L’Utopia di san Tommaso Moro. Un approccio diretto all’opera (proprietà comune, famiglia, società civile e Stato) e il suo permanente valore, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 29 /04 /2024 - 22:27 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito uno studio di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Filosofia, Protestantesimo e Maestri nello Spirito.

Il Centro culturale Gli scritti (29/4/2024)

1/ Il problema di Utopia

Raro è trovare qualcuno che abbia letto e compreso Utopia di Tommaso Moro e altrettanto raro è chi si preoccupi di insegnare ad altri in forma sintetica qual è lo specifico modo di vita ipotizzato nello stato ideale di Utopia.

Tutti citano il termine e ricordano che è stato Moro ad inventarlo, come luogo “senza-luogo”, u-topos, ma anche come “luogo-felice”, eu-topos, ma quasi nessuno si preoccupa di definire quali elementi caratteristici debba possedere tale visione di vita comune.

Quasi nessuno si preoccupa di definire in cosa differisca la visione di Moro da altre, ad esempio quella della società comunista senza classi attesa da Marx e dal marxismo dialettico o in cosa differisca dalla libera società dei consumi e del capitale, o in cosa differisca dai progetti che sempre nuovamente rinascono nell’illusione dell’umanità che ritiene di poter vincere il male morale, fisico, culturale, ambientale, spirituale, immaginando un mondo che ancor non c’è, ma che verrà.

Moro è il primo a credere che esisterà una società futura assolutamente giusta e intende delinearne i contorni giuridici? Moro crede che esisterà una società senza più il male? Che cosa ha inteso dire Moro con la sua Utopia?

2/ Non una profezia di futuro, ma una visione critica ed una proposta per il presente

Vale la pena dichiarare subito che Moro ha chiaro che la sua società ideale non si realizzerà in futuro, anzi non si realizzerà mai.

Egli afferma esplicitamente alla fine del suo racconto:

«Oh se ciò [quanto raccontato su Utopia] succedesse! Ma intanto, se non posso aderire a tutto ciò che ha detto un uomo, del resto indiscutibilmente assai colto e insieme molto esperto delle cose umane, non ho difficoltà a riconoscere che molte cose si trovano nella repubblica di Utopia, che desidererei per i nostri Stati, ma ho poca speranza di vederle attuate»[1].

Pur avendo dato origine al filone della descrizione di società del futuro, Moro intende dire piuttosto come dovrebbe essere la società del presente e quali attitudini morali debbono avere gli uomini per costruirla.

Parla di una realtà diversa ed esistente solo nella fantasia, per aiutare a leggere meglio il presente ed essere critici e non illusi. Questo è il senso di Utopia, come si vedrà pian piano.

3/ In che senso tutto è “in comune” in Utopia? Una questione semplice e spiazzante

Al cuore di Utopia c’è la visione di un uomo che viva avendo il senso della comunità: non appena si vuole precisare cosa questo voglia dire in Utopia, ecco che appare chiarissima la visione del mondo di Moro.

«Tutte le cose sono comuni», o nel latino in cui è scritta Utopia[2] di Tommaso Moro «omnia omnium sunt»[3]/tutte le cose sono di tutti, o più semplicemente «nihil privati est»[4]/non c’è niente di privato. Questo sembra è il succo di Utopia.

Ma il modo in cui Moro lo intende è assolutamente differente da come lo si comprenderebbe oggi. Vale veramente la pena – tanto è straordinario – accorgersi di come Moro con tale affermazione non solo sbarri la strada all’idea comunista che si sviluppò poi, ma come si opponga anche alla banalizzazione dei diritti cui assistiamo oggi in chiave liberista.

Bisogna però capire bene: in che senso tutto è comune in Utopia?

Per alcuni la domanda è senza senso, perché il pensiero marxista ha abituato all’idea che esista un solo senso, quello dell’abolizione della proprietà privata: che cioè non esista più la proprietà, che ci sia una società comunista. Che la proprietà privata stessa sia un male. Che lo Stato possegga tutto e che, per una legge di giustizia, sia via via redistribuito tutto a chi ha bisogno, in maniera paternalistica e statalista, per via di emanazione di leggi.

Per Utopia non è così! Per Utopia si ha giustamente proprietà comune quando non è il singolo a possedere qualcosa, bensì la sua famiglia.

Infatti in una famiglia la proprietà è condivisa da nonni, genitori e figli: ognuno non pensa solo a sé stesso, ma anche a tanti altri a cui vuole bene e per i quali si sacrifica. Così la proprietà in Utopia non è “di tutti” nel senso che la società intera sia l’unica proprietaria di tutto e lo divida come vuole, bensì nel senso che la proprietà non è dei singoli individui, che la proprietà non è dei singles. Si potrebbe dire, come uno slogan, che nessuno è single in Utopia.

Allo stesso modo, la proprietà non è solo della famiglia, ma anche dei nuclei che condividono un territorio e sono pertanto amici e hanno un sentire comune che permette loro di gestire in proprio qualcosa che è comunque comune.

Per capire Utopia e la sua meravigliosa profezia, bisogna rendersi conto che Thomas More aveva in mente  legami che precedono lo Stato, come quelli familiari o come quelli di amicizia, che portano a desiderare di avere cose in comune e che portano effettivamente a possederle per disporne non in proprio, ma in modo che il possesso venga sentite e sia in comune con quelle comunità vive, come avviene in tutte le realtà che preesistono allo Stato e che anzi, solo “funzionando” bene, permettono che “funzioni” bene l’intera società.

Se si guarda alla storia dell’affermazione della comunione dei beni, è meraviglioso accorgersi che ciò era proposta come la legge interiore dell’amicizia, nel mondo greco[5]. Così la riprende proprio il grande amico di Moro, Erasmo da Rotterdam, nei suoi Modi di dire, al n. 94:

«Fra gli amici tutto è comune»[6].

Si vede da una citazione come questa come nel mondo antico fosse chiaro che è la relazione, in questo caso di amicizia, che precede il mettere a disposizione tutto di sé e delle proprie sostanze – in questo caso per il bene dell’amico.

Non un’imposizione esterna, non una legge, non l’assenza tout court di proprietà privata, ma la condivisione della proprietà privata a motivo dell’amicizia, cioè quanto di più interiormente libero e insieme di più interiormente cogente.

Era stato poi il cristianesimo a mostrare come potessero nascere dei legami di fraternità, diversi da quelli di amicizia che erano e sono elettivi: la fraternità, invece, nasce dove esiste un Padre che pone i fratelli gli accanto agli altri, senza che questi si siano scelti. I fratelli si sostengono, mettendo in comune le cose, solo perché si amano come fratelli appunto (sono noti i sommari degli Atti degli Apostoli - Atti 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16 - che raccontano, fra i tratti distintivi della comunità cristiana, anche della messa in comune dei beni, di modo che più “nessuno fra loro era bisognoso” At 4,34).

Anche nella fede cristiana la “condivisione” è un libero dono che nasce dalla scoperta della fratellanza, che resta diversa da una comunione non libera, imposta dall’alto per una legge statale dove non esista più il mio e il tuo.

Varie volte l’espressione “omnia sunt communia” venne poi ripetuta nel medioevo[7] ad indicare sia che la terra è di tutti, sia che in caso di necessità ognuno ha il diritto di servirsi di ciò che è necessario alla sopravvivenza.

Nonostante affermazioni in contrario è da ritenere che anche presso i contadini della rivolta guidata da Thomas Müntzer, pastore protestante – che sembra pronunciasse in punto di morte l’espressione “omnia sunt communia” -, essa non significasse ciò che intende l’idea moderna di un comunismo imposto, bensì che essi rivendicassero dai nobili latifondisti il possesso delle terre che anticamente appartenevano alle diverse famiglie e ai diversi villaggi.

Certo è che nell’idea umanistica e cristiana di Moro, in Utopia la condivisione dei beni non è imposta da uno Stato che si ponga al di sopra delle singole famiglie, bensì essa nasce dai legami in primo luogo familiari, ma anche di amicizia, così come dall’appartenenza allo stesso territorio, così come dalla maturazione di un atteggiamento di fratellanza fra tutti, cui anela la visione stessa di Utopia[8].

