'ora sotto quell'albero è stato sparsamente diluito nei miei tre scritti principali, ossia il primo discorso, il discorso sull'ineguaglianza e il trattato sull'educazione, tre opere inseparabili, che formano un sol tutto.

La tesi centrale è chiara: l'uomo è naturalmente buono e soltanto a causa delle istituzioni diventa malvagio. All'interno del Discorso sulle scienze e sulle arti, questa tesi viene riferita soprattutto al tema proposto:

le nostre anime - scrive Rousseau - si sono corrotte via via che le scienze e le arti progredivano verso la perfezione. Diremo che si tratta di una sventura propria del nostro tempo? No, signori: i mali causati dalla vana curiosità umana sono vecchi come il mondo.

Dunque il mondo moderno - mondo in cui le scienze e le arti hanno raggiunto una perfezione mai toccata prima - è, sul piano morale, corrotto come non mai. Dietro l'urbanità del suo tempo, dietro quella civilisation che è il vanto dell'Illuminismo, Rousseau «non vede che subdole maniere di nascondere atteggiamenti deteriori ... La sua visione storica è la visione di un deterioramento progressivo, di un infiacchimento continuo delle energie, a cui subentra qualcosa di molle, di non-virile, di deteriormente raffinato»[21].

La tesi di Rousseau si configura quindi come uno strano incontro tra un tema tipicamente illuministico (la critica della società) e un tema decisamente anti-illuministico, che potrebbe essere ricondotto alla tematica umanistico-religiosa della vanitas scientiarum. La decadenza morale non nasceva, come pensavano gli illuministi, dalla irrazionalità delle superstizioni (in primo luogo, quella religiosa), ma proprio dall'assenza di una coscienza religiosa, concepita come ascolto della voce interiore, semplice e naturale, che parla in ogni uomo.

La polemica di Rousseau contro la cultura - condotta in nome dell'uomo naturale, del primitivo, tutto istinto e immediatezza, vigoroso e vitale[22] - tocca punte polemiche inusitate. Parlando dei sogni pericolosi degli Hobbes e degli Spinoza, Rousseau dice che se i posteri non saranno insensati come i suoi contemporanei si rivolgeranno al cielo con queste parole:

Dio onnipotente, tu che hai nelle tue mani gli spiriti, liberaci dai lumi e dalle arti funeste dei nostri padri, e rendici l'ignoranza, l'innocenza e la povertà, i soli beni che possano fare la nostra felicità e che siano preziosi davanti a te.

Rousseau giunge ad affermare che lo stato di riflessione è uno stato contro natura e che l'uomo che medita è un animale degenerato. Alcuni studiosi, come Paolo Rossi, hanno sostenuto che in queste affermazioni è rintracciabile una sorta di odio teologico e calvinistico contro la scienza e la filosofia, venato di un forte moralismo profondamente anti-scettico e anti-materialistico.

Ma quali modelli Rousseau contrappone alla decadente civiltà dei Lumi? Anzitutto, come abbiamo già accennato, il modello dell'uomo naturale, sano, vigoroso, semplice. Un altro modello è quello di uno stato intermedio tra il primitivo stato di natura e lo stato civile sviluppato: una sorta di alba di civiltà, dove gli individui, persa l'innocenza originaria che li rendeva pre-morali, avevano acquisito il senso della giustizia e della moralità e vivevano in semplicità e in pace. Finché gli uomini, scrive Rousseau,

non si applicarono che ad opere che uno solo poteva compiere e ad arti che non avevano bisogno del concorso di parecchie mani, essi vissero liberi, sani, buoni e felici quanto potevano esserlo per natura, e continuarono a godere fra loro delle dolcezze di rapporti indipendenti.

Qui fa la sua comparsa la tipica raffigurazione settecentesca del buon selvaggio. Infine abbiamo - e questo sarà molto importante per il pensiero politico - il modello della città antica, della polis: la Roma repubblicana o la Sparta di Licurgo sono modelli di semplicità, di virtù etica e civile, di dedizione alla patria. Nei tempi moderni Rousseau rintraccia simili caratteristiche solo nella nativa Ginevra, calvinistica e democratica; ma si tratta, come sperimenterà egli stesso, di una evidente idealizzazione.

Dunque il modello alternativo proposto da Rousseau esalta la natura e l'antichità, di contro alla cultura e alla modernità: un modello dove campeggiano l'energia vitale dell'uomo naturale e l'organicità della polis antica. E' vero che nel Discorso Rousseau colloca anche l'elogio di Bacone, Cartesio e Newton come precettori del genere umano; ma molti critici concordano nel ritenerlo un elogio di maniera. Come è stato giustamente osservato, «alle convinzioni e alla politica culturale dei philosophes Rousseau aveva in realtà contrapposto una radicale confutazione del nascente mondo moderno. Essa recava mescolati dentro di sé, paradossalmente, elementi attinti alla tradizione calvinistica, alle analisi di Pascal, alla idealizzazione delle virtù eroiche degli antichi e dei ginevrini e motivi di critica e di rifiuto che conducevano Rousseau su posizioni politiche molto più radicali di quelle di Voltaire e di Diderot»[23]. Egli infatti vedrà nelle scienze e nelle arti - frutto del lusso e dell'ozio - qualcosa di meno dispotico, ma forse di più potente del governo e delle leggi: delle ghirlande di fiori stese sulle catene di ferro che stringono gli uomini, negando loro la libertà e spingendoli ad amare la schiavitù come se fosse la loro condizione naturale. Il bisogno, scrive il Ginevrino, ha innalzato i troni; le scienze e le arti li hanno rafforzati.

Rousseau condivide insomma il tradizionale repertorio dei moralisti di ogni tempo: la condanna del sapere intellettualistico, della ricchezza che genera nuova ricchezza e che impedisce al povero di uscire dalla sua condizione, del mondo che onora i furfanti e perseguita gli onesti e così via. Ma se la descrizione del male è la stessa, la diagnosi è molto diversa: il male non è dovuto all'uomo, ma all'uomo mal governato. Ancora una volta: il male dipende non dall'uomo, che è naturalmente buono, ma dalla società, dalle istituzioni sociali. E' facile comprendere che le conseguenze di una simile impostazione saranno enormi. Se la colpa non è originaria, se il male non è naturale, allora esso nasce sulla terra: il problema del male si sposta dal campo della teodicea a quello della politica. Come ha scritto Cassirer, Rousseau ha creato un nuovo soggetto della responsabilità e questo soggetto non è l'uomo singolo, ma la società.

Ed infatti, nel Discorso sull'origine dell'ineguaglianza (1754), Rousseau si sposta dal piano della critica al sapere al piano della critica sociale e politica. E' in questo passaggio che la critica marxista ha visto i legami tra Rousseau e Marx: qui il Ginevrino compirebbe infatti il passaggio dalla sovrastruttura alla struttura, sostenendo che la vera causa del male non è di natura ideologica (ossia non sta nelle idee, nel sapere), ma economico-politica (e sta quindi nelle condizioni economiche e nelle istituzioni politiche). La vera causa della diseguaglianza - e quindi del male che affligge gli uomini - starebbe esattamente nella proprietà privata.

Ma torniamo al testo di Rousseau. Gli scopi del Discorso sull'origine dell'ineguaglianza sono i seguenti: determinare l'origine e il progresso della malvagità umana; mostrare il guasto irrimediabile che si è prodotto nell'uomo e le origini profonde di questa sua "malattia"; cercare di rallentare, ove possibile, il decorso di tale malattia; svelare nella diseguaglianza la causa profonda della radicale mistificazione dei rapporti e della totale falsificazione di sé che si verifica nella società contemporanea. Nel tracciare la genealogia del male che affligge gli uomini, Rousseau si confronta (e si scontra) con gli altri giusnaturalisti, elaborando un'immagine dell'uomo naturale profondamente diversa. Rousseau inizia precisando il metodo con il quale egli intende risalire allo stato di natura e le finalità che giustificano tale procedimento:

cominciamo dunque con lo scartare tutti i fatti, perché questi non riguardano il problema. Non bisogna prendere le ricerche in cui è necessario addentrarsi in questo argomento per verità storiche, ma solo per ragionamenti ipotetici e condizionali, destinati piuttosto a spiegare la natura delle cose che a mostrarne la vera origine, e simili a quelli intorno alla formazione del mondo che ogni giorno fanno i nostri fisici. La religione ci comanda di credere che, avendo Dio stesso tolti gli uomini dallo stato di natura immediatamente dopo la creazione, essi sono disuguali perché Egli ha voluto che lo fossero; ma non ci proibisce di formare delle congetture, derivate dalla sola natura dell'uomo e degli esseri che lo circondano, intorno a quello che sarebbe potuto diventare il genere umano se fosse stato lasciato a se stesso. Ecco quello che mi si chiede e che io mi propongo di esaminare in questo Discorso.

Vediamo dunque gli esiti di questa ricerca. Anzitutto, l'uomo è nato libero: Rousseau sostiene che l'uomo naturale descritto da Hobbes (egoista, violento, malvagio) non è affatto l'uomo naturale, bensì l'uomo civile. Nello stato di natura, l'uomo è libero e felice: egli ha pochi bisogni ed è in grado di soddisfarli. Non esiste proprietà, né oppressione; l'uomo è un animale prestante, guidato infallibilmente dal proprio istinto. Due sono i sentimenti che lo caratterizzano: l'amore di sé e la pietà istintiva verso ogni suo simile. A questo primo stadio, succede quello del buon selvaggio, al quale abbiamo già fatto cenno[24]. E' solo col sorgere della proprietà privata, con il sorgere dell'agricoltura e della metallurgia e con la divisione del lavoro, che nasce la vera e propria diseguaglianza. E' questo lo stadio, secondo Rousseau, al quale si attaglia la descrizione hobbesiana: una guerra continua di tutti contro tutti. Per superare tale situazione i ricchi escogitano il patto iniquo, ossia un patto che prevede l'accettazione dello stato di fatto esistente in cambio della protezione contro gli eventuali pericoli. E' il momento in cui nascono la società e le leggi, e con loro il diritto alla proprietà. Si formano le comunità politiche, che stanno tra di loro come gli individui nello stato di natura hobbesiano. Tali comunità sono però imperfette, perché il controllo sull'osservanza delle leggi è genericamente demandato alla società; di qui le violazioni ripetute delle leggi medesime e quindi la necessità di istituire appositi magistrati per farle rispettare. Con i magistrati sorge il potere politico legittimo: è un potere politico fondato sul contratto bilaterale tra popolo e capi. Tuttavia, poiché la fondazione razionale del potere non è solida, dal momento che può essere essere continuamente rimessa in discussione, c'è bisogno di un puntello irrazionale per sostenere l'autorità sovrana. Tale puntello sarà la religione che, dando al potere un carattere sacro, toglierà ai sudditi il diritto di disporne. Su queste basi si sviluppano le varie forme di governo, che si degradano progressivamente: con la formazione delle fazioni, dice Rousseau, si ritorna quasi all'anarchia dei tempi precedenti. Di ciò approfittano gli ottimati per rendere ereditarie le loro cariche, per considerarsi proprietari di quegli Stati di cui dovevano essere solo funzionari e per considerare schiavi i loro concittadini. Si tratta di una marcia verso il dispotismo, che ripristina una sorta di eguaglianza primitiva, ma di segno opposto: quella di tutti gli uomini, in stato di schiavitù, verso il loro padrone assoluto. Tale rapporto di forza e di totale soggezione è una completa degenerazione dell'uomo; ne deriva che l'ineguaglianza è totalmente contraria alla natura dell'uomo e che essa non trova giustificazione alcuna nel diritto naturale. Ma poiché lo stato di natura è irrecuperabile - non è pensabile, infatti, che l'uomo cancelli la sua storia, che è ormai per lui una seconda natura - non resta che usare gli strumenti della civiltà e della ragione al fine di rifondare quelle condizioni di cui l'uomo godeva nello stato di natura. Si tratta di costruire un uomo nuovo, totalmente civile, ma totalmente libero, come lo era nello stato di natura.

Lo scopo del Contratto sociale (1762) è infatti esplicitamente quello di

trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti libero come prima. Questo è il problema fondamentale di cui il Contratto Sociale dà la soluzione.

Già in questa definizione appare la nozione di libertà elaborata da Rousseau: si è liberi quando si obbedisce a se stessi. Si tratta di un punto di grande rilievo: Rousseau intende infatti la nozione di libertà come autonomia, e quindi in un'accezione ben diversa dalla definizione di libertà come non-impedimento. Mentre nel secondo caso libertà significa facoltà di compiere o non compiere certe azioni, senza esserne impediti dal potere statale, nel primo caso libertà significa potere di ubbidere soltanto alle norme che ci siamo imposti. In sostanza la libertà come non-impedimento, detta anche "libertà negativa", coincide con lo spazio non regolato da norme imperative ed è pertanto opposta alla nozione di legge (qualunque legge, in quanto tale, limita la gamma infinita dei possibili comportamenti individuali); la libertà come autonomia, detta anche "libertà positiva", coincide invece proprio con la nozione di legge, dove per quest'ultima si deve però intendere una norma autonoma e non eteronoma (cioè non proveniente da altri). Considerate sul piano individuale, entrambe le definizioni rimandano ad una condizione di auto-determinazione: la sfera delle libertà negative è infatti quella sfera in cui ognuno agisce senza costrizioni esteriori, il che equivale a dire che si autodetermina, così come accade nel caso delle libertà positive. Siamo liberi, ad esempio, di non finanziare i partiti politici, sia perché nessuno ci può legittimamente impedire di adottare tale comportamento, sia perché, potendoli anche finanziare, decidiamo di non farlo per obbedire ad una norma che ci siamo dati. Ma sul piano politico (vale a dire collettivo), tali differenti nozioni conducono a soluzione completamente diverse: se libertà significa legge, ciò significa che si è liberi solo quando si è sottoposti alla legge. Ne deriva che nulla deve essere sottratto all'imperio della legge; il che equivale a dire che il potere sociale, ossia il potere politico, è illimitato.

Ed infatti le clausole del contratto sociale, dice Rousseau, si riducono a una sola:

l'alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità.

A coloro i quali paventano il rischio liberticida implicito nella rinuncia a tutti i diritti naturali, Rousseau risponde che la condizione è rigorosamente uguale per tutti e dunque nessuno può avere interesse a renderla onerosa per gli altri; in secondo luogo, che colui il quale si si dà a tutti non si dà a nessuno, ed anzi guadagna l'equivalente di ciò che perde (cioè i diritti naturali degli altri) e una maggior forza per conservare quello che ha. La conclusione del Ginevrino è la seguente:

se dunque si toglie del patto sociale ciò che non gli è essenziale, si troverà che esso si riduce ai termini seguenti: <<Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e riceviamo inoltre ciascun membro come parte indivisibile del tutto>>.

Si forma così il corpo sovrano: l'insieme dei cittadini, alienandosi reciprocamente tutti i propri diritti, forma un corpo morale e politico, che agirà esattamente come una sorta di grande individuo. In quanto sottoposti a tale potere, gli individui saranno sudditi dello Stato; ma in quanto partecipi di tale potere, ossia in quanto membri del corpo sovrano che delibera, saranno cittadini. Essi saranno dunque, al tempo stesso, governanti e governati. In altre parole, lo Stato sarà in tutti e tutti saranno lo Stato: la sovranità apparterrà a tutti. Di qui Rousseau trae conseguenze anti-garantistiche:

ora, il corpo sovrano, non essendo formato che dai singoli che lo compongono, non ha né può avere alcun interesse contrario al loro interesse, e quindi non ha bisogno di dare garanzie ai sudditi, perché è impossibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi sudditi; e noi vedremo più avanti che non può nuocere neanche ad alcuno di essi in particolare. Il corpo sovrano, per il solo fatto di essere tale, è sempre quello che deve essere.

Ma se il corpo sovrano, essendo formato da tutti, non ha bisogno di dare garanzie ai singoli, giacché è impossibile che il corpo voglia nuocere alle proprie membra, lo stesso non è vero per i cittadini, considerati come singoli individui verso il corpo sovrano. Essi infatti, proprio in quanto singoli, hanno una volontà e un interesse particolari, suscettibili di entrare in contrasto con la volontà e l'interesse generali. In virtù di questa loro limitatezza, essi devono dare quelle garanzie che il corpo sovrano non ha bisogno di offrire loro; se non le dessero, si arriverebbe all'assurdo di un individuo che gode dei diritti del cittadino senza voler adempiere i suoi doveri di suddito; si arriverebbe quindi alla dissoluzione del corpo politico. La conclusione di Rousseau è logicamente ineccepibile, date le premesse del suo sistema:

perché dunque questo patto sociale non sia una formula vana, esso implica tacitamente questa obbligazione, che sola può fare forza a tutte le altre; che chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo. Ciò non significa altro se non che lo si costringerà ad essere libero.

Gli interpreti di Rousseau non si stancano di ricordarci la buona fede del Ginevrino, il suo intenso e sincero amore per la libertà: ma quando l'idea di libertà si lega a quella di costrizione, quando si arriva a sostenere che si può "costringere alla libertà", c'è poco da argomentare. Siamo in presenza di una ben strana e pericolosa nozione di libertà.

Con il contratto sociale l'uomo entra quindi nella repubblica. Ma come descrive tale passaggio Rousseau? Egli ce lo descrive come una vera e propria trasformazione qualitativa dell'uomo.

Il passaggio dallo stato di natura allo stato civile produce nell'uomo un cambiamento molto notevole, sostituendo nella sua condotta la giustizia all'istinto e dando alle sue azioni la moralità che prima mancava loro. Solamente allora, subentrando la voce del dovere al posto dell'impulso fisico e il diritto al posto dell'appetito, l'uomo, il quale fino allora non aveva considerato che se stesso, si vede obbligato ad agire secondo altri pricìpi e a consultare la sua ragione prima di ascoltare le sue inclinazioni.

Facciamo attenzione: giustizia e moralità al posto dell'istinto, diritto al posto dell'appetito, dovere al posto dell'impulso fisico, ragione al posto dell'istinto naturale. Sembrerebbe quasi l'entrata dell'uomo ... nell'umanità! Ossia, in ciò che propriamente lo distingue dal resto del regno animale. Si pensi a quanto diversa è la descrizione degli altri giusnaturalisti: l'uomo dello stato civile - per Hobbes come per Locke - non è un "uomo nuovo", bensì lo stesso uomo, solo molto meno libero, ma molto più sicuro (in Hobbes), oppure molto più sicuro, continuando però a rimanere molto libero (in Locke). Si tratta di un punto fondamentale, per comprendere le ragioni profonde che conducono Rousseau alle soluzioni radicali che in parte abbiamo già visto. «Non si capisce Rousseau - ha osservato acutamente Bobbio - se non s'intende che a differenza di tutti gli altri giusnaturalisti per cui lo Stato ha lo scopo di proteggere l'individuo, per Rousseau il corpo politico che nasce dal contratto ha il compito di trasformarlo. Il cittadino di Locke è puramente e semplicemente l'uomo naturale protetto; il cittadino di Rousseau è un altro uomo»[25].

Certo, Rousseau sa che l'uomo perde alcuni vantaggi: ma ciò che guadagna pare immensamente superiore e addirittura gli stessi vantaggi persi sembrano scolorire sino a sparire, se è vero che egli parla di un «animale stupido e limitato» divenuto «un essere intelligente e un uomo».

Sebbene in questo stato egli si privi di molti vantaggi che gli vengono dalla natura, ne guadagna in cambio altri così grandi, le sue facoltà si esercitano e si sviluppano, le sue idee si allargano, i suoi sentimenti si nobilitano, tutta la sua anima si eleva a tal punto che, se gli abusi di questa nuova condizione non lo degradassero spesso al disotto di quella da cui è uscito, egli dovrebbe benedire continuamente l'istante felice che lo strappò per sempre da quelle sue condizioni primitive e che di un animale stupido e limitato fece un essere intelligente e un uomo.

Ma veniamo alla volontà generale, che è il cuore dello Stato rousseauiano, l'espressione del corpo politico. Abbiamo visto che essa è assoluta, dal momento che nessun diritto individuale la può limitare o intralciare. Abbiamo anche visto che tale assolutezza, secondo Rousseau, non crea alcun pericolo per i singoli, dal momento che essa è il prodotto di quel corpo le cui membra sono i singoli stessi. Ma non si può dare il caso che tale volontà sbagli? Di per se stessa, risponde Rousseau, no; può sbagliare solo se messa in condizioni negative, solo se impedita ad essere se stessa.

Da ciò che si è detto consegue che la volontà generale è sempre retta e tende sempre all'utilità pubblica: non deriva però che le deliberazioni del popolo siano sempre ugualmente rette. Si vuole sempre il proprio bene, ma non sempre lo si vede: non si corrompe mai il popolo, ma spesso lo si inganna, e soltanto allora esso sembra volere ciò che è male.

Attenzione: la volontà generale non può mai sbagliare, il popolo non può mai essere corrotto. Però può essere ingannato: allora accade che la volontà generale - o meglio, il popolo che la esprime - sbagli.

E' bene ricordare che la volontà generale non equivale, per Rousseau, alla volontà di tutti: essa non è un concetto quantitativo, come quello di maggioranza, bensì un concetto qualitativo. La volontà di tutti altro non è che la somma di una serie di volontà particolari, mosse da interessi particolari; la volontà generale è invece una volontà mossa dall'interesse comune, dall'utilità comune. E' la volontà comunitaria, è la voce della comunità concepita come un corpo coeso e compatto, come un unico grande individuo. Come può accadere, allora, che questa voce non si produca? In altre parole, come può accadere che la volontà generale non sia veramente tale, ma sia solo la somma di volontà particolari? Un tale esito, risponde Rousseau, è possibile soltanto quando l'unità del corpo sovrano è lacerata dalle fazioni, ossia da raggruppamenti di interessi particolari. Allora, dallo scontro di queste fazioni non può emergere la volontà generale, ma solo una volontà particolare. Rousseau è un nemico dichiarato di tutte le cosiddette associazioni parziali o società parziali. Egli sarebbe insomma, nei nostri tempi, un nemico giurato dei partiti, delle associazioni, dei sindacati. Sulla scena politica, secondo la sua concezione, devono esserci solo due attori: gli individui e il corpo sovrano, gli individui e lo Stato; solo in tal modo la volontà generale potrà essere sempre illuminata.

Vale forse la pena di aprire una breve parentesi di "attualità" su questo importante tema. Tutto il pensiero giusnaturalistico è caratterizzato dal rifiuto delle associazioni intermedie. Bobbio sostiene che la democrazia moderna è nata da una concezione individualistica della società che, sostituendosi a quella organicistica dell'antichità e del medioevo, ha fatto della società un fenomeno artificiale, frutto della volontà umana. Per fare ciò, si è partiti dall'ipotesi (astratta e rivoluzionaria) dell'individuo libero che si accorda con altri individui, altrettanto liberi, creando in tal modo la società politica sulla base di un accordo volontario tra eguali. Si è dunque immaginato uno Stato senza corpi intermedi, che peraltro erano caratteristici delle città e dello Stato medievale. E' la logica individualistico-egalitaria che conduce a diffidare dei corpi o dei ceti: in essi si vede il rischio di gruppi che introducono nel corpo politico diseguaglianze, privilegi, particolarismi, rompendo in tal modo l'eguaglianza degli individui tra di loro. Ora, quello che è avvenuto negli Stati democratici, osserva ancora Bobbio, è esattamente l'opposto:

soggetti politicamente rilevanti sono diventati sempre più i gruppi, grandi organizzazioni, associazioni della più diversa natura, sindacati delle più diverse professioni, partiti delle più diverse ideologie, e sempre meno gl'individui. I gruppi e non gl'individui sono i protagonisti della vita politica in una società democratica, nella quale non vi è più un sovrano, il popolo o la nazione, composto da individui che hanno acquistato il diritto di partecipare direttamente o indirettamente al governo, il popolo come unità ideale (o mistica), ma il popolo diviso di fatto in gruppi contrapposti e in concorrenza tra loro, con la loro relativa autonomia rispetto al governo centrale.

Sempre partendo dall'ipotesi individualistico-egalitaria, nasce anche il sistema della rappresentanza politica e non degli interessi, con relativo abbandono del vincolo di mandato. La rappresentanza degli interessi (sulla quale si fonda, ad esempio, lo Stato corporativo) implica il mandato imperativo, ossia il fatto che il mandatario può essere revocato in qualsiasi momento dal mandante, se quest'ultimo non si ritiene adeguatamente rappresentato; la rappresentanza politica implica invece il divieto di mandato imperativo, perché, una volta eletto, il mandatario rappresenta non i suoi mandanti, ma tutta la nazione (in sostanza, si deve far carico degli interessi generali). Dice Bobbio: tanto la rappresentanza politica quanto il divieto di mandato imperativo sono stati sistematicamente violati, nelle democrazie moderne. Il divieto di mandato imperativo è violato, ad esempio, dalla disciplina di partito; quanto alla rappresentanza politica e non degli interessi, la cosiddetta concertazione con le parti sociali ha condotto alcuni a parlare di società neo-corporata. Accade sempre più spesso che la politica economica non nasca, ad esempio, dalla discussione parlamentare tra i rappresentanti eletti dai cittadini, ma dal confronto tra il governo e i rappresentanti dei lavoratori e degli industriali. Ora, è bene ricordare che tali rappresentanti anzitutto non sono eletti da tutti i cittadini (e, per la precisione, non sono eletti nemmeno dai loro mandanti) e che, in secondo luogo, sono per definizione portatori di interessi tanto legittimi quanto indiscutibilmente particolari. Tralasciamo ogni giudizio di valore e limitiamoci alla seguente constatazione: in molte democrazie liberali contemporanee si dà una sorta di rivincita della rappresentanza degli interessi particolari (per quanto larghi) contro la rappresentanza politica.

Ma torniamo a Rousseau e alla volontà generale. Che rapporto ha tale volontà con la volontà della maggioranza? Variabile. Tanto per cominciare, Rousseau ci dice che dove i pareri si avvicinano all'unanimità, significa che la volontà generale è dominante e quindi che lo Stato è sano. Ma i lunghi dibattiti, i dissensi, il tumulto - scrive Rousseau - annunciano il prevalere degli interessi particolari e il declino dello Stato. Da notare: questa concezione negativa del dissenso - che è, in sostanza, una concezione negativa della varietà delle opinioni - rivela quanto poco liberale sia Rousseau. Uno dei tratti caratteristici del liberalismo è infatti proprio questo: la varietà delle opinioni e degli interessi non solo non viene considerata un male, ma anzi un bene. Ancora una volta, in Rousseau, fa capolino l'idea di una comunità coesa, compatta, nella quale gli individui si fondono sino ad annullarsi.

Tornando alla maggioranza, le sue decisioni vincolano sempre tutti gli altri, tranne che nel caso del contratto originario, con il quale viene costituito il corpo politico. Ma in tutti gli altri casi, come possono gli oppositori essere liberi, se si ritrovano soggetti a leggi alle quali non hanno acconsentito? La risposta di Rousseau è la seguente:

si domanda come possa un uomo essere libero e costretto a conformarsi a delle volontà che non sono le sue. Come possono gli oppositori essere liberi e soggetti a delle leggi alle quali non hanno acconsentito? Io rispondo che il problema è male impostato. Il cittadino consente a tutte le leggi, anche a quelle che sono state approvate suo malgrado, ed anche a quelle che lo puniscono quando egli osi violarne qualcuna. La volontà costante di tutti i membri dello Stato è la volontà generale; grazie a questa essi sono cittadini e liberi. Quando si propone una legge nell'assemblea del popolo, ciò che si domanda ai cittadini non è precisamente se essi approvino la proposta oppure la respingano, ma se essa è conforme o no alla volontà generale, che è la loro: ciascuno dando il suo voto esprime il suo parere su ciò; e dal calcolo dei voti si trae la dichiarazione della volontà generale. Quando dunque prevale il parere contrario al mio, ciò non significa altro se non che io mi ero ingannato, e che ciò che io credevo essere la volontà generale non era tale. Se il mio parere particolare avesse prevalso, io avrei fatto una cosa diversa da quella che avrei voluto; e allora io non sarei stato libero.

La conclusione è simile a quella incontrata poco sopra, quando Rousseau parlava di costrizione alla libertà. Colui il quale si ritrova in minoranza, non ha un'opinione diversa dalle altre, ma di eguale dignità: ha un'opinione sbagliata. La volontà generale è assimilabile alla volontà di Dio: essa è infallibile, e se il singolo non la condivide, significa che si sbaglia o che non ha capito. L'autodeterminazione collettiva - che è infallibile - sostituisce integralmente ogni auto-determinazione individuale: l'individuo è fuso nel corpo sociale. E come in un corpo è assurdo (o patologico) che le membra non eseguano le decisioni della volontà del corpo al quale appartengono, così è per l'individuo verso lo Stato.

Vediamo, per concludere, quale struttura viene ad avere lo Stato rousseauiano. Come nel corpo di un individuo l'azione è frutto di una causa morale (la volontà) e di una causa fisica (la forza che l'esegue), così nel corpo politico, nello Stato, si danno gli stessi "motori": forza e volontà. La volontà è il potere legislativo, la forza è il potere esecutivo.

Ma che cos'è l'esecutivo o governo? E' un mero esecutore, un corpo intermedio creato per la reciproca corrispondenza tra i sudditi e il sovrano. L'insieme dei membri componenti tale corpo intermedio si chiama, dice Rousseau, magistrati o re o principe. Resta il fatto che si tratta di un organo totalmente subordinato alla volontà generale.

Infatti ciò non è assolutamente altro che un mandato, un impiego, nel quale, semplici funzionari del corpo sovrano, essi esercitano in suo nome il potere del quale egli li ha fatti depositari, e che può limitare, modificare e riprendere quando gli piaccia, poiché l'alienazione di un tale diritto incompatibile con la natura del corpo sociale, è contraria al fine dell'associazione.

Altro tema caratteristico di Rousseau è la polemica contro la rappresentanza. La sovranità è per Rousseau inalienabile. Proprio in quanto inalienabile, essa non può essere rappresentata:

non appena il servizio pubblico cessa di essere il principale ufficio dei cittadini, ed essi preferiscono servire con la loro borsa anziché con la loro persona, lo Stato è già vicino alla rovina. Se bisogna andare a combattere pagano delle truppe e restano a casa. A forza di pigrizia e di denaro essi hanno infine soldati per asservire la patria e rappresentanti per venderla.

E ancora:

la sovranità non può essere rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta: o è quella stessa, o è un'altra; non c'è via di mezzo. I deputati del popolo non sono dunque né possono essere suoi rappresentanti; non sono che i suoi commissari: non possono concludere nulla in modo definitivo. Ogni legge che non sia stata ratificata dal popolo in persona è nulla; non è una legge. Il popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso: lo è soltanto durante l'elezione dei membri del parlamento; appena questi sono eletti, esso ridiventa schiavo, non è più niente. Nei brevi momenti della sua libertà, l'uso che ne fa merita di fargliela perdere.

Il desiderio di delegare la sovranità è già un segno di decadenza politica e morale: qui Rousseau rivela tutto l'arcaismo politico del suo pensiero, il suo carattere anti-moderno. Non a caso egli richiama l'esempio dei Greci, presso i quali

tutto quello che il popolo doveva fare lo faceva da sé; esso era continuamente adunato nella piazza. Abitava in un clima dolce; non era avido; gli schiavi facevano i suoi lavori; il suo grande affare era la sua libertà.

Rousseau parla anche di limiti alla sovranità. Ma si tratta di limiti, come vedremo, del tutto teorici. L'avvio della sua argomentazione è in linea con quanto abbiamo visto sinora: come la natura dà a ciascun uomo un potere assoluto su tutte le sue membra, così è il potere della sovranità generale. Ma, continua Rousseau, nel caso del corpo politico, occorre considerare non solo la persona collettiva, bensì anche le persone private che la compongono, la cui vita e libertà sono naturalmente indipendenti da essa. Sembrerebbe dunque che vita e libertà costituiscano diritti individuali, di fronte ai quali la sovranità collettiva deve arrestarsi. Tanto è vero che Rousseau prosegue dicendo: si tratta dunque di distinguere bene i diritti rispettivi dei cittadini e del corpo sovrano, e i doveri ai quali i primi sono tenuti in qualità di sudditi dal diritto naturale di cui debbono godere nella loro qualità di uomini. L'alienazione iniziale degli individui a favore dello Stato comprende solo ciò il cui uso sia utile alla società e nulla di più. Sembrerebbe dunque che Rousseau stabilisca qui un chiaro principio di limitazione del potere. Senonché, egli aggiunge subito dopo che il solo giudice di questa utilità è il corpo sovrano. Così, tutte le garanzie precedenti svaniscono nel nulla.

Dunque la sovranità è per Rousseau illimitata, inalienabile, indistruttibile. L'ultima caratteristica che le attribuisce è l'indivisibilità. Non si può dividere la sovranità, secondo Rousseau (che in questo, come in molti altri casi, ricorda Hobbes), pena la dissoluzione dello Stato; ma si possono dividere gli organi dello Stato, come abbiamo già visto nella distinzione tra legislativo ed esecutivo, dove il primo ha tutta la sovranità e il secondo ha solo funzioni commisariali.

