«Come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo»: l'espressione che Galilei imparò dal cardinale Baronio, di Edoardo Aldo Cerrato

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 08 /01 /2011 - 23:02 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito della Procura generale degli Oratoriani di San Filippo un articolo di padre Edoardo Aldo Cerrato. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi sul tema, vedi su questo stesso sito la sezione Scienza e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2011)

Il quarto centenario delle prime osservazioni di Galileo Galilei al telescopio [1609] sarà celebrato in tutto il mondo come l’anno dell’astronomia: lo ha ricordato anche Benedetto XVI nella solennità dell’Epifania traendo spunto dalla stella che guidò i Magi, e tornando sul tema, a lui carissimo, del rapporto tra la fede e la scienza, ha detto nell’omelia: «C’è nel cristianesimo una peculiare concezione cosmologica, che ha trovato nella filosofia e nella teologia medievali delle altissime espressioni. Essa, anche nella nostra epoca, dà segni interessanti di una nuova fioritura, grazie alla passione e alla fede di non pochi scienziati, i quali – sulle orme di Galileo – non rinunciano né alla ragione né alla fede, anzi, le valorizzano entrambe fino in fondo, nella loro reciproca fecondità. Il pensiero cristiano paragona il cosmo ad un “libro” – così diceva anche lo stesso Galileo – considerandolo come l’opera di un Autore che si esprime mediante la “sinfonia” del creato».

L’altro Libro nel quale Dio si rivela è la Sacra Scrittura e Galileo (1564-1642), a proposito dei suoi avversari che ritenevano erronea la teoria copernicana perché contrastante con la Scrittura, scriveva nella Lettera A Madama Cristina di Lorena Granduchessa di Toscana (1615)[1] che occorre prima di tutto saper interpretare il sacro testo: dopo aver riportato un’ampia citazione del De Genesi ad litteram di s. Agostino circa l’intento dello Spirito Santo nell’ispirare la Bibbia – che culmina  nella affermazione: «Spiritus Dei noluisse ista docere homines nulli saluti profutura»: lo Spirito di Dio non volle insegnare agli uomini cose che nulla avrebbero giovato alla salvezza – scrive: «intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo»[2].

È opinione corrente che sia Cesare Baronio il personaggio da cui Galileo lascia intendere di aver udito direttamente l’espressione citata. Se non lo si può affermare con prove documentali, l’attribuzione della frase è, tuttavia, concordemente attestata[3] e rivela piena corrispondenza con il pensiero dello storico oratoriano.

1. Galileo venne a Roma nel 1587 per incontrare i professori del Collegio Romano[4], fondato nel 1551 e presto divenuto la più importante università cattolica d’Europa guidata da Gesuiti. I libri di testo adottati dai docenti e gli appunti delle loro lezioni dimostrano quanto le questioni “scientifiche” vi fossero regolarmente affrontate, e quanto la matematica, che caratterizza il modo galileiano di fare scienza, fosse fortemente presente nel piano di studi. Figura eminente e principale artefice del programma di matematica era il tedesco Christophorus Clavius[5], che rimase molto impressionato da un lavoro di Galileo sul centro di gravità dei solidi, e per questo collaborò con il protettore di Galileo, il marchese Guidobaldo del Monte, per assicurare al giovane matematico un posto di insegnante in una università[6]. Secondo William A. Wallace, lo stesso «Galileo si dedicò a proseguire il programma di Clavius, nell’applicare la matematica allo studio della natura e nel generare una fisica matematica che potesse fornire valide spiegazioni causali sia per i fenomeni astronomici sia per quelli fisici»[7]. In questa fucina di studi che spaziavano in tutti gli ambiti del sapere, Cesare Baronio[8] contava numerosi contatti[9].

Nel 1576 Gregorio XIII volle nel Collegio Romano l’istituzione di una cattedra di Controversie, ed il generale dei gesuiti, p. Claudio Acquaviva (1543 – 1615), grande estimatore del Baronio, chiamò a Roma dal Belgio per svolgervi le lezioni Roberto Bellarmino[10], il quale vi insegnò fino al 1587[11] ed ebbe intensi rapporti di collaborazione e di amicizia con il Baronio lungo il corso dell’intera vita[12].