Breve excursus sui centri sociali anarchici

Questo tipo di proprietà comune, comune non allo Stato, ma a gruppi “naturali” come le famiglie, non è proprio solo di una visione cristiana, ma è esattamente quello dei Centri sociali di origine anarchica!

In un Centro sociale vicino San Lorenzo in Roma campeggia la scritta Omnia sunt communia, ma l’ingresso è sbarrato da un cancello. Se qualcuno volesse utilizzare quegli spazi per finalità diverse da quelle proprie di quel Centro sociale – vorrebbe ad esempio farvi una catechesi cattolica - non potrebbe farlo, perché è una proprietà comune, nel senso che è propria di tutti coloro che condividono il modo di vivere di quel Centro.

Non è una proprietà comune nel senso che chiunque possa utilizzarla come vuole – e, infatti, non è permesso a chiunque di varcare quel cancello. Quel cancello non è eliminato, ma quella proprietà è comune nel senso che non appartiene solo ad una persona, bensì alla comunità del Centro Sociale[9].

Chi desidera costruire una mentalità non statalista, ma che anzi sostenga il libero costituirsi delle cellule vitali della società, come le famiglie, le parrocchie, i sindacati, i centri sociali, le ONG, ecc. dovrebbe ben sapere che è assurdo chiedere che le parrocchie o le scuole private paghino l’ex ICI/ora IMU, perché è proprio a motivo della visione di “sussidiarietà” – si tornerà su questo più avanti – che, nata nel mondo cattolico, è quella che sostiene anche i centri sociali, le ONG, i licei valdese o ebraico, la Caritas, Sant’Egidio, Medici senza frontiere, l’Arci Gay: tutti costoro non pagano la tassa su immobili che non hanno finalità di guadagno, bensì di servizio, proprio a motivo di tale visione “comune” e permettono a chi gestisce quel servizio di vivere di quel servizio, senza un reale guadagno, bensì pagando stipendi a chi in essi è occupato[10].

4/ Non essere come un “forestiero di passaggio” in casa propria e con i propri cari, ma vivere “in comune”: l’Introduzione ad Utopia

Già nell’Introduzione ad Utopia, in cui Moro racconta della propria vita, appare tutta la tensione che vive chi teso nella duplice appartenenza alla compagine statale – Moro era Gran Cancelliere, cioè Primo Ministro della Corona - e alla vita comunitaria familiare.

Le sue parole sono giustamente famose e acutissime:

«A condurre a termine lo scrivere [questo libro, Utopia] così facile, una difficoltà c’era, che cioè per le mie faccende il tempo mi era ridotto a meno che nulla.
Continuamente in tribunale, ora a trattare cause, ora ad assistervi, ora a comporre liti da conciliatore, ora, come giudice, a pronunziare sentenze; continuamente in visite, ora da uno per dovere, ora da un altro per affari; continuamente fuori di casa tutta la giornata a disposizione degli altri o, quel poco che avanza, per i miei; per me, cioè per gli studi, non resta nulla. In realtà, tornato a casa, mi tocca conversare con mia moglie, far la voce grossa coi figli, parlare con chi ci serve; e tutte queste sono faccende belle e buone, giacché bisogna pure che tu le faccia, di ciò non c’è dubbio, a meno che in casa non voglia trovarti come un forestiero di passaggio. Insomma bisogna pure adoperarsi a rendersi molto amabile con quelli che ti sono compagni di vita, te li abbia forniti la natura, o dati il caso, o scelti tu stesso; purché tu non li guasti con la tua affabilità o, a furia di condiscendenza, non ne faccia, di sottoposti, padroni»[11].

Abitualmente, quando si tratta dei diritti della persona si ha in mente il “mio” o il “tuo” diritto, il “mio” o il “tuo” dovere, subito Utopia ci catapulta non in un’esistenza astratta che esiste solo nei testi giuridici, ma nella vita reale, dove si è parte di una famiglia e parte di realtà altrettanto comunitarie come l’azienda per la quale si lavora o come la compagine statale nelle quali si hanno precise responsabilità.

Utopia parla proprio di questo, della difficile questione del rapporto fra le diverse responsabilità, fra ciò che è comune in un determinato ambiente lavorativo che spesso confligge con i doveri della comunità in cui si vive, come la propria famiglia.

Moro ricordava che avrebbe voluto scrivere il suo libro, da vero umanista qual era, ma che era al contempo divorato dagli impegni politici, ma anche dalle responsabilità verso coloro che amava e con cui condivideva la vita e non poteva certo permettersi di stare in casa con loro come un “forestiero di passaggio”!

Utopia parla della bellezza della vita comune, del desiderio di avere una famiglia e dei figli, ma contemporaneamente del desiderio di una vita insieme agli altri in società, che sia anch’essa buona e bella.

Chi è abituato a sentir discorrere di diritti dell’individuo all’interno di uno Stato repubblicana ha difficoltà a penetrare il messaggio di Utopia, poiché in essa sono in questione la nobiltà della vita, la sua finalità, il vivere in comune per realizzare insieme ciò per cui si è nati: Utopia non tratta semplicemente di una determinata forma di governo, non tratta semplicemente della repubblica ideale, studiandone astrattamente le modalità di una migliore organizzazione, ma riflette, invece, sul perché valga la pena vivere insieme e cosa sia necessario fare per vivere in una comunità bella con una vita vera. Va, insomma, ben al di là di un pamphlet semplicemente politico.

Il Primo Libro dell’opera è un dialogo fra Tommaso Moro, Pietro Gilles, e Raffaele Itlodeo (nome di fantasia scelto da Moro a indicare un “distributore di racconti, di ciarle”, nel senso nobile del termine). Ma, all’interno di tale dialogo a tre, vengono anche inseriti ricordi di discorsi dell’arcivescovo di Canterbury, Giovanni Morton, che fu anch’egli Lord Cancelliere e che “partecipa” dunque al dialogo, pur non essendo presente, come in un flashback.

Meraviglioso è che al termine del Primo libro si mangi insieme, come nei simposi platonici. Non è accessorio che prima di ascoltare l’intero racconto su Utopia di Raffaele Itlodeo che è lì per “raccontare storie”, si mangi insieme, perché questa è già l’utopia realizzata: che esistano persone con cui è bello mangiare in comune per parlare insieme.

Pietro Gilles (Pieter Gillis) è un personaggio reale, vero amico di Moro, mentre l’Itlodeo è un personaggio di fantasia. Thomas More lo conobbe quando venne inviato in missione diplomatica nei Paesi Bassi, dove Erasmo da Rotterdam lo presentò per lettera a lui, l’umanista Pieter Gillis, segretario della città di Anversa[12]. Proprio in questa città More iniziò a lavorare alla sua celebre Utopia.

Il pittore Quentin Massys dipinse, quando già Utopia era stata pubblicata, un dittico con i ritratti di Gillis e di Erasmo, per poterli inviare entrambi a Moro a Londra. Essi posarono così per un amico comune, perché Moro potesse “vedere” i suoi due amici ritratti in Anversa[13].


I due ritratti di Erasmo e Gillis, di Massys, che vennero inviati a Moro

Ecco l’utopia della vita comune realizzata e non lasciata meramente su fogli di carta per astratti dibattiti politici. Se non si pone mente a questo, non si riesce a capire cosa sia Utopia di Moro.

Nel Secondo libro – la seconda parte - di Utopia è, invece, Itlodeo a raccontare, senza interruzione alcuna del suo viaggio e della sua conoscenza del “lontano” stato di Utopia.

5/ Il dialogo fra Moro, Gillis e Itlodeo come anticipazione del senso di Utopia

Questa prospettiva che valorizza la proprietà “privata” nel suo senso originario di possesso comune familiare, amicale e fraterno, illumina l’impostazione di Utopia che si scaglia indirettamente con chi vuole il “grande”: la proprietà in grande, il potere in grande, il possesso in grande, il commercio in grande, la comunicazione in grande e così via.

Infatti, afferma Utopia già nel Libro primo, nel dialogo fra i protagonisti del volume, il problema è che chi vuole possedere sempre di più non è in grado di ben gestire gli enormi possedimenti cui anela, come un re che, se conquista nuove terre, non ha poi le forze per bene amministrarle, mentre si preoccupa di procacciarsene ancora di nuove:

«I capi di Stato mettono molto più impegno a cercar come acquistare bene o male nuovi regni che a reggere bene quelli acquistati»[14].