Quanto ai tipi di governo, Rousseau ammette i tipi tradizionali: democratico, aristocratico, monarchico, misto. Naturalmente, per Rousseau si tratta semplicemente di governi, ossia di funzionari del legislativo, unico vero sovrano. Rousseau non stabilisce gerarchie assolute: ogni forma può essere buona a seconda dei tempi e dei luoghi. In genere, la democrazia è adatta ai piccoli Stati, l'aristocrazia ai medi, la monarchia ai grandi. Rousseau arriva a dire che la democrazia pura (s'intende il governo democratico puro), ossia quella forma in cui i magistrati supererebbero il numero dei cittadini semplici, è in sostanza un'utopia, perché richiederebbe troppa virtù. E' un governo adatto agli dèi, dice il Ginevrino, ma non agli uomini. Rousseau concepisce anche la figura mitica del legislatore - un uomo di capacità straordinarie - come fondatore della nazione. E' una concessione al realismo, a scapito dell'approccio razionalistico. Spetta a lui la funzione che Rousseau aveva assegnato al contratto originario, ossia quello di

trasformare ogni individuo, che per se stesso è un tutto perfetto ed isolato, in parte di un più grande tutto, dal quale questo individuo riceva in qualche modo la sua vita e il suo essere.

Rousseau sente il bisogno di questo potere costituente mitico perché ritiene che una moltitudine cieca, la quale spesso non sa cosa vuole, non riuscirebbe da sola a fondare uno Stato razionale.

Ai limiti di una fondazione razionale dello Stato rimedia anche la religione. Alla fine del Contratto, Rousseau prende in esame - e scarta - sia l'antica "religione degli dei" della città (politicamente utile, ma superstiziosa e immorale), sia la "religione del prete" (perché il Cattolicesimo pone l'uomo in contraddizione con se stesso e rompe l'unità sociale), sia infine la "religione dell'uomo" (perché il Protestantesimo ha un carattere spirituale, che allontana l'uomo dalle cose di questo mondo). Egli propone quindi una religione civile, basata su pochi e semplici dogmi: esistenza di un Dio buono e provvidente, vita futura, felicità dei giusti e castigo dei malvagi, santità del contratto sociale e delle leggi. Nessuno può essere obbligato a credere in questi dogmi; ma chi non vi crede, può essere bandito dallo Stato, non in quanto empio, ma in quanto insocievole. Chi poi riconosce i dogmi, ma si comporta come se non vi credesse, deve essere messo a morte, perché ha commesso il massimo dei peccati, ossia mentire di fronte alle leggi. Infine, chiunque professi l'intolleranza non può essere tollerato.

9. Kant

Cenni biografici

Immanuel Kant nasce a Könisberg (Prussia orientale) nel 1724. Dal 1732 al 1740 frequenta, nella città natale, il Collegio Fridericiano. Assai importante l'influsso pietista derivante dalla madre.

Dal 1740 al 1746 frequenta la facoltà di Filosofia della locale Università; dal 1746 al 1755 si impiega come precettore privato. Nel 1755 consegue il dottorato in Filosofia e la libera docenza. Pubblica la Storia universale della natura e teoria del cielo.

Tra il 1762 e il 1763 scrive numerosi testi: La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche, L'unico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio, Indagine sulla distinzione dei princìpi della teologia naturale e della morale, Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative.

Nel 1764 pubblica Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime e il Saggio sulle malattie della testa. Nel 1765 ottiene il posto di sottobibliotecario presso la biblioteca del castello reale, con uno stipendio modestissimo. Continua la sua attività didattica all'Università, con grande successo.

Nel 1766 pubblica i Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica.

Nel 1770 diviene ordinario di Logica e Metafisica all'Università della città natale.

Nel 1781 pubblica, a Riga, la Critica della Ragion pura e nel 1783 i Prolegomini ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza.

Fra il 1784 e il 1786 pubblica saggi di etica e di filosofia della storia: Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo?, Fondazione della metafisica dei costumi, Congetture sull'origine della storia. Nel 1786 è nominato Rettore.

Nel 1787 pubblica la seconda edizione della Critica della Ragion pura; nel 1788 la Critica della Ragion pratica e nel 1790 la Critica del giudizio. Nel 1793 pubblica la Religione entro i limiti della sola ragione. Nel 1794 diviene membro dell'Accademia delle scienze di Pietroburgo. Nello stesso anno pubblica la seconda edizione della Religione, che gli dà molti problemi; Kant si impegna a non trattare più argomenti religiosi. Nel 1795 pubblica Per la pace perpetua. Progetto filosofico.

Nel 1797 si ritira dall'insegnamento. Nello stesso anno pubblica la Metafisica dei costumi; nel 1798 Il conflitto della facoltà e l'Antropologia dal punto di vista pragmatico. Nel 1799 critica duramente la Dottrina della scienza di Fichte. Muore nel 1804, a 80 anni.

Il pensiero politico

«Una concezione liberale della storia - la storia come teatro degli antagonismi - fa da sostegno, nel pensiero di Kant, alla concezione liberale del diritto - il diritto come condizione di coesistenza delle libertà individuali -, e alla concezione liberale dello Stato - lo Stato come avente lo scopo non di guidare i sudditi alla felicità ma di garantire l'ordine»[26]. Così Bobbio, con la consueta lucidità, disegna i tratti costitutivi del pensiero politico kantiano.

Abbiamo dunque, in primo luogo, una determinata concezione della storia, che fa da sfondo alle due direzioni principali nelle quali si articolerà la riflessione politica di Kant, ossia la dottrina del diritto e la dottrina dello Stato. L'elaborazione di tale concezione storica precede non solo logicamente, ma anche cronologicamente gli scritti politici.

L'Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, pubblicata nel 1784, è infatti il primo scritto etico-politico di Kant. Il problema che egli si pone è quello del senso della storia: esiste un'ordine nella storia umana? Esiste, in essa, un disegno della natura? E' quello che Kant suppone e che tenta di di scoprire. Tale ordine, tuttavia, non si rivela nelle vicende individuali, ma solo nella considerazione delle vicende umane in grandi proporzioni. Kant fa l'esempio dei matrimoni, delle nascite e delle morti: si tratta di fatti, egli dice, largamente influenzati dalla libera volontà umana e che pertanto sembrerebbero sfuggire ad ogni regola che permettesse di calcolarne il numero; eppure le statitistiche di tali fenomeni, compiute su larga scala, rivelano che tali fatti avvengono secondo leggi naturali costanti, al pari delle condizioni atmosferiche. Subito dopo Kant aggiunge:

singoli individui ed anche interi popoli non pongono mente al fatto che, pur perseguendo i loro particolari fini, ognuno a suo modo e spesso in contrasto con gli altri, procedono in realtà inavvertitamente secondo il filo conduttore di un disegno della natura e promuovono quell'avanzamento che essi stessi ignorano e al quale, se anche lo conoscessero, non farebbero gran caso.

Si tratta di un concetto molto importante. Non solo esiste un disegno della natura, che conferisce alla storia umana un fine (e quindi un senso) ben preciso; ma tale disegno complessivo, di segno positivo, si realizza spontaneamente, al di là della volontà cosciente degli uomini e anzi proprio sfruttando le particolari inclinazioni di questi, inclusi i loro "difetti".

Kant procede per tesi. Nella prima egli sostiene che tutte le disposizioni naturali di una creatura sono destinate a svolgersi in modo completo e conforme allo scopo. In altre parole, Kant è convinto che tutto, in natura, abbia un fine e che tale fine guidi lo sviluppo delle cose. Se noi prescindiamo da un simile principio - ossia da una concezione teleologica della natura - non abbiamo più una natura regolata da leggi, dice Kant, ma un gioco senza scopo, e il caso sconfortante regnerebbe in luogo della ragione.

Ora, nell'uomo, che è l'unica creatura razionale, le naturali disposizioni hanno il loro completo svolgimento nella specie e non nel singolo. Questa è la seconda tesi. Poiché la ragione procede per tentativi - con l'esercizio, per prove ed errori - essa si eleva poco a poco, passando da un grado di conoscenza inferiore ad uno superiore. E poiché la vita individuale è breve, occorre una serie indefinita di generazioni, che si trasmettano l'una all'altra i loro lumi, per portare i germi insiti nella nostra specie a quel grado di sviluppo che corrisponda perfettamente al loro scopo. Senza l'idea di questa età finale, aggiunge Kant, tutti gli sforzi sembrerebbero vani, così come le stesse disposizioni naturali. Ma se è vero che tutto in natura ha un fine, conclude Kant, è assurdo pensare che proprio nel caso dell'uomo essa si balocchi in un gioco infantile.

Nella terza tesi Kant sostiene che la natura ha voluto che l'uomo traesse da sé tutto quello che va al di là dell'immediatezza naturale. In altre parole, la natura ha voluto che l'uomo fosse faber fortunae suae, per mezzo della sua abilità e della sua ragione. Dice infatti Kant: la natura ha dato all'uomo la ragione e la libertà del volere; ciò significa che egli non può essere guidato dall'istinto, né da un sapere innato, ma che deve ricercare e procurarsi tutto da sé. Lo dimostra il fatto che l'uomo è il meno dotato, dal punto di vista fisico, per soddisfare i bisogni essenziali, rispetto agli animali:

pare che qui [nel caso dell'uomo] la natura si sia compiaciuta della sua massima economia e di aver commisurato le qualità animali dell'uomo strettamente, rigorosamente al bisogno supremo d'una esistenza iniziale, quasi volesse che l'uomo dall'estremo della barbarie si conquistasse col proprio lavoro la più grande abilità, l'interiore perfezione del pensiero e quindi, per quanto è possibile sulla terra, la felicità, in modo che egli ne avesse tutto il merito e non dovesse rendere grazie che a se stesso: e con ciò mirasse a destare in lui la stima razionale di sé più che a procurargli un benessere.

Ma qual è il mezzo attraverso il quale si realizzano le disposizioni umane? Esso, spiega Kant nella quarta tesi, è l'antagonismo degli uomini in società. Vale la pena di leggere quasi per intero questa tesi, perché si tratta di un argomento di formidabile importanza.

TESI QUARTA. Il mezzo di cui la natura si serve per attuare lo sviluppo di tutte le sue disposizioni, è il loro antagonismo nella società, in quanto però tale antagonismo sia da ultimo la causa di un ordinamento civile della società stessa.

Io intendo qui col nome di antagonismo la insocievole socievolezza degli uomini, cioè la loro tendenza a unirsi in società, congiunta con una generale avversione, che minaccia continuamente di disunire questa società. E' questa evidentemente una tendenza insita nella natura umana. L'uomo ha un'inclinazione ad associarsi, poiché egli nello stato di società si sente maggiormente uomo, cioè sente di poter meglio sviluppare le sue naturali disposizioni. Ma egli ha anche una forte tendenza a dissociarsi, poiché egli ha del pari in sé la qualità antisociale di voler tutto rivolgere solo al proprio interesse, per cui si aspetta resistenza da ogni parte e sa ch'egli deve da parte sua tendere a resistere contro altri. Questa resistenza eccita tutte le energie dell'uomo, lo induce a vincere la sua tendenza alla pigrizia e, spinto dal desiderio di onori, di potenza, di ricchezza, a conquistarsi un posto tra i suoi consoci, che egli certo non può sopportare, ma di cui non può neppure fare a meno. Per tale modo si compiono i primi veri passi dalla barbarie alla cultura, che consiste propriamente nel valore sociale dell'uomo; così a poco a poco tutte le capacità si sviluppano, si educa il gusto, si pongono mediante una continuata illuminazione le basi di un modo di pensare, che col tempo trasforma in princìpi pratici le rozze disposizioni naturali verso una distinzione morale, e la società, da unione patologica forzata, può trasformarsi in un tutto morale. Senza la condizione, in sé non certo desiderabile, della insocievolezza, da cui sorge la resistenza che ognuno nelle sue pretese egoistiche deve necessariamente incontrare, tutti i talenti rimarrebbero in eterno chiusi nei loro germi in una vita pastorale arcadica di perfetta armonia, frugalità, amore reciproco: gli uomini, buoni come le pecore che essi menano al pascolo, non darebbero alla loro esistenza un valore maggiore di quello che ha questo loro animale domestico; essi non colmerebbero il vuoto della creazione rispetto al loro fine di esseri razionali. Siano allora rese grazie alla natura per la intrattabilità che genera, per la invidiosa emulazione delle vanità, per la cupidigia mai soddisfatta di averi o anche di dominio! Senza di esse tutte le eccellenti disposizioni naturali insite nell'umanità rimarrebbero eternamente assopite senza svilupparsi. L'uomo vuole la concordia; ma la natura sa meglio di lui ciò che è buono per la sua specie: essa vuole la discordia.

Dunque Kant sviluppa un'antropologia realistica, che non nega le caratteristiche "negative" dell'uomo; e tuttavia, lungi dall'assumere verso di esse un atteggiamento moralistico o di rifiuto, egli ne sottolinea e ne esalta i vantaggi, pronunciando un grande elogio dell'antagonismo. L'antagonismo tra gli uomini, determinato dagli egoismi di ciascuno, è la molla del progresso e della civiltà, ciò che consente agli uomini di perfezionarsi, di realizzare le loro disposizioni più alte.

E' proprio tale natura dell'uomo che fa sorgere il problema del diritto. Dice infatti Kant nella quinta tesi: il più grande problema alla cui soluzione la natura costringe la specie umana è di pervenire ad attuare una società civile che faccia universalmente valere il diritto. La costruzione della società civile - o, come dice Kant, l'istituzione di una costituzione civile perfettamente giusta - diventa quindi il problema principale dell'umanità: perché solo tale società potrà permettere agli uomini di sviluppare le loro facoltà e dunque di realizzare il loro fine. Ma perché ciò avvenga la società deve possedere due qualità: libertà e coazione.

Poiché solo nella società, e precisamente in quella società in cui si attui, da un lato, la massima libertà, e quindi un generale antagonismo dei suoi membri e, dall'altro lato, la più rigorosa determinazione e sicurezza dei limiti di tale libertà, affinché essa possa coesistere con la libertà degli altri: poiché, ripeto, solo in una società siffatta il supremo fine della natura, cioè lo sviluppo di tutte le facoltà, può essere nell'umanità raggiunto, la natura vuole ancora che l'umanità debba attuare da se stessa così questi come tutti gli altri fini della sua destinazione.

Dunque Kant teorizza una rigorosa delimitazione delle libertà di ciascuno. La libertà di cui gode l'uomo nello stato di natura è infatti distruttiva: le tendenze degli uomini fanno sì che essi non possano vivere a lungo insieme in selvaggia libertà. Solo nel chiuso recinto della società civile - dice Kant - le tendenze umane, regolate secondo diritto, danno i loro frutti migliori. Quella libertà, che fuori della società civile potrebbe portare all'annientamento del genere umano, all'interno di essa, sottoposta a regole ben precise (le quali altro non sono se non il diritto), diventa un meccanismo altamente creativo, che disciplina gli impulsi umani senza annullarne il contrasto e la lotta.

Giunti a questo punto, è bene precisare che il passaggio dallo stato di natura alla società civile non va inteso, nel pensiero di Kant, in termini di necessità (per evitare i gravi inconvenienti della libertà selvaggia) o di utilità (perché solo nello stato civile l'uomo può raggiungere sicurezza e benessere). Per Kant il passaggio alla società civile non è solo necessario o utile, ma è anche - e in primo luogo - doveroso, ossia è un dovere morale. Se non obbedissero a tale dovere, dice Kant, gli uomini sarebbero ingiusti verso se stessi, perché solo entrando nella società civile possono sviluppare la loro umanità. Solo così essi possono dominare e disciplinare i propri impulsi e la propria naturalità (e quindi essere veramente uomini), possono garantirsi dall'altrui prepotenza (ponendo quindi fine al regno della mera forza) e possono sviluppare e perfezionare le forme più alte della loro umanità. E' vero che Kant non disconosce la dimensione naturale dell'uomo (gli istinti, l'amore di sé, l'egoismo); ma essa costituisce solo la materia grezza che deve poi essere imbrigliata e regolata da scelte consapevoli, perché si realizzi il fine supremo della natura, ossia il pieno sviluppo delle facoltà umane.

Perché ciò avvenga, come abbiamo già visto, è necessaria la più ampia libertà e, al tempo stesso, delle norme che regolino tale libertà affinché ognuno non prevarichi sull'altro. Di qui discende la formulazione kantiana del diritto:

il diritto è la limitazione della libertà di ciascuno alla condizione del suo accordo con la libertà di ogni altro, in quanto ciò è possibile secondo una legge universale; e il diritto pubblico è l'insieme delle leggi esterne che rendono possibile un tale accordo generale. E poiché ogni limitazione della libertà mediante l'arbitrio di un altro è coazione, ne segue che la costituzione civile è un rapporto di uomini liberi che ... vivono sotto l'impero di leggi coattive.

Libertà e coazione: ecco il binomio inscindibile che caratterizza il diritto. Senza libertà dei singoli - e senza l'urto di queste libertà - il problema del diritto non sorgerebbe nemmeno; senza coazione, la libertà di ciascuno sarebbe a rischio, non garantita. La coazione riduce la libertà, ma ne garantisce la coesistenza con la libertà di tutti, secondo una legge universale. Libertà e coazione sono dunque gli elementi fondamentali di una società civile.

Ma veniamo alla concreta articolazione dello Stato kantiano. Lo stato civile, come stato giuridico, deve essere fondato sui seguenti tre princìpi a priori: la libertà di ognuno in quanto uomo; l'eguaglianza di ognuno con gli altri, in quanto suddito; l'indipendenza di ognuno, in quanto cittadino. Che tali princìpi siano a priori significa che essi non sono leggi o regole che lo Stato debba stabilire, bensì leggi e regole che sole rendono possibile la costituzione di uno Stato secondo i princìpi della pura ragione.

Non bisogna infatti dimenticare che la filosofia politica di Kant, come ha osservato Valentini, «segna la più radicale subordinazione del mondo politico al mondo morale o, se si vuole, del mondo della violenza, variamente esercitata e mascherata, al mondo della ragione». Famosa è la contrapposizione che Kant istituisce tra il mondo della politica e quello della morale. Il primo - regolato dal successo, dalla prudenza e dalla riserva mentale - si ispira alle seguenti massime: fac et excusa, si fecisti nega, divide et impera. La prima massima significa: cogli l'occasione per un'arbitraria presa di possesso e, a fatto compiuto, la giustificazione si presenterà sempre più facile. Con la seconda si raccomanda invece al "principe" di addossare sempre a qualcun altro o alla natura dell'uomo la colpa di ciò egli stesso ha commesso; con la terza massima, infine, si invita il "principe" a dividere tra loro i vari capi che lo hanno eletto loro superiore, e a porli in conflitto con il popolo, onde proporsi in conclusione come paladino di quest'ultimo. A queste massime Kant contrappone il comportamento ragionevole, riassunto in quella che egli chiama la formula trascendentale del diritto pubblico: tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui massima non è suscettibile di pubblicità, sono ingiuste.

L'inganno e l'astuzia vengono quindi sostituite da un'assoluta lealtà. Qual è, infatti, il significato di un simile principio? In linea generale si può rispondere che una massima non suscettibile di diventare pubblica è una massima che, se mai fosse resa pubblica, susciterebbe tale reazione nel pubblico da rendere impossibile la sua attuazione. Le applicazioni che Kant fa di questo principio, servendosi di due esempi illuminanti, chiariscono nel migliore dei modi il suo significato. Il primo esempio si colloca nel "diritto interno" e riguarda il diritto di resistenza[27]; il secondo riguarda invece il diritto del sovrano di infrangere i patti stabiliti con altri sovrani, e si colloca pertanto nel diritto internazionale. Kant argomenta nel modo che segue. Nel caso del diritto di resistenza

l'ingiustizia della ribellione si rende chiara da questo: che la massima di essa, qualora fosse pubblicamente conosciuta, renderebbe impossibile il proprio scopo. Perciò dovrebbe essere tenuta necessariamente segreta.

Quale cittadino, infatti, nel momento stesso in cui accetta il pactum subiectionis, potrebbe dichiarare pubblicamente che si riserva il diritto di non osservarlo? E quale valore potrebbe avere un simile patto, qualora fosse riconosciuto questo diritto ai contraenti?

Venendo al secondo esempio, che cosa accadrebbe - si chiede Kant - se un sovrano, nell'atto stesso di firmare un trattato con un altro Stato, dichiarasse pubblicamente di non ritenersi vincolato agli obblighi derivanti da tale trattato? «Accadrebbe naturalmente - risponde Kant - che ognuno lo sfuggirebbe oppure farebbe lega con altri stati per resistere alle sue pretese», e di conseguenza «la politica con tutte le sue astuzie verrebbe meno al suo scopo, ragion per cui quella massima deve considerarsi ingiusta».

Ma torniamo ai tre princìpi nei quali Kant ravvisa i fondamenti della società civile: libertà, eguaglianza, indipendenza. Il principio della libertà viene formulato nel modo seguente:

nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo (come cioè egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale (cioè non leda questo diritto degli altri).

Si tratta di una formulazione che rimanda chiaramente alla nozione di libertà come non-impedimento o libertà negativa[28]. La libertà è quello spazio dove non arrivano né i divieti né i comandi di qualsiasi potere collettivo (e naturalmente la massima espressione del potere collettivo è il potere politico, il potere dello Stato): in quello spazio vi è un unico sovrano, l'individuo stesso, il quale può fare tutto ciò che gli aggrada, può seguire tutte le inclinazioni che desidera, pur di non ledere l'identica facoltà degli altri individui. La richiesta - tipicamente liberale - è quella di un'ampia sfera di indipendenza individuale; in altri termini è una richiesta di limitazione del potere a vantaggio degli individui.

Non a caso, Kant è il pensatore liberale che polemizza nel modo più aspro con il modello del governo paternalistico. Un tale governo, che tratta i sudditi come eterni minorenni, dei quali cerca di fare il bene, costituisce, a suo parere, il peggior dispotismo che si possa immaginare. Lo stato di minorità è infatti la condizione più lontana dalla dignità dell'uomo: ed infatti per Kant l'Illuminismo rappresenta precisamente l'uscita da tale stato.

L'illuminismo è l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! - è dunque il motto dell'illuminismo.

Ma per comprendere la vis polemica di Kant contro lo Stato paternalistico è bene anche tenere conto della situazione della Germania del suo tempo. Si pensi, ad esempio, a quell'ordinanza del principato di Baden, del 1776, nella quale, partendo dal presupposto che il Consiglio di corte fosse il «tutore naturale» dei sudditi, si stabiliva che ad esso competeva «di trattenerli dall'errore e di ricondurli sulla retta via, nonché di insegnar loro, anche contro la loro volontà, il modo in cui devono organizzare l'economia domestica, coltivare i campi ed alleviare a se stessi, mediante una condizione economica più produttiva dell'azienda, gli oneri dei tributi da loro dovuti». Oppure si pensi ancora alle leggi sul lusso, emanate dalla maggioranza dei principi tedeschi, le quali regolavano nei minimi particolari il modello e il costo degli abiti a seconda dell'età, del sesso e del ceto sociale, e stabilivano il numero degli oggetti di arredamento, delle carrozze, dei domestici e perfino delle pietanze, bevande ed ospiti in occasione di feste pubbliche, private e familiari.

Ma torniamo a Kant. La sua polemica anti-paternalistica riflette una visione strumentale e formale dello Stato: esso deve limitarsi a garantire quel quadro di regole all'interno del quale si possano realizzare liberamente le energie individuali. Sarebbe un grave errore, ha osservato Bedeschi, sottovalutare la novità e la portata di questa posizione kantiana: «oggi essa fa parte dei nostri comportamenti, del nostro costume, della nostra mentalità, della nostra cultura. Se lo Stato o il potere politico pretendessero di dirigere le nostre attività economiche, sociali, politiche o culturali, noi respingeremmo questa pretesa come il più grave degli attentati. E infatti definiamo totalitari quegli Stati dove questo avviene. Tutto ciò fa talmente parte della nostra forma mentis che è diventato ormai quasi un dato del senso comune. Ma quanto cammino è stato necessario per arrivare a questo risultato! E non c'è dubbio che Kant costituisce una tappa importante in tale cammino»[29].

Venendo al principio dell'eguaglianza in quanto sudditi, questo significa che tutti devono essere egualmente sottoposti alle leggi. E' il principio dell'eguaglianza giuridico-civile. Stesse leggi, stessi diritti, stessi obblighi per tutti, senza eccezioni. Si tratta quindi di un'eguaglianza puramente formale, perfettamente compatibile con la diseguaglianza economico-sociale. Anche in questo caso è bene tenere presente il contesto storico nel quale Kant operava: i privilegi ereditari erano ancora forti e consistenti, nella Germania dell'epoca. Soltanto ai nobili veniva riservato il possesso e l'acquisto di beni fondiari, nonché l'accesso alla carriera di ufficiale nell'esercito; i nobili, inoltre, godevano di una giurisdizione civile e penale particolare, e avevano il diritto di caccia sulle terre coltivate dai contadini, il diritto alla giurisdizione patrimoniale (che competeva al proprietario feudale nei confronti dei propri sudditi), il diritto infine alle innumerevoli prestazioni servili e ai privilegi derivanti dal sistema feudale che riguardava i contadini (ossia, i due terzi della popolazione tedesca di allora). In un tale contesto, l'eguaglianza formale non era certo una cosa di poco conto: essa consentiva infatti di negare tutti i privilegi di casta dell'ancien régime e di stabilire che ogni cittadino potesse pervenire a quel grado di posizione sociale al quale potevano elevarlo il suo talento, la sua operosità e la sua fortuna, senza trovare ostacoli nelle prerogative ereditarie di altri individui. Nessuno, secondo Kant, può trasmettere per via ereditaria la posizione occupata nello Stato; solo le "cose" - e non ciò che riguarda la personalità - costituiscono beni ereditari. Certo, le concrete condizioni socio-economiche, proprio in virtù del principio dell'ereditarietà dei beni, potevano svuotare l'eguaglianza sino a renderla più apparente che reale: ma resta il fatto che il principio era affermato, e che il tema delle pari opportunità (i cosiddetti diritti sociali) è decisamente fuori dell'orizzonte storico nel quale opera Kant.

Il terzo principio, quello dell'indipendenza in quanto cittadino, ci conduce al consueto tema della democrazia censitaria. Tutti i pensatori liberali vissuti nel Settecento e nell'Ottocento sono contrari al suffragio universale. Essi vogliono i diritti giuridico-civili per tutti, ma riservano i diritti politici ai soli proprietari. Questa scelta ha una motivazione precisa: i diritti politici, dando la possibilità di determinare le sorti politiche del Paese, richiedono speciali prerequisiti, in genere una cultura sufficiente e un interesse comune; ma soltanto la proprietà, secondo questi autori, permette tanto di studiare (e quindi di raggiungere un livello culturale che consenta autonoma capacità di giudizio), quanto di condividere realmente gli interessi del proprio Paese. Anche per Kant il diritto di voto spetta dunque a chi è padrone di sé, ossia a chi non dipende da altri per poter vivere. Restano pertanto esclusi da tale diritto - dice Kant - il domestico, il garzone, il salariato giornaliero, il precettore privato: tutti costoro sono operarii. Invece coloro che sono artifices, ossia che possono vendere la loro opera, come l'artigiano, il fittavolo, l'insegnante, l'artista, possono anche essere cittadini (vale a dire, godere dei diritti politici).

Altro problema fondamentale è quello del consenso, che è strettamente legato, nell'ambito del pensiero giusnaturalistico, al modo in cui è stato concepito il contratto. Abbiamo visto che in Locke il potere dello Stato è limitato in partenza, per via della cessione ristrettissima dei diritti individuali[30]; nell'ambito in cui si esercita legittimamente, tale potere seguirà le indicazioni della maggioranza. In Rousseau, invece, il patto prevede la cessione totale dei diritti individuali allo Stato, il cui potere è pertanto illimitato; tale potere verrà esercitato seguendo le indicazioni della volontà generale[31]. Anche in Hobbes l'alienazione dei diritti individuali era quasi totale, e dunque il potere era pressoché assoluto; inoltre il sovrano, non essendo uno dei contraenti del patto, ma un beneficiario, era in seguito svincolato da qualsiasi problema di consenso[32]. Quanto a Kant, anche il filosofo tedesco è un contrattualista; egli pone cioè all'origine della società civile un contratto originario, per mezzo del quale gli uomini escono dallo stato di natura ed entrano nella società civile. Ma Kant considera tale contratto non un fatto storico (anzi, come tale non lo giudica nemmeno possibile), bensì una semplice idea della ragione. Nello scritto Sopra il detto comune "ciò può esser giusto in teoria, ma non vale per la prassi" (1793) egli scrive:

questo contratto è ... una semplice idea della ragione, ma che ha indubbiamente la sua realtà (pratica): cioè la sua realtà consiste nell'obbligare ogni legislatore a far leggi come se esse dovessero derivare dalla volontà comune di tutto un popolo e nel considerare ogni suddito, in quanto vuol essere cittadino, come se egli avesse dato il suo consenso a una tale volontà. Questa è infatti la pietra di paragone della legittimità di una qualsiasi legge pubblica.

Il contratto è pertanto un'idea, un principio di legittimazione, per mezzo del quale possiamo giudicare la realtà esistente: ogni sovrano deve governare come se le sue decisioni dovessero derivare dalla volontà comune. Ma la valutazione di tale conformità alla volontà comune è rimessa da Kant all'insindacabile giudizio del sovrano stesso. Qui le posizioni di Kant coincidono, in sostanza, con il modello (anch'esso tipicamente settecentesco) del dispotismo illuminato.

Rispetto a Locke abbiamo dunque, in questo caso, una visione decisamente meno liberale, che infatti conduce Kant - come abbiamo già anticipato[33] - a negare il diritto di resistenza. In Locke il contratto era un accordo tra popolo e sovrano, caratterizzato da precise clausole, la violazione delle quali, da parte del sovrano, restituiva al popolo i suoi diritti, dandogli la possibilità di resistere al potere (e quindi di rovesciarlo). In Kant, invece, il contratto è solo un'idea, un principio sul quale il sovrano deve regolare il suo comportamento, ma al di fuori di qualsiasi clausola e di qualsiasi controllo che non sia un auto-controllo. Insomma, come ha giustamente osservato Bedeschi, il contratto diventa in Kant una pia intenzione, interpretabile solo dal potere sovrano, senza che il popolo possa esercitare alcun efficace controllo su di esso. Ed infatti Kant nega con forza il diritto di resistenza; in altre parole, bisogna sempre obbedire allo Stato, comunque questo si comporti; il divieto di resistenza è pertanto assoluto, cioè non ammette eccezioni. La ragione di una posizione così radicale è spiegata da Kant nel modo seguente: se il popolo avesse il diritto di giudicare come viene applicata una costituzione (ed eventualmente, di ribellarsi a tale applicazione) e se il capo dello Stato fosse di parere contrario, chi potrebbe decidere da quale parte stia il diritto? Nessuno dei due potrebbe essere giudice in causa propria, ragion per cui dovrebbe esserci, al di sopra del sovrano, un altro sovrano, capace di giudicare la controversia tra quello e il popolo. Ma ciò significherebbe che il sovrano non è il vero sovrano. Inoltre, se il popolo avesse il diritto di sindacare l'operato del sovrano, tale diritto negherebbe alla radice la sovranità, rendendo incerta ogni costituzione giuridica; e rendendola incerta negherebbe il motivo stesso per cui si è abbandonato lo stato di natura.

Ciò non significa, tuttavia, che il sovrano non sbagli mai. E proprio perché l'errore è possibile, deve essere riconosciuto al cittadino il diritto di manifestare pubblicamente la propria opinione su ciò che egli ritiene arrechi ingiustizia alla comunità. E' la famosa "libertà della penna":

dunque - dice Kant sempre nello scritto Sopra il detto comune ... - la libertà della penna, tenuta nei limiti del rispetto e dell'amore per la costituzione sotto la quale si vive dai sentimenti liberali che ispirano i sudditi (le cui penne si limitano reciprocamente da sé per non perdere tale libertà), è l'unico palladio dei diritti del popolo.

La libertà della penna, esercitata con moderazione e accompagnata dal dovere di ubbidienza, costituisce lo strumento attraverso il quale Kant ritiene che si possa conciliare l'esigenza dell'ordine e della stabilità dell'autorità con la libertà e il progressivo miglioramento della specie. Kant distingue infatti, nello scritto intitolato Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo? (1784), tra uso pubblico e uso privato della ragione:

intendo per uso pubblico della propria ragione l'uso che uno ne fa come studioso davanti all'intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che alcuno può farne in un certo impiego o funzione civile a lui affidata.

Ora, se nel primo caso gli studiosi devono godere della più completa libertà, nel secondo essi devono ispirare la loro condotta alla volontà del governo; essi possono ragionare liberamente, ma devono obbedire. Ad esempio, un ufficiale deve sempre obbedire agli ordini di un suo superiore e non può assolutamente, mentre svolge le sue funzioni di ufficiale, ragionare pubblicamente sull'opportunità di tali ordini; ma nessuno può impedirgli, in qualità di studioso, di criticare le strategie militari adottate dallo stato maggiore e di sottoporre le sue opinioni al pubblico. Allo stesso modo, il cittadino non può rifiutarsi di pagare le tasse; ma, come studioso, può criticare liberamente il sistema fiscale del suo Paese.

