Quando mai Gesù ha detto che bisogna leggere, che fare cultura è importante, che vale la pena riflettere e scrivere? Breve nota di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 13 /02 /2024 - 22:56 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Sacra Scrittura ed Educazione e cultura.

Il Centro culturale Gli scritti (13/2/2024)

Se ci si fermasse solo alle parole pronunciate alla lettera da Gesù, si potrebbe ritenere superficialmente che lo studio e la cultura non appartengano al cristianesimo e che non siano importanti per la fede.

Mai, infatti, Gesù dice ai suoi discepoli di leggere o di studiare. Mai esiste un riferimento a scuole e università nelle parabole.

Mai si indica un apostolo o una discepola di Gesù che passi ore e ore in una biblioteca o che, per l’epoca, consumi i suoi occhi sui rotoli o sui papiri e le pergamene.

Se ci si basasse sul Sola scriptura neotestamentaria, si potrebbero citare solo pochi versetti sullo stesso fatto dello scrivere e, quindi, del leggere.

In Paolo si ricorda: “Portami i libri e le pergamene” (2 Tm 4,13).

In Apocalisse si dice: “Scrivi ciò che hai visto” (Ap 1,19).

Matteo ricorda che per Gesù ci sono scribi sapienti divenuti discepoli del regno che “traggono dal loro tesoro cose antiche e cose nuove” (Mt 13, 52).

Nel finale di Giovanni si dice che è “il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte e che “vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere” (Gv 21, 24-25).

I riferimenti allo scrivere e al leggere conseguente sono apparentemente pochi – fra breve si ricorderanno altri testi – eppure se ben compresi, già questi soli passaggi sono enormi.

Ma se guardiamo il non detto è chiarissimo che Gesù non solo parlava aramaico, ma sapeva anche leggere l’ebraico non vocalizzato – si pensi al rotolo di Nazaret dove egli trova e legge Isaia che, come è d’uso nelle sinagoghe ancora oggi, non era vocalizzato.

È evidentissimo che Gesù aveva studiato, anche se non sappiamo dove e come, in profondità le Scritture e le citava continuamente per mostrare come esse si compivano in Lui.

Il mio professore del Pontificio Istituto Biblico di Greco neotestamentario, John Welch S.J., sosteneva – e credo a ragione – come Gesù conoscesse anche il greco, in una Galilea dove il greco era utilizzato frequentemente e dove alcuni dei discepoli, come Andrea, avevano chiaramente nomi greci – diversi esegeti paragonano il greco della koinè all’inglese odierno, che, almeno in alcune espressioni d’uso comune, è noto a tutti coloro che hanno un minimo di cultura.

Da tekton, cioè precisamente manovale e non falegname – le case allora avevano travature in legno e anche la moderna parola architetto, ricorda colui che è il capo dei manovaliGesù dovette apprendere ed utilizzare i conti e la contabilità, il disegno e la progettazione tecnica di case, anche se piccole, apprendere l’utilizzo di strumenti di lavoro con i loro segreti e le loro potenzialità. 

In quei trent’anni di vita nascosta Gesù si misurò con la cultura e vi crebbe.

Ed è per questo che tutto il suo parlare e argomentare risplende della lettura dei segni dei tempi come così dello stare nel linguaggio e nella sapienza dei popoli: cosa fa un amministratore, cosa uno scriba sapiente, cosa un contadino, un pescatore, come si comporta un militare che calcola se ha le forze per una battaglia, cosa riflette un amante delle diverse specie della natura che vestono i loro colori, come ragiona uno che sa come porre le fondamenta di una casa, cosa è il corpo e come guarisce, cosa è la gratitudine, cosa è uno sposo per la sposa e cosa sono i figli, come si comportano, come si allontanano e come tornano e come si accompagnano, cosa è avere servi addetti alle proprie cose, cosa è un’eredità e cosa è andare da un avvocato per una lite, cosa è l’esperienza di una torre che cade o del male che si abbatte a causa del potere politico di Pilato, cosa è il governo di Erode Antipa e la danza di una donna capace, a motivo dell’invidia, di far uccidere un profeta, quanti anni sono necessari per abbellire il Tempio da parte di Erode e cosa è l’usura del tempo e dell’inimicizia umana che tutto distrugge, cosa è una donna che ha avuto sei amanti e non è mai stata soddisfatta, cosa è un amico che muore e cosa la sua resurrezione, cosa è la speranza dell’uomo e la sua preghiera.

Mai Gesù condanna gli studi degli scribi, anzi invita a farsi loro discepoli, limitandosi a ricordare di non comportarsi poi come loro si comportano.

Come intuiscono diversi esegeti – è il caso di Jeremias solo per citarne uno – Gesù insegnò ai suoi in forma orale, utilizzando tecniche di memorizzazione, che erano molto più comuni all’epoca di oggi, quando si era capaci di ricordare a memoria interi poemi.

E i suoi discepoli annunziarono quanto egli predicava già prima della Pasqua, recandosi a due a due ad insegnare ciò che egli insegnava e imparando a ritenere quanto egli andava predicando.

Se la viva trasmissione delle sue parole e la testimonianza viva di quanti egli compiva precedevano la scrittura del Nuovo Testamento, se la chiamata degli apostoli - con Simone detto da lui Cefa e il numero dei Dodici che rinnova la nascita del popolo ebraico con i dodici figli di Giacobbe - attesta con evidenza quanto Gesù volesse la Chiesa ben prima e ben oltre gli scritti che ne parlano, d’altro canto è evidente che proprio quegli scritti pur successivi sono un segno chiarissimo di come tutti sapessero che il Cristo amava che si scrivesse, si leggesse e si studiasse, gettando, come in una bottiglia nel mare, un messaggio che potesse essere raccolto anche al di là dei confini dei credenti.