Itlodeo prosegue affermando che l’unico modo per cui un regno possa prosperare è impedire ai sovrani di averne più di uno, perché curarne bene uno è già cosa difficilissima. Cita, infatti, il regno – sempre immaginario – degli Acorî (che tradotto alla lettera significa “i senza terra”), presso i quali ogni re è obbligato, se ereditasse due regni, a sceglierne uno solo e a lasciare ad altri governanti il secondo:

«Gli Acorî, vedendo che non c’era altro modo di mettere fine a tanti mali, decisero di invitare con molta umanità il re a serbare quale dei due regni volesse, perché più di uno non avrebbe potuto, essendo essi fin troppi per essere governati da mezzo re, quando nessuno vorrebbe avere un mulattiere a servizio di due padroni»[15].

I governi sono molto più preoccupati – afferma sempre Utopia – di preparare guerre che di curare il benessere del popolo. Invece è del benessere e dell’educazione del popolo e dell’assicurare buone condizioni lavorative che dovrebbero preoccuparsi:

«Non solo l’onore del re, ma la sua sicurezza si fondano sul benessere del popolo più che sul suo proprio: i popoli si scelgono i re nel loro interesse, non per quello del re; vale a dire per poter essi, con le fatiche, con lo zelo di lui, vivere agevolmente, sicuri da offese. Perciò, tanto più che della propria, tocca al principe occuparsi della salute pubblica, non diversamente da un pastore, il cui dovere è, in quanto pecoraio, di mantenere le pecore più che sé stesso»[16].

Anzi, proprio per questo, i sovrani e le nazioni non debbono avere troppo denaro o oro ammassato nelle loro riserve, per impedire che essi ne abusino (è sempre Itlodeo ad affermarlo, raccontando di un altro regno immaginario, quello dei Macarii - dal greco makarios=beato, felice):

«Potrei additare […] una legge dei Macarii, che anch’essi non stanno troppo lontano da Utopia, il re dei quali nel giorno in cui sale al trono, fatti grandi sacrifici, si obbliga con giuramento a non serbare nell’erario in ogni momento più di mille libbre di oro, o argento in equivalenza. Questa legge, si dice, fu fatta da un ottimo re, che ebbe più a cuore il bene della patria che le proprie ricchezze, a mo’ di freno e ostacolo a smisurati ammassamenti di danaro da ridurre il popolo in miseria. Una tal riserva d’oro, diceva il re, può bastare sia che il re debba lottare contro dei ribelli, sia che il suo regno debba fronteggiare incursioni nemiche; senza dire che ha il vantaggio di non suscitare appetito o dar modo di togliere la roba agli altri. E questo fu il vero motivo per cui fu fatta la legge; e inoltre poi egli credette di provvedere in tal modo così che non mancasse il danaro circolante per gli scambi quotidiani; in terzo luogo, quando il re deve versare ciò che avesse accumulato al di là dei limiti di legge, non cercherà tutti i mezzi per violare il diritto altrui»[17].

Dove il latifondo ha distrutto le fattorie delle famiglie dei contadini, bisogna tornare a suddividere la proprietà di modo che ogni famiglia abbia la propria, perché è solo così che tutto sarà prospero.

È necessario stabilire, infatti, «che le fattorie e i villaggi dei contadini o siano rifatti da chi li distrusse, oppure lasciati a chi vuole rimetterli a posto e rifabbricarli; ponete un freno a questi accaparramenti da parte dei ricchi, a questa loro licenza, quasi di monopolio. Si tenga meno gente in ozio, si rifaccia l’agricoltura, si rinnovi la lavorazione della lana, ci sia qualche onesta occupazione in cui possa più utilmente esercitarsi questa turba di sfaccendati»[18].

Certamente perché chi non lavora e vive da sfaccendato tende a delinquere, ma ancor più perché il lavoro è il modo nobile di contribuire al bene comune: è la dignità del lavoro che viene difesa in Utopia.

Anche le punizioni per i reati debbono essere comandate dallo stesso criterio lavorativo per il bene comune. Non serve a niente incarcerare, bisogna che chi è reo svolga lavori pubblici, di modo che la pena sia utile:

«Perché non ammettere che il modo migliore per punire i delitti sia quello così a lungo adottato anticamente dai Romani che pur si intendevano di reggere stati? Da costoro i colpevoli di grandi delitti erano condannati, per sicurezza, ai ferri a vita nelle cave di pietra o nelle miniere»[19].

6/ Lo stato di Utopia e il suo vero senso nell’ottica moreana

Nel Libro secondo, Itlodeo giunge infine a raccontare dell’isola di Utopia e del suo mirabile modo di vivere condiviso da tutti i suoi cittadini.

A differenza di quanto una visione preconcetta di Utopia ha tramandato, Moro non si sofferma tanto a discorre di forme di governo peculiari che la caratterizzerebbero a differenza di altri stati. Fornisce, infatti, solo cenni su questo.

Si afferma, ad esempio, che in Utopia il governo ha alla base le famiglie: ogni anno ogni 30 di esse si elegge un magistrato che viene chiamato sifogranto o filarco. A sua volta ad ogni 10 sifogranti - quindi 10 volte 30 famiglie - si elegge una magistratura di livello superiore, chiamata nell’isola traniboro o protofilarco. Infine i 200 sifogranti eleggono un principe fra 4 candidati proposti dal popolo – insomma, ogni quarta parte del popolo suggerisce un candidato al principato. Le altre magistrature variano col passare del tempo e si provvede a nuove elezioni, soprattutto se si rivelano inadatte, mentre il principe è eletto a vita, a meno che non ci siano motivi per destituirlo.

Ma Utopia di Moro non è, appunto, un libro di organizzazione politica e anzi, nell’esporre le leggi dell’isola, critica i sistemi nei quali si dà eccessivo peso alla legalità.

Gli abitanti di Utopia sono, infatti, estremamente critici verso i sistemi legislativi dei diversi popoli proprio perché l’eccesso di norme presenti nelle diverse nazioni paralizza di fatto lo Stato stesso[20], perché pone troppi lacci ai nuclei vitali che compongono lo stato: in Utopia

«hanno ben poche leggi, perché pochissime sono bastevoli a uomini così organizzati; anzi è questo che rimproverano prima di tutto agli altri popoli, che cioè infiniti volumi di leggi e di esposizioni non bastano. Invece il loro pensiero è che somma ingiustizia è legare uomini con leggi o troppo numerose per essere lette, o troppo oscure per poter essere capite da chiunque»[21].

È evidente, comunque, che è la pubblica discussione ad essere decisiva nelle questioni pubbliche, come si afferma nell’opera:

«È delitto capitale decidere di cose pubbliche fuori del Senato o dei comizi del popolo, e ciò fu stabilito - è tradizione - perché non riuscisse facile a una congiura di principi e tranibori di mutare la forma di governo, opprimendo il popolo con la tirannia»[22].

Ma – appunto – non è la forma di governo, non è la metodologia della decisione politica che fa la differenza[23]. Utopia è un libro di morale sociale e tratta delle relazioni virtuose tra gli uomini che non possono essere definite per legge.

Ciò che vi è caratteristico è che nessuno, come già i re, desidera accrescere le terre che già possiede o meglio – si noti bene – che possiede la propria famiglia!

Infatti,

«nessuna desidera accrescere il proprio territorio, perché essi, di quel che posseggono, si considerano coltivatori piuttosto che padroni. Hanno in campagna case ben distribuite per tutti i poderi, fornite degli utensili da lavoro, e i cittadini vi si recano a turno ad abitarli. La famiglia agricola non è fatta di meno di 40 persone tra uomini e donne, oltre a due servitori, e a capo vi sono posti padri e madri di famiglia, gravi e attempati; a ogni trenta famiglie poi è preposto un filarco. Da ogni famiglia ogni anno tornano in città venti di essa, quelli cioè che hanno finito due anni in campagna, e al loro posto subentra dalla città un ugual numero di nuovi venuti, per esservi ammaestrati da quelli che vi sono rimasti già un anno e perciò sono più esperti di lavori agricoli»[24].

Si vede come il modello di vita sia quello di un’alternanza fra lavoro fisico e studio, di modo che tutti coltivino anche la saggezza, con il lavoro intellettuale.