Con tale impostazione, è stato rilevato, Kant finisce per teorizzare «una libertà dimidiata, che trova nella volontà dell'autorità il proprio limite invalicabile. Si può (anzi si deve) ragionare pubblicamente come sembra più giusto, ma si deve sempre e comunque ubbidire». Tuttavia tale soluzione non conduce ad una sorta di immobilismo; l'esigenza di mantenere l'ordine e di preservare l'autorità non soffoca le istanze di rinnovamento: Kant è infatti convinto che quando il dibattito sollevato su un dato argomento dagli studiosi avrà dato luogo ad un'ampia discussione, influendo sulla pubblica opinione, allora le nuove idee, oramai diffuse e radicate, verranno recepite dall'autorità (la quale è consapevole che anche per lei è vantaggioso trattare l'uomo in modo conforme alla sua dignità).

La costituzione auspicata da Kant - basata sui tre princìpi della libertà, dell'eguaglianza formale e dell'indipendenza - è da lui definita repubblicana e distinta da quella dispotica. In questo caso 'regime repubblicano' significa quel regime caratterizzato dalla distinzione tra esecutivo, legislativo e giudiziario; 'dispotico' è invece quel regime caratterizzato dall'esecuzione arbitraria delle leggi che lo Stato si è dato. Nel regime repubblicano il vero sovrano è il legislativo, al quale l'esecutivo è sottomesso.

Dunque la distinzione tra regime repubblicano e regime dispotico - ruotante intorno alla questione della struttura dello Stato - non coincide con la classica divisione delle forme di governo, ossia monarchia (che Kant chiama autarchia), aristocrazia, democrazia. Kant polemizza fortemente con quest'ultima, poiché in essa le assemblee deliberano e governano ad un tempo; è più facile quindi, a suo parere, che siano l'aristocrazia o l'autocrazia ad avvicinarsi allo spirito di un regime repubblicano.

10. Constant

Cenni biografici

Benjamin Constant nasce a Losanna, in Svizzera, nel 1767, da un'antica famiglia protestante di origini francesi. La madre muore quindici giorni dopo il parto. Dopo un'infanzia errabonda e disordinata, Constant compie la propria formazione universitaria tra il 1782 e il 1785, dapprima ad Erlangen (in Germania) e in seguito a Edimburgo.

Dal 1795 è a Parigi, dove (insieme a M.me de Staël) partecipa attivamente alle vicende politiche e intellettuali dell'età termidoriana. Nel 1796 pubblica il De la force du Gouvernement actuel de la France et de la nécessité de s'y rallier, al quale seguiranno, nel 1797, il Des réactions politiques e il Des effets de la Terreur. Nel 1799 viene nominato al Tribunato, dal quale verrà estromesso nel 1802 per le sue battaglie d'opposizione. La Germania e la Svizzera (in particolare Coppet) saranno i luoghi del suo esilio, che durerà sino al 1813.

Tra il 1800 e il 1803 lavora ad un grande trattato di politica, che rimarrà inedito. Nel 1806 scrive i Principes de politique; nel 1810 fa copiare i Fragments d'un ouvrage abandonné sur la possibilité d'une constitution républicaine dans un grand pays. Entrambi i trattati rimarranno inediti e verranno alla luce soltanto nella seconda metà del '900.

Nel 1813, dopo la sconfitta di Napoleone a Lipsia, Constant torna all'attività politica e pubblicistica. Nel 1814 pubblica il De l'esprit de conquête et de l'usurpation, che incontra grande successo.

Nell'aprile del 1815, dopo la fuga di Luigi XVIII, accetta la proposta di Napoleone di preparare la nuova costituzione, che avrebbe dovuto liberalizzare l'Impero. La scelta di Constant, che era stato uno dei più acerrimi avversari di Napoleone, scandalizza l'opinione pubblica. Sempre nel 1815 dà alle stampe i Principes de politique. Nel 1816 pubblica il romanzo Adolphe. Nel 1818 dà alle stampa il Cours de politique constitutionnelle, dove raccoglie la maggior parte dei suoi scritti politici.

Nel 1819 tiene all'Athénée Royal il celebre Discorso intitolato De la liberté des anciens comparée à celle des modernes. Nel marzo delle stesso anno viene eletto alla Camera dei deputati; inizia così la sua lunga carriera parlamentare, che lo vedrà diventare il capo riconosciuto dell'opposizione liberale.

Nel 1822 pubblica i Mémoires sur les Cent-Jours e il Commentaire sur l'ouvrage de Filangieri. Oltre alla ininterrotta attività pubblicistica, continua a lavorare, in questi anni, al De la religion, il cui primo volume appare nel 1824.

Nel luglio del 1830, sebbene vecchio e ammalato, partecipa agli eventi rivoluzionari. Muore l'8 dicembre 1830, a 63 anni.

Il pensiero politico

Nonostante la singolare sfortuna della sua opera - studiata poco e male almeno sino a quindici anni fa, e tuttora largamente sconosciuta al pubblico dei non addetti ai lavori - Benjamin Constant è senza dubbio un pensatore politico di prima grandezza e uno dei grandi classici del liberalismo. Vorrei dire qualcosa di più. La vicenda di Constant si colloca in quello straordinario periodo di evoluzione storica, politica e culturale che va dalla Rivoluzione del 1789 a quella del 1830: un periodo nel quale possiamo rintracciare il luogo d'origine della nostra identità politica e istituzionale. I princìpi, le ideologie, l'architettura istituzionale e persino il lessico dei nostri sistemi politici sono nati allora e tali sono sostanzialmente rimasti. Noi parliamo ancora il linguaggio inventato dalla Rivoluzione francese e ci muoviamo ancora nello "spazio politico" creato dai protagonisti di quegli eventi (si pensi soltanto alla distinzione tra destra e sinistra, che, pur con tutti i suoi limiti, continua ad essere la bussola con la quale ci orientiamo nel paesaggio politico). Eventi dei quali Constant fu protagonista, intrecciando in modo indissolubile la propria riflessione con la partecipazione alle vicende politiche del suo tempo; nel suo caso, pertanto, sarà necessario partire da una breve ricostruzione della sua vicenda storico-biografica.

Nato nel 1767 a Losanna, in Svizzera, da un'antica famiglia protestante di origini francesi, e morto a Parigi nel 1830, pochi mesi dopo la Rivoluzione orleanista, Constant si rivelerà uno dei protagonisti più irrequieti e controversi di quella generazione dell'intelligencija europea che visse la propria giovinezza negli anni tumultuosi della Rivoluzione, maturò le proprie convinzioni più profonde durante il dominio napoleonico e scrisse le proprie opere principali nel periodo della Restaurazione. Egli, tuttavia, a differenza di alcuni pensatori a lui contemporanei - come Hegel, ad esempio - non si limitò a seguire con grande passione gli straordinari eventi storico-politici di quegli anni e a sviluppare su di essi una profonda meditazione, ma vi prese parte direttamente e attivamente, giocando più volte un ruolo di primo piano, sia con i suoi scritti che con l'azione politica.

Quando approda definitivamente a Parigi, nel 1795, Constant, che ha appena 28 anni, ha già alle spalle un lungo ed errabondo itinerario formativo, che lo ha visto studiare nelle Università di Oxford, Erlangen (in Germania) e Edimburgo. Ma, quel che più conta, egli ha conosciuto e stabilito un'intensa relazione intellettuale - che diverrà anche una tormentata relazione sentimentale - con Madame de Staël, figlia dell'ultimo ministro liberale di Luigi XVI, il banchiere ginevrino Jacques Necker. Ed è proprio insieme all'ex ministro che Constant, nella residenza di Coppet, ha potuto discutere i grandi problemi politico-istituzionali lasciati aperti dalla Rivoluzione, manifestando un'adesione per i princìpi liberali dell'89 che non rinnegherà mai. Quando giunge a Parigi, tuttavia, l'eredità dell'89 è ad uno dei bivi più drammatici. Dalla congiura di Termidoro - che ha posto fine, nel luglio del 1794, al regime terroristico di Robespierre - è passato poco meno di un anno e la nuova maggioranza parlamentare sta faticosamente tentando di varare una nuova costituzione (che andrà in vigore nell'ottobre del 1795 e sarà caratterizzata dalla presenza di un esecutivo più forte, il Direttorio). L'obiettivo fondamentale del progetto termidoriano è consentire la nascita di un sistema politico fondato sulla legalità costituzionale e sul sistema rappresentativo. Contro tale esito, tuttavia, si battono con forza, da bande opposte, gli eredi di due tradizioni politiche che Constant collocherà provocatoriamente (ma lucidamente) sullo stesso piano: da un lato, la sinistra giacobina, che vede nel progetto termidoriano la fine della "democrazia pura", ossia di quel regime - lontano progenitore delle democrazie totalitarie novecentesche - fondato sulla mobilitazione permanente delle sezioni e dei club, la cui volontà, priva di limiti, veniva miticamente identificata con la volontà popolare; dall'altro lato, la destra monarchica più retriva, che mira semplicemente a restaurare l'assolutismo regio dell'Ancien Régime. In questo quadro, Constant si schiera apertamente con il Direttorio, nella convinzione che questo rappresenti, in quelle date circostanze, l'unico strumento per realizzare i princìpi di libertà proclamati dall'89.

Ma nei vibranti pamphlets constantiani di quegli anni non troviamo soltanto brillanti argomentazioni legate alle situazione politica contingente; in essi già si affacciano temi di grande rilievo teorico. Basti pensare all'interpretazione della Rivoluzione e del Terrore, che ispirerà gran parte della storiografia liberale dell'800. Sulla base di una concezione della storia che assegna alla dimensione etico-ideale un ruolo primario - il dominio del mondo, scrive Constant, «è stato affidato alle sole idee. Sono le idee che creano la forza, facendosi sentimento, passione, entusiasmo. Le idee si formano e si sviluppano nel silenzio, ma esse si incontrano e si accendono al contatto con gli individui. E così, completatesi e rafforzatesi reciprocamente, ben presto si scatenano con un impeto irresistibile» -, in base a tale concezione, dicevo, Constant ritiene che le rivoluzioni si producano là dove si è rotto l'equilibrio tra le istituzioni di un popolo e le sue idee, le sue aspirazioni. Ciò significa che le rivoluzioni costituiscono il "sintomo" e, al tempo stesso, la "cura" di tale squilibrio; ma se esse vanno al di là dei loro obiettivi, si produce una nuova e opposta forma di "degenerazione patologica", la cui conseguenza più evidente è lo svilupparsi della reazione. Ora, secondo questa concezione, il Terrore non costituisce, come pensano gli scrittori controrivoluzionari, la nefasta e inevitabile conseguenza dei princìpi dell'89, né - come teorizzano alcuni scrittori filorivoluzionari - lo strumento terribile ma storicamente necessario per salvare la Rivoluzione, bensì soltanto una degenerazione patologica, scaturita da un'altra Rivoluzione, che non rispondeva alle reali aspirazioni dei Francesi e che ha determinato lo svilupparsi della reazione. Mentre la Rivoluzione dell'89, infatti, nasceva dal bisogno tipicamente moderno di indipendenza individuale, eguaglianza civile e libertà politica, la Rivoluzione del '93 affondava le sue radici nell'aspirazione ad un'eguaglianza forzata e livellatrice e ad un modello politico (quello rousseauiano) anacronistico e liberticida. Tra le due Rivoluzioni non si dà, secondo Constant, parentela alcuna. Del resto, fin dalle pagine iniziali del suo primo pamphlet, Constant ha disegnato una mappa etico-politica nella quale trovano posto soltanto due schieramenti: da un lato quello della libertà e dell'ordine, ispirato ad una concezione limitata e legale del potere, e dall'altro quello dell'anarchia e del dispotismo, varianti opposte di un unico fenomeno, quel potere arbitrario che scaturisce inevitabilmente da una sovranità concepita come illimitata (che poi tale sovranità sia esercitata dal re o da una minoranza che si identifica miticamente con il popolo, cambia poco).

Ma la lotta di Constant perché la rivoluzione si concluda, realizzando quelli che sono i suoi autentici princìpi, terminerà con una sconfitta. La Repubblica direttoriale crolla definitivamente il 18 brumaio 1799, quando un ennesimo ma decisivo colpo di mano, ideato da Sieyès per rafforzare l'esecutivo, spiana la strada all'avventura napoleonica. Ancora una volta il giovane teorico liberale segue gli eventi da vicino. Egli si trova infatti a Saint-Cloud, dove gli autori del colpo di Stato hanno fatto trasferire, per sicurezza, il Parlamento. Alle sette di sera già circolano le voci sulle decisioni che verranno prese di lì a poco: sostanziale esautorazione del legislativo e conferimento delle funzioni esecutive ad una commissione composta da Sieyès, Ducos e Bonaparte. Constant prende carta e penna e scrive a Sieyès, protestando contro lo scioglimento del legislativo, nella convinzione che solo quest'ultimo potrà costituire un argine contro le fortissime ambizioni di Napoleone. Il colpo d'occhio di Constant non potrebbe essere più rapido e lungimirante; ma, ancora una volta, le sue parole cadranno nel vuoto. Negli anni che seguono egli riuscirà a trovare posto nel Tribunato, l'unico organismo costituzionale nel quale sopravviva una parvenza di libertà; di qui svilupperà, in nome delle libertà individuali, una limpida battaglia di opposizione, che gli costerà, nel 1802, la brusca interruzione della sua carriera parlamentare.

Con l'uscita di scena dal Tribunato, la vicenda di Constant perde la sua aderenza diretta alle vicende storiche e politiche. Il ritorno ad una vita privata - una sorta di esilio - non segnerà tuttavia una fase di lungo silenzio, interrotto, come si è a lungo pensato, soltanto dai suoi lavori letterari. Certo: Constant, durante questi lunghi dieci anni, partecipa alle attività del circolo di Coppet, scrive il romanzo che lo renderà celebre come letterato (l'Adolphe), riprende i suoi amati studi sulle religioni e viaggia per la Germania, conoscendo Goethe, Schiller e Schelling. Ma, in realtà, questi sono gli anni forse più fruttuosi anche per il suo pensiero politico: tra il 1800 e il 1806, infatti, egli elabora una compiuta dottrina politica e costituzionale, che rimarrà consegnata a due poderosi trattati, rimasti inediti per ovvie ragioni politiche e tornati alla luce soltanto quarant'anni fa.

Gli anni dell'esilio si chiudono, per Constant, così come si erano aperti: nel segno di Napoleone. Se l'estromissione dal Tribunato era stata infatti determinata dal crescente dispotismo del Primo Console, sarà la sconfitta dell'Imperatore a segnare il ritorno di Constant alla politica attiva. Dopo la battaglia di Lipsia (1813), Constant pubblica infatti Conquista e usurpazione, un brillante libello antinapoleonico che gli dà larga fama e segna il suo ritorno sulla scena politica. Negli anni della Restaurazione - al di là della clamorosa vicenda dei Cento Giorni (quando Constant accetta di redigere, proprio su incarico di Napoleone, la Costituzione che avrebbe dovuto liberalizzare l'Impero) - egli sarà il protagonista di una lotta ininterrotta, nel nuovo quadro della monarchia costituzionale, per la difesa dei princìpi e degli istituti liberali, sia dai banchi del Parlamento (dove guiderà l'opposizione liberale), sia attraverso le opere che, estratte in gran parte dagli inediti del periodo dell'esilio, verrà pubblicando dal 1814 in poi (tra le più famose i Princìpi di politica e il Corso di politica costituzionale). Nel luglio del 1830, sebbene vecchio e ammalato, Constant partecipa agli eventi rivoluzionari, redigendo una dichiarazione in favore di Luigi Filippo e aprendo, in barella, il corteo insurrezionale. Muore pochi mesi dopo.

Come avevo anticipato, ci troviamo di fronte ad un protagonista di primo piano delle straordinarie vicende storico-politiche e culturali di quegli anni. Se l'espressione non fosse abusata, verrebbe voglia di definire Constant come il prototipo del "filosofo militante", ossia di quel pensatore la cui riflessione si alimenta di passione civile e si intreccia con la vita politica nel suo senso più ampio e più alto.

Ma veniamo al suo pensiero politico-costituzionale. Non potendo restituirne l'articolazione teorica nella sua complessità, mi soffermerò su tre punti particolarmente significativi: la critica a Rousseau, la celebre distinzione tra libertà antica e libertà moderna e la dottrina costituzionale.

Partiamo dunque dalla critica a Rousseau. Constant distingue nettamente tra quelli che chiama i due princìpi di Rousseau sulla sovranità. Il primo stabilisce che «ogni autorità che governa una nazione deve emanare dalla volontà generale», cioè dall'intero corpo sociale; il secondo consiste nella esplicita riduzione delle clausole del Contratto sociale «a una sola, cioè all'alienazione completa di ogni associato, con tutti i suoi diritti, alla comunità». Tra questi due princìpi, afferma Constant, occorre fare una netta distinzione: il primo, infatti, è «la più salutare delle verità, il secondo il più pericoloso degli errori».

Vediamo perché. Il primo principio attribuisce legittimità soltanto a quel potere che deriva dalla società stessa, ossia che si fonda sul suo consenso. Si tratta, in buona sostanza, del principio della sovranità popolare, in virtù del quale "titolare" del potere è la società nel suo complesso; ne consegue che può definirsi legittimo soltanto quel potere il quale venga esercitato sulla base di un esplicito mandato, conferito dagli individui che compongono la società. Sebbene Constant sia pienamente consapevole dello sfavore che circonda tale principio in quegli anni (la volontà generale richiamava infatti alla mente la terribile esperienza del giacobinismo e del Terrore), egli nondimeno si dichiara completamente d'accordo con Rousseau. A meno di non resuscitare la dottrina del diritto divino, afferma il teorico liberale, si dovrà convenire che esistono soltanto due fonti della sovranità, il consenso o la forza; e soltanto la prima, a suo parere, dà luogo ad un potere legittimo. Quindi, per quanto riguarda il problema della titolarità - "chi" è il sovrano legittimo - la posizione di Constant coincide con quella del Ginevrino.

Passiamo ora al secondo principio di Rousseau. Esso prevede - come sappiamo e come abbiamo appena ricordato - una cessione dei diritti individuali al potere politico addirittura più larga di quella proposta dall'assolutista Hobbes: se per quest'ultimo, infatti, gli individui conservavano almeno il diritto alla vita, per Rousseau la cessione dei diritti è totale, senza riserve. Qui Constant si dichiara in completo disaccordo con Rousseau: tale principio costituisce, a suo dire, «la giustificazione di ogni dispotismo», giacché il sovrano, in base ad esso, verrà a disporre di un potere illimitato: nessun diritto individuale potrà essere infatti invocato per limitare la sfera d'azione del sovrano. Eppure Rousseau aveva escluso che il suo modello comportasse rischi liberticidi: in primo luogo, argomentava il Ginevrino, perché la condizione (cioè la cessione totale dei diritti) è eguale per tutti, e quindi nessuno ha interesse a renderla onerosa per gli altri; in secondo luogo, perché tale cessione avviene nei confronti della comunità medesima, ragion per cui quei diritti che gli individui cedono in quanto "privati" li riprendono in quanto "cittadini", ossia in quanto membri perfettamente eguali di quel corpo collettivo che è il sovrano. E poiché il sovrano coincide con il corpo sociale, è evidente che esso non può nuocere né all'insieme dei suoi membri, né a qualcuno in particolare.

A questa conclusione Constant rivolge una formidabile obiezione "pratica": Rousseau dimentica, egli scrive, che tutte le garanzie offerte da quell'essere astratto che egli chiama il 'sovrano' sono dovute esclusivamente al fatto che esso si compone di tutti gli individui, senza eccezione alcuna. Ma non appena quel sovrano dovrà esercitare praticamente il suo potere, egli - dal momento che non può farlo in prima persona - sarà costretto a delegarlo a vari organi e, di conseguenza, tutte le garanzie cadranno. Il potere esercitato in nome di tutti sarà in realtà nelle mani di pochi: dunque non è vero, conclude Constant, che la condizione rimane eguale per tutti; così come non è vero che nessuno avrà interesse a renderla più onerosa per gli altri, dal momento che esisteranno cittadini i quali, di fatto, avranno più potere degli altri.

Ma perché ho definito "pratica" questa obiezione? Perché con essa Constant non mette in discussione il principio della cessione totale dei diritti individuali, bensì la realizzabilità pratica di un sistema in cui i governanti coincidano con i governati (cioè, della democrazia diretta). La sua obiezione si basa su una lucida e realistica analisi delle nazioni moderne, che si differenziano nettamente da quelle antiche. Mentre le prime, infatti, erano di dimensioni assai ristrette, prevedevano l'esistenza degli schiavi, si basavano essenzialmente sulla guerra e trascuravano il commercio, le seconde sono invece caratterizzate da una grande estensione territoriale, da una popolazione assai numerosa e dalla crescente tendenza a procurarsi le risorse necessarie attraverso il commercio, piuttosto che tramite la guerra; le nazioni moderne, inoltre, grazie al progresso morale e culturale, non ammettono più la schiavitù, cosicché quasi tutti i cittadini sono costretti a lavorare; infine, sono caratterizzate da un intenso amore per l'indipendenza individuale. Tutte queste caratteristiche rendono semplicemente irrealizzabile la partecipazione diretta e costante di tutti gli individui all'esercizio della sovranità: il loro numero e le loro attività lavorative non lo permetterebbero comunque, e in ogni caso la loro "mentalità" non li spinge in quella direzione. Ne consegue che, anche nelle società basate sul consenso, i governanti rimarranno distinti dai governati. Ma Rousseau è ben lontano dal realismo e dalla lucidità di cui dà prova Constant: egli ha in mente il modello della polis, o meglio, quella versione idealizzata che ne fa un modello di società organica, coesa e compatta; un modello che sarà alla base anche delle riflessioni politiche di Hegel e di Marx, e che porterà tutti costoro ad avvertire come laceranti e negative (come "scissioni" da superare) quelle distinzioni - tra società e Stato, tra individuo e cittadino, tra pubblico e privato - nelle quali Constant individuerà non solo il contrassegno della modernità, ma anche e soprattutto la garanzia delle sue molteplici libertà e del suo benessere.

Ma torniamo all'obiezione "pratica": la tesi di Rousseau (che sarà poi ripresa dai democratici dell'Ottocento) - appartenendo a tutti, il potere non potrà abusare contro alcuno - cade nel momento della sua traduzione in pratica, perché di fatto il potere viene sempre esercitato da pochi (i parlamentari, i ministri, i vari funzionari dell'amministrazione pubblica). Ne consegue che anche nelle società democratiche rimane in piedi la necessità di un sistema di garanzie che protegga i cittadini dai possibili abusi del potere. Se tali garanzie vengono a mancare, i rischi sono immensi: da un lato, i singoli individui si trovano sottomessi senza riserve alla volontà generale; dall'altro, la volontà generale finisce per coincidere con la volontà di quei pochi che detengono il potere. Si produce così una "beatificazione" del potere sovrano, che rende il "dispotismo democratico", che si ammanta della legittimazione popolare, ben più pericoloso del "dispotismo autocratico".

Ma la critica constantiana a Rousseau non si ferma all'obiezione "pratica": il modello teorizzato dal Ginevrino è considerato pericoloso da Constant non solo perché la democrazia pura e diretta è praticamente irrealizzabile, ma anche (e soprattutto) perché, qualora lo fosse, sarebbe il peggiore dei dispotismi. Per comprendere l'argomentazione constantiana occorre rifarsi alla sua celebre distinzione tra libertà antica e libertà moderna. Che cosa intende oggi per libertà - si chiede Constant nel famoso Discorso del 1819 - un inglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti d'America? Egli intende

il diritto di ciascuno di non essere sottoposto che alle leggi, di non poter essere né arrestato, né detenuto, né messo a morte, né maltrattato in alcun modo a causa dell'arbitrio di uno o più individui. Il diritto di ciascuno di dire la sua opinione, di scegliere la sua industria e di esercitarla, di disporre della sua proprietà e anche di abusarne; di andare, di venire senza doverne ottenere il permesso e senza rendere conto delle proprie intenzioni e della propria condotta. Il diritto di riunirsi con altri individui sia per conferire sui propri interessi, sia per professare il culto che egli i suoi associati preferiscono, sia semplicemente per occupare le sue giornate o le sue ore nel modo più conforme alle sue inclinazioni, alle sue fantasie. Il diritto, infine, di ciascuno di influire sulla amministrazione del governo, sia nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante rimostranze, petizioni, richieste che l'autorità sia più o meno obbligata a prendere in considerazione.

La libertà dei Moderni coincide dunque in larga parte con i diritti individuali di libertà: libertà di pensiero, libertà religiosa, libertà economica, libertà di spostamento, libertà di associazione, garanzie giudiziarie. Tali libertà conferiscono agli individui, su ognuna di quelle materie, la facoltà di fare o di non fare, ossia la libertà di agire a proprio talento, senza che lo Stato li possa ostacolare, né con divieti né con comandi. Ognuno di noi, ad esempio, è libero di riconoscersi (o non riconoscersi) in una qualsiasi religione, oppure di disconoscerle tutte; lo Stato non ha comunque voce in capitolo, se non quella di tutelare le nostre scelte individuali e di impedire che esse possano ledere i diritti altrui. La libertà coincide, in questo caso, con una condizione di indipendenza individuale dal potere, con uno spazio privo di ostacoli, sgombro, vuoto: sta a noi usarlo come meglio crediamo. A questo insieme di libertà civili (dette anche libertà "negative" o libertà "private"), che costituiscono il cuore della libertà moderna, si aggiunge poi la libertà politica (detta anche libertà "positiva" o "pubblica"), che consiste nella possibilità di prendere parte alle decisioni collettive, in genere tramite l'elezione di rappresentanti.

La libertà degli Antichi, secondo Constant, era invece una cosa ben diversa: essa consisteva

nell'esercitare collettivamente, ma direttamente, molte funzioni della sovranità, nel deliberare sulla piazza pubblica sulla guerra e sulla pace, nel concludere con gli stranieri i trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel pronunciare giudizi; nell'esaminare i conti, la gestione dei magistrati, nel farli comparire dinanzi a tutto il popolo, nel metterli sotto accusa, nel condannarli o assolverli.

Si trattava quindi di una libertà esclusivamente pubblica, consistente nel partecipare direttamente alle decisioni dello Stato. E poiché tali decisioni venivano prese con il concorso di tutti, gli individui - in quanto cittadini - erano liberi; come privati, tuttavia, essi non possedevano alcuna libertà, perché la sovranità collettiva non riconosceva alcun limite alla propria giurisdizione. La libertà di cui godevano gli Antichi, in quanto cittadini, poteva dunque andare di pari passo con il totale asservimento degli individui.

Ed è precisamente questa la libertà teorizzata da Rousseau: è una libertà che si identifica con l'autonomia del corpo collettivo, laddove la libertà moderna, secondo Constant, è in larga parte una condizione di indipendenza individuale. Apparentemente si tratta soltanto di due diverse forme di autodeterminazione (e quindi di libertà): con la prima siamo liberi perché, direbbe Rousseau, obbediamo alle leggi che noi stessi ci siamo dati; con la seconda siamo liberi perché, spiegherebbe Constant, nessuno può ostacolare le nostre scelte individuali. Rimane tuttavia una differenza: mentre la libertà antica, riproposta da Rousseau, è una forma di autodeterminazione collettiva, quella moderna, difesa da Constant, è una forma di autodeterminazione individuale. E non è una differenza di poco conto. Risulta evidente, infatti, che nelle decisioni collettive si formano inevitabilmente una maggioranza e una minoranza; e quando non facciamo parte della prima, noi non obbediamo affatto a noi stessi, ma alla maggioranza. O meglio, a quella minoranza che esercita il potere in nome della maggioranza. Ecco perché la democrazia pura, che non attribuisce ai cittadini nessuna garanzia in quanto individui, è il peggiore dei dispotismi: perché ciò che nessun tiranno oserebbe fare in suo nome, dice Constant, i governanti "democratici" lo possono imporre nel nome del popolo.

Il contrasto di fondo che oppone Constant a Rousseau riguarda dunque il modo stesso di concepire la libertà: la libertà autentica, secondo Constant, non è quella teorizzata dal Ginevrino, ma quella di cui godono i Moderni. Essa consiste in un'ampia sfera di indipendenza individuale, nella quale il potere non ha il diritto di intervenire e che anzi ha il dovere di tutelare. Viceversa, nella società teorizzata da Rousseau le autodeterminazioni collettive (le leggi adottate dal corpo sovrano) sostituiscono totalmente le autodeterminazioni individuali. Non esistono infatti libertà individuali, ma solo libertà collettive. Il corpo collettivo - ossia, il potere dello Stato - può occuparsi di tutto: le leggi possono estendersi a qualsiasi aspetto della realtà, senza incontrare alcun ostacolo. La società allora, in quanto corpo collettivo, sarà totalmente sovrana; gli individui, in quanto singoli, saranno totalmente asserviti. E' questa la libertà che Rousseau e i giacobini hanno proposto alla Francia: una libertà anacronistica, che la Francia non poteva volere e contro la quale si è rivoltata. La libertà dei Moderni, ci dice Constant, è ben diversa: essa consiste in un'ampia sfera di indipendenza individuale, combinata - e non sostituita! - con la libertà politica (beninteso, esercitata tramite la forma rappresentativa). I moderni non vogliono tutele soffocanti o, quel che è peggio, liberticide. La conclusione di Constant è di quelle inequivocabili: «la libertà individuale, lo ripeto, ecco la vera libertà moderna».

Attenzione, però. Ciò non significa che Constant intenda rinunciare alla libertà politica; egli infatti aggiunge subito dopo: «La libertà politica ne è [della libertà individuale] garanzia; la libertà politica è quindi indispensabile». Qui Constant esprime con particolare chiarezza il senso della sua posizione: le libertà civili si devono combinare con la libertà politica, giacché soltanto quest'ultima ci consente di controllare il potere, che tende sempre ad abusare delle sue prerogative; ed il potere, in questa sua tendenza, può trovare un alleato nell'eccesso di privatismo che caratterizza i moderni.

Il pericolo della libertà moderna - scrive Constant, sempre nel Discorso - è che, assorbiti nel godimento della nostra indipendenza individuale e nel perseguimento dei nostri interessi particolari, noi possiamo rinunciare troppo facilmente al nostro diritto a partecipare al potere politico.

Quindi quello di Constant non è un liberalismo angustamente privatistico, come spesso è stato ritenuto (e non solo dalla critica marxista); è viceversa un liberalismo cosciente dei rischi insiti nel privatismo dei moderni e consapevole del ruolo insostituibile della partecipazione politica. Ciò non consente, tuttavia, di sostenere che Constant sia un democratico: non solo e non tanto perché egli sia contrario al suffragio universale (che del resto nessuno proponeva, in quegli anni), ma perché le libertà politiche rappresentano, nel suo pensiero, lo strumento per garantire le libertà civili; le prime sono un mezzo, le seconde un fine. Nella migliore delle ipotesi, si potrebbe sostenere che Constant sia un pensatore liberal-democratico, giacché ha compreso che libertà civili e libertà politiche, indipendenza e partecipazione, devono essere combinate, in quanto la totale politicizzazione dell'esistenza, così come la sua privatizzazione integrale, costituiscono pericoli opposti ma simmetrici al mantenimento della libertà dell'uomo. Ma per sostenere che Constant sia un liberal-democratico bisogna assumere che la democrazia sia soltanto il prolungamento e il perfezionamento quantitativo del liberalismo, cioè che essa non abbia fatto che universalizzare, quando la situazione storica lo ha consentito, quei diritti politici che, insieme ai diritti civili, il liberalismo aveva già parzialmente realizzato con il sistema censitario. Tale interpretazione è sicuramente legittima (e a chi vi parla non dispiace affatto); è altrettanto sicuro, tuttavia, che essa non rende ragione del del lungo conflitto che ha opposto liberali e democratici nel corso dell'Ottocento, né delle differenze teoriche e assiologiche che tuttora distinguono la tradizione liberale da quella democratica; infine, in essa non si potrà sicuramente riconoscere tutta la tradizione democratica e, in particolare, le sue componenti più pure.

Come abbiamo visto, l'errore di fondo che Constant attribuisce a Rousseau è quello di aver impostato il problema della legittimità del potere esclusivamente in termini di titolarità ("chi" è il legittimo titolare del potere politico?), trascurando completamente la questione dell'estensione ("quanto ampio" deve essere il potere politico, a prescindere da chi lo detenga?). La delimitazione a priori della sfera d'azione del potere - con la correlativa istituzione di un'ampia sfera di diritti individuali - costituisce dunque il primo e irrinunciabile passo per garantire la libertà. Senza questa limitazione fondamentale, anche le tecniche costituzionali, afferma Constant, diventano inutili: si ha un bel dividere il potere, nel senso di assegnarlo ad organi diversi; se la sua somma totale è illimitata, la libertà è persa. Dunque Constant è convinto che la garanzia fondamentale della libertà risieda nella "limitazione materiale" del potere[34], la quale è a sua volta garantita dallo spirito pubblico e dalla libertà di stampa. Ma compiuto questo primo fondamentale passo, è certamente indispensabile procedere all'individuazione di un sistema di forme legali che regoli la struttura e l'esercizio del potere ("limitazione formale").