L’esistenza stessa della Sacra Scrittura mostra come i discepoli di Gesù avessero chiaro che, se prima di tutto veniva la parola e la testimonianza viva, sarebbe stato sbagliato dimenticare poi il valore dello scrivere.

Si scrive per non dimenticare, ma anche per trasmettere ad altri in maniera che qualcosa resti. Si scrive per amore di espressioni, ricordi e pensieri che non debbono cancellarsi mai.

La Sacra Scrittura è un dono della Chiesa al mondo, perché tutti possano conoscere quel tesoro.

Si ponga mente al fatto di incredibile importanza che i Vangeli e tutti gli scritti del NT – nessuno escluso – vennero scritti in una lingua diversa da quella che parlava Gesù. Che salto culturale, che viaggio fra culture, parlare di Lui in un’altra lingua, il greco.

Ma che valore ne deriva alla bellezza della cultura e al suo utilizzo nella fede!

È il viaggio che già aveva compiuto tutto l’AT, non solo immane patrimonio di cultura, ma anche tesoro traghettato dai maestri ebrei con la loro versione dei LXX e le altre versioni ellenistiche, nel greco, nella lingua parlata dagli ebrei della diaspora e dai pagani, con la Bibbia greca utilizzata poi da Paolo[1].

Già i sapienziali avevano mostrato un amore enorme al pensiero dei popoli, dalla confutazione dello scetticismo compiuto da Qohèlet, che mostra che è dell’uomo che bisogna diffidare e non di Dio, dalla problematizzazione del male compiuta da Giobbe, dalla raccolta della sapienza dei saggi in Proverbi e Siracide, con l’invito a viaggiare a studiare, dalla scelta decisa di fare poesia dei Salmi e del Cantico dei Cantici, perché anche la poesia e la poesia d’amore è cultura capace di parlare ai cuori. Per non parlare poi della Sapienza, insieme ebraica e greca.

Ma, poi ancora nel Nuovo Testamento, è Paolo a parlare all’Areopago e citare le are pagane con le dediche agli “dèi ignoti” e gli stichi dei poeti.

Ed è Luca a assicurare di aver fatto ricerche storiche e di aver confrontato testi diversi, cosa di cui siamo sicuri sia avvenuta proprio quando raffrontiamo i diversi sinottici e poi Giovanni.

Ed è la comunità giovannea ad intervenire più volte nella stesura del quarto Vangelo.

Le lettere di Paolo, e le deutero e trito paoline, come le lettere alle sette chiese, come le lettere apostoliche, mostrano come la qualità della scrittura nell’invio reciproco di testi e di dissertazioni – Romani ed Ebrei sono veri e propri trattati dogmatici e non testi narrativi – appartenga al cristianesimo primitivo che intese subito fare cultura.

È per questo che i padri della Chiesa furono poi filosofi e teologi, proseguendo tale scia. Sono “padri” della Chiesa, perché ciò che loro hanno fatto lo hanno insegnato alle generazioni successive come costitutivo[2].

Agostino arriverà a scrivere: Fides si non cogitata nulla est[3].

Sì, senza cultura non c’è vera fede[4]. Ognuno deve avere una comprensione “colta”, “coltivata”, della fede tanto quanto è la sua competenza negli ambiti della vita. In proporzione, insomma: se uno fosse più competente nell’ambito dell’avvocatura o della ricerca scientifica rispetto alla propria conoscenza della fede, avrebbe una vita spirituale infantile e debole.

In qualche modo si inganna, quindi, Ermanno Olmi, quando nel film Centochiodi del 2007 volle lasciar intuire che i libri erano pericolosi ed andavano crocifissi, perché solo l’esperienza vivente di un gruppo di barcaioli del Po avrebbero potuto testimoniare il Vangelo: ma fare un film come il suo non equivale a fissare delle immagini, esattamente come si fa con un libro? Se l’assunto fosse stato vero, egli non avrebbe dovuto girare un film e si sarebbe dovuto, invece, limitare a vivere il Vangelo e a raccontarlo con la propria esistenza, mentre invece ne fece pellicola.

Certo Gesù non scrisse niente e nemmeno disse di scrivere, perché fosse chiaro che Lui stesso era la Parola di Dio completa e che la Chiesa lo trasmetteva con la presenza eucaristica – più viva e forte di centomila testi letterari – e con la carità vicendevole dei discepoli. Ma altrettanto certamente egli non solo non escluse la cultura, ma anzi la implicò, crescendo in essa egli stesso e istruendo i suoi.

Essi compresero, per questo, che era volontà del loro Signore che essi si immischiassero nelle modalità abituali di maturazione dell’uomo, fin nello scrivere. E lo Spirito Santo si servì di tale intuizione per sostenere e illuminare gli scrittori dei vangeli e delle lettere con la sua ispirazione.

Cristo vuole la cultura, non lo dimentichiamo.

E anche i suoi discepoli che ebbero enorme attenzione alla dimensione sociale, nei secoli, lo attestano. Si pensi solo a don Lorenzo Milani. Come ha detto papa Francesco: «Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani».



[1] Sull’enorme valore delle diverse traduzioni della Bibbia, in particolare della LXX, e sul rapporto fra Scrittura e trasmissione orale in Israele e nella Chiesa, cfr. A. Lonardo, La Parola si è fatta carne, non libro. I "misteri" della vita di Gesù tra Scrittura, liturgia e arte, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2019 (insieme a L. Mugavero).

[3] S. Agostino, De praedestinatione Sanctorum, c. II, 5. Cfr. su questo Fides non cogitata, nulla est (da Clemente Riva).