Ogni terreno, ogni giardino e ogni casa sono belli, proprio perché ognuno si dedica a renderli tali – mentre ciò che negli stati moderni è di tutti, di fatto è di nessuno e nessuno se ne cura veramente.

Sono terreni e giardini e case che sono “comuni” non perché sono dello stato, ma perché sono di questa o di quella famiglia e perché ogni famiglia si dedica a renderli belli, mettendoli così a disposizione di chiunque viva in quel quartiere, di modo tutto risplende fiorito:

«[Dei loro giardini] fanno grande conto; in essi hanno vigne, frutti, erbaggi e fiori, con tanta bellezza e cura che in nessun luogo ho visto nulla di più produttivo o di più bello a vedersi. In questo la loro passione è tenuta accesa non solo dal loro proprio piacere, ma anche dalle gare fra quartiere e quartiere a chi meglio coltiva il proprio giardino. E certo in tutta quanta la città difficilmente si può trovare occupazione più vantaggiosa, sia quanto al diletto, sia quanto al bisogno di tutti; quindi di nessuna cosa più che di tali giardini pare che si sia occupato il fondatore dello Stato»[25].

È sempre un legame stretto, di tipo familiare e di affetto, che guida Utopia, di modo che sono i padri e le madri a trasmettere ai figli e ai nipoti sia la proprietà/dono che è comune, sia anche i valori e anche la passioni per determinati mestieri, che si trasmettono di padre in figlio:

«Nella maggior parte dei casi ognuno è educato nell’arte paterna, cui i più sono naturalmente inclinati. Ma se qualcuno per temperamento è portato ad altro, passa per adozione in una famiglia che fa il mestiere per cui egli ha passione, e non solo il padre, ma anche i magistrati si adoperano perché entri a servizio di un padre di famiglia serio e galantuomo»[26].

Si potrebbe dire che avviene in Utopia ciò che avveniva nelle corporazioni medioevali delle arti[27] - da cui provengono i moderni sindacati – di modo che si mantengono le esperienze e la saggezza acquisita dalle diverse generazioni nel lavorare, trasmettendoli di generazione in generazione a meno, che, come si è visto, un determinato figlio non voglia passare ad altro mestiere e si faccia dunque discepolo di un diverso padre di famiglia che custodisce l’arte specifica.

Tutta l’isola è costituita da nuclei familiari e ognuno desidera sposarsi a sua volta, così come è abitudine buona e consolidata far sì che gli anziani restino in casa con la propria famiglia ed abbiano un ruolo di autorità:

«Essendo la città composta di famiglie, le famiglie sono per lo più formate secondo vincoli di sangue: le donne, infatti, appena sono in età da marito, sposandosi, passano in casa dei mariti, i figli maschi invece e via via i nipoti rimangono in casa, ubbidendo al più anziano, tranne che per vecchiaia non sia debole di senno, nel qual caso lo sostituisce chi segue negli anni»[28].

7/ Utopia insegna quella visione sociale ed economica che sarà poi detta “distributismo”, nell’ottica della “sussidiarietà”

L’Ottocento e il Novecento hanno conosciuto due grandi visioni economiche opposte, quella del capitalismo di un mondo nel quale la legge decisiva è data dall’accrescimento continuo della proprietà privata nelle mani di pochi e quella del comunismo che lotta per l’abolizione della proprietà privata perché tutto appartenga infine allo Stato e sia da esso distribuito di volta in volta a chi ne abbia bisogno in maniera paternalista,

La proposta che Moro enuncia in Utopia chiaramente non conosce né il moderno capitalismo, né il moderno comunismo, ma lo stesso indica una diversa visione, ben più equilibrata di capitalismo liberista e comunismo statalista, che illumina chi cerchi di comprendere oggi dove è il male presente in tali prospettive.

La proposta di Utopia è quella di una proprietà diffusa, distribuita in maniera tale che ogni nucleo familiare abbia di che vivere e di poter bastare a sé stesso, in modo da essere veramente libero e protagonista del proprio destino.

Tale visione assumerà un preciso volto nell’Ottocento con il nome di “distributismo” – concetto che non si ritrova ovviamente in Utopia, ma che è chiaramente presente nell’opera di Moro, grazie alla riflessione di McNabb e poi dei Chesterton e di Belloc.

Così ne scrive Zaccuri:

McNabb considerava

«la famiglia come il riferimento obbligato di ogni seria riflessione sulla convivenza civile. La “misura di Nazareth” per lui non era un concetto astratto, da relegare nel segreto della coscienza. Al contrario, era il motore di una possibile rivoluzione sociale».

Tale idea di McNabb era poi maturata nella meditazione della Rerum Novarum e nella discussione

«a contatto con il gruppo composto dai fratelli Chesterton (Gilbert e Cecil, il cui ruolo andrebbe opportunamente rivalutato) e da Belloc, che nel saggio Lo stato servile aveva messo in discussione i presupposti stessi del capitalismo incontrollato. Da lì si era sviluppato il movimento distributista, coraggioso tentativo di superamento del comunismo attraverso una più ampia “distribuzione» della proprietà”. “Troppo capitalismo – aveva sintetizzato con la solita verve Gilbert Keith Chesterton – non significa troppi capitalisti, ma troppo pochi capitalisti”. Padre Vincent [McNabb] aveva aderito con entusiasmo al progetto, riconoscendo in esso quella centralità e attualità della famiglia che gli stava così a cuore. Il distributismo, infatti, proponeva che si creassero le condizioni per cui ciascun nucleo familiare divenisse proprietario della casa in cui viveva e dei mezzi di produzione necessari al sostentamento. Un’economia “alternativa” che, da un lato, aggiornava l’utopia tolstojana e il medievalismo alla William Morris, e dall’altro anticipava la battaglia contro l’usura di cui in seguito si sarebbe fatto carico, senza fortuna, il poeta Ezra Pound»[29].

Chesterton giungerà ad affermare che la democrazia non è data dal fatto che tutto sia discusso e votato, ma molto più dal fatto che sia possibile mettere su una casa ed una famiglia con figli. Se, invece, le condizioni sociali ed economiche non permettono di acquisire una proprietà minima con il possesso di una casa e di un campo e condizioni tali da viverci insieme alla propria famiglia – e di viverci in libertà, dando ad essa l’impostazione anche ideale e spirituale che si vuole - lì non può esserci che tirannide, anche se tutto appare democratico:

«Al primo ministro di un governo umano che vi capita di incontrare dite questo: “Un uomo onesto s’innamora di una donna onesta; pertanto, desidera sposarla, essere il padre dei suoi figli, dare sicurezza a lei e a sé stesso. Tutti i sistemi di governo dovrebbero essere messi alla prova sul fatto se egli possa realizzare ciò. Se un sistema qualunque […] di fatto gli dà un campo di cavoli abbastanza ampio da consentirgli di realizzarlo, lì è l’essenza della libertà e della giustizia. Se un sistema qualunque, […] di fatto gli dà un salario talmente piccolo che non può realizzarlo, lì è l’essenza della tirannia e della vergogna»[30].

Ovviamente la prospettiva di Utopia di Moro è quella che sarà detta in età moderna della “sussidiarietà” che, nel linguaggio di grande profondità della dottrina sociale della Chiesa, non significa che la politica debba continuamente offrire e gestire “sussidi” a questo o a quello, ma nella prospettiva ben più radicale che vede lo Stato non detentore del potere, bensì come “sussidiario” di quelle realtà native, come la famiglia o i sindacati/corporazioni o le comunità di credenti o come le parrocchie, realtà native che rappresentano il benessere stesso dello stato[31].

I figli, in questa prospettiva, non sono generati dallo Stato, educati dallo Stato e gestiti da esso, bensì nascono nelle famiglie, poiché sono le famiglie ad essere le cellule viventi dello Stato: è dal benessere dei nuclei familiari che dipende la nascita, l’educazione e la cura delle nuove generazioni come anche la cura dei malati e degli anziani. Lo Stato deve intervenire a sostenere l’opera nativa e primaria dei nuclei che lo compongono e mai sostituirsi ad essi, difendendo la libertà di tali nuclei e difendendo le condizioni che permettono ad essi di crescere e svilupparsi.