I punti salienti del costituzionalismo constantiano sono la teorizzazione del potere neutro e preservatore, la forte impronta garantista (nel duplice aspetto dell'indipendenza della magistratura e delle garanzie giudiziarie) e l'insistenza sull'importanza del potere municipale (e dunque di forti autonomie locali). Prima di addentrarci nell'esame del sistema costituzionale non resta che fare cenno all'evoluzione del suo autore, che da repubblicano divenne monarchico. Come è stato opportunamente osservato, tale cambiamento non implica questioni di principio, ma si risolve in una questione prevalentemente tecnica. Constant concepisce la dottrina costituzionale come una "dottrina dei mezzi", rispetto a quei "fini" che vengono individuati dalla teoria politica. Ora, circa i fini della politica Constant non ha mai cambiato idea, dagli anni del Direttorio a quelli della Restaurazione. Non a caso, nel 1815, quando dà alle stampe i Princìpi di politica, egli scrive:

spesso, nelle ricerche che vado pubblicando, si ritroveranno non soltanto le stesse idee, ma le stesse parole di miei precedenti scritti. Presto saranno venti anni che mi occupo di considerazioni politiche e ho sempre professato le stesse opinioni, formulato i medesimi voti. Allora domandavo la libertà individuale, la libertà della stampa, l'assenza di arbitrio, il rispetto per i diritti di tutti. E' ciò che reclamo oggi con zelo non minore e con più grande speranza.

Ma non è soltanto sul piano dei princìpi politici che si può riscontrare una indiscutibile coerenza. Anche sul piano dei mezzi costituzionali si dà una sostanziale continuità: i princìpi ispiratori e l'architettura complessiva del costituzionalismo constantiano rimangono infatti immutati, sia nella versione repubblicana (sino al 1803), sia in quella monarchica (nel 1814-15). In breve: il passaggio dalla forma repubblicana a quello monarchica nasce dall'adattamento dei mezzi alle circostanze storiche e politiche. Dopo il 1814 Constant è convinto che la soluzione monarchico-costituzionale rappresenti l'unica strada, nell'Europa della Restaurazione, per conciliare libertà e stabilità.

Ma veniamo all'assetto dello Stato constantiano, che vede il potere sovrano suddiviso in cinque poteri. In primo luogo, abbiamo il potere neutro e preservatore, che nella versione repubblicana veniva attribuito ad un organo costituito ad hoc, mentre nella versione monarchica viene attribuito al re. Si tratta di uno dei tratti più originali del costituzionalismo constantiano: il potere preservatore ha lo scopo di intervenire, quale supremo garante dell'organismo costituzionale, ogniqualvolta quest'ultimo sia minacciato dall'urto tra i poteri attivi (ossia, tra l'esecutivo e il legislativo). Le ragioni che spingono Constant a escogitare tale istituto - modellato sulle funzioni arbitrali del monarca costituzionale inglese - vanno collocate nella tormentata vicenda rivoluzionaria della Francia: dopo l'89, infatti, la Francia era andata incontro ad una serie impressionante di fallimenti costituzionali, tutti derivanti dal fatto che il legislativo e l'esecutivo si erano svincolati, a turno, dai loro limiti, finendo per distruggere le garanzie costituzionali. Così era avvenuto con la Convenzione egemonizzata da Robespierre, e così si era ripetuto con il Direttorio di Barras, sino a culminare nel dispotismo napoleonico. Il potere preservatore è chiamato a risolvere questi problemi, ossia a svolgere la funzione di giudice supremo degli altri poteri: quando questi entrano in contrasto irrimediabile tra di loro esso interviene, ricorrendo alle temibili armi dello scioglimento (del legislativo) o della destituzione (dell'esecutivo). Ma per assolvere un simile compito, il potere preservatore deve possedere le caratteristiche che gli consentano di essere realmente imparziale, ossia egualmente distante dagli interessi dell'esecutivo come da quelli del legislativo. E' a questo scopo che Constant lo qualifica come potere neutro, ossia non-attivo; ciò significa che in nessun caso esso potrà sostituirsi - esercitando in modo vicario funzioni legislative o esecutive - ai due poteri che deve giudicare. E significa altresì che i suoi provvedimenti saranno esclusivamente politici: ad essi non dovrà seguire l'irrogazione di alcuna pena. Se nella fase repubblicana la "terzietà" ed indipendenza del potere preservatore viene raggiunta con un complesso congegno di meccanismi istituzionali, nella fase monarchica esso verrà affidato semplicemente al monarca, il quale, in virtù della sacralità della sua persona, è perciò stesso superiore ed equidistante rispetto agli altri poteri. Ciò implica, come è facile intuire, che nel costituzionalismo constantiano il potere del re sarà soltanto un potere neutro e che pertanto il monarca non eserciterà direttamente né funzioni esecutive, né funzioni legislative. Esso costituirà il punto di equilibrio sul quale poggia l'intero sistema, impedendo che questo degeneri in forme arbitrarie, siano queste di tipo assembleare o governativo.

Al potere rappresentativo Constant riconosce un ruolo cruciale: nessuna libertà può esistere in un grande paese, egli afferma, senza assemblee forti, numerose e indipendenti. Nella fase monarchica del suo pensiero Constant scinde tale potere in due rami: il potere rappresentativo durevole (la Camera alta, di tipo ereditario) e il potere rappresentativo dell'opinione (la Camera bassa, di tipo elettivo). L'istituzione della Camera ereditaria è resa necessaria, secondo Constant, dall'esistenza del monarca ereditario: in un paese che respinga ogni distinzione di nascita non si potrebbe certo accettare che la suprema carica dello Stato sia ereditaria. La monarchia ne verrebbe quindi indebolita, e ciò sarebbe esiziale per l'organismo costituzionale, visto il ruolo assegnatole di potere neutro e preservatore. Sotto questo punto di vista, quindi, la Camera ereditaria svolge una funzione difensiva nei confronti del potere reale; ma essa svolge, al tempo stesso, anche una funzione limitativa, dal momento che la carica di Pari, una volta assegnata, diventa ereditaria, e quindi fa sì che il membro della Camera alta entri in una condizione di effettiva indipendenza dal potere reale. Infine, la presenza di due Camere - l'una ereditaria, l'altra elettiva - dovrebbe garantire un equilibrio dinamico al sistema politico-costituzionale, consentendo l'incontro tra le esigenze di ordine e continuità e le istanze di trasformazione proprie di una civiltà in evoluzione.

Il potere esecutivo viene denominato potere ministeriale, per sottolinearne la sua distinzione dal potere reale. Nella versione del 1815 esso viene nominato (ed eventualmente revocato) dal re ed esercita, sulla base della fiducia congiunta del monarca e della camere, le funzioni di governo. Fondamentale, in questo ambito, il principio della responsabilità dei ministri e dei funzionari inferiori, che Constant afferma con forza. I ministri possono essere accusati per tre motivi: per abuso del loro potere legale; per atti illegali pregiudizievoli all'interesse pubblico; per attentati contro la libertà. In quest'ultimo caso i ministri rientrano nella classe dei cittadini, e quindi devono essere giudicati dai tribunali ordinari; nei primi due casi, invece, essi devono rispondere ad un tribunale speciale, costituito dalla Camera dei Pari. Mettere sotto accusa dei ministri, infatti, è come intentare un processo tra il potere esecutivo e il potere del popolo; occorre pertanto individuare un giudice che abbia un interesse parimenti distinto da entrambi i contendenti; ed è precisamente quello che accade con la Camera ereditaria. Ma non è sufficiente aver istituito la responsabilità per i ministri; essa deve venire estesa a tutti i gradi della pubblica amministrazione. Se si punisce soltanto il ministro che dà una disposizione illegale e non il funzionario che la esegue - osserva Constant - si colloca la riparazione tanto in alto da non poterla spesso conseguire. I funzionari non possono invocare il principio dell'obbedienza, perché questa non può mai essere cieca; essi risponderanno pertanto dei loro errori di fronte ai tribunali ordinari.

Quanto al potere giudiziario, esso - nella versione monarchica - viene nominato dal re e trova nel principio della inamovibilità la garanzia della propria indipendenza. Accanto ad esso, tuttavia, si devono prevedere pene severe per quei giudici che si allontanino, nell'esercizio delle loro funzioni, dall'osservanza delle leggi; inoltre per il cittadino deve sempre essere prevista la possibilità di appellarsi contro una sentenza. La concezione garantista di Constant si fonda infine su altri tre capisaldi: il sistema della giuria, l'affermazione dei diritti dei condannati e il rigoroso rispetto della forme legali. Il giurato, dice Constant, giudica come giudicherebbe il buon senso di ogni individuo, come giudicherebbe lo stesso accusato se non si trattasse di se stesso. Vale la pena di ricordare, sia pure per inciso, che per Constant il sistema della giuria contribuisce in modo fondamntale alla formazione di un'etica civile, perché chiama qualsiasi cittadino alla conoscenza delle leggi e dell'amministrazione pubblica e lo solleva alla considerazione dei princìpi che tutelano la sua libertà e la sua sicurezza. Per quanto riguarda i condannati, Constant sostiene che essi non devono vedere gravata arbitrariamente la propria pena: questa deve essere proporzionata alla colpa, priva di qualsiasi supplizio che leda la dignità umana e irrogata sulla base di leggi precedenti il delitto. Il diritto di grazia rappresenta infine l'ultima risorsa contro l'inevitabile inconveniente delle leggi, vale a dire il loro carattere generale e astratto, che non può prevedere le infinite sfumature della realtà. Quanto alle "forme legali", Constant osserva come spesso si invochi la loro attenuazione o abolizione allegando il pretesto della sicurezza pubblica. Contro la tentazione ricorrente della "giustizia sommaria", Constant adduce due argomenti fondamentali: in primo luogo, le forme legali sono una salvaguardia e dunque la loro soppressione equivale all'irrogazione di una pena; ma sottomettere l'accusato a questa pena è come punirlo prima di averlo giudicato. In secondo luogo, tali forme o sono necessarie o sono inutili: se sono inutili, si chiede Constant, perché conservarle nei processi ordinari? E se sono necessarie, perché privarsene nei processi più importanti?

Quando si tratta di una colpa leggera e quando l'accusato non è minacciato nella vita o nell'onore - scrive Constant - la sua causa viene istruita nel modo più solenne ... ma quando si tratta di un misfatto spaventoso, e quindi dell'infamia e della morte, si sopprimono d'un colpo tutte le garanzie! si chiude il codice delle leggi, si abbreviano le formalità! come se si pensasse che quanto più un'accusa è grave, tanto più sia superfluo esaminarla.

L'ultimo pilastro dell'edificio costituzionale constantiano è il potere municipale, che consiste in sostanza in una articolata rete di poteri locali, ai quali vengono assegnate competenze amministrative sulla base di un criterio territoriale. Vale la pena di sottolineare l'importanza di una simile innovazione, che precede di quasi cinquant'anni le ben più celebri riflessioni di Tocqueville sui pregi dell'autogoverno e sui difetti del centralismo amministrativo. Con l'istituzione di un potere locale, al quale vengono riconosciute sfere di autonoma competenza, Constant ha infatti tentato di impedire, come è stato giustamente osservato, che la Francia fosse rinchiusa nella costrizione di una centralizzazione dalla quale essa uscirà, a fatica, solo alla fine del XX secolo.

11. Hegel

Cenni biografici

Georg Wilhelm Friedrich Hegel nasce nel 1770 a Stoccarda, dove compirà gli studi ginnasiali. Nel 1788 si iscrive all'Università di Tubinga, dove si dedica a studi teologici e filosofici e dove stringe vincoli di amicizia con Hölderlin e Schelling.

Terminati gli studi, nel 1793 si trasferisce a Berna, dove fa il precettore; è a questo periodo, tra il 1793 e il 1796, che risalgono alcuni importanti scritti giovanili.

Nel 1797 si trasferisce a Francoforte, di nuovo come precettore. A questo periodo risalgono scritti filosofici assai importanti, come Lo spirito del cristianesimo e il suo destino. Compone anche un commentario all'opera sull'economia politica di Steuart e inizia il saggio che verrà pubblicato postumo con il titolo La costituzione della Germania.

Nel 1799, grazie all'eredità paterna, può abbandonare il precettorato e dedicarsi interamente agli studi. Nel 1801 si abilita all'insegnamento accademico all'Università di Jena. In quella città pubblica il saggio intitolato Differenza dei sistemi filosofici di Fichte e di Schelling e, insieme a quest'ultimo, cura la pubblicazione del "Giornale critico della filosofia". All'Università tiene corsi di logica, filosofia della natura e filosofia dello spirito. Nel 1805 viene nominato professore straordinario.

Nel 1806, durante l'occupazione francese, Hegel deve sospendere la propria attività. Alla fine dell'anno si trasferisce a Bamberga, dove, nel 1807, pubblica la Fenomenologia dello spirito. Sempre a Bamberga Hegel si occupa come redattore della locale gazzetta.

Nel 1808 si trasferisce a Norimberga, dove viene nominato preside del locale ginnasio. Tra il 1812 e il 1816 pubblica la Scienza della logica.

Nel 1816 viene nominato professore di filosofia all'Università di Heidelberg. Nel 1817 pubblica l'Enciclopedia delle scienze filosofiche e il saggio politico intitolato Valutazione degli atti a stampa dell'Assemblea dei deputati del regno del Württemberg negli anni 1815 e 1816.

Nel 1818 viene nominato professore all'Università di Berlino. Nel 1821 pubblica la Filosofia del diritto. L'insegnamento berlinese di Hegel ha enorme risonanza, non solo in Prussia, ma in tutta la Germania colta.

Nel 1822, 1824 e 1826 Hegel compie alcuni viaggi all'estero (in Belgio e in Olanda, a Praga, a Vienna e a Parigi). Nel 1830 viene nominato rettore dell'Università di Berlino. Muore nel novembre del 1831, colpito dal colera.

Il pensiero politico

Nella storia del pensiero filosofico Hegel rappresenta una presenza ingombrante, con la quale, nel bene o nel male, è necessario fare i conti:

da qualsiasi parte si guardi alla filosofia contemporanea - scriveva Bobbio nel dopoguerra - Hegel sta sempre in mezzo, e sembra, con la sua gigantesca mole quasi precludere la vista di ciò che sta al di là. Hegel è l'inizio, oltre il quale si può anche non andare; ed è l'inizio proprio perché è insieme la conclusione di tutto quello che lo precede. Tutte le strade conducono ad Hegel; o, che è lo stesso, tutte le strade partono da Hegel.[35]

Ed infatti due tra le principali correnti della filosofia contemporanea sono state in qualche modo ricondotte, più o meno persuasivamente (ma sempre con qualche ragione), a Hegel: è successo con il marxismo (Marx ed Hegel), così come è accaduto con l'esistenzialismo (Kierkegaard e Hegel, Sartre ed Hegel, Heidegger ed Hegel). A ciò si aggiungano le tradizionali interpretazioni idealistiche di Hegel (secondo la linea Kant, Fichte, Schelling), le interpretazioni irrazionalistiche, che vedono nel pensatore di Stoccarda un teologo e un mistico, e quelle posizioni che si riconnettono ad Hegel in nome dello storicismo.

Il fatto è che il pensiero di Hegel rappresenta l'ultima grande sintesi filosofica, l'ultimo tentativo di costruire un sistema filosofico unitario, totalizzante ed esaustivo. Non è certo questa la sede per esporre, o anche solo tratteggiare, un simile sistema filosofico. Vorrei però riuscire ad illustrarne alcune caratteristiche, perché risultino più chiari, in seguito, taluni aspetti del suo pensiero politico.

Di Hegel - e del suo idealismo assoluto - sono state avanzate, come dicevo, moltissime interpretazioni, che accentuano aspetti diversi della sua opera; tuttavia, anche se con notevole semplificazione, tali interpretazioni possono essere ricondotte a due posizioni principali.

La prima vede in Hegel l'ultimo grande teologo cristiano. La sua sarebbe una filosofia di ispirazione religiosa, perché avrebbe al suo fondo un tema tipicamente religioso: il rapporto tra finito e infinito. Hegel - come i suoi amici romantici - sarebbe stato, sin dai suoi anni giovanili, appassionato e tormentato dal tema (e dal bisogno) dell'Assoluto. Da questo punto di vista, la cultura illuministica, imperniata sulle regole di un intelletto chiaro e distinto, appare ad Hegel e ai romantici tedeschi come una cultura priva di contenuto e di vita, astratta e dualistica. Essa ha separato la ragione dal sentimento, la vita pubblica da quella privata, l'individuo dallo Stato, l'uomo da Dio; ha ridotto la natura ad un meccanismo quantitativo; ha prodotto una definizione astratta dell'uomo, nella quale si è persa tutta la particolarità del singolo, derivante dalla sua appartenenza nazionale, della sua cultura, in una parola, della sua storia. La conoscenza intellettuale tipica dell'Illuminismo, procedendo per concetti generali e astratti, logicamente concatenati, avrebbe prodotto un progressivo allontamento dalla realtà con tutta la sua ricchezza e la sua molteplicità; inoltre avrebbe prodotto una serie infinita di dualismi, che hanno separato l'uomo da tutto ciò con cui l'uomo è intimamente legato, rendendolo così scisso e infelice.

Questa critica all'Illuminismo - che nasce dal bisogno di unità e di conciliazione, dalla ricerca dell'Assoluto - è comune tanto ad Hegel quanto alla cultura romantica. E in ciò sta lo sfondo religioso di queste posizioni: ogni ricerca di assoluto è infatti, in quanto tale, una ricerca di tipo religioso. Ma la risposta di Hegel a questo bisogno sarà diversa da quella degli altri protagonisti del Romanticismo: egli, infatti, per recuperare il rapporto con l'Assoluto non si affiderà al sentimento, al sapere immediato o alla fede, ma alla ragione. Si tratterà - naturalmente - di una ragione ben diversa da quella degli illuministi: non il cartesiano intelletto chiaro e distinto, che si rifà al modello del sapere matematico-geometrico, ma una ragione speculativa e dialettica, capace cioè di accogliere dentro di sé tutta la ricchezza e la contraddittorietà del reale, in un quadro organico. In questa prospettiva il mondo apparirà ad Hegel come la manifestazione di uno spirito infinito, manifestazione che tuttavia è oscura e incompleta e che la filosofia ha il compito di chiarire e penetrare. La filosofia speculativa dovrà insomma consentire quella riconciliazione dell'infinito con il finito, di Dio con il mondo, che neppure il Cristianesimo è riuscito a condurre a compimento. Riconciliazione significa superamento di tutti i dualismi e ritorno alla totalità perduta; quando questa totalità sarà raggiunta, per opera dell'uomo, il finito avrà acquistato un valore infinito.

Alcuni critici sostengono dunque che al fondo della filosofia di Hegel vi sarebbe un problema di salvezza. In questo senso essa sarebbe una filosofia religiosa, anzi l'ultima filosofia cristiana e forse l'ultima grande teologia: la filosofia di Hegel altro non sarebbe altro che una ricerca di Dio, la quale sfocia in una grandiosa teodicea. La dialettica sarebbe lo strumento per cogliere questo risultato. L'Assoluto non può che essere, infatti, qualcosa di profondamente unitario e organico; non può che essere una totalità. Ma soltanto la dialettica consente di cogliere una simile entità, perché essa va al di là dell'intelletto - il quale vede dualismi ovunque: spirito e natura, natura e storia, ragione e sentimento, interno ed esterno, soggettivo e oggettivo, finito e infinito -, scoprendo che il ritmo stesso della realtà è divenire, ossia passaggio di sé ad altro da sé per tornare infine in sé. L'idea che l'attività spirituale (che per Hegel è la realtà stessa) sia questo divenire, questo passaggio continuo, gli consente di superare tutti i dualismi cui abbiamo fatto cenno, per comporre un quadro unitario, che tuttavia non perde nulla della molteplicità del reale.

Se si riflette su quanto ho appena detto, si possono forse già cogliere le fondamenta dell'altra interpretazione di Hegel, quella che vede in lui il fondatore dello storicismo, ossia di una filosofia laica, totalmente immanente, che si contrappone frontalmente alla religione, o che comunque la considera superata dalla filosofia: l'al di là - in questa prospettiva - non sarebbe che un falso problema, perché esiste solo l'al di qua. L'Assoluto, insomma, altro non è che la realtà stessa, il mondo, la storia. Avevo detto, poco fa, che la riconciliazione con l'Assoluto viene raggiunta per opera dell'uomo, il quale acquista in tal modo un valore infinito. Per essere più precisi dovremmo dire che scompare il dualismo di finito e infinito, e ci poniamo finalmente dal punto di vista dell'Assoluto. Ma poiché tutto ciò è realizzato dall'uomo e si compie nella storia, Dio e la Storia coincidono, tanto è vero che la storia, per Hegel, altro non è che la vera teodicea, cioè la vera dimostrazione di Dio. Ma in tal modo sono poste le basi per una concezione totalmente immanente: Dio, infatti, non è al di là, non è qualcosa di diverso dal mondo e di trascendente rispetto ad esso; il vero infinito è il finito stesso, e non c'è quindi un altro orizzonte al di là della storia dell'uomo. In questa prospettiva la filosofia di Hegel può essere interpretata come una filosofia radicalmente immanentistica o atea (sia nella versione marxista, e quindi con forti connotazioni politiche, sia in quella heideggeriana, e quindi con forti connotazioni esistenzialistiche).

Comunque la si voglia interpretare - ultima grande filosofia cristiana e quindi ultima grande teologia, oppure prima grande filosofia laica o atea - l'opera di Hegel rimane in ogni caso l'ultimo tentativo di conciliare la filosofia con la realtà, tanto sul terreno politico quanto su quello religioso:

la verità - scrive ancora una volta Bobbio - è che il sistema di Hegel, nella sua complessità, le comprende tutte e due [le interpretazioni]: la filosofia di Hegel è una teologia mondana.

Tutto l'interesse di Hegel è infatti concentrato su questo mondo: e in ciò hanno ragione le interpretazioni immanentistiche o atee (siano esse marxiste o esistenzialistiche o storicistiche). Ma le categorie con cui viene compreso questo mondo sono categorie teologiche. La storia è per Hegel, come accade nelle concezioni teologiche e trascendenti, il dramma dell'uomo alienato. Ma a differenza delle concezioni teologiche, la riappropriazione, che restituisce l'uomo a se stesso e segna la fine del dramma storico, appartiene a questo mondo. La sua è dunque sì una teologia, ma una teologia secolarizzata, immanente. La stessa che ritroveremo in Marx.

Passiamo ora a vedere il pensiero politico, cercando di tenere presenti alcuni dei concetti che abbiamo appena illustrato: la polemica contro l'astrattezza e i dualismi della cultura illuministica; l'idea della fondamentale unitarietà della realtà; la filosofia come conciliazione con questa realtà; infine, l'Assoluto (che è poi la realtà stessa) come totalità organica, ossia come entità nella quale le singole parti mantengono la loro individualità, ma solo convergendo a realizzare un'unità, un fine comune senza il quale non sarebbero nemmeno concepibili.

Cominciamo col dire che Hegel ebbe sempre un vivissimo e appassionato interesse per la politica, intesa nel suo significato più ampio: non solo, quindi, gli eventi immediatamente politici, ma anche le vicende precedenti che ne spiegano la genesi e permettono di intenderne le linee di sviluppo; non solo gli aspetti politico-istituzionali e politico-diplomatici, ma anche i processi sociali che stanno al di sotto di essi (Hegel si interessò molto di economia, sulla qual cosa hanno ovviamente insistito soprattutto gli interpreti marxisti).

Il primo scritto di Hegel, rimasto inedito fino al 1893, si intitola la Costituzione della Germania ed è assai interessante per tre ragioni: il primo è la rivendicazione appassionata dell'unità tedesca; il secondo, connesso al primo, è il giudizio di Hegel su Machiavelli; il terzo è che in esso troviamo già, sia pure in nuce, tutti gli elementi che informeranno la concezione hegeliana dello Stato.

Quanto al primo punto, la Costituzione della Germania si apre con una secca e drammatica constatazione: «la Germania - dice Hegel - non è più uno Stato». L'infinito bisogno di unità politica - per usare un'espressione del Rosenkranz[36] - è la molla che muove tutto il lavoro: da tale bisogno scaturisce il parallelo tra l'Italia di Machiavelli e la Germania di quel tempo, entrambe disarticolate e frammentate in una miriade di Stati e staterelli; e da questo parallelo nasce l'appassionata difesa che il filosofo tedesco fa del pensiero di Machiavelli. Ma ascoltiamo le parole dello stesso Hegel.

Nel tempo della sventura, quando l'Italia correva verso la sua miseria ed era il campo di battaglia delle guerre che i prìncipi stranieri conducevano nelle sue regioni, e insieme forniva i mezzi per le guerre e costituiva il prezzo di esse, quando essa affidava la sua propria difesa all'assassinio, al veleno, al tradimento o alle passioni della plebaglia straniera, le quali per i suoi assoldatori erano costose e devastatrici e ancor più spesso temibili e pericolose, mentre poi tra i suoi condottieri alcuni si elevavano a prìncipi; quando Tedeschi, Spagnoli, Francesi e Svizzeri la saccheggiavano e governi stranieri decidevano sulla sorte di questa nazione: allora, nel profondo sentimento della generale miseria, dell'odio, dello scompiglio, della cecità un uomo di Stato italiano con fredda assennatezza concepì l'idea necessaria della salvezza dell'Italia attraverso la sua unione in un solo Stato. Egli descrisse con rigorosa coerenza la via che rendevano necessaria tanto questa salvezza quanto la corruzione e il cieco furore del tempo; e chiamò il suo principe ad assumersi l'elevato ruolo di un salvatore dell'Italia e la gloria di porre fine alla sventura [...].

Hegel difende con vigore Machiavelli dalle accuse che gli sono state tradizionalmente rivolte: in primo luogo, egli dice che un uomo che parla con una passione così vera e profonda non poteva avere né «abiezione nel cuore, né capriccio per il capo». Il suo fine, poi, basterebbe a rendergli onore: riunire il popolo in uno Stato. Solo nello Stato, infatti, è possibile, secondo Hegel, la libertà; lo Stato è una delle manifestazioni più alte dell'eticità dell'uomo, ossia della sua capacità di uscire dal particolarismo, dall'egoismo, dalla ristretta sfera dei bisogni individuali. Ma invece di vedere nel Principe un'opera animata da un intento così alto, prosegue Hegel, si è visto in esso soltanto un manuale di tirannia. E c'è di più: nei casi in cui è stata riconosciuta la nobiltà del fine, è stata tuttavia aspramente criticata la scelta dei mezzi. Qui Hegel attacca con durezza tale posizione, nella quale vede un tipico esempio della "morale comune":

e se esso [il fine nobile] è pur concesso, però, si dice, i mezzi sono esecrabili e qui la morale ha un'ampia possibilità di tirar fuori le sue trivialità, che lo scopo non santifica i mezzi, ecc. Qui però non si può parlare di alcuna scelta di mezzi: le membra cancrenose non possono esser curate con l'acqua di lavanda. Una situazione in cui veleno e assassinio sono divenute armi consuete, non sopporta nessun blando antidoto. Una vita vicina alla putrefazione può essere riorganizzata soltanto attraverso il comportamento più energico.

La morale comune è per Hegel individualistica e astratta, proprio perché l'individuo - considerato al di fuori di quei legami che lo avvincono alla società, allo Stato, al suo tempo - non è che un'astrazione. Occorre dunque considerare il tempo e le condizioni dell'Italia di Machiavelli, per comprendere i mezzi proposti dal Fiorentino; e non giudicarli da quel non-luogo e non-tempo nel quale si colloca l'ideale astratto.

Il terzo argomento con il quale Hegel difende Machiavelli è sulla stessa linea, ossia si basa sul richiamo alla storia:

è sommamente irrazionale il trattare l'esecuzione di un'idea che è sorta immediatamente dall'osservazione della situazione dell'Italia come un compendio di princìpi politico-morali onnivalente, per tutte le circostanze, cioè adatto a nessuna situazione specifica. Si deve giungere alla lettura del Principe immediatamente dalla storia dei secoli trascorsi prima di Machiavelli, con l'impressione che questa ci ha dato; esso così non solo viene giustificato, ma apparirà come una concezione sommamente grande e vera di una autentica mente politica di grandissimo e nobilissimo sentire.

Ma al di là di queste argomentazioni, è l'idea stessa di costituire lo Stato che, agli occhi di Hegel, possiede un infinito valore e che deve farci valutare il comportamento del Principe in tutt'altro modo:

da questo lato il comportamento del Principe appare sotto tutt'altro aspetto. Ciò che, qualora fosse compiuto da un privato, sarebbe esecrabile, è ormai una giusta punizione. Verso uno Stato l'effettuazione dell'anarchia è il delitto supremo, o piuttosto l'unico delitto; poiché tutti i delitti di cui lo Stato s'interessa mettono capo ad esso; e quelli che aggrediscono lo Stato stesso non mediamente come gli altri delinquenti, bensì immediatamente, sono i più grandi delinquenti e lo Stato non ha nessun dovere superiore a quello di conservare se stesso e di annientare nel modo più sicuro la potenza di questi delinquenti.

Ancora una volta, proprio come in Machiavelli, lo Stato è il bene supremo e dunque l'assenza di Stato è il male peggiore: non c'è un principio che superi lo Stato. E dunque l'obiettivo politico è in tal misura "etico", che - sostiene Hegel pensando alla situazione della Germania - va perseguito, se necessario, con la forza:

la massa comune del popolo tedesco con i suoi stati regionali, che non vogliono sapere altro che la scissione delle popolazioni tedesche e ai quali la riunificazione di esse è qualcosa di estraneo, dovrebbe esser riunita in un solo corpo attraverso la forza di un conquistatore; essi dovrebbero esser costretti a considerarsi appartenenti alla Germania.

Ma che cos'è uno Stato, per Hegel? E' qualcosa di organico, di coeso e compatto; è un "intero", una totalità organica rispetto alla quale le parti (cioè, gli individui) non sono che membra, articolazioni. In caso contrario, non si dà uno Stato, ma solo un'aggregazione instabile. L'Impero germanico è infatti crollato, dice Hegel, perché esso era simile ad un mucchio di pietre

che si uniscono per costruire una piramide, ma che, perfettamente tonde, devono restare tali, senza incastrarsi: non appena la piramide incomincia a muoversi verso il fine per il quale essa si è formata, ecco che si disfà, o, nel migliore dei casi, non regge al minimo urto.

La concezione hegeliana dello Stato - è stato opportunamente osservato - non è dunque individualistica (come nei pensatori giusnaturalisti)[37], bensì organicistica: lo Stato non è un aggregato di individui che si uniscono per meglio proteggere i loro diritti individuali, bensì un organismo in cui, come in ogni organismo, le parti obbediscono alla logica del "tutto", e i singoli si sentono (e sono) articolazioni di una totalità, e agiscono in vista della coesione e della difesa di quest'ultima. Questa visione dello Stato, che compare in questo primo scritto politico, non verrà mai abbandonata dal filosofo tedesco.

Tale concezione profondamente unitaria non impedisce a Hegel - sempre nella Costituzione della Germania - di polemizzare a più riprese con il centralismo amministrativo francese:

la pedante mania di voler determinare ogni dettaglio, l'illiberale gelosia per ogni ordinamento e amministrazione di uno stato, di una corporazione, ecc., questa critica meschina di ogni azione privata dei cittadini dello Stato che non abbia un rapporto diretto al potere dello Stato, ma solo un qualche rapporto generale, si è rivestita dell'abito dei princìpi razionali, secondo i quali nessun soldo proveniente dal lusso comune, che venga adoperato per i poveri in una regione di 20 o 30 milioni di abitanti, può essere elargito senza che prima ciò sia stato, non solo concesso dal governo supremo, ma anche comandato, controllato, sorvegliato. Nella cura dell'educazione, la nomina di ogni maestro di ogni scuola rurale, la spesa di ogni pfennig per ogni vetro di finestra della scuola rurale - come della stanza del consiglio del villaggio, la nomina di ogni portiere o guardiano di tribunale, di ogni giudice di villaggio - deve essere un'emanazione e un prodotto del governo supremo; ogni boccone che provenga dal terreno che lo costituisce dev'essere portato alla bocca secondo una direzione che è esaminata, calcolata, legittimata e comandata attraverso lo Stato, la legge e il governo.

Ma la rivendicazione di un ampio decentramento - in tutto ciò che Hegel ritiene "accidentale" - non toglie che il potere centrale sia fortissimo e che l'intero Stato rimanga sempre un organismo nel quale le parti sono per principio subordinate al tutto.

Passiamo ora alla formulazione matura del pensiero politico di Hegel, contenuta nella Filosofia del diritto (1821). Poichè le tematiche socio-politiche si trovano in un punto ben preciso del complesso sistema filosofico elaborato da Hegel, sarà opportuno dare qualche indicazione, sia pure sommaria, su di esso.

