1/ Breve nota de Gli scritti, Il mancato confronto col passato che è all’origine del malcostume contemporaneo in tema di cultura e d’arte 2/ Addio a Nicolini, inventò la politica spettacolo. Renato il dadaista (e i suoi epigoni), di Massimo Onofri 3/ I "padroni" delle mostre. Ecco come l’industria culturale le ha ridotte a merce di consumo, funzionale al potere di turno, trasformando i critici d'arte in servitori degli eventi. Altra pagina dello sfruttamento del Bel Paese, di Maurizio Cecchetti

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 25 /03 /2024 - 00:09 am | Permalink | Homepage
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1/ Breve nota de Gli scritti, Il mancato confronto col passato che è all’origine del malcostume contemporaneo in tema di cultura e d’arte

Il Centro culturale Gli scritti (24/3/2024)

Il mondo della cultura non ha ancora compiuto, a tutt’oggi, un serio e serrato confronto con il passato da cui deriva. Quando si dibatte se fare cultura oggi significhi occuparsi di questioni contemporanee, tenendo alla debita distanza la cultura dei classici – vista con disprezzo come un mondo ormai superato e da superare definitivamente nei suoi ultimi residui – si dimentica proprio di misurarsi con ciò che ha portato alla situazione attuale. Le spinte innovative di un Nicolini - proposto nell’articolo che segue giustamente a capofila di un modo di vedere il mondo e la cultura – si innestavano almeno su di un mondo che conosceva i grandi autori e i grandi temi.

Oggi quel “dadaismo” ha talmente impregnato di sé la stessa scuola e la stessa università che la stragrande maggioranza degli studenti e talvolta degli stessi studenti ignorano Dante e Darwin, Manzoni e Freud, Tommaso Moro e Marx, almeno nella loro vera consistenza, e mentre allora l’effimero era come un diversivo dalla sostanza delle cose, oggi si propone come il tutto e il nulla insieme.

Solo un confronto serrato con i secoli e i millenni renderà la cultura del presente capace di discernere cosa è effimero del dibattito presente e cosa invece metterà radici. Tale discernimento appartiene al compito stesso della ricerca dell’università e della cultura.

Ripubblichiamo i due articoli che seguono – estremamente diretti e provocanti - non perché li condividiamo interamente, ma perché hanno il coraggio di “dare a pensare”.

 2/ Addio a Nicolini, inventò la politica spettacolo. Renato il dadaista (e i suoi epigoni), di Massimo Onofri 

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Massimo Onofri, pubblicato il 6/8/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione e cultura e Arte e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (24/3/2024)

​La morte di Renato Nicolini, l’inventore della mitica Estate romana, mi trova addolorato. Era un uomo spiritualmente bello e di allegra vitalità: di un’allegria, aggiungerei, contagiosa. Era un intellettuale raffinato ma che ha goduto – e godeva ancora – di un autentico e vasto consenso popolare. Un intellettuale di indubbia nobiltà e migliore di molti amministratori capitolini che sarebbero a lui succeduti. Era tutto questo: mentre trasformava, non senza genio, nella Roma che era anche dell’austero Argan (che fortissimamente lo volle) e sarebbe stata dell’indimenticabile Luigi Petroselli, i codici stessi della cultura e della politica: che diventavano, con grande anticipo sui nostri tempi mediatici, spettacolo.

Era tutto questo, insomma, Nicolini: e lo era con un’intelligenza febbrile, formicolante di idee e trovate, che non saprei definire se non dadaista, d’un dadaismo che sarebbe diventato poi di massa, l’ultima declinazione del nichilismo post-moderno (molto lucido e consapevole, nel caso di Nicolini), ma risolutamente consumistico, concentrato sull’effimero, giovanilistico a oltranza, ludicamente sprezzante delle tradizioni, figlio della velocità, di tutte le velocità, e nemico della lentezza che in sé stessa si riposa.

Ma – lo dico senza polemica, da dadaista qual sono – il dadaismo al potere (che nei decenni successivi, persino ai massimi livelli, sarebbe diventato una forma di individuale e pubblica irresponsabilità) può avere anche effetti devastanti e non necessariamente di liberazione collettiva.

Oggi, che molta acqua è passata sotto i ponti dell’Urbe, credo che su questa esperienza si possa e debba fare un ragionamento pacato, meno legato alla pur dolorosa contingenza, ma, se così posso dire, di natura epistemologica: in relazione, cioè, a quell’idea di cultura e politica che Nicolini, come pubblico amministratore, ha profondamente innovato, forse in modo irreversibile.