Tale visione si contrappone alle visioni capitalista e comunista che considerano solo l’individuo e lo Stato e mai i corpi intermedi che sono invece originari. Nel capitalismo è lo Stato che deve limitare sé stesso a vantaggio del singolo, mentre nella visione comunista è il singolo che deve cedere autorità allo Stato, perché esso possa dispiegare la sua presunta giustizia, stabilita per via politica.

Nella visione della “sussidarietà”, invece, fra il singolo e lo Stato esistono i nuclei vitali: non è lo stato e nemmeno il singolo a dare vita a nuovi bambini, a detenere la proprietà, a trasmettere i valori di una coscienza morale e i motivi di una vita di speranza, bensì ciò è di pertinenza dei nuclei familiari o sindacali o religiosi.

Dal benessere di essi, di cui lo Stato non è padrone ma sussidiario, dipende appunto il benessere stesso dello Stato e il suo futuro.

Quella della sussidiarietà è una visione, insomma, che relativizza sia lo stato che l’individuo: la persona scopre in tale visione di non potersi pensare come singolo autoponentesi, poiché invece ognuno è generato e nutrito ed educato in un contesto libero da genitori e nonni che lo fanno maturare in un contesto nel quale i nuclei vivi comunitari trasmettono quella visione della vita che è andata maturando nei secoli dei secoli e che anche oggi lentamente si accresce e si trasforma.

8/ Un equilibrio fra studio e lavoro

Il lavoro è considerato in Utopia come fattore di dignità che lega la persona agli altri cittadini. Esso non è compiuto solamente ai fini di un guadagno, ma perché tramite di esso l’uomo si perfezione e contribuisce alla vita della società di cui fa parte, contribuisce alla crescita della comunità nella quale è inserito:

«La principale è quasi unica occupazione dei sifogranti è di aver cura e badare che nessuno se ne stia senza far nulla, in braccio alla pigrizia, ma ognuno attenda al suo mestiere con sollecitudine, senza però stancarsi come una bestia da soma, a lavorare ininterrottamente dalla mattina presto fino a sera tardi, pena che non sopporterebbe nemmeno uno schiavo. Tale però, più o meno, è la vita degli operai in ogni paese, tranne che in Utopia!»[32].

Secondo la tradizione del giorno di riposo settimanale, introdotta da Israele nel mondo a partire dai primi capitoli di Genesi e diffusa poi nelle diverse nazioni dal cristianesimo – anche se il riferimento ebraico-cristiano non viene esplicitato – in Utopia non esiste solo il lavoro, ma anche il riposo.

Tutti conoscono, riposando, la dignità del pensiero, dello studio, della conoscenza della letteratura – cioè dell’esperienza degli uomini che ci hanno preceduto e ne hanno scritto con bellezza -, perché cresca una vita carica di senso:

«Gli intervalli [dal lavoro] i più li impiegano in studi letterari; c’è l’uso infatti di tenere ogni giorno lezioni pubbliche, prima di far giorno, cui sono costretti a intervenire soltanto quelli espressamente prescelti per gli studi; ma vi affluiscono uomini e insieme donne di ogni condizione, in gran folla, ad udire questa o quella lezione, secondo le loro inclinazioni»[33].

Anzi, vi sono persone cui si concededi non esercitare alcun lavoro fisico, ma solo intellettuale, poiché se ne vede la propensione. Godono di tale esenzione «quelli cui il popolo, dietro istanza dei sacerdoti e votazione segreta dei sifogranti, concede licenza di attendere per sempre agli studi»[34].

L’importanza attribuita allo studio fa sì che in Utopia si conceda il massimo tempo possibile allo studio e alla cultura, perché per gli abitanti dell’isola è in questa elevazione dello spirito che consiste precisamente la felicità:

«Le autorità non occupano contro loro voglia i cittadini in lavori superflui, poiché i principi di questa Repubblica hanno di mira innanzitutto l’ideale di richiamare tutti i cittadini, quanto più tempo è possibile, per quel che consentano le necessità pubbliche, dalla servitù del corpo alla libertà dello spirito e della cultura. In ciò Infatti consiste, secondo loro la felicità della vita»[35].

L’amore per il lavoro e per lo studio ha generato una società dove non c’è più bisogno di vizi e stravizi:

«In nessun luogo c’è libertà di non lavorare o pretesto a non far nulla, non fiaschetterie, non birrerie, non bordelli, non inviti a corruttela, non case di appuntamento e di malaffare: il vivere sotto gli occhi di tutti rende necessario o il consueto lavoro o un riposo onesto. Risultato di tali costumi è necessariamente l’abbondanza di tutto, e poiché questa viene equamente nelle mani di tutti, non c’è da meravigliarsi che nessuno sia povero, nessuno mendichi»[36].

Anche questa speciale dignità attribuita al fatto di lavorare, in modo da contribuire al bene comune, è un tratto tipico di quella che sarà detta poi la dottrina sociale della Chiesa, ma che è evidentemente già presente in un tempo in cui non vi era ancora una precisa definizione di essa: l’importanza del lavoro in Utopia mostra come la dottrina sociale della Chiesa, sorta come riflessione esplicita solo in età moderna, sia ricca però di tutta l’esperienza dei millenni di vita dei credenti. È l’esperienza del valore del lavoro che fa scrivere a Moro queste note su Utopia: quando si vive di elemosina o di passatempi che non danno soddisfazione la società non può che deteriorarsi, quando invece c’è lavoro per tutti e tale lavoro è stimato e incoraggiato, ecco che tutto risplende.

Ed è proprio in nome della dignità del lavoro che, da un lato, è chiaro che esiste la proprietà privata e che, proprio per questo, nessuno manca del necessario, perché la cultura del lavoro è diffusa in tutti gli abitanti di Utopia:

«Qui, dove ogni cosa è di tutti, nessuno dubita che, purché si pensi a tenere ben colmi i granai pubblici, non mancherà a nessuno nulla di privato»[37].

Dall’altro è per lo stesso motivo che una feroce critica è più volte riservata ai nobili che fanno lavorare gli altri e non lavorano, vivendo da sfaccendati, esattamente come quelli che non hanno lavoro, entrambi condannati per lo stesso male, il rifiuto di lavorare:

«Che giustizia è mai questa che è un nobile qualsiasi, un commerciante di danaro, un usuraio, un altro qualsiasi, infine, di quelli che non fanno nulla - o ciò che fanno è di tal fatta che non è necessario granché allo Stato - ottenga di vivere tra delicatezza e splendori, o col non far nulla, o con lavori inutili; laddove intanto un manovale, un cocchiere, un falegname, un contadino, con un lavoro gravoso e ininterrotto che nemmeno un mulo, ma necessario, tanto che lo Stato senza di esso non potrebbe durare neppure un anno, si procacciano tuttavia un vitto così stentato, conducono una vita così miserabile?»[38].

9/ Una precisa visione del piacere: i piaceri dell’anima e del corpo

Utopia affronta, poi, una questione di particolare importanza, quella del piacere e della vita beata – si è già detto che nel termine utopia è nascosta anche una seconda radice che è eu-topia, luogo beato.

Dall’importanza data alla questione del piacere[39] emerge ancor più come Utopia non descriva una costituzione ed un’amministrazione di uno stato nella sua architettura giuridica e parlamentare, bensì una visione morale di cosa sia una società buona e che prosperi, di quali visioni debba nutrirsi il convivere dei cittadini in una stessa nazione.

Ebbene Moro denigra con arguzia e ironia i piaceri abitualmente considerati tali, a partire dal possesso dell’oro e delle gemme preziose, così come di vesti eleganti:

Gli abitanti di Utopia «hanno l’oro e l’argento […] in conto tale che nessuno li apprezza più che non richieda la natura. E chi non si accorge quanto per natura [l’oro e l’argento] sono inferiori al ferro? Tanto che, senza questo, per Diana, i mortali non possono vivere, né più né meno che senza fuoco o senza acqua, mentre all’oro e all’argento nessuna utilità ha concesso la natura, di cui non possiamo agevolmente fare a meno, se non fosse che la follia umana ha dato valore alla rarità; perché anzi, come madre affettuosissima, ha messo all’aperto ciò che ha di meglio, come l’aria, l’acqua e la terra stessa, mentre ha riposto assai lontano le cose vaneno e di nessun vantaggio»[40].