Anzitutto il sistema hegeliano - che è scandito, in ogni sua parte, dal ritmo triadico della dialettica - si articola in tre grandi partizioni: la logica (la scienza dell'Idea in sé e per sé), la filosofia della natura (la scienza dell'Idea nel suo alienarsi da sé) e la filosofia dello Spirito (la scienza dell'Idea che dal suo alienamento ritorna in sé). Al culmine del sistema sta dunque la filosofia dello Spirito, che a sua volta si articola in tre momenti: lo Spirito soggettivo (che è lo spirito individuale, considerato nel suo lento e progressivo emergere dalla natura, dalle forme più elementari a quelle più mature della vita psichica), lo Spirito oggettivo (che è lo spirito così come si manifesta nelle concrete istituzioni sociali) e infine lo Spirito assoluto (che è il momento in cui lo Spirito giunge alla piena consapevolezza della propria infinità, tramite le forme dell'arte, della religione e della filosofia). La sezione che ci interessa è ovviamente quella dello Spirito oggettivo, giacché in essa troviamo il pensiero socio-politico di Hegel. Anche lo Spirito oggettivo, a sua volta, si articola in tre momenti: diritto, moralità, eticità. Il volere libero che caratterizza l'uomo si manifesta anzitutto come volere del singolo, considerato come persona fornita di capacità giuridiche: siamo dunque nella sfera del diritto, che Hegel definisce astratto o formale, giacché riguarda l'esistenza esterna della libertà delle persone, concepite come puri soggetti di diritti, indipendentmente dai caratteri specifici e dalla condizioni concrete che li differenziano tra di loro. La persona trova la garanzia esterna della propria libertà nella proprietà, che - per essere reciprocamente riconosciuta - ha bisogno dell'istituto giuridico del contratto. Nella sezione dedicata al diritto troviamo il noto attacco alle teorie giusnaturalistiche: anzitutto, Hegel nega che in natura possano esistere dei diritti, dal momento che questi sorgono soltanto là dove esista una relazione sociale di reciproco riconoscimento, con la quale gli individui sono già oltre l'immediatezza della loro vita naturale; in secondo luogo, spiegare la complessa realtà delle istituzioni politiche basandosi su forme giuridiche elementari come il contratto costituisce, agli occhi di Hegel, un tentativo assurdo e inconsistente.

Ma vediamo come avviene il passaggio dal diritto alla moralità: le norme giuridiche, nella loro oggettività, chiedono al singolo un'obbedienza soltanto esterna o formale, che non implica il suo assenso o coinvolgimento interiore; il passaggio alla sfera della moralità avviene per l'appunto quando all'autorità esterna della legge subentra l'interiorizzazione del dovere. Qui la volontà libera dell'individuo non si identifica più con una "cosa" (la proprietà), ma con una condizione interiore: dalla persona giuridica siamo così passati al soggetto morale. La libertà interiore, osserva Hegel, era ignota agli Antichi, mentre contraddistingue la forma moderna dell'individualità: essa «è venuta al mondo per opera del Cristianesimo, per il quale l'individuo come tale ha valore infinito», indipendentemente dal suo rango sociale. Il cittadino degli Stati moderni, a differenza di quello della polis greca, non si identifica in modo immediato e irriflesso con le norme e i valori collettivi della società alla quale appartiene; le norme e i valori provenienti dall'ordinamento sociale e politico devono avere adesione, riconoscimento o anche fondamento nel suo cuore, nella sua disposizione d'animo, nella sua coscienza e nella sua intelligenza.

Tuttavia, anche la forma della moralità è solo un momento della dialettica dello Spirito oggettivo e come tale deve essere superata: essa infatti, in quanto sgorga da un proponimento, prende la forma dell'intenzione, la quale, sollevandosi all'universalità, persegue il bene; ma il bene, in questa fase, è soltanto un'idea astratta, che per raggiungere l'esistenza concreta ha bisogno di una volontà soggettiva altrettanto astratta, la quale può anche essere "cattiva", ossia incapace di realizzare il dovere. In altri termini, il dominio della moralità è caratterizzato dalla separazione tra la soggettività (che deve realizzare il bene) e il bene (che deve essere realizzato): quest'ultimo rimane pertanto soltanto un dover-essere. Da ciò la contraddizione tra essere e dover-essere, che è tipica della morale, soprattutto di quella kantiana, che Hegel critica per la sua formalità e astrattezza, cioè per la sua mancanza di contenuti concreti e per la sua impotenza a realizzarsi nella realtà.

La separazione tra soggettività e bene viene superata nella sfera dell'eticità, nella quale il bene si è attuato concretamente, pervenendo all'esistenza. Infatti, mentre la moralità è la volontà soggettiva - cioè interiore e privata - del bene, l'eticità è la moralità sociale, ovvero la realizzazione del bene in quelle forme istituzionali che sono la famiglia, la società civile e lo Stato. In altre parole, il dovere trova un contenuto concreto nei compiti etici che attendono ogni individuo e che sono determinati dal suo ruolo familiare, sociale e politico, all'interno degli ordinamenti esistenti: in questo quadro, il bene non è più un irraggiungibile ideale della coscienza individuale, ma un mondo storico-sociale presente, qui e ora, come razionalità in atto. L'eticità rappresenta dunque il superamento della spaccatura tra interiorità ed esteriorità, che è propria della morale del dovere; nello stesso tempo, configurandosi come una sorta di morale che ha assunto le forme del diritto (giacché si realizza esternamente in precise forme istituzionali), o come una sorta di diritto che ha assunto le forme della morale (giacché lo scopo di quelle forme istituzionali esterne è il perseguimento del bene universale), l'eticità risulta in grado di superare le opposte unilateralità del diritto e della morale. Nel tipico linguaggio di Hegel, il diritto e la moralità non sono che due astrazioni, la cui verità è l'eticità: nell'universale "sostanza etica" di un popolo (vale a dire, in un sistema definito di valori che si incarnano in un certo quadro politico-istituzionale) l'individuo raggiunge quella concreta consistenza che mancava alle figure ancora astratte della persona giuridica e del soggetto morale.

Delineato il complesso sistema nel quale si colloca la riflessione socio-politica di Hegel, possiamo ora passare a vederne più da vicino i contenuti. Ci troviamo dunque nella sfera dello Spirito oggettivo e, all'interno di questa, nella sezione dell'eticità, il cui primo momento, come ho già accennato, è la famiglia: questa costituisce il momento immediato o naturale dell'eticità, poiché al suo interno i legami di amore, benevolenza e assistenza reciproca si fondano su un vincolo di tipo naturale. Il compimento della famiglia sta nell'educazione dei figli che, una volta cresciuti e divenuti personalità autonome, escono dalla famiglia per dare origine a nuove famiglie, ognuna avente un proprio interesse. In tal modo si trapassa nel secondo momento dell'etiticità, costituito dalla società civile.

Quella della società civile è forse la sezione più importante dello Spirito oggettivo. Vediamo perché. Abbiamo già detto che Hegel manifestò sempre il più vivo interesse per quei processi che si svolgono, per così dire, "al di sotto" della politica, e senza i quali quest'ultima non potrebbe essere compresa. Infatti Hegel studiò a fondo tanto le dinamiche sociali (ad esempio, nella Rivoluzione francese), quanto i processi economici (attraverso la lettura delle opere di Steuart, Smith e Say). Ed è proprio nella sezione dedicata alla società civile che noi abbiamo un preciso riscontro di tali studi: qui, infatti, le considerazioni di carattere economico sono strettamente intrecciate all'analisi dei rapporti sociali e giuridici. La trattazione che ne risulta - ossia, l'aver dato autonoma collocazione al momento della "società civile", distinguendola dallo "Stato" - è rilevante per tre motivi:

1) perché Hegel sente il bisogno di distinguere tra la sfera economico-sociale e la sfera dello Stato. Una distinzione che Marx farà sua e che è entrata nell'uso corrente; ancora oggi, infatti, noi non distinguiamo - come facevano i giusnaturalisti - tra stato di natura e stato civile o politico, intendendo quest'ultima come lo spazio regolato dalle norme dello Stato; ma distinguiamo tra società civile (intesa come insieme di rapporti civili, economici, sociali, culturali) e Stato, come luogo delle istituzioni specificamente politiche;

2) perché Hegel dà una rappresentazione fortemente critica della società civile, attraverso una descrizione che ricava dalla società borghese più avanzata del suo tempo (ossia l'Inghilterra);

3) perché Hegel istituisce un collegamento molto complesso tra società civile e Stato.

La società civile, come sempre, si articola in tre momenti: il primo è il sistema dei bisogni (che contiene quella descrizione della società borghese moderna ricavata dalle opere degli economisti politici), il secondo è l'amministrazione della giustizia e il terzo è costituito dalla sicurezza pubblica (Polizei) e dalle corporazioni.

Al suo primo apparire, come sistema dei bisogni, la sfera della società civile si caratterizza subito, secondo Hegel, per una "perdita" di eticità. Mentre nella famiglia, infatti, si dà uno spirito etico immediato o naturale - evidente nei legami di amore e solidarietà che si stabiliscono in maniera irriflessa -, nel sistema dei bisogni ognuno si comporta verso gli altri in modo esterno e autonomo, perseguendo cioè il proprio interesse o vantaggio, a prescindere da quello altrui. Il sistema dei bisogni viene pertanto definito da Hegel come il "sistema dell'atomistica", ossia quel sistema nel quale ogni individuo persegue il proprio particolare (atomistico) interesse: ragion per cui la società civile si trasforma in un campo di battaglia dove, in nome dell'interesse privato, tutti combattono contro tutti.

E' anche vero, tuttavia, che Hegel sottolinea come, grazie alla divisione del lavoro e allo scambio, l'egoismo dell'individuo e il suo apparente isolamento si rovescino in un «sistema di dipendenza universale, per cui la sussistenza e il benessere del singolo e la sua esistenza giuridica sono intrecciate con la sussistenza, il benessere e il diritto di tutti». Si tratta di considerazioni che potrebbero essere avvicinate alla teoria smithiana della "mano invisibile", secondo la quale nella società civile, attraverso il meccanismo della concorrenza, il perseguimento degli interessi particolari condurrebbe, inintenzionalmente, al soddisfacimento degli interessi generali. Ma, in realtà, il giudizio di Hegel sulla società civile rimane assai negativo, giacché egli non condivide l'ottimismo smithiano sugli effetti spontanei del mercato e perché, qualora tali esiti positivi si realizzino, essi sono solo il frutto di una "necessità cieca", priva di reale razionalità. Pur apprezzando la conquista moderna dell'individualità come libertà civile, che premia e stimola i talenti individuali, Hegel è convinto che tale libertà, lasciata a se stessa, produca inevitabili e drammatici squilibri. Tanto che la società civile, nei suoi contrasti, finisce per offrire lo «spettacolo della dissolutezza, della miseria, e della corruzione fisica ed etica».

Ma allora perché Hegel colloca la società civile, che produce simili effetti, nel momento dell'eticità? In primo luogo, perché in quanto sfera economica essa è il luogo dove gli uomini soddisfano i loro bisogni, entrando in molteplici rapporti di collaborazione e creando quindi un tessuto sociale articolato e complesso, che può essere considerato uno sviluppo di quel primo tessuto sociale che è la famiglia (con la quale si dà dunque una certa continuità). In secondo luogo, perché la società civile è caratterizzata dal lavoro, ed è soltanto con il lavoro, secondo Hegel, che l'uomo si solleva al di sopra della mera naturalità:

nella produzione - ha osservato Bedeschi - l'uomo trasforma e domina la natura; al tempo stesso egli entra in contatto con gli altri uomini, poiché il lavoro è sempre lavoro sociale; lavoro e produzione umani non sono solo processi materiali, ma costituiscono anche un intreccio di idee, di rappresentazioni, di aspirazioni e di fini storicamente determinati, e al tempo stesso in costante divenire; la cultura pratica sviluppa la cultura teoretica, in un processo ininterrotto. Ci troviamo dunque in uno dei punti più alti dello spirito oggettivo.

Detto questo, il giudizio complessivo di Hegel sulle contraddizioni prodotte della società civile rimane assai negativo: essa è infatti, come abbiamo già ricordato, caratterizzata dalla ricerca del massimo profitto o utile, dall'accumulazione in poche mani di ricchezze sproporzionate, dalla dipendenza e dalla povertà degli operai dell'industria, il cui lavoro, inoltre, è sempre più parcellizzato e diviso, e quindi limitato e ottuso. Tutto ciò determina, secondo Hegel, il «decadere di una grande massa al di sotto della misura di un certo modo di sussistenza», dando luogo in tal modo alla «formazione della plebe». Qui Hegel anticipa i temi della questione sociale, che avrebbero dominato la seconda metà dell'Ottocento. Attenzione, però: nonostante gli spunti fortemente critici di Hegel verso il meccanismo della società civile borghese, non si deve incorrere nella tentazione di farne un pre-marxista. Il filosofo tedesco, infatti, come è stato opportunamente ricordato, da un lato tiene fermo al principio della proprietà privata, nella quale vede la manifestazione essenziale della spiritualità e della libertà umana; e, dall'altro lato, condanna come vuota astrazione l'ideale dell'eguaglianza sociale, visto che la realtà ci mostra come gli uomini siano diseguali tra loro per doti fisiche, per attitudini e talenti, per doti intellettuali e morali.

Ma osserviamo più da vicino l'articolazione della società civile hegeliana. Al suo interno si danno tre classi o ceti: la classe sostanziale, che è quella dei proprietari terrieri, largamente rimessa alla natura e ai cicli naturali; la classe riflessa o formale, che è quella dell'industria, la quale ha per suo compito l'elaborazione dei prodotti naturali e che deve trarre i propri mezzi di sussistenza dalla riflessione e dall'intelletto (tale classe si divide a sua volta in tre ceti: artigiani, operai e commercianti); infine la classe generale, composta dai burocrati dello Stato, che ha per proprio compito la cura degli interessi generali.

E' bene ricordare che Hegel annette la massima importanza alle classi sociali, perché in esse l'individuo esce dalla propria semplice privatezza e si colloca in una dimensione universale. Il filosofo tedesco polemizza dunque contro coloro i quali ritengono che quando un individuo entra a far parte di una classe, in questo modo egli limiti e perda se stesso, e che mutili in certa misura la propria personalità; in realtà, sostiene Hegel, quando si dice che un uomo deve essere qualcosa o qualcuno, si intende dire che egli deve appartenere a una determinata classe, perché solo così egli sarà qualcosa di sostanziale.

Quanto agli altri momenti della società civile, vale la pena di soffermarsi non tanto sull'amministrazione della giustizia (che Hegel inserisce subito dopo il sistema dei bisogni perché i rapporti civili richiedono una serie di regole e garanzie reciproche), quanto sulla Polizia e sulla Corporazione. Con il concetto di 'polizia' Hegel intende l'insieme dei provvedimenti con i quali lo Stato interviene nella vita economica e sociale nell'interesse della collettività, in particolare per aiutare coloro i quali soccombono nelle lotte economiche. Hegel non teme, come Kant o come i liberali in genere, lo Stato eudemonistico o lo Stato interventista: egli è infatti convinto che i compiti dello Stato non possano restringersi alla tutela della proprietà e della personalità, ma che debbano estendersi a garantire la sicurezza e stabilità della vita di tutti i cittadini. In particolare lo Stato dovrà difendere gli individui contro il fortuito della vita sociale, nonché contro le conseguenze di azioni economicamente necessarie, giuridicamente lecite, ma dannose dal punto di vista dell'interesse collettivo. Si tratta di situazioni sociali che non ammettono di essere regolate mediante norme giuridiche oggettivate, e che possono essere affrontate soltanto tramite atti particolari della pubblica amministrazione. In sostanza, proprio perché Hegel è pessimista circa il funzionamento autonomo della sfera economico-sociale moderna, egli si pone il problema dell'intervento dello Stato: mentre nella famiglia, infatti, l'individuo è seguito e sostenuto affinché partecipi alla vita e alle attività sociali, nella società civile l'individuo è lasciato solo, nella accidentalità e nell'insicurezza. Questa situazione, osserva acutamente Hegel, colpisce soprattutto gli addetti dell'industria, dal momento che tale ramo di attività economiche si colloca all'interno di un mercato avente dimensioni mondiali: ciò fa sì che i meccanismi di evoluzione economica rimangano assai lontani dagli individui, rendendo loro difficilissimo essere "previdenti". Per combattere questi inconvenienti gli interventi ad hoc della pubblica amministrazione (ossia, il momento della 'polizia') non sono tuttavia sufficienti; Hegel si affida quindi in gran parte alle corporazioni.

Si tratta di un altro tema di grande importanza: la società moderna, per Hegel, deve essere corporativa. Mentre la classe sostanziale e quella generale sono coese e compatte, la classe dell'industria è afflitta dal particolarismo e dall'egoismo: pertanto essa dovrà essere organizzata in modo corporativo. In sostanza, Hegel, con le corporazioni, si propone di restituire alla società civile quei rapporti di solidarietà, quei vincoli di unità e quei legami organici, che essa in un primo tempo sembrava escludere, condannata com'era alla «perdita dell'eticità». E infatti Hegel dice che «accanto alla famiglia, la corporazione costituisce la seconda radice etica dello Stato, la radice profondata nella società civile». Se il singolo non fosse componente di una corporazione legittima (ovvero autorizzata dallo Stato), esso sarebbe senza dignità di classe, e sarebbe ridotto, dal suo isolamento, al lato egoistico dell'industria.

Hegel lamenta, quindi, l'abolizione delle corporazioni che ha caratterizzato il mondo moderno: di qui è derivato, a suo parere, non solo un danno sociale, ma anche etico-politico. Le società moderne, rispetto alle antiche, consentono infatti soltanto una partecipazione limitata agli affari dello Stato; ma tale partecipazione è essenziale per lo sviluppo etico, perché solo partecipando agli interessi generali l'uomo supera le proprie finalità strettamente private ed acquista la sua eticità. Ora, la corporazione offriva quella partecipazione che nelle società moderne lo Stato non può dare.

Quanto all'efficacia di tale soluzione, ha osservato Bedeschi,

se è vero che Hegel non concepisce le corporazioni come le vecchie gilde restrittive (egli ha cura di sottolineare più volte che «in sé e per sé la corporazione nom è una casta chiusa», e che anzi lo Stato deve vigilare su di essa, sul suo funzionamento, per evitare che essa si chiuda in sé e si degradi a misero regime di casta), è altrettanto vero che è difficile sottrarsi all'impressione che egli sia ricorso a strumenti tutto sommato arcaici per porre rimedio ai problemi moderni della concorrenza e dell'atomismo. La corporazione hegeliana, infatti, mostra chiaramente i propri legami «con il pensiero organicistico-romantico» ... . Del resto, non è certo un caso che un ordinamento corporativo non abbia avuto possibilità di attuarsi da nessuna parte, e men che mai là dove la società borghese ha avuto un forte sviluppo (a meno che non si voglia vedere nelle corporazioni ... i sindacati; ma questa è una bizzarria sulla quale non mette conto di spendere parole). Inoltre, è parimenti difficile sottrarsi all'impressione che Hegel attribuisca alle corporazioni un ruolo tutto sommato troppo impegnativo: esse, infatti, dovrebbero trasformare la società civile borghese moderna in qualcosa d'altro, cioè in un organismo coeso e compatto, capace quindi di trapassare da uno stadio di eticità solo relativa a quello stadio di eticità piena e assoluta che è proprio dello Stato. («Il fine della corporazione, - dice Hegel - in quanto limitato e finito, ha la sua verità [...] nel fine universale in sé e per sé, e nella assoluta realtà di esso; la sfera della società civile trapassa quindi nello Stato».) Obiettivo troppo impegnativo, e tutto sommato irrealistico, dicevamo; ma anche tale da ledere o da imbrigliare, se realizzato, il meccanismo dell'antagonismo, della concorrenza, del conflitto sociale, senza il quale non c'è «società civile», ovvero non c'è società moderna. Lo sguardo di Hegel sembra rivolto qui più al passato che non al futuro.

Veniamo infine al terzo momento dell'eticità, ossia allo Stato. Esso è il culmine dello Spirito oggettivo: ciò significa che nello Stato si compenetrano e fondono il principio della famiglia (che è unità sostanziale, ma immediata e irriflessa) e quello della società civile (che è il diritto della particolarità, mediato, ma in modo cieco e inconsapevole, dall'universale). Lo Stato è dunque la manifestazione più alta dell'eticità, in quanto con esso sorge qualcosa di assolutamente nuovo, una unificazione reale e profonda degli individui. Nello Stato l'universale non è più astratto, perché ricomprende il particolare; e il particolare non è più unilaterale, perché viene ricondotto consapevolmente all'univerale. Per Hegel lo Stato è il razionale in sé e per sé.

Ma andiamo al di là delle formule. In sostanza, Hegel si propone di soddisfare due esigenze. Da un lato, egli non può concepire lo Stato in funzione degli individui (come accade nel pensiero liberale), cioè non può far sua una visione strumentale dello Stato; nella sua concezione, infatti, il tutto viene prima delle parti, le quali si costituiscono grazie ad esso, e similmente gli individui acquistano senso e significato solo all'interno dello Stato e in virtù di esso. Dall'altro lato, Hegel è convinto che lo Stato moderno non debba disconoscere i diritti civili dei singoli (conquistati dalla Rivoluzione francese), ma farne uno dei suoi momenti essenziali. In realtà la soluzione di Hegel, che vorrebbe vedere questi due aspetti organicamente fusi, conduce ad un difficile equilibrio, nel quale l'individuo soccombe. Lo Stato, in quanto manifestazione più alta dell'eticità, lascia infatti ben poco spazio all'individuo e alle sue ragioni. Hegel compie una vera e propria divinizzazione dello Stato: «l'ingresso di Dio nel mondo - egli scrive - è lo Stato; il suo fondamento è la potenza della ragione che si realizza come volontà». A fronte di ciò, gli individui sono soltanto elementi accidentali, che nulla hanno di autonomo da proporre o da rivendicare: «Tutto ciò che l'uomo è, egli lo deve allo Stato: solo in esso egli ha la sua essenza. Ogni valore, ogni realtà spirituale, l'uomo l'ha solo per mezzo della Stato».

Ma perché Hegel avrebbe compiuto una simile divinizzazione? Uno dei motivi profondi sta nella connessione istituita tra popolo (inteso come stirpe) e Stato. Una connessione così stretta da costituire un'identità:

nell'esistenza di un popolo lo scopo sostanziale è di essere uno Stato e di mantenersi come tale: un popolo senza formazione politica (una nazione come tale) non ha propriamente storia; senza storia esistevanto i popoli prima della formazione dello Stato, e altri ancora esistono, come nazioni selvagge.

Si tratta di una visione per comprendere la quale occorre fare riferimento alla filosofia della storia di Hegel. Per Hegel la storia è una successione di popoli, ciascuno dei quali esprime un principio, contribuendo in tal modo alla realizzazione del Weltgeist, dello Spirito del mondo. La manifestazione più alta di un popolo è la sua costituzione politica, che non è affatto qualcosa di casuale o arbitrario, ma è intimamente connessa con la religione, l'arte, la filosofia, i costumi e l'economia di quel popolo. Si tratta di una concezione tipicamente romantica, che fa perno sulla sostanza spirituale di un popolo, sullo spirito del popolo. Questo spirito è in sostanza il genio nazionale di un popolo, dal quale proviene tutto ciò che quel popolo realizza. In una tale concezione lo Stato non è espressione od opera degli individui, bensì dello spirito del popolo; e gli individui hanno senso e significato solo all'interno dello Stato, solo grazie ad esso. In questo quadro la concezione giusnaturalistico-contrattualistica del rapporto cittadino-Stato viene completamente rovesciata, poiché «lo Stato non esiste per i cittadini», bensì «esso è il fine, e quelli sono i suoi strumenti». Ne segue che, poiché uno Stato ha una costituzione e delle leggi, l'individuo deve obbedire a quella costituzione e a quelle leggi: e solo in tale obbedienza egli ha la propria libertà.

Da queste considerazioni, è facile intuire che le posizione di Hegel si contrapporranno al giusnaturalismo e al contrattualismo. Hegel respinge il concetto stesso di stato di natura, perché la natura dell'uomo è la spiritualità, la razionalità; lo stato di natura non è altro, ai suoi occhi, che lo stato della bestialità. Ora, poiché in tale stato non esiste alcuna razionalità (mentre per tutti i giusnaturalisti esisteva, anche se era inefficace), non esiste alcun stato giuridico che precede quello della società e dello Stato, e dunque non esiste alcun diritto originario come diritto naturale pre-esistente alla società e alla politica. Del resto, l'anti-individualismo di Hegel è fortissimo; riprendendo una nota affermazione di Aristotele, egli afferma che

il popolo [Volk, ma Aristotele aveva detto polis] è precedente al singolo; se infatti il singolo separato non è nulla di autonomo, esso deve, similmente alle altre parti, essere in una unità col tutto. E chi non può essere socievole oppure per la sua autonomia non ha bisogno di ciò, non è parte del popolo, perciò è o belva o Dio.

Di qui un completo rovesciamento: mentre per i giusnaturalisti il popolo è un insieme di individui che decidono di unirsi in una società politica, la quale è un ente artificiale, un posterius e non un prius, per Hegel, invece, il tutto viene prima della parte, il popolo prima del singolo.

Quanto al contratto, Hegel lo trova un'idea inservibile per intendere la natura dello Stato, sia perché applica al diritto pubblico le categorie del diritto privato, sia perché introduce un elemento di indipendenza e di indifferenza tra le componenti costitutive dello Stato:

basta riflettere un momento - afferma Hegel - per rendersi conto che la coesione tra principe e suddito, tra governo e popolo, ha a proprio fondamento una unità originaria e sostanziale, e che nel contratto si prende le mosse, invece, dal contrario, cioè dall'egual indipendenza e indifferenza delle parti, l'una rispetto all'altra; l'accordo che esse stipulano su qualche cosa è un rapporto casuale, che nasce dal bisogno e dall'arbitrio soggettivo di entrambi.

Come si vede, la critica di Hegel al giusnaturalismo e al contrattualismo viene condotta sempre in nome della sussunzione di tutti gli individui in un universale, cioè in nome di un organicismo che respinge l'idea dello Stato come aggregato di individui e lo concepisce piuttosto come un Intero che si articola in parti, in modo tale che, essendo ogni parte solo una rifrazione dell'Intero, ciascuna ha senso solo all'interno di esso.

Resta da vedere quale significato abbia in Hegel il termine costituzione. Esso non va infatti confuso con il significato che gli attribuisce il costituzionalismo liberale[38], giacché in Hegel indica semplicemente l'organizzazione dello Stato. Ne segue che la costituzione non è ovviamente il frutto di un'elaborazione a tavolino: ogni popolo che abbia raggiunto un certo livello di civiltà ha sempre la costituzione che gli è adeguata. Questa non potrà mai essere abolita, bensì soltanto modificata; inoltre - come il filosofo non manca di sottolineare - «il presupposto stesso di una costituzione contiene immediatamente che la modifica possa avvenire soltanto per via conforme alla costituzione» medesima. Dove si vede che Hegel non può concepire mutamenti costituzionali violenti o rivoluzionari, ma solo interventi riformatori nell'ambito del sistema politico-istituzionale esistente.

Ma che struttura ha lo Stato hegeliano? Egli prevede tre poteri: legislativo, esecutivo, sovrano. Si tratta quindi di una monarchia costituzionale. Ma attenzione: Hegel non parla di separazione dei poteri, anzi polemizza apertamente con Montesquieu, perché il teorico francese avrebbe trasformato il giusto principio della differenza, della differenziazione e della articolazione in un principio di ostilità e di timore di ciascun potere di fronte all'altro. Il sistema dei contrappesi produce forse un equilibrio, osserva Hegel, ma non un'unità vivente; e inoltre la limitazione reciproca può solo condurre alla distruzione dell'unità dello Stato. Hegel non prende nemmeno in considerazione (se non di sfuggita, e per liquidarla) l'idea che sta al fondo della teoria di Montesquieu, e cioè che il potere deve essere il più possibile frazionato e diviso, e che nella divisione e nell'equilibrio fra i vari poteri risiede la migliore garanzia contro il dispotismo. Per Hegel, al contrario, ciascuno dei poteri che costituiscono lo Stato «è la totalità, per il fatto che esso ha attivi in sé e contiene gli altri momenti», sicché non si può assolutamtne parlare di divisione dei poteri, bensì di una loro connessione organica: soluzione che può apparire astratta e «speculativa», ma che, in realtà, sviluppa una teoria dello Stato politico come qualcosa di armonico, di privo di conflitti.

Quanto al potere del monarca, Hegel lo contrappone frontalmente alla sovranità popolare:

in tale antitesi - egli dice - la sovranità popolare appartiene alla confusa concezione, della quale sta a base la rozza rappresentazione di popolo. Il popolo, considerato senza il suo monarca e senza l'organizzazione necessariamente e immediatamente connettiva della totalità, è la moltitudine informe, che non è più Stato, alla quale non spetta più alcuna delle determinazioni che esistono soltanto nella totalità formata in sé - sovranità, governo, giurisdizione, magistratura, classi, e qualsiasi altra.

Per quanto riguarda le prerogative del monarca, Hegel dice che in una perfetta organizzazione dello Stato, il re «preme soltanto il culmine della decisione formale [...]. Pertanto, a torto si esigono in un monarca qualità oggettive; egli deve dire soltanto e mettere il puntino sulla i». E poco dopo Hegel ribadisce che «in una monarchia bene ordinata, appartiene unicamente alla legge il lato oggettivo, ossia a che cosa il monarca debba soltanto apporre l''io voglio' soggettivo». Al di là dell'apparente simbolicità del potere del monarca, Hegel non indica alcun limite preciso ai suoi poteri, che sono peraltro molto estesi, giacché egli nomina tutti i funzionari dello Stato.

Quanto al potere governativo, Hegel non svolge considerazioni di particolare interesse, salvo idealizzare la classe dei burocrati (è la coscienza dello Stato, dice, e la cultura più eminente). Ma è nel potere legislativo che possiamo misurare tutta l'arretratezza di Hegel. Da un lato, egli esalta il ruolo della rappresentanza, perché vede in essa un indispensabile raccordo tra società civile e Stato. Senza tale mediazione, la società civile non potrebbe far valere i propri interessi e la sfera politico-statuale resterebbe isolata: il risultato sarebbe che la prima verrebbe repressa e la seconda si trasformerebbe in una struttura arbitraria. Hegel considera quindi la rappresentanza un elemento fondamentale dello Stato moderno. Dall'altro lato, tuttavia, egli la concepisce in modo feudale, senza alcun collegamento con il principio della sovranità popolare.

Sono venute di moda - egli dice - un numero indicibilmente grande di storte e false concezioni e di modi di dire intorno al popolo, alla costituzione e alle classi, che sarebbe vana fatica volerle citare, discutere e rettificare, La concezione che, anzitutto, suole aver dinanzi la coscienza comune, intorno alla necessità o all'utilità del concorso delle classi, è particolarmente questa, all'incirca: che i deputati del popolo, o, anzi, il popolo debba intendere nel miglior modo che cosa serva al suo meglio; e che esso abbia la volontà indubbiamente migliore per questo meglio. Per quanto riguarda il primo punto, fatto sta, invece, che popolo, in quanto con questa parola si designa una parte speciale dei componenti d'uno Stato, significa la parte che non sa quel che vuole. Sapere che cosa si vuole, e, ancor più, che cosa vuole la volontà che è in sé e per sé, la ragione, è il frutto di una conoscenza e di una penetrazione più profonda che, appunto, non è affare del popolo.

La rappresentanza non deve rappresentare il popolo o i molti, bensì le cerchie organizzate della società civile. Avremo dunque una camera ereditaria, formata dai rappresentanti della nobiltà terriera (sulla base del maggiorascato, per evitare l'accidentalità dell'elezione) e una camera bassa, formata dai deputati delle corporazioni. Ancora una volta, insomma, lo Stato di Hegel non è uno Stato di individui, ma uno Stato di ceti, di comunità, di corporazioni, caratterizzate da rapporti armonici e solidaristici.

Lo Stato - egli dice infatti - è essenzialmente un'organizzazione di membri tali, che per sé sono cerchie, e in esso nessun momento si deve mostrare come moltitudine inorganica. I molti, come singoli, la qual cosa si intende volentieri per popolo, sono certamente un insieme, ma soltanto come moltitudine - massa informe il cui moto e il cui fare sarebbe, appunto perciò, soltanto elementare, irrazionale, selvaggio e orribile.

Una volta stabilito che la rappresentanza non può essere intesa come rappresentanza o del popolo o dei singoli o dei molti, e deve essere invece rappresentanza delle comunità nelle quali si organizza la società civile, non può stupire che Hegel sia contrario all'elezione dei deputati da parte degli elettori, che a suo avviso «si riduce a un vile gioco dell'opinione e dell'arbitrio». I rappresentanti delle corporazioni dovranno piuttosto essere designati dalle corporazioni medesime sulla base di un rapporto fiduciario.