All’epoca della permanenza di Galileo a Roma, Cesare Baronio, bibliotecario della Vallicelliana dal 1584, era prossimo alla pubblicazione del primo volume degli Annales Eccesiastici (1588), molto attesi dopo l’edizione del Martyrologium Romanum (1584) – alla cui revisione si era dedicato con severi studi dal 1580 – e la pubblicazione del grosso volume in folio delle “Note” (1586) che avevano notevolmente contribuito a farlo conoscere nel mondo della cultura e a diffonderne la fama di studioso[13].

Incontri di Galileo con il Baronio sono assai probabili, ed è plausibile pensare che questa sia stata l’occasione in cui si impresse in Galileo il ricordo della lealtà intellettuale e della chiara intelligenza di fede contenuta nella citazione – che un autore definisce «la scarnificata coerenza del cardinale Baronio»[14] – riportata nella Lettera.

Altra occasione di incontro potrebbe essere stata la visita del Baronio, già cardinale, e del Bellarmino, teologo di fiducia del Papa, a Venezia e a Padova, mentre si trovavano a Ferrara nel 1598 – al seguito di Clemente VIII – ed interruppero il lungo soggiorno ferrarese per una vacanza: si presentarono a Padova in incognito ad un insigne letterato, corrispondente del Baronio, Vincenzo Pinelli, il quale, fingendo di non riconoscerli, mostrò nella sua quadreria al Bellarmino il ritratto del Baronio e al Baronio quello del Bellarmino[15]. La presenza a Padova dei ritratti dei due personaggi è chiaro indizio della loro fama. Qui[16] alcuni collocano l’incontro di Galileo con il Baronio[17].

2. La questione biblica, in relazione alle opinioni di Copernico, già era stata posta da Lutero nel 1539 – prima ancora della pubblicazione del De revolutionibus orbium coelestium (1543)[18]con una netta condanna dell’astronomo definito «il pazzo [che] vuole sconvolgere l’arte dell’astronomia», mentre «come dimostra la Sacra Scrittura, Giosuè disse al sole di fermarsi e non alla terra»[19].

Da parte cattolica, la questione della compatibilità con la Scrittura emerse più seriamente quando l’ipotesi copernicana cominciò a prendere contorni più reali. Le posizioni della Chiesa e dei diversi ordini religiosi furono quanto mai diversificate: l’ordine domenicano – una parte di esso, almeno – aveva da subito guardato con sospetto alla battaglia copernicana di Galileo; altri ordini religiosi, e altri illustri uomini di Chiesa, erano invece meno legati all’aristotelismo tomistico, e più vicini alla tradizione agostiniana: tra questi spiccavano gli oratoriani con il Baronio, le cui posizioni aprivano la strada ad un’analisi della Scrittura che andasse oltre il significato letterale; i gesuiti, pur interessati alle scoperte di Galileo e alla ricerca di soluzioni nuove, consapevoli della crisi del modello aristotelico, mantenevano un atteggiamento di cautela, maggiormente favorevoli al modello di Tycho Brahe[20], che, rispetto a quello tolemaico, consentiva migliori calcoli astronomici e permetteva di “salvare”, in conformità con il dettato scritturistico, l’immobilità della Terra, la sua centralità e il movimento del Sole.

Merita ancora ricordare, in ambito cattolico, la posizione di due grandi teologi spagnoli – Melchiorre Cano e Diego De Zuñica[21] – che svilupparono i criteri esegetici espressi da s. Agostino e s. Tommaso e li applicarono alla interpretazione delle espressioni bibliche invocate dai protestanti contro il moto della terra, spiegandole appunto come forme correnti del comune linguaggio umano e quindi non tali da poter fornire argomenti contro la teoria copernicana.