Insomma Moro ricorda come i metalli preziosi di gioielli e corone, di orecchini e bracciali, di spille e fibbie, non abbia di per sé alcuna vera utilità. Il ferro, quello sì, è un metallo necessario alla vita, ma dell’oro e dell’argento nessuno saprebbe cosa farsene, se l’uomo non apprezzasse la rarità, dimenticando – egli afferma – che la stessa natura ha invece ben nascosto tali elementi, proprio perché poco utili.

Anzi gli Utopiani si stupiscono di chi apprezzi tanto l’incerto splendore di un po’ di oro, mentre trovano un piacere immenso a contemplare e a studiare le stelle con la loro luce:

«Si stupiscono che esista qualche mortale cui diletti l’incerto splendore di una piccola gemma, di una perla, quando può contemplare qualche stella e anche lo stesso sole, o che ci sia qualcuno così stolto da credersi più nobile ai propri occhi per un filo di lana più sottile, se è vero che questa stessa lana, per quanto sottile sia il filo che dà, la portava una volta una pecora che pure con ciò è rimasta sempre pecora»[41].

Qui, meraviglioso è l’accostamento delle stelle ai metalli preziosi che condanna l’uomo e la donna incapaci di provare vero piacere per il cosmo e attenti solo a quisquiglie come un oggetto, solo perché ritenuto ingiustamente prezioso e di valore.

Allo stesso modo, come si è visto, Moro critica l’eccessiva cura nel vestire e nel ricercare fili di lana sempre più sottili e maglierie e vesti e gonne speciali, dimenticando che tutto viene da animali come le pecore che non vengono certo apprezzate, anche se sono all’origine degli indumenti che tutti indossano.

In Utopia il piacere che conta davvero, perché si riconosce che è duraturo, è quello di fare il bene, anche rinunciando a possedere, anche privandosi di cose, per il gusto di donarle:

«la […] coscienza d’aver fatto il bene, col ricordo dell’affetto e della benevolenza dei beneficati, reca più piacere all'animo che non sarebbe stato il piacere fisico cui hai rinunziato»[42].

Se l’uomo si attacca a piaceri superficiali e non duraturi è perché la sua vita è stata come corrotta, come ferita – è l’antica dottrina del peccato originale che viene qui evocata indirettamente. I falsi piaceri sono tali, perché l’uomo non è più in sé stesso, vive come fuori da sé stesso, non sa ritrovarsi.

L’ardere per cose che non danno vero piacere non dipende dalla natura delle cose stesse, ma dal fatto che la vita umana si è misteriosamente corrotta:

«non è infatti in causa la natura della cosa stessa, ma la corruttela della vita umana, per la cui colpa succede che si accoglie come dolce l’amaro, non diversamente da donne incinte quando al loro gusto corrotto la pece e il sego sembrano dolci più del miele stesso. Eppure il giudizio guasto da malattia o da abitudine non può cambiare natura alle altre cose, e nemmeno al piacere»[43].

È interessantissimo qui che Moro abbia la chiara coscienza teologale che il mondo non è oggi come doveva essere nel pensiero del Creatore. Ed è per questo che ciò che sembra un “piacere” in realtà non lo sarebbe stato senza il peccato di origine: ed, infatti, il piacere del peccato si rivela poi mortifero e amaro dopo che lo si è assaggiato[44].

Gli abitanti di Utopia hanno un animo non corrotto e pertanto è loro chiaro che i veri piaceri sono quelli dello spirito:

«Quelli di Utopia abbracciano anzitutto i piaceri dell'animo, che giudicano primi primissimi, e parte di questi principalmente credono che muova dall’esercizio delle virtù e dalla coscienza di vivere nettamente»[45].

Già Epicuro aveva espresso la stessa visione del mondo, nonostante gli ignoranti lo ritengano un superficiale materialista. Al grande filosofo greco era chiaro che senza le virtù, senza giustizia e rettitudine, non esiste niente di veramente piacevole nella vita.

Epicuro, infatti, scrisse nella lettera a Meneceo:

«Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l’animo a essere sereno.
Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza.
Di tutto questo, principio e bene supremo è l'intelligenza delle cose, perciò tale genere di intelligenza è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia intelligente, bella e giusta, né vita intelligente, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili»[46].

Dei piaceri dello spirito fa parte, per gli abitanti di Utopia, lo studio della natura, tramite le scienze. Tale amore scientifico è il solo atteggiamento adeguato, per Moro, alla meraviglia del creato:

«Scrutando con l’aiuto delle scienze i segreti della natura, pare loro [agli abitanti di Utopia] di ricavarne un ammirabile piacere, non solo, ma di ingraziarsi sommamente l’autore e artefice di essa, il quale, facendo,a parer loro, questa macchina del mondo perché la vedesse l’uomo - solo essere capace di così gran cosa - l’ha esposta all’osservazione di lui, così come fanno gli altri artisti; ragione per cui ha più caro uno che sia contemplatore pieno di curiosità e di zelo e ammiratore della sua opera, anziché chi, come una bestia senza intelligenza, dinanzi ad uno spettacolo così grandioso e mirabile resti senza commuoversi, come uno stupido, e non se ne occupi»[47].

Chi non avesse amore per le scienze non sarebbe pienamente uomo e non risponderebbe alla chiamata di Dio che ha voluto l’uomo come unico essere capace di meravigliarsi e di studiare la complessità del reale.

10/ Della famiglia ancora e del suo ruolo di deterrenza contro la guerra

Per gli abitanti di Utopia il matrimonio è una questione decisiva: essi sostengono la sua unicità. Anzi lo fanno più di tutti i popoli, tanto ne hanno stima:

«I soli utopiani, fra tutte quelle contrade della terra, sono contenti di una sola moglie e spesso qui nulla spezza il matrimonio fuor della morte, a meno che non sia in questione un adulterio o una penosa inadattabilità di temperamento»[48].

Anzi il matrimonio è così importante da essere punito con la morte chi è recidivo nell’adulterio:

«A chi è recidivo per il delitto di adulterio è inflitta la morte»[49].

Anzi proprio l’amore per la famiglia orienta il modo in cui gli abitanti di Utopia cercano di scongiurare il pericolo di una guerra.

Infatti, da un lato, essi sanno che la guerra può essere l’estrema ratio al punto da preparare al combattimento anche le donne, ma sempre con finalità difensive o di aiuto ad altri popoli indifesi sotto attacco:

«Per quanto si addestrino di continuo in esercizio militari, e non gli uomini solo, ma anche, in giorni stabiliti, le donne, per non trovarsi, al bisogno, disadatti alla guerra, non intraprendono questa da sconsiderati, ma o per difendere il proprio territorio o per ricacciare nemici che abbiano invaso le terre di amici, o per pietà di un popolo oppresso da tirannide, allo scopo di liberarlo con le proprie forze (e lo fanno per filantropia) dall’oppressione e dalla schiavitù»[50].

Infatti,

«una vittoria sanguinosa suscita tra gli utopiani non solo rincrescimento, ma anche vergogna: a loro sembra ignoranza pagare troppo caro una merce, per quanto di pregio»[51].

È incredibile come Moro anticipi le moderne riflessioni morali sulla guerra. Nella valutazione di un intervento militare di legittima e anzi necessaria difesa si deve considerare anche se esso non costi comunque troppo in termini di sangue, nel qual caso ogni senso di vera giustizia invita a desistere, pure se si avessero ragioni da vendere.

Ma ecco il colpo di scena con cui Utopia spiazza il lettore. Proprio per far capire quanto dolorosa sia una guerra e quanto male comporti, nell’isola chi va al fronte deve andarci avendo al suo bianco moglie e figli che potrebbero così morire anch’essi: la loro presenza sarà un deterrente enorme per il combattimento e i soldati di Utopia non vorranno così attaccare battaglia, sapendo di poter perdere i loro cari. Ancora una volta è l’amore per la propria famiglia a far desistere pure dall’idea della guerra:

«Come a una guerra di fuori nessuno di essi è trascinato controvoglia, così non vietano che le donne accompagnino di loro iniziativa i mariti a fare il soldato, Anzi ve le esortano e spingono lodandole; così, partendosi per la guerra, le schierano ognuna col marito nella stessa fila, poi intorno a ogni uomo si stringono i figli, i consanguinei, i parenti, perché più da vicino si sostengano fra di loro quelli che più la natura spinge a porgersi aiuto insieme»[52].