Possiamo ormai tirare le somme, rifacendoci ancora una volta all'analisi di Bedeschi. Con questa illustrazione del potere legislativo,

Hegel ha certamente delineato il modello di una monarchia costituzionale, ma altrettanto certamente non di una monarchia parlamentare (del resto, egli è sempre stato un avversario dichiarato della monarchia parlamentare). Nel suo disegno, infatti, il governo e i più alti funzionari dello Stato sono di nomina regia, che è insindacabile, ed essi soli hanno il «senso dello Stato» e la conoscenza di ciò che sia «l'universale in sé e per sé»; il potere del sovrano, che costituisce la vera e propria chiave di volta dello Stato, non ha limiti precisi e chiaramente definiti, ed è caratterizzato da una sostanziale ambiguità, sicché esso può avere un ruolo diverso a seconda delle diverse situazioni sociali e politiche; sovrano e governo hanno pieno diritto di iniziativa; il legislativo sembra avere un ruolo esclusivamente consultivo, e quindi non è il potere supremo (come era invece non soltanto in Locke, ma anche in Kant). Una conclusione politica certo assai modesta, questa di Hegel, soprattutto se considerata alla luce degli sviluppi politici della società europea dopo il 1830. Ma l'aspetto più interessante della sua concezione non va cercato nella sua teoria del potere politico (nella quale si riflette certamente tutta l'angustia dell'arretratezza tedesca), quanto piuttosto nel suo sforzo di delineare quella che è stata chiamata una «terza via» fra assolutismo e democrazia. In questo senso il modo peculiarmente hegeliano di concepire il rapporto fra Stato e società civile, e il ruolo complesso che le corporazioni hanno in questo rapporto, costituiscono, comunque li si voglia valutare, gli aspetti più interessanti del pensiero politico di Hegel.[39]

12. Marx

Cenni biografici

Karl Marx nasce a Treviri (in Renania) nel 1818, da famiglia ebraica poi convertitasi al Protestantesimo per evitare le misure antisemitiche prese dal governo prussiano.

Nel 1835 inizia la sua formazione universitaria, iscrivendosi, dapprima a Bonn e poi a Berlino, alla Facoltà di Giurisprudenza. Segue poco le lezioni, e studia piuttosto autonomamente, facendo amplisssime letture di storia, filosofia, diritto e letteratura. Entra in contatto con i giovani hegeliani e studia a fondo la filosofia di Hegel. Nel 1838 si laurea a Jena, con una tesi sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e di Epicuro.

Nel 1842 abbandona, in seguito all'accentuarsi della politica reazionaria del governo prussiano, i progretti di carriere accademica. Si dedica al giornalismo politico, divenendo caporedattore della "Rheinische Zeitung" (che viene chiusa nel 1843). Sposa Jenny von Westphalen.

Nel 1844 pubblica Per la critica della filosofia del diritto di Hegel e La questione ebraica. In settembre conosce Engels. Sempre nel 1844 stende i Manoscritti economico-filosofici. In collaborazione con Engels e B.Bauer scrive La sacra famiglia.

Nel 1845 stende, insieme a Engels, L'ideologia tedesca. Nel 1846 Marx ed Engels costituiscono una rete di comitati di corrispondenza comunisti tra tedeschi, francesi e inglesi.

Nel 1847 pubblica Miseria della filosofia. Aderisce alla Lega dei Giusti, che diverrà poi Lega dei comunisti. Nel 1848 pubblica il Manifesto del partito comunista. Dopo le varie agitazioni rivoluzionarie, ripara dapprima in Francia e poi in Inghilterra.

Nel 1850 pubblica Le lotte di classe in Francia. Si dedica alla riorganizzazione della Lega dei comunisti. Nel 1851 si ritira dall'attività politica, dedicandosi ai suoi studi e vivendo in una situazione di permanente disagio economico. Nel 1852 pubblica Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte.

Tra il 1857 e il 1859 scrive i Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica. Nel 1859 pubblica Per la critica dell'economia politica.

Tra il 1862 e il 1863 scrive le Teorie sul plusvalore. Nel 1866 inizia la stesura del I libro del Capitale, che verrà pubblicato ad Amburgo l'anno successivo. Muore nel 1883 a Londra, a 65 anni.

Il pensiero politico

La prima opera di Karl Marx, scritta nel 1842-43 ma rimasta inedita sino al 1927, si intitola Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (che da qui in avanti chiameremo, per comodità, Kritik). Per quanto si tratti di un'opera incompleta, essa rappresenta comunque un testo denso e importante, che ci permette di affrontare subito il decisivo tema del rapporto tra Hegel e Marx. Non solo. Nella Kritik - stando alle stesse testimonianze di Marx - si troverebbe formulata l'idea centrale della filosofia marxiana matura, vale a dire del materialismo storico. Nella prefazione a Per la critica dell'economia politica (1859), Marx ricorda infatti il suo giovanile lavoro su Hegel, affermando che in esso arrivò

alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza.

Tali rapporti materiali stavano in quella che Hegel aveva definito "società civile"[40], la cui anatomia, proseguiva Marx, «è da cercare nell'economia politica».

Lo stesso Marx, dunque, ritiene che i capisaldi della concezione materialistica della storia siano contenuti nella sua prima opera. Ed in effetti nella Kritik noi troviamo due acquisizioni capitali: la prima è che alla concezione idealistica della storia - secondo la quale quest'ultima è la manifestazione dell'Idea o Spirito, da cui tutto emana e a cui tutto ritorna - Marx sostituisce la visione secondo cui la storia va spiegata sulla base dei rapporti materiali dell'esistenza, che ne costituiscono il sostrato effettivo e reale. La seconda è che l'anatomia di quei rapporti materiali (che si manifestano non nello Stato, ma nella società civile) va ricercata, secondo Marx, nell'economia politica. Siamo di fronte, con tutta evidenza, ai due capisaldi del materialismo storico; ma su quest'ultimo, e sulla connessa teoria economica, torneremo più avanti.

Per ora, rimaniamo sulla Kritik e, in particolare, sul rapporto che in essa Marx stabilisce con Hegel. Per un verso si tratta di un rapporto radicalmente critico: Marx accusa infatti Hegel di aver operato un vero e proprio rovesciamento della realtà, per cui tutto ciò che è finito, concreto e materiale sarebbe stato privato di una propria effettiva realtà e, allo stesso tempo, l'astratto, il pensiero, l'ideale sarebbe stato trasformato nell'unica autentica realtà, divenendo così il vero soggetto. Tale procedimento emergerebbe molto bene, secondo Marx, nel rapporto che Hegel istituisce tra famiglia e società civile da un lato, e Stato dall'altro: nel § 262 della Filosofia del diritto Hegel dice infatti che è lo Spirito, l'idea reale (ossia intera), a scindersi nelle due sfere ideali (vale a dire astratte, in quanto meri "momenti" dell'intero) della famiglia e della società civile. Dunque, dapprima viene lo Spirito, che è la vera realtà (il vero soggetto), il quale poi "produce" la famiglia e la società civile, che sono quindi sue manifestazioni, suoi "oggetti". Siamo di fronte, secondo Marx, al procedimento del rovesciamento speculativo (o dell'inversione soggetto/predicato), che caratterizza l'intera filosofia hegeliana: per un verso, Hegel ha sostantificato l'astratto (cioè lo Spirito), facendone un soggetto reale, il quale viene rappresentato come se agisse secondo un'intenzione determinata; per altro verso, egli ha degradato il reale concreto (cioè la famiglia e la società civile) ad un mero prodotto di quell'astratto sostantificato. L'intero procedimento è dunque ispirato, ha scritto Bedeschi[41], a un misticismo logico, panteistico: i rapporti reali (che caratterizzano la famiglia e la società civile) sono presentati da Hegel non come qualcosa di autonomamente reale, ma come una una manifestazione, un fenomeno dello Spirito.

Nella Kritik, quindi, Marx rivolge ad Hegel la stessa critica avanzata qualche anno prima da Feuerbach, il quale, osservando come per Hegel il finito costituisse l'inveramento dell'infinito, sosteneva che una una filosofia che deduca il finito dall'infinito non conduce mai ad un vero e proprio riconoscimento dell'autonomia del finito. Dunque Marx, come Feuerbach, rivendica contro l'idealismo hegeliano la positività e la specificità del finito, del concreto, del determinato, e la sua irriducibilità al pensiero; di qui anche la rivalutazione dei bisogni, della sensibilità, della materialità dell'uomo. E' la rivendicazione materialistica contro l'idealismo. Rispetto a Feuerbach, tuttavia, nell'analisi marxiana vi sono due elementi in più: anzitutto, l'utilizzazione di tale schema critico (l'inversione speculativa tra soggetto e oggetto) in un contesto di filosofia politica; in secondo luogo, la maggiore articolazione di tale schema, con l'accusa al procedimento hegeliano di infecondità ermeneutica e di crasso positivismo. Infecondità ermeneutica poiché, essendo lo scopo del metodo hegeliano quello di ritrovare nell'empirico lo sviluppo dell'Idea, ciò fa sì che nulla si sappia della specificità dell'empirico che si sta trattando; crasso positivismo perché l'empirico, lasciato tal quale è, finisce per assurgere a incarnazione dell'Idea, e quindi viene santificato così com'è.

Fin qui la critica del giovane Marx al suo maestro. Tuttavia, Marx trova nel metodo hegeliano anche qualcosa di positivo. Veniamo così al lato non critico, ma anzi di consonanza, che Marx stabilisce con Hegel (e che si accentuerà nella maturità: egli riconoscerà che la stesura delle sue opere mature deve molto alla rilettura della Scienza della logica di Hegel). Dice infatti Marx, sempre nella Kritik: pur con tutti questi limiti,

riconosciamo in Hegel della profondità, in questo suo cominciare ovunque con l'opposizione delle determinazioni (proprie dei nostri Stati) e porvi l'accento.

Il profondo, in Hegel, starebbe nel cominciare ovunque con l'opposizione delle determinazioni: è tale metodo che gli consente di intendere la natura degli Stati moderni. Vedremo che Marx, come lo stesso Hegel, intende in realtà tale 'opposizione reale' come una 'contraddizione logica'. Per comprendere questa differenza, già chiarita da Kant, ci possiamo rifare ad un testo dello stesso Marx.

Estremi reali non possono mediarsi fra loro, proprio perché sono reali estremi. Ma neanche abbisognano di alcuna mediazione, perché sono di opposta natura. Non hanno niente di comune l'uno con l'altro, non si richiedono l'un l'altro, non si integrano l'un l'altro. L'uno non ha nel suo seno brama, bisogno, anticipazione dell'altro. [...] A questo sembra contrapporsi: les extrêmes se touchent. Che polo nord e polo sud si attraggono, e parimenti si attraggono sesso femminile e sesso maschile, onde dal congiungimento delle loro estreme differenze nasce l'uomo.

Ora a Marx non interessano le opposizioni reali, ma le contraddizioni logiche, giacché egli ritiene che queste costituiscano l'essenza della moderna società borghese: in essa infatti vi sarebbe scissione/contraddizione (e non semplice opposizione!) tra società civile e Stato, ossia tra società e politica, tra borghese e cittadino. Ma in cosa consiste tale scissione/contraddizione? Nel fatto che nella società pre-borghese la posizione economico-sociale e quella politica fanno tutt'uno: la sudditanza/diseguaglianza economico-sociale corrispondeva alla sudditanza/diseguaglianza politica; il servo della gleba era per ciò stesso suddito, il proprietario terriero era per ciò stesso signore. Nell'epoca borghese, invece, questi due mondi si separano: in tale separazione è implicito un progresso, rispetto alle società schiavistiche o servili, perché si crea una sfera pubblica in cui tutti sono uguali. Ma tale uguaglianza è solo politica e si contrappone alla sfera socio-economica, dove permangono le diseguaglianze. L'uomo ne risulta scisso: da un lato, come cittadino, è uguale a tutti gli altri; dall'altro, come individuo empirico, è profondamente diseguale agli altri.

Cosa è accaduto? Anzitutto Marx ha accettato integralmente da Hegel il principio dialettico, ossia la coppia scissione/contraddizione. In secondo luogo, egli - proprio facendo di tale scissione/contraddizione la caratteristica della società moderna - ha trasferito, come ha osservato Kelsen, le contraddizioni logiche dal pensare all'essere. Marx non vede contrasti nella realtà, ma contraddizioni logiche. Qual è la differenza, rispetto ad Hegel? Che Hegel propone un superamento puramente speculativo di tali contraddizioni, mentre Marx riterrà che esse vadano superate con un atto pratico-rivoluzionario. Inoltre, la concezione dialettica della realtà - l'idea che essa sia intimamente autocontraddittoria - conduce non all'elaborazione di una sociologia scientifica, ma ad una teoria rivoluzionaria, il cui obiettivo essenziale non è soltanto conoscere ed eventualmente modificare la realtà, ma piuttosto sovvertirla.

Infine occorre osservare che nell'avvertire la scissione come contraddizione opera il concetto tipicamente romantico di 'totalità organica', vale a dire l'idea di un'unione differenziata degli opposti, dove cessa la tensione tra gli stessi. Il mondo moderno, così per Hegel come per Marx, ha dissociato ciò che nella polis antica era totalità[42]: in essa non si dava contrasto tra particolare e universale, tra individuo e Stato, tra soggetto e oggetto, tra cittadino e individuo empirico. Tanto Hegel quanto Marx - uniti da questa idealizzazione della polis antica - anelano all'unità, all'unificazione, alla totalità organica, che il mondo moderno-borghese avrebbe frantumato e atomizzato, a causa del suo individualismo/particolarismo. Ma mentre Hegel si sforza di imbrigliare, superare e sublimare tale atomismo, che per lui caratterizza soltanto la società civile, con una serie di strumenti (quali l'amministrazione pubblica, la corporazione, lo Stato), Marx intende invece superare tale atomismo, nel quale egli rintraccia la natura stessa dell'intera società borghese, tagliando quelle che per lui ne sono le radici, ossia la proprietà privata. L'organicismo di Hegel vuole mediare le differenze (e non sopprimerle), quello di Marx vuole invece realizzarsi attraverso un rigoroso egualitarismo. Ma l'aspirazione è la stessa: fondere l'individuo nel tutto, trasformarlo in un momento di una totalità compatta, coesa, armonica. Il tratto saliente della libertà dei moderni - l'indipendenza individuale, il riconoscere all'individuo una sfera sacra di autodeterminazione - è proprio ciò che costituisce il suo difetto principale, agli occhi di Marx: esso significa infatti che l'uomo è inteso non come specie ma come individuo e che la società è solo un'aggregazione di individui indipendenti e non un qualcosa di profondamente e organicamente unitario. Organicismo, egualitarismo e utopismo fanno tutt'uno, aprendo un abisso incolmabile tra il socialismo di cui parla Marx e il liberalismo moderno.

Nel quadro che ho appena illustrato, infatti, la posizione di Marx verso i diritti individuali (civili e politici) conquistati dalla tradizione liberale - e in seguito universalizzati da quella democratica - è del tutto negativo. O meglio: Marx riconosce che tali diritti, dando luogo ad una sfera pubblica dove tutti sono eguali, costituiscono un passo in avanti, rispetto alle società antiche e feudali; ma, al tempo stesso, egli ritiene che essi siano uno degli elementi della contraddizione fondamentale della società moderna, giacché presuppongono la separazione e il contrasto tra cittadino e borghese, quindi tra società e Stato, tra economia e politica. Ora, tale separazione/contrasto è interpretata da Marx - come abbiamo già ricordato - nei termini di una contraddizione dialettica, ovverosia come scissione di qualcosa che originariamente era unito e che quindi tende inevitabilmente a riunirsi: in questa prospettiva, i diritti universali dell'uomo, per Marx,

a) svolgono la stessa funzione mistificante delle rappresentazioni religiose, mascherando, tramite l'universalità astratta dello Stato, il dominio di classe; essi sono in realtà diritti 'borghesi', dunque diritti classisti e perciò falsi, ipocriti;

b) essendo frutto della scissione che caratterizza la società borghese moderna, essi verranno inevitabilmente superati con la scomparsa di quest'ultima e il sorgere di una società radicalmente diversa (quella proletaria), caratterizzata dal superamento di tutte le scissioni e di tutti gli antagonismi.

Ricapitolando: nella teoria marxiana non si tratta di allargare i diritti politici - che i liberali, nell'Ottocento, volevano riservare soltanto ai proprietari - a tutti, come farà la tradizione democratica; né si tratta di integrare i diritti civili e i diritti politici, una volta estesi a tutti, con i diritti sociali, ossia con una serie di garanzie volte a far sì che i primi non vengano resi inefficaci dalle condizioni socio-economiche. In tutti questi casi, diritti di diversa natura sono stati innestati sul medesimo tronco, e hanno dunque integrato, e non cancellato, quelli precedenti. E' chiaro che questa integrazione non è così pacifica - non lo è sul piano teorico e non lo è stata sul piano storico. Per potersi integrare, questi diritti, essendo finalizzati alla tutela di beni diversi, devono reciprocamente rinunciare a qualcosa: di qui le diverse interpretazioni della democrazia moderna, da quelle che pongono l'accento sulla libertà individuale (liberal-democratiche) a quelle che pongono l'accento sulla partecipazione sociale (democrarico-liberali o social-democratiche). Ma, pur nella diversità, queste posizioni condividono una serie di valori e di istituzioni: la libertà individuale per tutti (e i connessi diritti e garanzie), la libertà politica per tutti (ossia il suffragio universale), e infine una serie di garanzie sociali (più o meno estese) per rendere effettive le prime e per garantire pari opportunità a tutti. Nulla di tutto questo in Marx: la democrazia liberale è per lui nient'altro che la 'democrazia borghese', falsa e ipocrita; una vera e propria maschera, che serve ad occultare l'oppressione e lo sfruttamento del proletariato da parte della borghesia, e che sparirà tra le macerie quando il proletariato, attraverso la rivoluzione ineluttabile, rovescerà violentemente la società borghese, dando luogo ad una società totalmente diversa. I diritti civili e politici altro non sono che quella maschera; essi non hanno alcuna portata e alcun valore universali. Essi sono soltanto lo strumento di un dominio di classe: annientato tale dominio, saranno annientati anch'essi. Nella società comunista, del resto, il problema dei diritti non esisterà affatto: esso è infatti l'espressione, secondo Marx, di una società caratterizzata dall'antagonismo delle classi.

Veniamo ora al materialismo storico. Presupposto di tale concezione della storia è che non esista un'essenza umana in generale, determinabile astrattamente. Tale determinazione astratta è stata compiuta tanto dall'idealismo (che ha visto nell'uomo soltanto il suo lato attivo, ossia la sua capacità di intervenire attivamente nella realtà, di trasformarla, trascurando completamente il lato sensibile, materiale), quanto dal materialismo alla Feuerbach (il quale ha visto nell'uomo soltanto la materia come mera sensibilità, come mera ricettività del mondo esterno, trascurando completamente il lato attivo e creativo). L'essenza dell'uomo, per Marx, non è invece determinabile una volta per tutte, a prescindere dalla concrete condizioni storiche della sua esistenza; la sua essenza non può essere còlta rimanendo sul piano interiore della coscienza, oppure concependolo naturalisticamente come qualsiasi altro elemento della natura, perché la natura dell'uomo è storia, ossia rapporto attivo e mutevole con la natura e con gli altri uomini. Ora, tale rapporto dà luogo a forme storicamente determinate di lavoro e produzione, che sono le vere matrici della personalità umana. Cosa distingue - si chiede Marx nell'Ideologia tedesca - gli uomini dagli animali? Noi possiamo dire che li distinguono la coscienza o la religione; ma in realtà gli «uomini cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza ... Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro vita materiale». E' dunque il lavoro che contraddistingue l'uomo, ossia la sua capacità di stabilire un rapporto attivo e modificatore con la realtà che lo circonda.

Il materialismo storico si basa su questi presupposti: l'essenza umana non è determinabile una volta per tutte, ma si manifesta nel concreto processo storico, attraverso le forme che viene assumendo; presupposto empirico di questa storia sono le condizioni materiali, dunque le condizioni economiche, nelle quali l'uomo si trova ad operare e che egli tende a trasformare. Ascoltiamo tale concezione nella sua formulazione più classica, tratta dalla prefazione a Per la critica dell'economia politica.

Nella produzione sociale della loro esistenza - scrive Marx - gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze positive materiali. L'insieme di questi rapporti costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una soprastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.

Ecco il famoso economicismo marxiano. La struttura della storia - il luogo nel quale occorre cercare le leggi della storia, la sua anatomia - sono i rapporti economici. Tutto il resto - forme del diritto e dello Stato (dunque anche della politica), morale, religione, metafisica - è sovrastruttura, ossia qualcosa che deriva dalla struttura e che, in ultima analisi, va spiegato in base ad essa. La sovrastruttura si modifica quando si trasforma la struttura, e non viceversa. Ecco perché la concezione idealistica della storia, secondo Marx, è profondamente sbagliata: perché essa capovolge il processo storico effettivo, facendo delle idee la spiegazione delle cose, mentre sono le cose che spiegano le idee. Una vera teoria della storia non spiega la prassi partendo dalle idee, ma al contrario spiega la formazione delle idee partendo dalla prassi materiale e perciò giunge al risultato che

tutte le forme e i prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nell'autocoscienza o trasformandoli in spiriti, fantasmi o spettri, ecc., ma solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali queste fandonie idealistiche sono derivate.

Ne consegue, conclude Marx, che «non la critica ma la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria».

Questo approccio ci consente di illustrare un altro concetto fondamentale: quello di ideologia. Per Marx la storia è storia di lotta di classi, ossia di lotte socio-economiche, che trasformano la struttura economica della società. Vi è sempre una classe che opprime e una classe che viene oppressa. Tutte le forme sovrastrutturali (a cominciare dalle istituzioni giuridico-politiche, per finire con le manifestazioni spirituali) non sono che mezzi con i quali la classe dominante esprime e realizza il suo dominio: in questo senso esse sono "ideologiche", poiché realizzano tale dominio occultandolo dietro una pretesa universalità. Ideologia significa dunque, per un verso, inconsapevolezza, coscienza capovolta: gli ideologi elaborano le illusioni della classe dominante su se stessa, perché considerano le idee (le dottrine giuridiche, politiche, filosofiche) come un prodotto dello spirito, quando esse non sono che un prodotto delle condizioni materiali, cioè delle forme di produzione; per altro verso, ideologia può significare aperta ipocrisia, atto con il quale l'interesse di classe viene mascherato da interesse comune.

Sappiamo, dunque, che la storia è determinata dall'evoluzione della struttura economica e non certo dalle idee. Ma qual è la molla di tale evoluzione? Essa è costituita, per Marx, dal rapporto tra 'forze produttive' (ossia gli uomini, i mezzi e le conoscenze che servono a produrre) e 'rapporti di produzione' (vale a dire, i rapporti che si instaurano fra gli uomini nel corso della produzione e che trovano espressione nei rapporti di proprietà; in sostanza, sono i rapporti sociali). Quando le forze produttive raggiungono un certo grado di sviluppo, esse entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, i quali non rappresentano più condizioni di sviluppo per tali forze produttive, bensì vere e proprie catene. Subentra allora un'epoca di rivoluzione sociale, attraverso la quale i rapporti sociali vengono radicalmente trasformati. Ma questo avviene soltanto quando la vecchia formazione sociale ha sviluppato tutte le forze produttive cui può dare corso; è con la completa maturità che una forma sociale prepara la propria crisi. Riscontriamo in queste posizioni, ancora una volta, l'eco della dialettica storica di Hegel. Marx tuttavia ammette che tale processo dialettico ha una fine. I rapporti sociali di produzione borghese sono l'ultima forma antagonistica, a suo parere, del processo di produzione sociale. La borghesia sviluppa forze produttive tali che consentiranno di superare l'antagonismo, attraverso un processo (caratterizzato inizialmente dalla dittatura del proletariato) il cui esito finale sarà la società comunista, vale a dire una società senza classi, priva di contraddizioni, e pertanto priva di ogni necessità di oppressione o di mediazione tra contrasti: dunque una società senza Stato e senza politica.

Il testo in cui forse si può cogliere nel modo più chiaro l'applicazione alla realtà della concezione materialistica della storia è il Manifesto del 1848. Qui ritroviamo anzitutto l'analisi della funzione storica della borghesia, che Marx esalta in termini assai positivi: la borghesia, egli dice, ha modificato la faccia della terra in una misura che non ha precedenti nella storia, mostrando ai popoli che cosa possa l'attività umana. Ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi d'Egitto, gli acquedotti di Roma e le cattedrali gotiche; ha portato a termine ben altre spedizioni che gli spostamenti dei popoli e le Crociate in Terrasanta. La borghesia ha realizzato per la prima volta l'unificazione del genere umano: agevolando le comunicazioni e trascinando nella civiltà tutti i paesi è riuscita costruire un mercato mondiale e a porre le basi per un reale cosmopolitismo. Ma questo è soltanto un aspetto della valutazione marxiana della borghesia, che riguarda soprattutto il passato (ossia, la sua funzione storica) di tale classe; per il futuro Marx assimila infatti la borghesia allo stregone che non riesce più a dominare le forze da lui evocate, e che pertanto è destinata a soccombere nella lotta di classe con il proletariato.

Inoltre nel Manifesto troviamo la critica dei cosiddetti socialismi non-scientifici. Marx divide la letteratura socialista e comunista in tre tendenze di fondo: il socialismo reazionario, quello conservatore o 'borghese' e quello critico-utopistico. Il socialismo reazionario è quello che attacca il capitalismo in nome non del futuro, ma del passato: in forme 'feudali', 'piccolo-borghesi' o 'tedesche', esso guarda alla società pre-capitalistica (pre-rivoluzionaria e pre-borghese) come ad un modello positivo. Il socialismo conservatore o borghese è quello di coloro che vorrebbero rimediare agli inconvenienti del capitalismo senza distruggere il capitalismo stesso: nella loro mentalità a-dialettica, dice Marx, costoro vorrebbero i lati positivi del capitalismo senza quelli negativi, non accorgendosi che essi sono inestricabilmente connessi e che pertanto il capitalismo non può essere "curato", ma deve essere distrutto. Il socialismo e comunismo critico-utopistico è invece rappresentato dalle teorie pre-marxiste di Saint-Simon, Fourier e Owen: per avendo avuto il merito di aver intravisto l'antagonismo tra le classi e le contraddizioni del mondo moderno, questi autori non hanno riconosciuto al proletariato alcuna funzione autonoma e si sono rivolti invece a tutti i membri della società, per sviluppare un'azione pacifica di riforme. Sganciati dalla realtà concreta, essi non hanno fatto che elaborare 'ideali' astratti, privi di qualsiasi efficacia: ad essi Marx contrappone il proprio socialismo scientifico, basato su un'analisi critico-scientifica dei meccanismi sociali del capitalismo e sull'individuazione del proletariato come forza rivoluzionaria destinata ad abbattere il sistema borghese e a costruire una società totalmente nuova.

Passiamo ora a delineare, per sommi capi, la teoria economica contenuta nel Capitale, ossia l'anatomia della società borghese. Marx critica l'economia classica (detta economia borghese) perché scambia per naturale ciò che è un prodotto storico: il modo di produzione borghese-capitalistico. In realtà quest'ultimo è il frutto di un determinato cammino storico e reca in sé i germi della propria dissoluzione. La fine del modo di produzione borghese segnerà, per Marx, la fine dei modi di produzione antagonistici, ossia basati sul rapporto signore-servo; ma è soltanto passando attraverso questa fase che si porranno le basi per lo sviluppo di forze produttive tali da consentire nuovi rapporti di produzione, ossia una nuova società.

Nell'analisi economica di Marx vi sono due capisaldi: la teoria del valore e la legge di sviluppo della società capitalistica. La teoria del valore/lavoro non è nuova - essa è infatti già presente negli economisti classici, come Smith e Ricardo -, ma nuove sono le conseguenze che Marx ne trae. L'assunto è semplice: il valore di una merce è dato dal lavoro occorso per produrla; quindi, valore = lavoro. Ne consegue che le merci vengono scambiate, sul mercato, attraverso la reciproca commisurazione del lavoro occorso per produrle. Ma il lavoro stesso, che cos'è? Nella società capitalistica è una merce come tutte le altre, sottoposta alla compra-vendita: Marx denomina questo tipo particolare di merce 'forza-lavoro'. Il proprietario della forza-lavoro è il proletario, che non ha altro da vendere, se non la sua capacità di lavorare; vendendo questa 'merce' egli ottiene in cambio il salario. Ma come si determina il valore della forza-lavoro (ossia, come si determina il salario)? Come in tutti gli altri casi, ossia attraverso la quantità di lavoro necessario per produrla: in questo caso ciò significa che il valore della forza-lavoro equivale al valore dei mezzi di sussistenza necessari per consentire alla forza-lavoro di esistere.

Tuttavia, la forza-lavoro, osserva Marx, è una merce sui generis: essa infatti, oltre ad avere un proprio valore, è in grado di saper creare altro valore, attraverso la produzione di altre merci. Solo il lavoro, infatti, crea valore; le macchine (il capitale costante, secondo la terminologia di Marx) non fanno che cedere ai prodotti il proprio valore, che è già contenuto nel loro prezzo. Ora, è da questa peculiarità della forza-lavoro che scaturisce il plusvalore: il capitalista compra la forza-lavoro come qualsiasi altra merce, ossia pagandola secondo il valore corrispondente alla quantità di lavoro socialmente necessario a produrla, che, nel caso dell'operaio, corrisponde a quello dei mezzi che gli sono necessari per vivere, lavorare e riprodursi. Tuttavia l'operaio ha la capacità di produrre un valore superiore a quello che gli viene corrisposto con il salario; tale valore, che è incorporato nelle merci prodotte, non viene tuttavia dato al suo produttore, ossia al lavoratore stesso, ma viene trattenuto dal capitalista. Facciamo un esempio: un operaio lavora per 10 ore e quindi crea prodotti per un valore uguale a 10; se il capitalista gli corrispondesse tutto il valore del prodotto non realizzerebbe alcun guadagno; di conseguenza, il valore equivalente al salario deve essere inferiore al valore globale prodotto dall'operaio. Poniamo che tale valore sia fissato a 6: ne consegue che nelle prime sei ore l'operaio avrebbe creato prodotti aventi un valore equivalente al proprio salario; nelle restanti quattro egli avrebbe quindi "regalato" il proprio lavoro (plus-lavoro) al capitalista. Dal 'plus-lavoro' dell'operaio discende quindi il 'plus-valore' di cui si impossessa il capitalista: con questa teoria Marx ritiene di aver dato una spiegazione scientifica dello sfruttamento, sfruttamento che è possibile solo in quanto il capitalista possiede quei mezzi di produzione di cui è sprovvisto l'operaio, il quale è quindi "costretto" a vendersi sul mercato.

Dal plus-valore deriva il profitto, che non coincide però con il primo. Occorre tenere presente che un'impresa, per funzionare, ha bisogno sia del capitale variabile (destinato ai salari), sia del capitale costante (macchinari e tutto ciò che serve al funzionamento della fabbrica); poiché il plus-valore deriva soltanto dai salari, ossia dal capitale variabile, il suo saggio risiede nel rapporto tra plus-valore medesimo e capitale variabile. Serviamoci ancora una volta di un esempio: se il capitale variabile è 6 e il plus-valore è 4, il saggio del plus-valore sarà quattro sesti, ossia due terzi, ossia il 66,6%. Il capitalista deve tuttavia investire non soltanto in capitale variabile (salari), ma anche in capitale costante (macchinari): ne consegue che il saggio di profitto non coincide con il saggio di plus-valore, ma scaturisce dal rapporto tra il plus-valore da un lato e la somma del capitale variabile e del capitale costante dall'altro. Tornando al nostro esempio: il capitale variabile era 6, il plus-valore era 4; assumiamo che il capitale costante sia 1; ne segue che il saggio di profitto sarà 4 diviso 7 (6+1), dunque quattro settimi, ossia il 57,1%. Il saggio di profitto è pertanto sempre minore del saggio di plus-valore.

Quanto alla legge di sviluppo della società capitalistica, Marx la esprime con la formula D-M-D'. In un'ipotetica società mercantile semplice - ossia in una società nella quale ciascun lavoratore sia proprietario dei mezzi produzione e produca pertanto autonomamente un certo tipo di merce - la circolazione avrebbe la forma M-D-M (merce-denaro-merce): ciascun produttore scambia la merce con denaro, al fine di acquistare un'altra merce; sarebbe una transizione finalizzata esclusivamente al consumo. Viceversa la circolazione capitalistica, come abbiamo anticipato, ha la forma D-M-D' (denaro-merce-denaro), dove D' deve essere maggiore di D: il capitalista insomma compra con il proprio denaro la merce necessaria alla produzione e rivende poi per denaro le merci prodotte. Tutto il movimento è finalizzato ad accrescere il capitale, ossia a produrre profitto; ma tale profitto non viene interamente consumato, pena l'estinzione del processo; esso quindi viene reinvestito. La società capitalistica è quindi retta dalla logica del profitto privato e non da quella dell'interesse collettivo.