Nel commento al libro della Genesi, infatti, s. Agostino aveva affermato la necessità di tenere distinte nella Scrittura le verità di ordine religioso che, garantite dalla rivelazione divina, sono oggetto di fede e sono strettamente connesse alla salvezza dell’anima, dalle nozioni d’ordine naturale, che sono oggetto di ricerca razionale ed entrano nei limiti delle possibilità umane; e aveva insegnato che quando si trattasse di questioni particolarmente difficili e quando, soprattutto, si entrasse in questioni astronomiche, non si deve mai impegnare l’autorità della Scrittura[22]. In modo ancor più esplicito nello scritto contro Felice aveva insistito sul principio che la Scrittura ha solo il compito di insegnarci la via della salvezza e non intende affatto sostituirsi a trattati scientifici: «Non leggiamo nel Vangelo che il Signore abbia detto: vi manderò il Paraclito ad ammaestrarvi sul corso del sole e della luna; voleva infatti creare dei cristiani e non dei matematici»[23]. Sulla base di questi principi, anche s. Tommaso d’Aquino escludeva che si dovesse invocare l’autorità della Scrittura quando si trattasse di questioni relative a fenomeni naturali[24].

Note al testo

[1] Uno dei tanti stimoli che spinsero Galileo a redigere il testo, diffuso in varie copie manoscritte, fu la lettera pubblicata nel 1615 da un suo seguace, il carmelitano Paolo Antonio Foscarini, in cui si ribadivano i concetti già espressi dai difensori della teoria copernicana e si raccomandava alle autorità ecclesiastiche di evitare il rischio di presentare come dottrina religiosa una questione che rientrava soltanto nell’ambito delle scienze naturali. Con ampie citazioni dei Padri e dei teologi, e non senza l’aiuto e la consulenza di ecclesiastici suoi amici, Galileo ripresenta in questo fondamentale documento una dottrina ineccepibile sui rapporti tra Bibbia e scienze naturali: fede e ragione occupano campi autonomi, ma è escluso qualsiasi reciproco contrasto, essendo unico l’Autore dei due ordini di verità; la S. Scrittura ha lo scopo di insegnarci le verità di ordine religioso e non quelle di ordine puramente scientifico. La lettera spinse a ripensamenti favorevoli a Galileo anche autorevoli uomini di Chiesa: almeno una decina di cardinali italiani, tra cui Scipione Borghese (nipote del papa allora in carica, Paolo V); Federico Borromeo; Maffeo Barberini (che sarà eletto pontefice col nome di Urbano VIII); Bonifacio Gaetani. Quest’ultimo, prima ancora che si conoscesse la lettera a Madama Cristina, aveva chiesto – in rapporto alla questione copernicana e alle sue implicanze religiose – il parere di Tommaso Campanella: la ragionata risposta, che sarebbe stata pubblicata più tardi (1622) col titolo di Apologia pro Galileo, si atteneva alla più limpida tradizione agostiniana e tomista: «Pertanto quelli che pretendono che la religione cristiana proibisca le scienze autentiche e lo studio e la ricerca nel campo della fisica e dell’astronomia, o hanno un concetto sbagliato del Cristianesimo o porgono agli altri il pretesto per tenerlo in sospetto» (Apologia pro Galileo, Ediz. L. Firpo, Torino, 1968, p. 70). Non erano lontani da queste idee altri ecclesiastici di primo piano nel campo delle matematiche e dell’astronomia, come i gesuiti Cristoforo Clavio e Cristoforo Griemberger, consigliere del cardinale Roberto Bellarmino che avrà una parte importante nel cosiddetto primo processo contro Galileo nel 1616.

[2] G. GALILEI, Lettere, Einaudi, Torino 1978, pagg. 128-135

[3] Cfr. M. TORRINI, Prima ricognizione della fortuna del Baronio tra critica e erudizione in R. DE MAIO-L. GULIA-A. MAZZACANE (a cura) Baronio storico e la Controriforma, Sora, 1982, pp. 738-739. L’amico di Galileo Antonio Nardi nelle sue Scene riconobbe l’onestà critica del Baronio in merito alla “esatta e verace notizia dell’antichità e dei riti ecclesiastici”. Il Baronio entrò con Galileo e Copernico nei “musei storici”: ad esempio in quello di G. GHILINI, Teatro d’huomini letterati, Venezia, 1647. Tra le pubblicazioni più recenti, riguardo alla attribuzione baroniana della celebre frase, vedansi: R. DE MAIO, Galileo e la competenza dei teologi, in “Il Centauro”, 2 (1981), p. 4; C. M. MARTINI, Gli esegeti al tempo di Galileo, in “Vita e Pensiero”, Milano, 1966, pp. 115-124; A. POPPI, Ricerche sulla teologia e la scienza nella Scuola padovana del Cinque e Seicento, Rubbettino Ed., 2001, p. 196; P. STEFANI, Le radici bibliche della cultura occidentale, Milano, 2004, p. 191.