11/ Della fede e dell’ateismo in Utopia

Nel descrivere la vita beata nell’isola di Utopia Raffaele Itlodeo si sofferma, in chiusura di narrazione, sull’importanza della religione nella vita dei suoi abitanti.

Con un escamotage geniale, Moro immagina che il cristianesimo vi sia appena giunto e che quindi gli abitanti non abbiano ancora fatto in tempo a convertirsi tutti alla fede. Ma vi stiano aderendo, ma mano che la conoscono: 

«Quando appresero da noi il nome di Cristo, la sua dottrina, i costumi, i miracoli e la costanza non meno mirabile di tanti martiri, il cui sangue, sparso spontaneamente, attrasse alla propria fede popoli così numerosi per lungo e per largo, non si può credere con quanta inclinazione, con quanta affezione anch’essi vi aderirono, sia che a ciò l’ispirasse più intimamente Dio, sia che paresse il cristianesimo molto vicino alle dottrine prevalenti presso di loro; per quanto io direi che a ciò fu di non lieve spinta l’aver appresso che Cristo approvò la vita in comune dei suoi e che questa ancora si pratica presso associazioni schiettissime di cristiani. E certo, qualche sia stato il movente, che non pochi entrarono nella nostra religione e furono purificati dalle sacre acque»[53].

In questa maniera egli può parlare del cristianesimo, ma mostrando che in ogni uomo, a prescindere dalla novità cristiana, vi sia un anelito vero e da assecondare alla fede e come esso abbia la sua pienezza in Cristo. Insomma descrive la situazione della fede in Utopia in fieri e non ancora in uno stato “cristallizzato”.

Itlodeo/Moro dichiara apertamente che non ha senso alcuno, anzi è grave proprio perché non ha senso al alcuno, utilizzare la violenza per costringere alla fede:

«Pretendere con la violenza e con le minacce che ciò che tu credi vero sembri tali a tutti ugualmente, è un eccesso e una sciocchezza. Perché se poi una sola religione è vera più che tutte le altre, e queste sono tutte quante senza fondamento, pur [Utopo, il re fondatore] previde agevolmente che, a condurre la cosa con ragione e moderazione, al fine la forza della verità sarebbe una buona volta venuta fuori da sé stessa per dominare; se invece si lottava con armi e sollevazioni, poiché i più tristi sono sempre i più ostinati, la religione migliore e più santa sarebbe stata schiacciata dalle più vuote superstizioni, come messi tra spine e sterpi. Perciò mise da parte tutta questa faccenda, e lasciò libero ognuno di ciò che volesse credere, salvo che religiosamente e severamente vietò che nessuno avvilisse la dignità della natura umana sino al punto da credere che l’anima perisca col corpo o che il mondo vada innanzi a caso, toltane di mezzo la provvidenza; e questa è la ragione per cui credono che, dopo la vita presente, per le colpe siano fissati dei tormenti e per la virtù stabiliti dei premi, e chi la pensa diversamente non va messo neppure nel numero degli uomini, come colui che abbassa la natura elevatissima dell’anima sua alla vita del corpiciattolo delle bestie»[54].

Insomma è con la forza della verità insita nella vera religione che essa si afferma e pensare che una religione vada affermata con la forza – quanta attualità nelle parole di Moro – vuol dire immiserire la fede stessa e farla divenire una “vuota superstizione” senza dignità alcuna: chiunque pensa di impedire la conversione libera delle persone alla religione che ritenessero vera è un maestro di superstizione.

La violenza in materia religiosa è per Moro un gravissimo problema, poiché “i più tristi sono sempre i più ostinati”! Con che forza Utopia descrive la mancanza di amore in Dio e la tristezza d’animo di chi pensa che si debba imporre una religione: in fondo chi fa così dimostra di dubitare della propria stessa fede al punto che, se non ci fosse obbligo, nessuno la sceglierebbe.

Qui Moro afferma, insomma, non che la libertà sia il valore sommo, perché anzi la fede è più importante della libertà, ma che se non ci fosse vera libertà, non si darebbe fede vera, né amore vero, perché la libertà è la condizione della fede!

Solo due cose sono vietate in Utopia: che si rifiuti una provvidenza e che si rifiuti di credere che ci sarà un giudizio sul male compiuto: ognuno è libero di aderire al “credo” che ritiene vero, ma nessuno deve ritenere che l’intero cosmo non abbia senso e che coloro che in terra sono trattati ingiustamente non debbano un giorno essere esaltati.

Tale assoluta importanza è attribuita alla dignità del credere in Utopia, al punto che chi non crede è come se mancasse dinanzi alla propria umanità. Questo ha una sola conseguenza politica e sociale: chi non credesse al senso della vita, garantito dall’esistenza di una provvidenza, non deve assumere cariche pubbliche. Chi non crede non può governare: 

«Se uno ha tale temperamento [se uno non crede], non lo si mette a parte di alcun onore, non gli si affida alcuna magistratura, non viene preposto ad alcuna funzione pubblica. Così dunque messo in non cale, come di natura fiacca e vile. Del resto, non lo condannano ad alcuna pena capitale, perché è loro convinzione che non è in potere di nessuno credere a quello che gli piace, ma neppure lo costringono con minacce a nascondere il proprio animo, e nemmeno ammettono belletti e bugie, che, come vicinissimi all’inganno, hanno in odio straordinario. Gli vietano però di sostenere le proprie opinioni, ma soltanto presso il volgo, perché, altrimenti, presso sacerdote e uomini gravi, in disparte, non solo lo consentono, ma ve li spingono pure, fidando che una buona volta quella pazzia ceda alla ragione»[55].

Non punizioni, dunque, ma l’invito a confrontarsi con i sapienti, ben sapendo che nessuno può convincere un altro se questi non giunge da solo, per via di confronto e di ragionamento, alla verità.

In Utopia, insomma, tutti credono nella provvidenza di Dio e nella vita eterna e, nella loro libertà, e tutti camminano alla ricerca della vera religione. Tale ricerca non è messa in sordina e, anzi, il dialogo sulla vera religione, anche dinanzi al cristianesimo che è appena giunto nell’isola, è segno di vero rispetto di Dio: tutti desiderano considerare sempre meglio se Dio non voglia manifestarsi sempre di più in una religione più vera. Ma, per tutti, tutto avviene sempre in un sentimento di gratitudine, tutti vivono nel rendimento di grazie, nella coscienza dell’origine della propria vita e della stessa repubblica di Utopia nella provvidenza divina:

«Ognuno riconosce Dio come autore sia della creazione che del governo del mondo e inoltre di tutti gli altri beni; perciò gli rende grazie di tanti benefici ricevuti e in particolare di essere capitato in tale Repubblica, che è la più felice, e di aver avuto in sorte tale religione, che spera sia di tutte la più vera. Che se in ciò si sbagliasse e se ce n’è un’altra che sia superiore in parte e a Dio più gradita, prega la sua bontà che faccia in modo che lo riconosca anch’egli, perché egli è pronto a seguire, in qualsiasi direzione Dio lo conduca»[56].

12/ Il lieto finale di Utopia

Meraviglioso è il finale di Utopia.

Come alla fine del Primo libro, anche alla fine del Secondo tutto finisce in un banchetto. È la tradizione dell’antico simposio platonico, dove si fa filosofia e si discute, mentre si pasteggia in amicizia, pur nelle diverse posizioni.

Questa utopia, quella di una fraternità che nasca dalle relazioni personali e dalle piccole comunità come la famiglia, le parrocchie, le corporazioni lavorative, come da gruppi di amici che mangiano insieme è l’utopia che propongono Moro e i suoi compagni di dialogo.

Quanto alla sua realizzabilità nel grande mondo, secca è la conclusione – come si è già visto -, non perché Moro abbia in odio la compagine statale e diffidi semplicemente dei re e dei governanti, e nemmeno perché detesti l’umanità – anzi -, ma perché ben conosce il peccato originale che è in tutti:

«Non ho difficoltà a riconoscere che molte cose si trovano nella Repubblica di Utopia, che desidererei per i nostri stati, ma ho poca speranza di vederle attuate»[57].



[1] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 134.