Inutile ricordare che tali posizioni sono state più volte criticate. Anzitutto, esiste una linea di pensiero - che risale ad Adam Smith e, tramite la scuola austriaca di Menger e Mises, giunge sino a Hayek - secondo cui la competizione economica tra una pluralità di soggetti liberi, mossi dall'interesse privato e disciplinati da regole generali, risulta essere il modo migliore per produrre l'interesse collettivo, mentre le economie collettivistiche, incentrate sull'abolizione degli interessi privati e sul perseguimento pianificato dell'interesse collettivo, produrrebbero, a dispetto delle loro intenzioni, soltanto una condizione di miseria diffusa (e la storia del XX secolo, a questo riguardo, si è incaricata di dare una spettacolare evidenza a tale argomento). In secondo luogo, la teoria del valore/lavoro è stata sottoposta a numerose critiche, rilevando come nel determinare il valore della merce entrino in gioco altri fattori (in primo luogo, quello della sua scarsità o della richiesta che incontra). In terzo luogo, la tesi secondo cui il profitto costituirebbe un "furto" ai danni del lavoratore occulta completamente il fatto che l'imprenditore arrischia il proprio capitale - anticipandolo sotto forma di macchinari e di salari - in un'impresa il cui esito è sempre incerto e dalla quale può anche derivare la perdita del proprio denaro; e il profitto viene per l'appunto a remunerare tale "rischio", nonché l'inventitità dell'imprenditore, che svolge la funzione socialmente cruciale di creare lavoro e ricchezza. Un dato certamente campeggia, alla fine del nostro secolo: l'economia di mercato, pur con tutti i suoi difetti (che sono numerosi), ha saputo creare società in cui la ricchezza è aumentata e si è diffusa in proporzioni che non conoscono eguali nella storia dell'uomo; e verso queste società, non a caso, si dirigono tutte le popolazioni povere della terra. A ciò si aggiunga il fatto che il comunismo - ovunque sia stato realizzato, sia pure nelle condizioni culturali, sociali ed economiche più diverse (in Europa come in Asia, in America come in Africa) - ha sempre coinciso con l'annientamento delle libertà civili e politiche, mentre l'economia di mercato è sempre convissuta con regimi liberal-democratici (è soltanto sul finire del XX secolo, e in regimi spesso originariamente comunisti, che hanno iniziato a svilupparsi sistemi economicamente liberi, ma privi della libertà civili e politiche). Tutto ciò non significa affatto che l'economia di mercato sia priva di difetti e che quindi non richieda un costante intervento per rimediare ai suoi aspetti negativi. Essa, insomma, non costituisce affatto il paradiso in terra: ma questo obiettivo, contrariamente a quanto è avvenuto per il comunismo, non è mai stato nei progetti originari.

Ma torniamo a Marx. Il pensatore tedesco delinea un'analisi catastrofistica del capitalismo, in virtù della quale quest'ultimo è destinato a morire per opera delle sue immani contraddizioni. Vediamone le tappe principali. In un primo momento il capitale cerca di accrescere il plus-valore aumentando la giornata lavorativa: il maggiore plus-lavoro dà luogo a maggiore plus-valore; tornando al nostro esempio, se la giornata era di 10 ore (6 di lavoro e 4 di plus-lavoro), allungandola a 15 il plus-lavoro, ossia il plus-valore, sale da 4 a 9. Ma questa strategia incontra dei limiti oggettivi, perché oltre una certa soglia la forza-lavoro cessa di essere produttiva. Ne consegue che il capitalismo punta non ad aumentare la giornata lavorativa ('plus-valore assoluto'), ma a ridurre la parte delle giornata lavorativa necessaria per pagare il salario: ciò si può ottenere soltanto migliorando la produttività del lavoro, ad es. con l'innovazione tecnologica. Si avrà così il 'plus-valore relativo'. Tornando al nostro esempio: la giornata lavorativa rimane di 10 ore, ma, grazie all'introduzione di nuovi macchinari, l'operaio riesce a produrre in 3 ore la quantità di merci corrispondenti al suo salario, ragion per cui il plus-lavoro sale da 4 a 7, pur restando invariata la quantità delle ore lavorative.

Ma l'aumento di produttività conseguito in tal modo produce, oltre ad una maggiore conflittualità operaia, il fenomeno delle cicliche crisi di sovrapproduzione, ossia delle fasi in cui l'offerta di merci supera la loro domanda sul mercato. Ciò avviene, secondo Marx, perché nel capitalismo vige l'anarchia della produzione, in virtù della quale i capitalisti si precipitano "alla cieca" nei settori dove il profitto è più alto, facendo sì che in quel settore si determini una sovrapproduzione. Il risultato di tali crisi è la disoccupazione, che va ad accrescere il cosiddetto 'esercito industriale di riserva'.

Oltre alle crisi cicliche, il capitalismo è afflitto, secondo Marx, da un altro inconveniente strutturale: la caduta tendenziale del saggio di profitto. Poiché le necessità della produzione capitalistica inducono a investire una quota sempre maggiore di capitale nel capitale costante (macchine e materie prime) rispetto al capitale variabile, ne consegue che il saggio di profitto, derivando dal plus-valore, che a sua volta deriva dai salari, è destinato a decadere progressivamente: ma la progressiva decadenza del profitto non è altro che la progressiva decadenza del capitalismo, giacché quest'ultimo altro non è che la ricerca del profitto. Questo è il vero tallone d'Achille del capitalismo, per Marx; altri invece ritengono, inclusi alcuni marxisti, che l'innovazione tecnologica, rendendo più produttivo il lavoro, determini non la diminuzione ma l'aumento dei profitti.

In conclusione: la caduta tendenziale del saggio di profitto, più la concorrenza, più le crisi cicliche - il tutto nel quadro della generale anarchia produttiva - condurranno ad un assetto sociale caratterizzato dalla netta scissione tra due classi: da un lato la classe dei capitalisti, sempre più ristretta e sempre più ricca; dall'altro lato la classe proletaria, sempre più numerosa e sempre più povera. E poiché il capitalismo ha un carattere naturalmente internazionale, tale ultima scissione antagonistica tende a prodursi su scala mondiale, tendendo all'estremo limite la contraddizione tra forze produttive e rapporti sociali. Di qui il celebre epilogo del I libro del Capitale:

la centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventanto incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l'ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati.

13. Tocqueville

Cenni biografici

Alexis de Tocqueville nasce a Verneuil, presso Parigi, nel 1805, da una famiglia aristocratica legata ai Borbone.

Nel 1827 viene nominato giudice uditore al tribunale di Versailles, dove conosce Beaumont, con il quale frequenta le lezioni di Guizot alla Sorbona. Nel 1830 giura fedeltà alla nuova monarchia orleanista. Nel 1831 parte con Beaumont per studiare, su incarico del Ministero degli Interni, il sistema penitenziario degli Stati Uniti. Nel 1832 ritorna in Francia e si dimette da magistrato.

Nel 1835 pubblica la I parte della Démocratie en Amerique, che incontra un grande successo. Nello stesso anno sposa Mary Motley. Nel 1837 si presenta alle elezioni per la Camera dei Deputati, ma viene battuto; si ripresenterà e verrà eletto nel 1839. Nel 1840 pubblica la II parte della Démocratie en Amerique, che non incontra il successo della prima.

Il 27 gennaio 1848 pronuncia un celebre discorso alla Camera, in cui dichiara di ritenere imminente una rivoluzione. Appena un mese più tardi Luigi Filippo viene travolto da un moto popolare. Viene istituita la Repubblica e instaurato un governo provvisorio repubblicano-socialista. Tocqueville viene eletto all'Assemblea Costituente.

In seguito alla vittoria di Luigi Napoleone alle elezioni del dicembre 1848 Tocqueville dà le dimissioni dagli incarichi diplomatici che aveva assunto. Nel maggio del 1849 viene rieletto all'Assemblea Nazionale. Diviene Ministro per gli Affari Esteri, ma soltanto per cinque mesi; dopo che Bonaparte ha sciolto il governo, Tocqueville rifiuterà infatti di far parte di quello successivo. Dopo il colpo di Stato del dicembre 1851 si ritira dall'attività politica.

Nel 1852 lavora intensamente ad un'opera sulla Rivoluzione francese; compie studi a Tours sulla società d'ancien régime e in Germania sul sistema feudale. Tornato in Francia scrive L'Ancien Règime et la Révolution, che viene pubblicato nel 1856 ed ottiene un grande successo. Muore nel 1859 a Cannes, a 54 anni.

Il pensiero politico

Nella generale riscoperta dei classici del pensiero liberale - riscoperta avviatasi a partire dai primi anni '80 - l'opera di Tocqueville ha occupato (ed occupa) un posto di primo piano. La straordinaria analisi della democrazia moderna - straordinaria per acutezza e per lungimiranza, essendo stata formulata negli anni trenta dell'Ottocento -, la polemica contro il centralismo amministrativo, l'esaltazione delle autonomie locali e dell'associazionismo, l'interpretazione della Rivoluzione francese (della quale Tocqueville, assumendo un punto di vista diverso da quello degli attori rivoluzionari, individua con chiarezza i legami di continuità con l'assolutismo monarchico), infine la diagnosi delle patologie insite nella civiltà moderna in quanto civiltà egualitaria e di massa: tutto questo conferisce all'opera di Tocqueville un fascino notevolissimo, derivante soprattutto dal fatto che le sue previsioni e i suoi timori sulle società democratiche, formulati quando quest'ultime erano appena ai loro inizi, si sono rivelati in gran parte esatti.

Tocqueville era un aristocratico. Un aristocratico - dirà Royer-Collard - che aveva accettato la disfatta; ma, come è stato recentemente osservato[43], questo famoso giudizio coglie soltanto in parte nel segno.

Tocqueville è indubbiamente un aristocratico: lo è per nascita ed anche per temperamento; tuttavia, come vedremo, il suo è un pensiero autenticamente liberale. Nato nel 1805 da nobile famiglia, egli aveva respirato sin dall'infanzia l'aria della Restaurazione: la sua famiglia era stata ligia ai Borboni, sotto i quali aveva trovato fortuna e onori, e soltanto il Termidoro aveva salvato i suoi genitori dalla ghigliottina; la madre - nipote del difensore di Luigi XVI nel processo che lo avrebbe condotto al patibolo - gli cantava con voce commossa, quando era bambino, le canzoni sulla tragica fine del re. Tuttavia, nonostante l'educazione ricevuta, quando i Borboni (nel luglio del 1830) furono travolti dalla Rivoluzione, il giovane Tocqueville giurò fedeltà a Luigi Filippo. Fu una scelta assai difficile, che lo pose in contrasto con la famiglia e con l'ambiente del quale faceva parte, e che egli ritenne comunque necessaria, convinto com'era che, qualora anche la monarchia costituzionale orleanista avesse fallito, la Francia sarebbe sprofondata nel caos e nell'anarchia. In una lettera a Stoffels scriveva:

le classi medie hanno fatto la rivoluzione, e Dio voglia che esse non debbano pentirsene molto presto. Già i ceti inferiori le trattano come una nuova aristocrazia: i giornali soffiano sul fuoco e il popolo, divenuto ormai una potenza, cerca di avere i suoi adulatori. Giungeranno mai le classi medie ad organizzarsi in modo da resistere al movimento che le spinge? Avranno mai una condotta abbastanza intelligente da sentire i pericoli della loro posizione attuale e da sapersi unire per apportarvi qualche rimedio? Lo spero; ma non oso affidarmi molto a questa speranza. In ogni caso, dalla soluzione di questo problema dipenderà il nostro avvenire.

Con l'adesione all'orleanismo Tocqueville non difende solo un determinato ordine sociale (quello borghese), ma qualcosa di molto più ampio: egli difende un ordine politico-costituzionale - vale a dire, quella monarchia costituzionale che costituisce il primo esempio continentale di Stato dal potere limitato -, alle cui spalle vi erano i valori delle tradizione liberale. Occorre ricordare che il giovane Tocqueville si forma negli anni della Restaurazione francese, ossia in un'età che - ad onta del nome - non aveva certo 'restaurato' l'edificio dell'ancien régime, ormai irrevocabilmente crollato, ma che aveva piuttosto segnato la nascita sul suolo francese di una monarchia costituzionale, capace di garantire quelle conquiste civili che risalivano agli anni della Rivoluzione e che erano state soppresse dal dispotismo napoleonico. La genesi del pensiero di Tocqueville va dunque collocata, come ha giustamente sostenuto De Caprariis, sullo sfondo della cultura e delle lotte politiche dell'età della Restaurazione: in quegli anni, Tocqueville aveva riscoperto il valore autenticamente liberale della Rivoluzione dell'89, distinguendola dalle degenerazioni sanguinose del Terrore; perciò, quando si delineò la politica reazionaria di Carlo X (caratterizzata dal tentativo di sopprimere le garanzie costituzionali), egli si schierò con fermezza dalla parte dei liberali.

Ciò non toglie che l'adesione al regime orleanista fu per Tocqueville, per le ragioni che abbiamo ricordato, molto penosa; sicché il viaggio in America, come è stato rilevato[44], fu da lui intrapreso non soltanto per conoscere direttamente una grande repubblica democratica, ma anche per sfuggire a una situazione politicamente e psicologicamente delicata. Tocqueville partì, insieme a Beaumont, nell'aprile del 1831 e tornò in patria nell'ottobre dell'anno seguente: è da questo lungo viaggio - durante il quale egli visitò moltissime località ed ebbe numerosissimi contatti - che nacque La démocratie en Amérique, scritto nel biennio 1833-34 e pubblicato nel 1835. Il libro ebbe un immediato successo, che rivelò come il suo autore fosse «un pensatore capace non solo di analizzare magistralmente il presente, ma anche di individuare le tendenze che si sarebbero sviluppate in futuro. In questo senso Tocqueville non fu solo un eminente studioso della società e della politica, fu anche un profeta, nel significato positivo e realistico ... della parola»[45].

Ma che cosa vide il pensatore normanno nella giovanissima nazione americana?

Confesso - dice Tocqueville in una delle tante straordinarie pagine de La démocratie en Amérique - che nell'America ho visto qualcosa di più dell'America: vi ho cercato l'immagine della democrazia stessa, delle sue tendenze, del suo carattere, dei suoi pregiudizi, delle sue passioni, e ho voluto studiarla per sapere almeno ciò che da essa dobbiamo sperare o temere.

Su un punto infatti Tocqueville non ha dubbi: la democrazia è il nostro destino. Molti europei videro negli Stati Uniti il proprio passato: un continente ancora vergine, allo stato di natura, dove si andava edificando una civiltà e dove si era appena riprodotta, su scala naturale, la scena grandiosa di quel contratto sociale che aveva dominato le teorie politiche europee tra Seicento e Settecento. Tocqueville, con eccezionale lungimiranza, intuisce invece che gli Stati Uniti non rappresentano, per l'Europa, il suo lontanissimo passato, bensì il suo futuro prossimo; non ciò che essa ha alle sue spalle, ma ciò che la attende.

L'atteggiamento di Tocqueville per la democrazia è venato da una profonda ambivalenza, della quale egli è lucidamente consapevole. Da un lato, egli riconosce che democrazia significa progresso sociale e civile: in essa ogni uomo, essendo uguale agli altri, sente un uguale bisogno dei suoi simili, sicché l'interesse particolare si fonde con l'interesse generale; nella democrazia, inoltre, la maggioranza dei cittadini gode di un benessere maggiore rispetto al passato. Dall'altro lato, Tocqueville non può fare a meno di osservare come nelle democrazie manchi l'entusiasmo e l'ardore della fede, come esse abbiano meno splendore, meno gloria, meno forza, infine come esse tendano ad un appiattimento e ad un conformismo generali.

Ho per le istituzioni democratiche - scrisse il pensatore normanno in un celebre appunto di lavoro - un gusto di testa, ma sono aristocratico per istinto, cioè disprezzo e temo la folla. Amo con passione la libertà, la legalità, il rispetto dei diritti, ma non amo la democrazia, ecco il fondo del mio animo ... La libertà è la prima delle mie passioni, ecco la verità.

Come ha finemente osservato Raymond Aron, Tocqueville oscilla nei suoi giudizi sulla società democratica tra la severità e l'indulgenza, tra la reticenza del cuore e l'adesione esitante della ragione.

Ma v'è un punto sul quale il pensatore normanno non ha dubbi o esitazioni: la tendenza verso la democrazia gli appare infatti come un processo necessario e inevitabile, che caratterizza tutta la storia moderna. Nell'XI secolo, egli dice, la nobiltà aveva un valore incalcolabile; nel XII secolo già la si poteva comprare; e negli ultimi settecento anni non si incontra in tutta la storia della Francia un solo avvenimento di particolare importanza che non si sia risolto in favore dell'eguaglianza sociale:

le crociale e le guerre con gli Inglesi decimano i nobili e dividono le loro terre; il costituirsi dei comuni introduce la libertà democratica in seno alla monarchia feudale; l'invenzione delle armi da fuoco rende uguali il plebeo e il nobile sul campo di battaglia; la stampa offre le medesime risorse alla loro intelligenza; la posta porta le notizie alla soglia della capanna del povero come alla porta dei palazzi; il protestante sostiene che tutti gli uomini sono ugualmente in grado di trovare la via del Cielo. La scoperta dell'America apre mille nuove strade alla fortuna e offre ricchezza e potere all'oscuro avventuriero.

E se la linea di tendenza è questa, si chiede Tocqueville, come si può pensare che la democrazia, dopo aver distrutto il feudalesimo e le monarchie assolute, indietreggerà davanti ai borghesi e ai ricchi? Anche la sorte della grande borghesia è ormai segnata, ed essa dovrà fare i conti con il livellamento democratico. Di fronte alla grandiosità e ineluttabilità di questo processo storico - che avanza da tanti secoli, che ha sormontato qualsiasi ostacolo e che ancora oggi progredisce in mezzo alle rovine che ha prodotto - Tocqueville prova una sorta di "terrore religioso". Ma proprio perché si tratta di un processo ineluttabile, è inutile scandalizzarsi di fronte a certe caratteristiche della democrazia, rifiutarla da un punto di vista sentimentale o culturale, maledirla o esecrarla; non resta che prenderne atto e, se possibile, influire su di essa. Se il progresso democratico è ineluttabile, non resta che cercare di dirigerlo. Scrive Tocqueville:

educare la democrazia, rianimare, se è possibile, le sue fedi, purificare i suoi costumi, regolare i suoi movimenti, sostituire, poco per volta, la scienza degli affari all'inesperienza, la conoscenza dei suoi reali interessi ai suoi ciechi istinti; adattare il suo governo ai tempi e ai luoghi, modificarlo secondo le circostanze e gli uomini: questo è il principale dovere che oggi s'impone ai nostri governanti. E' necessaria una scienza politica nuova per un mondo ormai completamente rinnovato.

Ma le classi dirigenti francesi non hanno fatto nulla di tutto ciò; esse hanno abbandonato la democrazia a se stessa, ai suoi istinti e ai suoi impulsi. Il risultato è che la Francia conosce e soffre tutti i mali della democrazia, senza godere dei suoi pregi. Il compito che si propone Tocqueville va proprio in questa direzione: egli si propone di studiare a fondo la democrazia per dirigerla e purificarla, per aiutare la vecchia Europa a realizzarne consapevolmente le conquiste e, al tempo stesso, per cancellarne (o limitarne) i pericolosi difetti.

Gli Stati Uniti offrono, per questo compito, un terreno ideale: lì, infatti, il principio democratico - liberato da tutto ciò che lo ostacolava nelle società europee - è cresciuto liberamente e rigogliosamente, sviluppandosi dapprima nei costumi e quindi nelle leggi. Naturalmente Tocqueville non ha alcuna intenzione di raccomandare all'Europa la pedissequa imitazione del sistema americano; ma poiché quest'ultimo costituisce la forma più avanzata e matura di democrazia, ciò consente di mettere a fuoco presupposti e implicazioni di tale modello socio-politico, i suoi vantaggi e i suoi pericoli, al fine di decidere consapevolmente quali tratti della democrazia sia utile realizzare, e quali sia bene respingere, sul continente europeo.

Come dicevamo all'inizio, Tocqueville cerca nell'America qualcosa di più dell'America: vi cerca l'immagine della democrazia stessa, il suo 'modello', il suo 'tipo ideale' (nel senso weberiano del termine). Ciò significa che siamo lontani da qualsiasi idealizzazione: infatti il pensatore normanno sarà affascinato da alcuni aspetti, ma preoccupato per altri; aderirà razionalmente a certi princìpi e a certi istituti della democrazia americana, ma non mancherà di mettere in guardia contro le loro degenerazioni, che in alcuni casi sono inevitabili. Il quadro che ne risulta, come è stato osservato, «può apparire - e in effetti è - sostanzialmente contraddittorio. Ma si tratta di una contraddizione altamente produttiva sia sul piano conoscitivo che su quello etico-politico»[46]. Sarà infatti proprio questa ambivalenza - vale a dire, la non completa identificazione di Tocqueville con i valori della democrazia moderna, non completa identificazione dovuta proprio alla cultura aristocratica dalla quale proviene - a consentire al pensatore normanno di gettare sulla democrazia lo sguardo più lucido di tutto l'Ottocento.

Veniamo dunque all'analisi contenuta ne La démocratie en Amérique:

tra le novità che attirarono la mia attenzione durante la mia permanenza degli Stati Uniti - leggiamo nelle prime pagine - nessuna mi ha maggiormente colpito dell'uguaglianza delle condizioni.

La democrazia è per Tocqueville anzitutto eguaglianza delle condizioni. Questa identificazione è stata criticata da alcuni studiosi, che l'hanno trovato generica e imprecisa. Essa è invece, come è stato giustamente rilevato, «una categoria socio-politica assai pregnante, perché comprende, oltre che determinazioni economiche, sociali, giuridiche e politiche, anche determinazioni culturali e spirituali»[47]. La democrazia è insomma qualcosa di più che un insieme di istituti giuridico-politici; essa è anche un sistema socio-economico e un sistema culturale-spirituale: e il principio ispiratore di ognuna di queste dimensioni è la 'eguaglinza delle condizioni'. Non bisogna dimenticare, del resto, che nel pensiero di Tocqueville convivono due aspetti: quello politico in senso stretto e quello più generalmente sociologico. E secondo alcuni studiosi[48] l'aspetto sociologico dell'opera tocquevilliana sarebbe assai più importante di quello politico. Riprendendo un giudizio di Marcel Prélot, Valentini sostiene infatti che Tocqueville è stato il primo politologo, il primo scienziato politico contemporaneo; la Démocratie en Amerique andrebbe quindi posta a fianco dei Six livres de la République di Bodin, dell'Esprit des Lois di Montesquieu e della stessa Politica di Aristotele.

Ma torniamo alle riflessioni di Tocqueville:

senza fatica constatai - dice lo studioso normanno a proposito degli Stati Uniti - la prodigiosa influenza che l'eguaglianza delle condizioni esercita sull'andamento della società: essa dà allo spirito pubblico una determinata direzione, alle leggi un determinato indirizzo, ai governanti nuovi pincìpi, ai governati abitudini particolari. Subito mi accorsi che questo fatto estende la sua influenza assai oltre la vita politica e le leggi, e che domina non meno la società civile che il governo: infatti crea opinioni, fa sorgere sentimenti, suggerisce usanze e modifica tutto ciò che non crea direttamente. Pertanto, più studiavo la società americana, più vedevo nell'eguaglianza delle condizioni la forza generatrice da cui pareva derivare ogni fatto particolare; e me la ritrovavo continuamente davanti come un punto centrale, in cui convergevano tutte le mie osservazioni.

Eguaglianza delle condizioni e sistema democratico fanno quindi tutt'uno. Come ha potuto verificarsi tale fenomeno? Vale a dire, come mai il principio democratico, che in Europa ha incontrato così numerosi ostacoli, negli Stati Uniti ha potuto svilupparsi sino a permeare di sé ogni aspetto della vita sociale? Le cause fondamentali sono due, secondo Tocqueville. Anzitutto, ciò dipende dalle caratteristiche degli emigranti che andarono a vivere in America: essi si trovavano tra di loro in una condizione di eguaglianza (condizione evidentemente anomala, rispetto alla società europea del tempo, dove il lavorìo dei secoli aveva prodotto diseguaglianze di tutti i tipi); inoltre essi si erano formati nelle lotte religiose, il che aveva purificato i loro costumi ed elevato la loro cultura; la maggior parte di essi aderivano ad una corrente religiosa (il Puritanesimo) nota per l'austerità dei suoi princìpi e che, al tempo stesso, si era congiunta in più punti con le più avanzate teorie democratico-repubblicane; essi avevano inoltre ricevuto, nel vivo delle lotte politico-religiose che avevano sconvolto il loro paese d'origine, una straordinaria educazione politica, per cui sapevano bene cosa significasse porsi sotto la protezione della legge o reclamare i diritti di libertà (anche in questo la loro situazione era anomala, rispetto agli altri popoli europei); infine, appartenevano tutti alle classi agiate della madrepatria. L'unione di tutti costoro sul suolo americano diede quindi luogo, secondo Tocqueville, ad un singolare fenomeno: la creazione di una società dove non si trovavano né nobili e plebei, né ricchi e poveri, ma una generale (relativa, s'intende) eguaglianza delle condizioni. In secondo luogo, il suolo americano non permetteva (almeno al nord) il sorgere dell'aristocrazia terriera, perché la difficoltà di dissodarlo richiedeva gli sforzi costanti del proprietario stesso; la terra rendeva assai poco e pertanto essa venne spezzettata in piccole proprietà, coltivate dal proprietario medesimo. L'insieme di queste condizioni perdurò per tutto il Seicento, cosicché la Nuova Inghilterra si andò configurando come una società spiritualmente e socialmente omogenea, ben diversa dalla società europea.

In questo quadro, nonostante taluni radicalismi dovuti al fanatismo puritano, le leggi politiche della Nuova Inghilterra assunsero un carattere assai più avanzato rispetto a quelle europee:

i princìpi generali su cui poggiano le costituzioni moderne, questi princìpi che la maggior parte degli Europei del XVII secolo comprendeva appena e che trionfavano allora in modo incompleto in Gran Bretagna, sono tutti riconosciuti e fissati dalle leggi della Nuova Inghilterra: la partecipazione del popolo agli affari pubblici, il voto non vincolato all'imposta, la responsabilità dei governanti, la libertà individuale e il giudizio per giuria sono stabiliti senza discussione e in modo effettivo.

In questo brano si possono già cogliere le profonde consonanze di Tocqueville con la democrazia americana. Di questa lo affascinano anche altre aspetti, come la mobilità sociale, la vitalità della società civile e l'autonomia ammistrativa. Circa la mobilità sociale, Tocqueville non intende certo affermare che anche negli Stati Uniti non vi siano dei ricchi; non solo questi ci sono, ma - osserva il pensatore normanno - «non conosco un paese in cui l'amore per il denaro occupi un posto maggiore nel cuore umano». Ciò non toglie che la fortuna vi circoli con una rapidità incredibile, tanto che è raro vedere due generazioni consecutive raccoglierne i favori. La libera iniziativa economica, priva di barriere socio-politiche, prorompe nella società americana con tutta la sua forza, conducendo ad una società in cui le classi medie rappresentano la maggioranza. Quanto alla società civile, anch'essa è caratterizzata da una straordinaria vitalità, che è il risultato della sua indipendenza dal potere politico.

Non c'è paese al mondo - scrive Tocqueville - ove gli uomini facciano, in definitiva, tanti sforzi per creare il benessere sociale. Non conosco un popolo che sia riuscito a crare scuole altrettanto numerose ed efficienti; chiese più adatte ai bisogni religiosi degli abitanti; strade comunali meglio tenute. Non bisogna dunque cercare negli Stati Uniti l'uniformità e stabilità di vedute, la cura minuziosa dei particolari, la perfezione dei procedimenti amministrativi; ciò che vi si trova è l'immagine della forza, un po' selvaggia, è vero, ma piena di potenza, l'immagine della vita, disseminata di contrarietà, ma anche di movimento e di sforzi.

E' un modello opposto a quello europeo del dispotismo illuminato, dove uno Stato paternalistico (e quindi autoritario) veglia continuamente sul suddito, controllando e predisponendo la stessa vita sociale. Si tratta tuttavia di una protezione il cui prezzo sta nella libertà e nella vitalità:

se poi questa autorità, nello stesso tempo in cui allontana le più piccole spine dal mio passaggio, è padrona assoluta della mia libertà e della mia vita; se monopolizza il movimento e la vita al punto che, quando essa langue, tutto langue, quanto essa dorme, tutto dorme, quando essa muore, tutto muore?

Come si può vedere, qui Tocqueville si spinge molto avanti nell'apprezzamento della società liberal-democratica, fino ad accettare interamente e quasi ad identificarsi - ha scritto Bedeschi - con il suo fattore dinamico, individuato nella 'spontaneità assoluta di autodeterminazione degli individui'. Ecco perché il famoso giudizio di Royer-Collard, che ho citato all'inizio, coglie soltanto parzialmente nel segno: perché Tocqueville non è soltanto colui il quale considera la democrazia qualcosa di ineluttabile, ma anche un pensatore che aderisce intimamente al modo moderno di intendere la libertà. Infine, come dicevo, egli apprezza enormemente l'autonomia amministrativa che contraddistingue gli Stati Uniti: essa costituisce, ai suoi occhi, la massima espressione e, al tempo stesso, la condizione fondamentale della libertà e della vitalità presenti nella democrazia americana. I suoi strumenti sono i comuni e le contee, i quali, pur nella varietà delle forme assunte, si basano tutti sul medesimo principio, secondo cui ognuno è il miglior giudice di ciò che lo riguarda direttamente e quindi il più qualificato per provvedere ai suoi bisogni particolari. Comuni e contee, dice Tocqueville, vegliano sui loro particolari interessi; lo Stato governa, ma non amministra. A questo principio si possono trovare eccezioni; ma non si trova mai sostenuto un principio contrario. Questa dottrina ha determinato una serie di conseguenze positive: anzitutto, che gli ammistratori locali debbano essere scelti dai cittadini stessi; tale principio elettivo ha impedito la formazione di gerarchie; e poiché vi sono tanti funzionari indipendenti quante sono le funzioni, il potere amministrativo si è disseminano in una molteplicità di mani; non esistendo gerarchia amministrativa ed essendo gli amministratori irrevocabili sino alla fine del mandato, è stato necessario introdurre i tribunali nell'amministrazione, per mezzo dei quali i corpi secondari e i loro rappresentanti sono costretti a ubbidire alle leggi. Tocqueville sa bene che una nazione non può vivere, se il potere non viene accentrato; ma sa anche che tale accentramento acquisisce una forza immensa e finisce per soffocare una società, se si unisce a quello ammistrativo, perché inibisce e alla fine uccide lo spirito di iniziativa. L'esempio più evidente è la Francia. Negli Stati Uniti, invece, il più alto accentramento politico si accompagna al più alto decentramente amministrativo: da questa combinazione nascono tutti i vantaggi della democrazia americana.

Fin qui i pregi della democrazia americana; ma dall'analisi di Tocqueville emergono anche i suoi molti difetti e i suoi numerosi pericoli. I difetti e i limiti emergono attraverso la comparazione che il pensatore normanno istituisce tra democrazia e aristocrazia: in primo luogo, l'aristocrazia appare dotata di maggiore energia. In generale, i popoli liberi mostrano nei pericoli un'energia infinitamente superiore a quella dei popoli che vivono in regimi oppressivi o tirannici; ma, aggiunge Tocqueville, ciò accade soprattutto nei popoli liberi presso i quali prevale l'elemento aristocratico. La democrazia è molto più adatta a governare una società pacifica o a fare, quando occorra, uno sforzo anche vigoroso, ma di breve durata; essa non riesce ad affrontare per lungo tempo le grandi tempeste politiche per una semplice ragione: «perché gli uomini - scrive Tocqueville - si espongono ai pericoli e alle privazioni per entusiasmo, ma non vi restano esposti a lungo se non per riflessione». Ma è proprio la riflessione - cioè la chiara percezione dell'avvenire fondata sulla cultura e sull'esperienza - ciò che manca alla democrazia: il popolo, dice Tocqueville, più che ragionare intuisce; e se i mali che gli si prospettano sono grandi, è possibile che esso dimentichi i mali più grandi che forse l'attendono in caso di sconfitta.

La carenza di riflessività e cultura si rivela anche nella legislazione delle democrazie: è vero che le leggi democratiche tendono generalmente al bene della massa, perché emanano dalla maggioranza dei cittadini, la quale può certamente sbagliare, ma non può avere un interesse contrario a se stessa; e occorre riconoscere che leggi aristocratiche tendono a monopolizzare potere e ricchezza, perché l'aristocrazia è costitutivamente minoritaria: se ne può concludere che gli scopi della democrazia, quando legifera, sono più utili all'umanità di quelli aristocratici. Ma è altrettanto vero, sostiene Tocqueville, che l'aristocrazia è infinitamente più abile della democrazia nella scienza della legislazione:

padrona di sé, non è affatto soggetta a impulsi passeggeri; essa ha programmi a lungo termine che sa maturare fino a che si presenti l'occasioone favorevole. L'aristrocrazia procede saggiamente; essa conosce l'arte di far convergere nello stesso tempo, verso uno stesso punto, la forza collettiva di tutte le leggi. Non così la democrazia: le sue leggi sono, quasi sempre, difettose o intempestive». Mentre la massa del popolo può essere sedotta e traviata a causa della propria ignoranza e delle proprie passioni, un corpo aristocratico, invece, «è un uomo fermo e illuminato che non muore mai.