[4] Cfr. L. BENASSI, Galileo Galilei. La leggenda del «martire» della scienza moderna, in F. CARDINI (a cura), Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia, Casale Monferrato 1994, p. 329-352.

[5] Christoph Clau (1537-1612) scrisse un gran numero di testi, di elevata influenza: la versione degli Elementi di Euclide, una delle più autorevoli del suo tempo, un commento alla Sfera di Sacrobosco, libri di aritmetica pratica, di geometria, di algebra e sull'astrolabio. Nel 1579 viene nominato primo matematico nella commissione pontificia per la riforma del calendario giuliano, adottata nei paesi cattolici nel 1582 per ordine di Gregorio XIII. Come astronomo seguì il modello geocentrico del sistema solare, opponendosi al modello eliocentrico proposto da Copernico, ma riconosceva i problemi del modello tolemaico. Quando Galileo gli farà nuovamente visita nel 1611 per discutere con lui le osservazioni eseguite con il telescopio, Clavius accettò le nuove scoperte, anche se nutriva dubbi sulla presenza di montagne sulla Luna. 

[6] Nel 1589 Galileo entra come lettore di matematica all’Università di Pisa, dove insegna fino al 1592, quando passerà all’Università di Padova.

[7] Cfr. W. A. VALLACE, Galileo e i professori del Collegio Romano alla fine del secolo XVI, in P. POUPARD (a cura), Galileo Galilei. 350 anni di storia (1633-83). Studi e ricerche, Casale Monferrato 1984, pp. 76-97.

[8] È in corso di stampa LUIGI GULIA (a cura), Baronio e le sue fonti. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Sora, 10-13 ottobre 2007, Sora, Centro di Studi Sorani «Vincenzo Patriarca».

[9] Studiava a Roma, in quel periodo, tra gli altri, il gesuita Ottavio Gaetani (1566-1620), che già aveva in gestazione un’opera rispondente agli indirizzi storiografici propri della Riforma cattolica: le Vitae Sanctorum Siculorum ex antiquis grecis latinisce monumentis (pubblicata postuma, Palermo 1657) composta secondo l'originario progetto dell’Idea operis de Vitis Siculorum Sanctorum. Le Vitae sono disposte in ordine cronologico, come suggerito dai cardinali Baronio e Bellarmino. La seconda parte dell’opera (Animadversiones) riporta l’accurato apparato critico-filologico. M. STELLADORO, Contributo allo studio delle Vitae Sanctorum Siculorum di Ottavio Gaetani: inventario delle carte preparatorie, in G. LUONGO (a cura), Erudizione e devozione, Roma, Viella 2004, pp. 221-312.

[10] S. Roberto Bellarmino (1542-1621) creato cardinale da Clemente VIII nel 1599 su istanza del Baronio. A motivo delle sue notevoli capacità intellettuali e della competenza teologica, fu chiamato a interessarsi delle più scottanti questioni dottrinali del proprio tempo; fu un estimatore di Galileo, ma più attento al metodo sperimentale. In una lettera del 12 aprile 1615 ad Antonio Foscarini, consiglia Galilei di attenersi alla tesi copernicana soltanto ex suppositione, da un punto di vista matematico, poiché, sostenendo il sistema copernicano come verità delle cose, si corre il pericolo di irritare i difensori della tradizione e di nuocere alla religione cristiana, mentre se il sistema copernicano fosse dimostrato in modo convincente, soltanto allora si potrebbe ripensare alla interpretazione tradizionale delle Scritture.

[11] Da queste lezioni e dall’insegnamento svolto in precedenza ebbe origine l’opera che con gli Annales baroniani è considerata testo fondamentale della Controriforma: Disputationes de Controversiis Christianae Fidei adversus hujus temporis hereticos, pubblicate in prima edizione Ingolstat nel 1586-89.

[12] Cfr. S. ZEN, Bellarmino e Baronio, in R. DE MAIO-A. BORROMEO-L. GULIA-G. LUTZ-A. MAZZACANE (a cura di), Bellarmino e la Controriforma. Atti del Simposio Internazionale di Studi 1986, Sora, 1990, pp. 277-321.