[2] Il titolo originario è De optimo reipublicae statu, deque nova insula Utopia. Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus (Sull’ottimo stato di una comunità politica e della nuova isola di Utopia. Libretto veramente aureo, non meno salutare che festivo), pubblicato nel 1516.

[3] Nel testo originale in latino con traduzione a fianco in italiano in T. More, Utopia, Milano-Udine, Mimesis, 2020, p. 292.

[4] Nel testo originale in latino con traduzione a fianco in italiano in T. More, Utopia, Milano-Udine, Mimesis, 2020, p. 292.

[5] È interessante che da tale visione parta anche il collettivo che fu Luther Blisset e ora è Wu Ming, un collettivo anarchico, ance se poi la questione non appare ben centrata nel prosieguo del testo: cfr. lo studio La particella “mu” nella parola “comunismo”, di Wu Ming, al link https://www.wumingfoundation.com/italiano/outtakes/comunismo.htm.

[6] Erasmo da Rotterdam, Modi di dire. Adagiorum collectanea, Torino, Einaudi, 2013, p. 75. Spiega Erasmo: «Un detto passato a tal punto nella parlata popolare, che anche un personaggio di Terenzio lo dà come proverbio. Dice: È un detto antico che fra gli amici tutto è comune, motto tuttavia citato da Platone come di Euripide» (Erasmo da Rotterdam, Modi di dire. Adagiorum collectanea, Torino, Einaudi, 2013, p. 75).

[8] Il paradosso dell’Utopia moreana e già nell’incredibile gioco di parole fra “comune” e “privato/proprietà privata” che è nel testo, alla stessa pagina dei due precedenti riferimenti: se tutto è di tutti, allora «nihil quicquam privati cuiquam defuturum»/non mancherà qualcosa di privato a qualcuno (nel testo originale in latino con traduzione a fianco in italiano in T. More, Utopia, Milano-Udine, Mimesis, 2020, p. 292).

[10] Chi discute di questioni che riguardano l’ex ICI/ora IMU dovrebbe ricordare che questo tipo di tasse nacque come una tantum e la sapienza dei cristiani fece sì che ne venissero esonerati tutta una serie di soggetti che non puntavano ad un guadagno su tali strutture, bensì le sostenevano in vista del bene comune: la sapienza di tale visione portò appunto a che essa valesse per enti di diverse religioni o anche totalmente sganciati da religioni.
Chi intende promuovere la giustizia sociale dovrebbe pretendere che si abolisca totalmente l’ex ICI/ora IMU, non chiedere che siano eliminate le giuste esenzioni per questo o per quello, mentre loro stessi se ne servono! L’ICI nacque come tassazione una tantum ed è sommamente ingiusto che una famiglia che ha pagato 20 o 30 anni di mutuo per una casa in cui vive e che non affitta ad altri, debba continuare a pagare, anno dopo anno, una tassa per quell’immobile.
Allo stesso modo è sommamente ingiusta la cosiddetta “tassa di successione”, che è ben diversa da una tassa per la vendita di un’immobile. Se qualcuno impegna anni e anni per mettere a disposizione dei figli, che vivono con lui in quella stessa casa avendo un posto sicuro in cui crescere, perché costoro dovrebbero poi pagare una tassa per ricevere ciò che è già da sempre loro, in comunione con i loro genitori e nonni?

[11] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 4.

[12] Pieter Gillis (Anversa, 1486 – Anversa, 11 novembre 1533) è dunque un giurista e umanista fiammingo, conosciuto anche con il nome latinizzato di Pietro Egidio.

[13] I due ritratti sono oggi divisi. Il ritratto di Erasmo è conservato nella Royal Collection ad Hampton Court, mentre quello di Pieter Gillis è nella collezione del conte di Radnor, presso Longford Castle. Ma il ritratto originale di Erasmo potrebbe essere invece quello della Galleria Barberini, da cui sarebbe derivata la copia di Hampton Court, o al contrario sarebbe quest’ultimo ad essere una copia di altissimo livello, dipinta dallo stesso Matsys a partire da quello inglese o forse una replica, chiesta dallo stesso Erasmo o da Gillis. Certo è che Quentin Matsys (noto anche come Metsys o Massys) terminò i due ritratti nel 1517 e che essi vennero inviati a Moro.

[14] Così afferma Raffaele Itlodeo in T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 18.

[15] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 41.

[16] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 44.   

[17] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 46.   

[18] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 27.  

[19] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 30.   

[20] Moro anticipa così la critica che Hans Kelsen muoverà al marxismo il quale, abolendo la proprietà privata, condurrà ad una elefantizzazione dell’apparato burocratico; cfr. su questo Uno Stato “statalista” che non sia fondato sulla sussidiarietà è destinato ad implodere e a morire di burocrazia. La critica di Hans Kelsen al marxismo vale anche per il Welfare, di Andrea Lonardo. Ma è giusto rivolgere tale critica di Moro e poi di Kelsen anche al modo di concepire la tutela dei diritti oggi in occidente, con una legislazione talmente eccessiva e complicata da rendere impossibile l’iniziativa non solo dei singoli, ma anche delle piccole cellule vitali comunitarie che compongono la società (vedi anche su questo l’articolo appena citato).

[21] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 102.

[22] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 62.

[23] Da questo punto di vista, si capisce come Utopia non abbia monete, ma solo uno scambio di beni, nell’ottica di una crescita comune in cui ognuno abbia cura degli altri (cfr. T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 134).

[24] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 57.

[25] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 60.

[26] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 63.

[27] Su questo ruolo della trasmissione dell’arte del lavoro e sul modello delle “corporazioni” che Moro ha chiaramente in mente, pur non dichiarandolo apertamente; cfr. Il ruolo dei monasteri e delle corporazioni (o gilde) nel medioevo: Chesterton presenta la grande libertà della storia medioevale d’Inghilterra (e d’Europa). Breve nota di Andrea Lonardo.

[28] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 69.

[30] Il brano, tratto da G.K. Chesterton, La famiglia, regno della libertà. Un incubo di assurdità, ILN, 25 marzo 1911, è disponibile per intero on-line su www.gliscritti.it. Chesterton proseguiva poi criticando chi demonizzava la famiglia: «[Chi] irride l’uomo che crede nel proprio amore e nella propria costanza e gli dice che ogni amore è una cotta da adolescenti; e dice all’amante fedele delle vecchie ballate che non esiste qualcosa come il vero amore, perché ogni amore è un’illusione. Ecco il primo punto a favore del datore di lavoro tirchio: l’uomo deve rimanere scapolo. [Taluni autori] dicevano all’uomo che poteva amare la donna ma non aveva nessun bisogno di impegnarsi a sostenerla; un altro punto segnato per il datore tirchio. [Altri ancora hanno detto] che se l’uomo si sposava non doveva eccessivamente caricarsi del peso della posterità: altro punto segnato per il datore tirchio. Anziché mettere alla prova le istituzioni effimere rispetto a un’istituzione eterna, stiamo sbocconcellando l’istituzione eterna e lasciamo noi stessi senza nessun banco di prova».

[32] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 63.

[33] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 64.

[34] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 66.

[35] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 68.

[36] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 75.

[37] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 130.

[38] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 130-131.

[39] Moro comprende il piacere e lo include nella sua proposta di morale sociale, anche qui in piena consonanza con la tradizione cattolica. Su tale ruolo del piacere negli autori fino al Cinquecento, cfr. Per dovere o per piacere? Il ruolo del piacere nella morale cristiana: la proposta educativa di Albert Plé, di Achille Tronconi.

[40] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 77.

[41] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 80. 

[42] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 85.

[43] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 89.

[44] Quando si afferma “Tutto ciò che dà piacere o è peccato o ingrassa” o, comunque, fa star male, ciò non è da attribuire, nella visione cristiana, ad una malvagità di Dio che avrebbe conferito piacere alle cose negative, ma ad uno stravolgimento delle cose create avvenuto al momento del peccato: se non ci fosse peccato sarebbe evidente che le cose cattive non possono dare piacere.

[45] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 91.

[46] Epicuro, Lettera a Meneceo, 131-132.

[47] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 95-96.

[48] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 99.

[49] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 100.

[50] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 106.

[51] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 107.

[52] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 112.

[53] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 116.

[54] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 118-119.

[55] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 119.

[56] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 128.

[57] T. Moro, L’Utopia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 134.