Il pensatore normanno rivolge inoltre alla democrazia americana delle critiche circostanziate. Egli rileva che la rieleggibilità del Presidente fa sì che questo non governi più nell'interesse dello Stato, ma in quello della propria rielezione. In secondo luogo, Tocqueville è colpito dal fatto che le qualità più eccellenti sono molto diffuse tra i governati, ma assai rare tra i governanti; tale mediocrità della classe politica è dovuta, a suo parere, al fatto che è molto difficile elevare la cultura del popolo americano oltre un certo livello, sia perché gli individui sono quasi totalmente assorbiti dalle attività economiche, sia perché se l'istruzione elementare è alla portata di tutti, quella superiore non è quasi alla portata di nessuno e quando viene comunque intrapresa ciò avviene con scopi immediatamente professionali (vengono insomma studiate soltanto le scienze che preparano ad un mestiere o che sono comunque di utilità immediata).

L'insieme di queste circostanze rende i cittadini americani poco capaci di scegliere, come propri rappresentanti, uomini di merito; ma a ciò occorre aggiungere un difetto costitutivo della democrazia, vale a dire il fatto che essa sviluppa al massimo grado il sentimento dell'invidia. L'ansia di affermarsi sul piano sociale mobilita emotivamente il singolo, l'incertezza del successo lo irrita, ed egli si agita, si stanca, si inasprisce.

Tutto ciò che in qualche modo lo supera - scrive Tocqueville - gli pare allora un ostacolo ai suoi desideri, e non c'è superiorità, anche legittima, la cui vista non affatichi i suoi occhi.

Le classi elevate non sono odiate, ma guardate senza alcuna benevolenza, così come poco graditi sono i grandi ingegni: ne consegue che se gli istinti naturali della democrazia spingono il popolo ad allontanare gli uomini eminenti dal potere, un istinto non meno forte porta tali uomini ad allontanarsi dalla carriera politica. Non a caso, la Camera dei rappresentanti offre uno spettacolo miserevole di volgarità e di ignoranza; per converso, osserva tuttavia Tocqueville, il Senato offre un'immagine radicalmente diversa, essendo composto di uomini di altissima levatura morale e professionale. La ragione di questo singolare contrasto è rinvenuta dal pensatore normanno nel sistema elettivo, che per la Camera è diretto, mentre per il Senato prevede due gradi. Ecco un'altra dimostrazione di come non si possa lasciare la democrazia ai suoi (spesso bassi) istinti e di come essa debba sempre essere filtrata e corretta.

Ma, al di là di questi pur considerevoli difetti, la democrazia è afflitta da un pericolo ancora maggiore, che proviene dalla sua stessa essenza e che rischia, alla lunga, di immiserire le energie migliori della società. Questo pericolo consiste nello strapotere della maggioranza, nella famosa 'tirannia della maggioranza'. In democrazia quest'ultima tende a divenire sempre più forte; né ciò deve meravigliare, perché la democrazia, prima di essere un insieme di istituti giuridico-politici, è un atteggiamento intellettuale e morale, il quale si fonda - secondo Tocqueville - sull'idea che vi sia più cultura e saggezza in molti uomini riuniti, piuttosto che in uno solo: è «la teoria dell'eguaglianza applicata all'intelligenza». Questa concezione ha trovato negli Stati Uniti perfetta applicazione nel completo asservimento del legislativo alla maggioranza e nelle scarse garanzie date alle minoranze:

il legislativo è, di tutti i poteri politici, quello che obbedisce più volentieri alla maggioranza. Gli americani hanno voluto che i membri del potere legislativo fossero nominati direttamente dal popolo, e per un periodo molto breve, al fine di obbligarli a sottomettersi non solo alle opinioni generali, ma anche alle passioni giornaliere dei loro elettori.

Sempre più di frequente, continua Tocqueville, gli elettori tracciano per il deputato una sorta di linea di condotta, alla quale egli si deve attenere; ma nel momento in cui i deputati ricevono, di fatto, un mandato imperativo, l'unica differenza con il governo della piazza, osserva Tocqueville, sta nell'assenza dei tumulti. Ciò fa sì che per le minoranze rimanga uno spazio davvero esiguo: a chi può rivolgersi, negli Stati Uniti, un uomo o un partito che abbia subito un'ingiustizia? Il risultato di una simile situazione è una sorta di tirannia più efficace e raffinata dei vecchi sistemi assolutistici europei; più efficace perché il potere della maggioranza ha una forza quantitativamente e qualitativamente maggiore di quella del monarca.

Sotto il governo assoluto di uno solo, il dispotismo, per arrivare all'anima, colpiva grossolanamente il corpo; e l'anima sfuggendo a quei colpi, s'elevava gloriosa al di sopra di esso: ma nelle repubbliche democratiche la tirannide non procede affatto in questo modo: essa trascura il corpo e va diritta all'anima. Il padrone non dice più: tu pernserai come me o morirai; dice: sei libero di non pensare come me; la tua vita, i tuoi beni, tutto ti resta; ma da questo giorno tu sei uno straniero tra noi. Conserverai i tuoi privilegi di cittadinanza, ma essi diverranno inutili, poiché, se tu ambisci l'elezione da parte dei tuoi concittadini, essi non te l'accorderanno, e se chiederai solo la loro stima, essi fingeranno anche di rifiutartela. Resterai fra gli uomini, ma perderai i tuoi diritti all'umanità. Quando ti avvicinerai ai tuoi simili, essi ti sfuggiranno come un essere impuro; e anche quelli che credono alla tua innocenza, ti abbandoneranno, poiché li si fuggirebbe a loro volta. Va in pace, io ti lascio la vita, ma ti lascio una vita che è peggiore della morte.

Che cosa consente, allora, alla democrazia americana - dove il principio della sovranità popolare riceve un'applicazione così pervasiva - di restare, nonostante tutto, una democrazia liberale? La risposta sta in una serie di contrappesi, che costituiscono dei veri e propri anticorpi alle caratteristiche antiliberali della democrazia pura. Anzitutto abbiamo la divisione dei poteri: la tendenza allo strapotere del legislativo, tipica delle democrazie pure, è frenata negli Stati Uniti dall'indipendenza dell'esecutivo (ossia del Presidente), il quale possiede, ad esempio, il diritto di veto. Si potrebbe anche aggiungere che l'elezione diretta del capo dell'esecutivo conferisce a quest'ultimo lo stesso grado di legittimità democratica che possiede il legislativo. In secondo luogo, abbiamo il giurì nella giustizia penale e civile: Tocqueville ritiene, come Constant, che la partecipazione ai processi nella veste di giurati crei nel popolo un abito giuridico, ossia una disposizione al rispetto dei diritti altrui, contro le tendenze egoistiche e anarcoidi.

Questi contrappesi, per quanto importanti, non sarebbero tuttavia sufficienti. Un ruolo decisivo spetta, ancora una volta, al decentramento amministrativo e al corpo dei giudici. Sul primo ci siamo già soffermati: qui basti ricordare che il governo centrale si deve affidare ai comuni ed alle contee per eseguire le proprie direttive; in tal modo questi enti vengono a costituire, secondo Tocqueville, una sorta di scogli nascosti, che possono ritardare o dividere il potente flutto della volontà popolare. E' questa la differenza fondamentale che separa la democrazia americana da quella europea (in particolare, da quella francese): mentre quest'ultima ha ereditato il centralismo politico-ammistrativo della monarchia assoluta, quella americana è nata come democrazia, senza precedenti assolutistici e rivoluzionari. In essa il principio della sovranità popolare viene dal basso, dai costumi e dalle abitudini delle comunità puritane, dai modi di organizzare il potere locale, nei comuni e nelle contee, anche quando il legame con l'Inghilterra non permetteva di utilizzare tale sistema a livello centrale: la sovranità popolare si è sviluppata 'dal basso verso l'alto' e 'dai costumi alle leggi'. Il suo principio fondante - la sovranità popolare - ha ricevuto un'applicazione e un consenso che non sono riscontrabili sul continente europeo:

negli Stati Uniti il dogma della sovranità del popolo non è una dottrina isolata, che non tenga conto né delle abitudini né dell'insieme delle idee dominanti, ma può considerarsi invece come l'ultimo anello di una catena di opinioni che circonda tutto il mondo anglo-americano. La Provvidenza ha elargito a ciascun individuo, chiunque esso sia, quel tanto di ragione necessario perché egli possa dirigersi da solo nelle cose che lo interessano personalmente. E' questa la gran massima sulla quale negli Stati Uniti riposa la società civile e politica; il padre di famiglia l'applica ai suoi figli, il padrone ai suoi servi, il Comune ai suoi amministrati, la Provincia ai Comuni, lo Stato alle Provincie, l'Unione agli Stati. Estesa all'intera nazione questa massima diviene il dogma della sovranità popolare.

Sono chiari, in questo brano, i riferimenti - per contrasto - all'Europa e, in particolare, alla Francia: la sovranità popolare non è una dottrina isolata, ossia che non tenga conto delle abitudini e dell'insieme delle idee dominanti. Evidente la critica alla teoria politica partorita dalla cultura illuministica: essa non tiene conto della storia, del passato, della concreta configurazione assunta dalla società e dalla mentalità degli uomini; la ragione si erge, assoluta, di fronte al reale nella sua varietà e molteplicità, non riconoscendo ad esso alcuna razionalità e pretendendo quindi di ridisegnarlo completamente secondo i suoi astratti criteri. Viceversa, negli Stati Uniti, la democrazia (vale a dire, il principio della sovranità popolare) si è innestato naturalmente sul tronco della realtà sociale e culturale.

Ma torniamo all'ultimo contrappeso che consente alla democrazia americana di essere una democrazia liberale: gli uomini di legge, che Tocqueville chiama 'legisti'. Essi svolgono una funzione cruciale nel sistema americano, perché intervengono in due fasi sulle leggi, ossia sullo strumento-principe della democrazia: nella fase della redazione (nelle assemblee legislative spetta a loro redigere materialmente i testi di legge) e in quella dell'applicazione, in quanto giudici. I legisti rappresentano, agli occhi di Tocqueville, una specie di aristocrazia, nella società democratica americana: essi formano un 'corpo', essendo uniti dagli studi comuni e da una comune mentalità. Questa mentalità consiste in una «istintiva tendenza all'ordine», in un «amore naturale delle forme» e in un «grande disgusto per le azioni della moltitudine»: come si può vedere, sono presenti il richiamo alla legalità, allo spirito giuridico (concepito come qualcosa di opposto al disordine violento della piazza) e all'ordine[49]. Perciò negli Stati Uniti il corpo dei legisti forma il più potente contrappeso alla democrazia: quando il popolo si lascia inebriare dalle proprie passioni, o si abbandona ai propri impulsi, i legisti gli fanno sentire un freno quasi invisibile che lo modera e lo trattiene:

ai suoi istinti democratici, essi oppongono segretamente le loro tendenze aristocratiche; al suo amore della novità, il loro rispetto superstizioso per ciò che è antico; all'immensità dei suoi piani, le loro vedute ristrette; al suo disprezzo delle regole, il loro gusto per le forme; e alla sua foga, la loro abitudine di procedere con lentezza.

Bedeschi ha giustamente osservato che queste pagine non devono essere catalogate come semplicemente conservatrici: «la critica tocquevilliana del potere irresistibile o tirannico della maggioranza nelle società democratiche, che si esprime sia attraverso il conformismo di massa sia attraverso passioni o impulsi irrazionali ... è ispirata a un rispetto religioso per l'individuo, per la sua libertà intellettuale e morale, per l'autonomia della sua sfera interiore e della condotta che ne discende. E' una critica, insomma, autenticamente liberale»[50].

Concludiamo facendo qualche cenno alla seconda parte della Democrazia in America. Scritta a pochi anni di distanza, essa non costituisce un semplice prolungamento della prima; il lettore assiste infatti a vari e significativi cambiamenti, che non sempre sono coerenti con le tesi sostenute nella prima parte.

In primo luogo, mentre la prima parte dell'opera è più concreta e mira a offrire, con testimonianze e informazioni di prima mano, un ritratto socio-politico della democrazia americana, nella seconda parte quest'ultima passa sullo sfondo, mentre l'Autore, guardando prevalentemente alla situazione francese ed europea, mira soprattutto a cogliere le caratteristiche più generali di una civiltà egualitaria. Oltre ad essere più astratta nel metodo, la seconda parte della Democrazia in America è, in secondo luogo, più pessimistica nella sostanza e nel tono; il concetto della 'tirannia della maggioranza' viene ripreso e approfondito sino a divenire il connotato essenziale delle società democratiche, caratterizzate da un pesante conformismo di massa. In terzo luogo, il centralismo politico-amministrativo viene visto come una tendenza in certa misura inevitabile delle società democratiche, il che significa che quanto più la democrazia realizza se stessa (cioè eguaglia le condizioni sociali), tanto più distrugge la libertà intesa come autodeterminazione dei singoli e autonomia della società civile[51]. In quarto e ultimo luogo, nella seconda parte emerge con grande rilievo un problema di formidabile importanza: la rivoluzione industriale e i suoi effetti sulla società. E qui i toni pessimistici di Tocqueville saranno assai vicini a quelli della contemporanea letteratura socialista.

Vediamo ora di chiarire meglio tutti i punti appena indicati. Fra i temi che tornano con forte accentuazione negativa v'è anzitutto quello delle conseguenze dell'uguaglianza sullo spirito pubblico. Man mano che i cittadini diventano più simili, cresce la disposizione di ciascuno a identificarsi nella massa e a credere in essa, il che significa che l'opinione pubblica, l'opinione della maggioranza, viene a godere, presso i popoli democratici, di un singolare potere: essa «non fa valere le proprie opinioni attraverso la persuasione, ma le impone e le fa penetrare negli animi attraverso una specie di gigantesca pressione dello spirito di tutti sull'intelligenza di ciascuno», ragion per cui «si può prevedere che la fede nell'opinione pubblica diverrà una specie di religione, di cui la maggioranza sarà il profeta».

Inoltre la cultura tipica delle società democratiche sarà sempre più una cultura di massa, priva di idee originali e pervasa di idee generali, accettate senza discussione:

gli uomini che vivono in epoche di eguaglianza - osserva Tocqueville - hanno molte curiosità e poco tempo libero; la loro vita è così pratica, così complicata, così agitata, così attiva, che resta loro soltanto poco tempo per pensare. Gli uomini dei secoli democratici amano le idee generali, perché queste li dispensano dallo studiare i casi particolari; esse contengono, se così posso esprimermi, molte cose in piccolo volume, e producono molto in poco tempo.

L'eguaglianza delle condizioni produce un analogo livellamento nello spirito pubblico: uomini uguali nei diritti, nell'educazione, nella fortuna, cioè uomini di uguale condizione, hanno necessariamente bisogni, abitudini e gusti assai simili; e poiché «vedono le cose sotto lo stesso aspetto, la loro mente propende naturalmente verso idee analoghe, e per quanto ciascuno possa discostarsi dai suoi contemporanei e farsi convinzioni proprie, finiscono per ritrovarsi tutti, senza saperlo e senza volerlo, in un certo numento di opinioni comuni».

In una società siffatta le personalità fortemente marcate e originali sono sempre più rare, le grandi rivoluzioni intellettuali e spirituali pressoché impossibili. Infine, l'eguaglianza, che pure porta grandi vantaggi, induce negli uomini un amore eccessivo per il benessere materiale: una sorta di materialismo, negatore di qualsiasi trascendenza, finisce per diventare l'atteggiamento spirituale della società, il quale a sua volta isola gli uomini gli uni dagli altri, portando ciascuno a occuparsi soltanto di se stesso e del proprio status sociale.

In generale, nei popoli democratici l'amore per l'eguaglianza sopravanza quello per la libertà: essi vogliono l'eguaglianza nella libertà, dice Tocqueville, ma se non possono ottenerla, la vogliono anche nella schiavitù. Questo atteggiamento deriva dal materialismo e dall'individualismo delle società democratiche: preoccupati soltanto di fare fortuna, gli individui non scorgono più lo stretto legame che unisce la prosperità di ciascuno a quella di tutti. Estrema unformità sociale e individualismo sfrenato, per quanto possano apparire contrapposti, si mostrano sempre, nell'analisi di Tocqueville, come due facce della stessa medaglia, come i due aspetti inscindibili della società democratica. Ai cittadini di questa società i diritti politici sembrano un contrattempo noioso, che li distoglie dalle loro occupazioni; essi se ne lasciano quindi privare volentieri[52]. Ecco così che la democrazia - che nasce come unione di diritti civili e politici, estendendo per la prima volta a tutti i secondi - contiene nel suo seno tendenze profonde verso l'annullamento di quelle libertà. Essa può così dare luogo, in certe circostanze, al cesarismo: è sufficiente che il nuovo Cesare provveda alla prosperità di tutti gli interessi materiali e che garantisca l'ordine.

E' comunque l'accentramento politico-amministrativo il vero pericolo mortale delle democrazie moderne. Anche meno di cento anni fa, scrive Tocqueville, esistevano in Europa privati o enti indipendenti che amministravano la giustizia, arruolavano soldati, riscuotevano imposte e che spesso promulgavano norme. Oggi lo Stato ha ormai avocato a sé tutte le funzioni della sovranità: esso non tollera più alcuna istituzione intermedia tra sé e il cittadino. E' insomma andata persa, sostiene Tocqueville sulle orme di Montesquieu, quella ricca articolazione pluralistica della società civile, che in vario modo limitava il potere dello Stato e tutelava la libertà. Sappiamo come negli Stati Uniti sia stata evitato questo lento soffocamento della società civile; ma in Europa le cose sono andate altrimenti, soprattutto dove il principio egualitario si è affermato attraverso una rivoluzione violenta. Scomparse infatti di colpo tutte le istituzioni intermedie, lo Stato si è trovato di fronte un'immensa massa da amministrare e l'accentramento si è quindi rivelato necessario. In generale, su tutta l'Europa è scesa la coltre di una legislazione uniforme, che si è sviluppata di pari passo con il processo democratico. Il risultato è stato ovunque lo stesso: il sovrano ha concentrato nelle sue mani tutto il potere che era diffuso nella società, finendo in tal modo per doversi occupare di tutti i più minuti affari amministrativi. E' nato così un nuovo Stato paternalistico, in cui il sovrano si ritiene responsabile delle azioni e del destino di ciascuno dei sudditi e opera al fine di illuminarli e aiutarli, rendendoli - se occorre - felici loro malgrado. Dal canto loro, i cittadini considerano sempre più il potere politico sotto questa prospettiva, invocando il suo aiuto per qualsiasi circostanza o bisogno. Secondo Tocqueville,

in tutti i paesi d'Europa l'amministrazione pubblica non solo è diventata più centralizzata, ma anche più inquisitiva e più minuziosa; ovunque essa penetra più profondamente di un tempo negli affari privati; ovunque regola a suo modo un numero sempre più grande di azioni sempre più piccole e si insedia, ogni giorno di più, a fianco di ogni cittadino, intorno a lui e sopra di lui, per assisterlo, consigliarlo e costringerlo.

A ciò si deve aggiungere la rivoluzione industriale, con l'immenso aumento del bisogno di infrastrutture che essa porta con sé: strade, canali, porti, ecc. Ma queste sono opere che soltanto lo Stato può intraprendere: il suo intervento si estende quindi "necessariamente" anche alla sfera economica. Il quadro complessivo che ne risulta fa sì che i vecchi concetti di 'dispotismo' o di 'tirannide' risultino ormai inadeguati: l'oppressione che vige nei sistemi democratici è infatti del tutto diversa dalle oppressioni che l'hanno preceduta. Essa è molto più diffusa e più "dolce", perché non fa tanto affidamento sulla coercizione fisica, quanto sulla persuasione. Giustamente celebre la pagina in cui Tocqueville profetizza le caratteristiche della società democratica del futuro.

Vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali - scrive il pensatore normanno - che non fanno che ruotare su se stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. Ciascuno di questi uomini vive per conto suo ed è come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li tocca ma non li sente; non esiste che in se stesso e per se stesso, e se ancora possiede una famiglia, si può dire perlomeno che non ha più patria.

Al di sopra di questi uomini, prosegue Tocqueville, si erge un potere immenso e tutelare, che provvede al loro benessere e alla loro sorte. Tale potere

è assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite. Assomiglierebbe all'autorità paterna se, come questa, avesse lo scopo di preparare l'uomo all'età virile, mentre non cerca che di arrestarlo irrevocabilmente all'infanzia; è contento che i cittadini si svaghino, purché non pensino che a svagarsi. Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole esserne l'unico agente ed il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri, regola le loro successioni, spartisce le loro eredità; perché non dovrebbe levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere?

Contro questo immenso e dolce dispotismo - che asservisce totalmente gli individui e che crea un mostruoso sistema di controllo capillare, di uniformità intellettuale e morale e di infiacchimento delle coscienze e della società civile - Tocqueville invoca come rimedio soprattutto un largo decentramento amministrativo, sul tipo di quello statunitense, e un ampio sviluppo dell'associazionismo. Egli infatti vede nelle associazioni (politiche, economiche o culturali che siano) una sorta di "grandi individui", illuminati e potenti, che non possono essere assoggettati a piacere, né oppressi in segreto, e che difendendo i loro diritti particolari contro le esigenze del potere salvano le libertà comuni. Qui si coglie, è stato acutamente osservato, «la vocazione schiettamente pluralistica della concezione liberale di Tocqueville, in netto contrasto con quanto si era storicamente realizzato in Francia nell'incontro fra l'esperienza democratico-giacobina e la tradizione del centralismo amministrativo»[53]. Tocqueville confida inoltre, con argomentazioni assai vicine a quelle di Constant, nella libertà di stampa:

la libertà di stampa è infinitamente più preziosa nelle nazioni democratiche, che non nelle altre; essa è il solo rimedio alla maggior parte dei mali prodotti dall'eguaglianza. L'eguaglianza isola e indebolisce gli uomini; ma la stampa pone a fianco di ciascuno un'arma potentissima, che può essere usata anche dal più debole e dal più isolato. L'eguaglianza toglie a ogni individuo l'appoggio di coloro che lo circondano; ma la stampa gli permette di chiamare in aiuto i suoi concittadini e tutti i suoi simili. La stampa ha accelerato i progressi dell'eguaglianza ed è uno dei suoi migliori correttivi.

Tocqueville crede all'efficacia di questi rimedi, tanto che afferma di aver voluto sottolineare i pericoli che l'eguaglianza fa correre alla libertà perché questi pericoli sono sì tremendi, ma non per questo sono insormontabili. Con un movimento tipico del suo pensiero, egli passa infatti a considerare nuovamente i vantaggi che la democrazia sembra comunque garantire: anzitutto essa distribuisce più equamente le ricchezze, facendo sì che scompaiano le grandi diseguaglianze economiche; e se è vero che in essa gli animi non hanno più l'energia che caratterizzava le epoche aristocratiche, è altrettanto vero che i costumi sono più miti e le legislazioni più umane; le grandi dedizioni e i grandi entusiasmi sono rari, ma altrettanto rare sono le grandi crudeltà e le grandi violenze; la vita degli uomini diventa più lunga e sicura, e la cultura, sia pure in forme più approssimative, ha una diffusione assai più estesa. In breve,

quasi tutti gli estremi si mitigano e si smussano; quasi tutti i punti salienti si cancellano, per far posto a qualche cosa di medio, che è contemporaneamente meno elevato e meno basso, meno luminoso e meno cupo di quello che si vedeva prima nel mondo.

Senonché, la rivoluzione industriale complica sensibilmente questo quadro. Essa determina infatti una serie di pericolosi effetti: anzitutto le crisi cicliche, che il pensatore normanno ritiene strutturali. In secondo luogo, essa promuove una divisione del lavoro che mortifica gli individui, proprio nel momento in cui la società si apre ai talenti individuali:

quando un operaio si dedica unicamente e con continuità alla fabbricazione di un solo oggetto, finisce con l'assolvere questo lavoro con destrezza singolare. Perde, però, nello stesso tempo la facoltà generale di applicare la mente alla direzione del lavoro. Diventa ogni giorno più abile e meno capace, e si può dire che in lui l'uomo si degrada nella stessa misura in cui l'operaio si perfeziona.

Oltre a ciò, la misera condizione operaia è accompagnata dal continuo innalzamento della condizione dei capitalisti:

mentre l'operaio riduce sempre più la sua intelligenza allo studio di un solo particolare, il padrone fa spaziare ogni giorno di più il suo sguardo su un vasto insieme e il suo spirito si allarga nella stessa proporzione in cui quello dell'altro si restringe. Presto non sarà più necessaria al secondo altro che la forza fisica, senza l'intelligenza; il primo ha invece bisogno della scienza, e quasi della genialità, per riuscire. Uno assomiglia sempre più all'amministratore di un vasto impero, e l'altro a un bruto.

Cos'è tutto questo, si chiede Tocqueville, se non la formazione di una nuova aristocrazia? Dunque dalle viscere più profonde della democrazia rinasce il suo antico nemico? In un certo senso, risponde il pensatore normanno, è proprio così. Si tratta però di un'aristocrazia nuova, che non assomiglia a quelle che l'hanno preceduta: le leggi e le consuetudini obbligavano le aristocrazie passate a prendersi cura dei loro servitori, alleviandone la miseria; l'aristocrazia manifatturiera, invece, dopo aver abbrutito e impoverito gli uomini di cui si serve, li abbandona, in tempi di crisi, alla carità pubblica; né l'abitudine, né il dovere legano gli industriali e gli operai. Da questo punto di vista l'aristocrazia manifatturiera è uno delle più dure, dice Tocqueville, che siano mai apparse sulla terra.

Le assonanze con l'analisi marxiana sono evidenti. E' stato però giustamente osservato che mentre in Marx opera un'ispirazione salvifica ed escatologica (l'inferno della condizione operaia prepara il paradiso della società comunista), in Tocqueville prevale il pessimismo dell'intelligenza e il realismo della spregiudicata osservazione storica. Occorre ricordare, inoltre, che la riflessione del pensatore normanno è animata da valori che si collocano agli antipodi di quell'aspirazione all'egualitarismo - e quindi ad una società coesa e compatta, nella quale l'individuo si fonde nel tutto - che costituisce il tratto saliente del pensiero di Marx. La realtà è che Tocqueville è il primo pensatore liberale che coglie e sperimenta drammaticamente le tendenze liberticide insite della democrazia moderna: esse sono costituite - come abbiamo visto - dal pervasivo conformismo di massa, dalla crescente uniformità prodotta dell'egualitarismo, dall'accentramento politico-amministrativo (che conduce all'ipertrofia degli apparati statali) e, da ultimo, dalla rivoluzione industriale, con la connesse questioni sociali. Sotto questo profilo, è stato giustamente osservato,

l'opera di Tocqueville costituisce la migliore smentita della tesi secondo la quale il pensiero etico-politico liberale sarebbe una pura e semplice apologia della società borghese moderna. Di tale società Tocqueville ha certo colto i progressi e i vantaggi rispetto alle società pre-borghesi, in primo luogo la sua capacità di produrre una libertà quale espressione più alta della personalità umana e della sua intima energia creatrice. Al tempo stesso, però, Tocqueville non ha ignorato i pericoli che nella società democratico-borghese minacciano la libertà, e anzi li ha posti, drammaticamente, al centro della propria analisi. E proprio in questa tensione è da cercare l'aspetto più affascinante e più moderno del suo pensiero.[54]


Note al testo

[*] Il lettore si chiederà perché tredici, dal momento che le lezioni sono dodici. La questione è molto semplice. Avevo considerato imprescindibile il pensiero di Agostino, e dunque avevo preparato la lezione.

[2] F. Valentini, Platone, in Id., Politica, I vol., Sansoni, Firenze 1969, vol. I, p. 63.

[3] Nei dialoghi platonici è frequente il richiamo all'arte medica, come modello da imitare: essa, basandosi su una rigorosa metodologia induttiva e dialogica, costituisce, agli occhi di Platone, un sapere scientifico. Inoltre la malattia è spiegata come perturbamento dell'armonia di un corpo sano, perturbamento che può essere superato solo con la collaborazione tra medico e paziente.

[4] Cfr., supra, p. 8.

[5] Cfr., supra, cap. 1, pp. 21-22.

[6] Cfr., supra, cap. 2, p. 34.

[7] Cfr., supra, cap. 1, p. 16.

[8] Cfr., supra, cap. 3, p. 46.

[9] F. Valentini, Politica, Sansoni, Firenze 1969, p. 423.

[10] La considerazione di Machiavelli non è affatto scontata. Soltanto avendo presente la serie di guerre e di rivolgimenti politici di cui l'Italia è teatro nella prima metà del '500 - guerre accompagnate da una girandola di alleanze che si scompaginavano e si ricomponevano nel giro di pochi mesi, e rivolgimenti segnati da varie 'efferatezze' - si può comprendere quanto pregnante sia l'espressione machiavelliana di «variazione grande delle cose ... fuori di ogni umana coniettura».

[11] N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol. III, TEA, Milano 1993, p. 42.

[12] N. Bobbio, La teoria politica di Hobbes, 1981, in Id., Hobbes, Einaudi, Torino 1989, p. 30.

[13] Cfr., supra, cap. 2, pp. 27-29.

[14] N. Bobbio, Il modello giusnaturalistico, in N. Bobbio e M.Bovero, Società e stato nella filosofia politica moderna, Il saggiatore, Milano 1979, pp. 44-45.

[15] N. Bobbio, Studi lockiani (1965), in Da Hobbes a Marx, Morano, Napoli 1971², p. 84.

[16] E' interessante osservare come la Dichiarazione di indipendenza (1776) delle colonie americane dalla madrepatria inglese riprenderà quasi letteralmente gli argomenti addotti da Locke, circa un secolo prima, per giustificare il diritto di resistenza.

[17] G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 72.

[18] P. Casini, Introduzione a Rousseau, Laterza, Roma-Bari 1981 (2 ed.), p. 8.

[19] N. Bobbio, Il modello giusnaturalistico, in N.Bobbio e M. Bovero, Società e stato nella filosofia politica moderna, Il Saggiatore, Milano 1979, p. 20.

[20] Cfr., supra, cap. 2.

[21] F. Valentini, Politica, II vol., Sansoni, Firenze 1969, p. 145.

[22] L'uomo probo, scrive Rousseau, è un atleta al quale piace combattere nudo; egli disprezza tutti quei vili ornamenti che impacciano l'uso delle sue forze e che, nella maggioranza, non sono stati inventati che per celare qualche deformità.

[23] P. Rossi, Introduzione, in J.J. Rousseau, Opere, Sansoni, Milano 1993, p. XX.

[24] Cfr., supra, pp. 110-111.

[25] N. Bobbio, Il modello giusnaturalistico, cit., p. 68.

[26] N. Bobbio, Kant e le due libertà (1960), in Id., Da Hobbes a Marx, Morano, Napoli 1971², p. 161

[27] Per diritto di resistenza si intende il diritto di disobbedire, in determinate circostanze e per determinate ragioni, all'autorità. Come si ricorderà, Locke ammetteva tale principio: cfr., supra, cap. 7, p. 98.

[28] Su tale nozione, cfr., supra, cap. 8, p. 114, e, infra, cap. 10, pp. 147-148.

[29] G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 102.

[30] Cfr., supra, cap. 7.

[31] Cfr., supra, cap. 8.

[32] Cfr., supra, cap. 6.

[33] Cfr., supra, cap. 7, p. 98.

[34] Sul concetto di "limitazione materiale", cfr., supra, cap. 7, p. 89.

[35] N. Bobbio, Studi hegeliani, in Id., Da Hobbes a Marx, Morano, Napoli 1971², p. 227.

[36] Rosenkranz è un allievo di Hegel, che fu anche il suo primo biografo.

[37] Cfr., supra, capp. 6, 7 e 8.

[38] Cfr., supra, cap. 7, p. 89.

[39] G. Bedeschi, Il pensiero politico di Hegel, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 91-92.

[40] Sulla nozione di società civile in Hegel, cfr., supra, cap. 11, pp. 168-173.

[41] G. Bedeschi, Introduzione a Marx, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 6.

[42] Sull'idealizzazione della polis antica nel pensiero politico moderno, cfr., supra, cap. 10, p. 146.

[43] G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 177.

[44] Ivi, p. 180.

[45] Ivi, p. 180.

[46] Ivi, p. 180.

[47] G. Bedschi, Il pensiero politico di Tocqueville, Laterza, Roma-Bari 1996, p.13.

[48] Si pensi all'interpretazione di F. Valentini, contenuta nel II volume di Filosofia politica, op.cit..

[49] Tocqueville sottolinea, ad esempio, il criterio del 'precedente' nell'esercizio della giustizia americana e inglese, ritenendo che esso costituisca un fattore di ordine e conservazione.

[50] G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, cit., p. 198-199.

[51] Alcuni studiosi hanno infatti istituito un parallelo tra la camica di forza del centralismo politico-amministrativo di cui parla Tocqueville e il tema weberiano della razionalizzazione burocratica.

[52] Su questo aspetto della modernità si era già soffermato Constant: cfr., supra, cap. 10, pp. 149-150.

[53] G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, cit., p. 209.

[54] Ivi, p. 216.