Il problema, insomma, non è stare a chiederci quanto sia stato bello e giusto, al Massenzio, proiettare per 8 ore di seguito, che so?, la saga di Guerre Stellari: se fosse questo, infatti, saremmo al concetto di sagra applicato al cinema.

Il problema è domandarsi che cosa abbia significato la trasformazione del fatto culturale, anche quello più segretamente privato, in evento pubblico, e la transumanazione dell’autore, negli anni in cui i teorici della letteratura ne proclamavano la morte, in divo. Il problema, insomma, è interrogarsi se sia legittimo, esteticamente e moralmente, mutare una metropoli in palcoscenico da concerto, da stadio: magari con la giustificazione di «far sentire gli abitanti delle periferie più degradate parti integranti della città», per farli entrare «nella Basilica di Massenzio da protagonisti e non da esclusi come accadeva per l’Auditorium di Santa Cecilia».

Prendete il Festival della poesia di Castelporziano: che consacrò definitivamente la perniciosa idea che la poesia non fosse quell’attività aristocraticissima e solitaria che è, ma un fatto di natura e pubblico: magari cucinando sul palco, tutti insieme, un bel minestrone. È proprio da queste esperienze che sarebbe nato il veltronismo. Cioè la politica d’uno che diceva di voler essere il Kennedy di domani mentre sognava di diventare il De Gregori di oggi. Col risultato di fare politica come un cantautore e scrivere romanzi come un politico.

N.B. Breve definizione di Dadaismo da Wikipedia

Il Dadaismo o Dada è una corrente artistica e letteraria d'avanguardia nata a Zurigo, nella Svizzera neutrale nella prima guerra mondiale, e sviluppatasi tra il 1916 e il 1922. Il movimento, che ha interessato soprattutto le arti visive, la letteratura (poesia, manifesti artistici), il teatro e la grafica, incarnava la sua politica antibellica attraverso un rifiuto degli standard artistici, come dimostra il nome dada che non ha un vero e proprio significato, tramite opere culturali che erano contro l'arte stessa. Il Dadaismo ha quindi messo in dubbio e stravolto le convenzioni dell'epoca, dall'estetica cinematografica e artistica, alle ideologie politiche; ha inoltre proposto il rifiuto della ragione e della logica, ed ha enfatizzato la stravaganza, l'umorismo, la libertà espressiva e la derisione. Gli artisti dada erano volutamente irrispettosi, stravaganti, provavano disgusto nei confronti delle usanze del passato; ricercavano la libertà creativa per la quale utilizzavano tutti i materiali e le forme disponibili.

3/ I "padroni" delle mostre. Ecco come l’industria culturale le ha ridotte a merce di consumo, funzionale al potere di turno, trasformando i critici d'arte in servitori degli eventi. Altra pagina dello sfruttamento del Bel Paese, di Maurizio Cecchetti 

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Maurizio Cecchetti, pubblicato il 4/11/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione e cultura e Arte e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (24/3/2024)

Sarebbe interessante, e soprattutto utile, risalire al momento iniziale che ha fatto di un prezioso istituto culturale come quello delle “mostre temporanee”, che era appunto un mezzo di studio e di bilancio del lavoro fatto su un artista o un’epoca ovvero un genere artistico, uno strumento di consenso e di consumo per le masse.

È questo, in sostanza, uno dei limiti principali del pamphlet di Tomaso Montanari e Vincenzo Trione Contro le mostre: senza individuare un periodo e un momento preciso da cui cominciare non ci può dire nemmeno come e perché il fenomeno è degenerato fino agli eccessi dell’industria culturale di oggi, dove ogni cosa è trattata alla stregua di un bene di consumo.

Il libro è una diagnosi dell’esistente, ma non spiega come siamo arrivati a questo. Bisogna decidere come classificare questo pamphlet edito da Einaudi. Leggendo mi sono venute in mente due definizioni, ma poi ho avuto il sospetto che siano intercambiabili: “Librocandidatura” ovvero “Mozzarella Blu” (ricordate il batterio che azzurrava uno dei latticini più diffusi nelle nostre case? Non era tossico, ma poneva una questione di psicologia alimentare: lo mangio o non lo mangio, mi fido o non mi fido?). Nel nostro caso, parliamo di anticorpi critici.