[13] Cfr. G. CALENZIO, La vita e gli scritti del Cardinale Cesare Baronio, Roma, 1907, pp. 223 ss.

[14] C. DOLLO, Galileo Galilei e la cultura della tradizione, Rubbettino Ed., 2003, p. 232.

[15] Cfr. lettera del Bellarmino al fratello Tommaso, Ferrara 7 settembre 1598, in LE BACHELET, Bellarmin avant son cardinalat (1542-1598). Corresondebce et documents, Paris, 1911, I. 245, p. 422; G. CALENZIO, La vita e gli iscritti del Card. Cesare Baronio, Tipografia Vaticana, 1907, p. 498.

[16] Galileo visse a Padova dal 1592 al 1610, quando, in qualità di «Matematico primario dello Studio di Pisa e Filosofo del Ser.mo Gran Duca senz’obbligo di leggere e di risiedere né nello Studio né nella città di Pisa, et con lo stipendio di mille scudi l’anno, moneta fiorentina», passò a Firenze abbandonando la sua convivente, Marina Gamba, dalla quale aveva avuto Virginia e Livia, mai legittimate, e Vincenzio, che riconobbe nel 1619. Nel 1613 farà entrare le figlie nel convento di San Matteo ad Arcetri, costringendole a prendere i voti non appena compiuti i rituali sedici anni: Virginia (suor Maria Celeste), rassegnata alla sua condizione, rimase in costante contatto epistolare con il padre, diversamente da Livia (suor Arcangela).

[17] Cfr. ad esempio l’interessante saggio di STILLMAN DRAKE, Galileo, Il Mulino, Bologna, 1980, p. 2.

[18] Il libro, dedicato al Papa Paolo III, è diviso in 6 libri che contengono una visione generale della teoria eliocentrica, i principi dell'astronomia delle sfere ed una lista di stelle, i movimenti apparenti del Sole ed ai fenomeni ad essi correlati, una descrizione della Luna e dei suoi movimenti orbitali; per finire con la concreta esposizione del nuovo sistema.

[19] Werke, Kritische Gesamtausgabe. Tischenreden I, Weimar 1912, 419; Weimar 1916, pp. 412 ss.

[20] Nacque nel 1546 a Schloss Knutstorp, allora Regno di Danimarca. Brahe capì che il progresso nella scienza astronomica poteva essere ottenuto solo con un’osservazione sistematica e rigorosa, e tramite l’uso di strumenti che fossero i più accurati possibili. Le sue misurazioni a occhio nudo della parallasse planetaria, accurate al minuto d’arco, divennero possesso, dopo la morte di Brahe, di Keplero, il suo assistente più famoso, che cercò, senza riuscirci, di persuadere Brahe ad adottare il modello eliocentrico del sistema solare. Brahe credeva in un modello geocentrico, che prese poi il nome di modello ticonico. Nel 1599 si spostò a Praga dove, sponsorizzato da Rodolfo II d'Asburgo, costruì a Benátky un nuovo osservatorio e vi lavorò fino alla morte (1601). PIERRE GASSENDI, Tychonis Brahei, equitis Dani, Astronomorum Coryphaei, vitae Accessit Nicolai Copernici, Georgii Peurbachii, & Joannis Regiomontani, Astronomorum celebrium, Vita. Hagae Comitum (Den Haag), Vlacq, 1655; KITTY FERGUSON, L'uomo dal naso d'oro. Tycho Brahe e Giovanni Keplero: la strana coppia che rivoluzionò la scienza, Milano, Longanesi, 2003.

[21] M. CANO, De locis theologicis, lib. VII, cap. III; D. DE ZUÑICA, In Job commentaria, cap. X, parte V; e cfr. C. M. MARTINI, Gli esegeti al tempo di Galileo, in AA. VV., Nel quinto centenario della nascita di Galileo Galilei, Milano, 1966, pp. 115-124).

[22] Cfr. De Genesi ad litteram, lib. I, cap. 18 s.; lib. II, cap. 9.

[23] De actis contra Felicem manichaeum, lib. I, cap. X.

[24] Cfr. De coelo et mundo, lib. II, lect. 17.