Marc Fumaroli, senza aspettare che Montanari e Trione finissero l’università e mettessero a punto il loro pensiero critico in materia di mostre, nel 1993 pubblicò un pamphlet contro Lo Stato culturale nel quale criticava senza peli sulla lingua l’intervento pubblico a favore di una cultura artistica strumentale al consenso politico e a discapito della tutela del patrimonio.

Quando è cominciata la deriva del “mostrificio” contemporaneo? Il saggio di Fumaroli veniva al termine di una lunga gestione del Ministero della Cultura francese da parte di Jack Lang, che sotto i due mandati presidenziali di François Mitterrand aveva incarnato un modello di intervento pubblico nella cultura come mezzo di propaganda e di consenso politico (erano gli anni che precedevano il bicentenario dell’89, poi celebrato con la solita Grandeur): le mostre erano parte della strategia politica del nuovo imperatore che commissionò edifici museali, musicali, scientifici, biblioteche e luoghi della moda, cambiando il volto di Parigi in pochi anni.

Lang però arrivava tardi: dalla metà degli anni Settanta l’architetto Renato Nicolini, assessore della Capitale, aveva inaugurato le “Estati romane”, osannate e criticate come espressione dell’effimero. Nicolini, uomo colto e pop al tempo stesso, giocò la carta subdola della cultura per “divertire il popolo” (o le masse, se volete). Fu emulato dalle amministrazioni comunali italiane grandi e piccole che cominciarono a spendere un sacco di soldi per l’effimero, ovvero per ciò che accade e passa pur lasciando un segno nella memoria della gente: mostre, concerti, kermesse culturali, teatrali, cinematografiche.

Fu solo l’inizio di un percorso che ci portò in eredità l’epigono di Nicolini, Walter Veltroni, cultore di cinema e artefice della svolta maggioritaria del pd. Da vicepresidente del Consiglio con delega al Mibac, Veltroni introdusse anche la seconda estrazione del Lotto a sostegno della tutela del patrimonio e coniò la prosaica metafora del Belpaese come giacimento petrolifero: i beni artistici sono il nostro oro nero, disse.

Dopo Veltroni la linea texana dell’“arte come petrolio” ha prevalso fino a generare il cataclisma turistico attuale che dissemina scorie d’ogni genere nel Belpaese. Che volete che sia, se porta economia e ricchezza... È la politica che lo vuole, chiaro: il Mibac, infatti, è diventato col governo Letta il Mibact. Si è aggiunta, nelle competenze del ministero, quella “t” implicita nel paradigma petrolifero di Veltroni: il turismo.

Torniamo al libro di Montanari e Trione. Più che un pamphlet è un manifesto-candidatura al posto di ministro Mibact dopo le prossime elezioni. Ecco l’ipoteca posta da Montanari, nemmeno troppo velatamente, su quella poltrona: «Checché ne dica il ministro demagogo di turno, questo processo non ha nulla a che fare con la democratizzazione della cultura».

Lasciamo stare quando gli autori entrano in questioni come il diritto alla bellezza, l’arte gratuita, l’arte senza nome (quella di chi ha raggiunto il successo senza mostrare la propria carta d’identità, come, pensate un po’, Elena Ferrante e lo street artist Bansky). Il peggio viene quando giudicano in positivo. Qualche mese fa, in piena sindrome migranti, l’artista cinese Ai Weiwei sistemò «sulle facciate di Palazzo Strozzi un’installazione di straordinaria efficacia, che ne rispetta l’architettura rinascimentale» (!?).

A parte le valutazioni sul talento del dissidente cinese più attivo sulla scena internazionale (non proprio un recluso), fu una delle più furbesche e brutte installazioni mai viste: aveva tappezzato le facciate del palazzo con una fila di gommoni. Perché non scherzare un po’ allora sull’installazione di Christo, che lo scorso anno portò migliaia di visitatori a camminare sulle acque del lago d’Iseo: dato il nome dell’artista, non fu anche quello un vero miracolo?... Economico, beninteso.

Poi arriva la difesa di un loro caro amico, Salvatore Settis, che curò la mostra Serial Classic nei nuovi spazi milanesi della Fondazione Prada, mostra che «ha il merito di ribaltare tante consuetudini storiografiche». L’erudizione di Settis è fuori discussione, ma il giudizio su quella mostra dovrebbe essere ben altro e riguardare il potere del capitalismo nell’accedere a prestiti museali che spesso non vengono concessi nemmeno alle sedi pubbliche.

Settis è stato il mentore di Montanari e Trione, in quanto consulente Mibact. Ed era anche a capo del comitato scientifico del Mart, con Giovanni Agosti, quando nel 2013 avvallò l’idea di allestire nel Museo di Rovereto, sede di collezioni e mostre d’arte contemporanea, una retrospettiva su Antonello da Messina, che fece discutere proprio per la sede ospitante. «Qualcosa lascia perplessi e rischia di insinuare solo equivoci» sulla vocazione del Mart, scrive Trione. Tutta qui la perplessità? Certo che no.

La vera perplessità (taciuta tuttavia), è sull’uso del Mart per un “regolamento di conti” della critica longhiana ufficiale contro chi, Mauro Lucco, nel 2006 alle Scuderie del Quirinale curò una retrospettiva dell’artista messinese insinuando che Longhi avesse sbagliato nel sostenere l’influenza di Piero della Francesca su Antonello.

Fu accusato, anche giustamente, di voler «azzerare l’intera tradizione di studi», di far fuori Longhi insomma.

Ma perché mettere in piedi dopo appena sette anni una tale e difficile impresa solo per controbattere a una tesi che, dopotutto, si può discutere agevolmente scrivendo un saggio critico? Ferdinando Bologna, decano degli studi caravaggeschi, dichiarò di non sapere perché fosse stato messo a capo di quella mostra al Mart, e fece due nomi: «Bisogna chiederlo ai responsabili del museo, a Salvatore Settis e Giovanni Agosti che me l’hanno proposto».

Va aggiunto un ultimo rilievo: l’attuale direttore della Gnam di Roma, Cristiana Collu, grande protetta negli ambienti istituzionali e già consulente del Mibact (così che quando Franceschini doveva nominare i venti superdirettori lei non ebbe problemi a candidarsi contemporaneamente alla Gnam e a Brera, due musei che più diversi non potrebbero essere) all’epoca della mostra di Antonello era direttrice del Mart. Un altro esempio di benpensantismo dei nostri pamphlettisti?

Se la pigliano con la moda (in senso proprio) di cedere ai brand dello stilismo le sale dei musei per esibire i loro abiti. «Affermare che [lo stilista tunisino Azzedine] Alaïa è arte allo stesso modo di quella di Bernini e Canova giova davvero alla nostra comprensione dell’arte del passato?» si chiede Montanari (p. 136).

Naturalmente ciascuno è libero di prendersela con la couture sculpture. Ma il vero j’accuse avrebbe dovuto essere verso la direttrice della Galleria Borghese, Anna Coliva, che ha organizzato mostre “commerciali” come Caravaggio e Bacon o L’origine della natura morta in Italia. Caravaggio e il Maestro di Hartford. Tirare in ballo il nome di Anna Coliva, confermata da Franceschini a capo della Galleria Borghese e molto introdotta negli ambienti romani e non solo, però era rischioso se ci si candida a certi ruoli istituzionali.

Arrivati alla pagina 154, l’ultima, ecco la sconcertante dichiarazione dei due pamphlettisti: «Il tema decisivo però è un altro» (finora, dunque, di che cosa abbiamo parlato?): «mentre le mostre chiudono l’arte in gabbie a pagamento, la Street Art la restituisce a tutti, gratuitamente». Populismo, mammolismo oppure snobismo progressista? Fate voi.

Comunque sia, ecco il mio j’accuseTrione denuncia la pessima cultura che fa di ogni mostra un “evento”. Perché mai, allora, i nostri lancillotti dell’arte di strada non hanno speso una riga – punto, questo, sì decisivo – contro il carnefice che ha portato alla quasi completa scomparsa della critica militante sui giornali?

Perché non hanno preso di mira il malcostume che da anni si è imposto nei maggiori quotidiani italiani di pubblicare pagine sull’“evento” (che in gergo si chiamano “redazionali”) senza che il lettore possa riconoscere al volo, per grafica e impaginazione, che si tratta di pubblicità: e quel che è peggio di pubblicità che si avvale spesso delle stesse firme che abitualmente scrivono pezzi di critica nelle pagine ordinarie?

I direttori dei giornali italiani dovrebbero interrogarsi su questo malcostume, che ha reso vano lo stesso “giudizio di valore” della critica. Che un pamphlet “contro le mostre” non ponga al primo posto questo tema, vuol dire che chi lo ha scritto ha qualcosa da perdere. Devo arrendermi al genio maligno di Cartesio che insinua: mozzarella blu, mozzarella blu, blu blu blu...