Violenza contro le donne: perché è così importante denunciare la falsità delle accuse al patriarcato? Perché, non si assumerebbe una visione critica della visione affermatasi dal ‘68 in poi che tanta immaturità e violenza ha generato. Breve nota di Giovanni Amico

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 05 /05 /2025 - 16:26 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito una nota di Giovanni Amico. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Educare all’affettività.

Il Centro culturale Gli scritti (5/5/2025)

1/ Bisogna porre correttamente il problema delle radici di tanta violenza, per poter orientare il futuro in maniera diversa

Perché tanta violenza e, in particolare, sulle donne?

La risposta di tanti – guidati da parte dell’intellighenziaè automatica. È colpa del patriarcato, cioè del lontano passato.

Ma basta uno sguardo ai dati per accorgersi quanto tale risposta sia superficiale, e che è, invece, nel presente e nell’immediato passato che debbono essere rinvenute le responsabilità culturali e di mentalità.

C’è chi se ne accorge, pur senza trarne tutte le conseguenze. Ad esempio, Alessandra Ziniti su “La Repubblica” del 16 aprile (l’articolo titolava Violenze sessuali, aumentate del 50% negli ultimi 5 anni. Ma nel 2025 il trend è in calo) commentava un dato statistico che registrava un aumento delle violenze sessuali negli ultimi anni.

Nella sua analisi la violenza è compiuta soprattutto da giovani, che sono solo pronipoti della generazione degli anni ’50, quando forse c’era ancora il patriarcato.

Ma la violenza è parimenti compiuta da adulti immaturi, già non più giovani, anch’essi ben lontani da generazioni nelle quali c’era un capostipite maschio che comandava su figli e nipoti.

Un articolo di Francesca Barra su “L’Espresso” – ulteriore attestazione di voci più libere nel dibattito - coglieva un aspetto decisivo della questione. Così il suo contributo veniva riassunto dalla stessa testata su FB del 13/4/2025:

«Da chi imparano i giovani ad amare? “I ragazzi imparano ad amare da come vedono amare. E oggi, vedono adulti che confondono desiderio con bisogno, relazione con simbiosi, affetto con controllo. I ragazzi ci osservano e vedono fragilità negate, emozioni trattenute o urlate, relazioni che scoppiano senza che nessuno le ripensi. Imparano così: dall’incoerenza, dal silenzio, dai non detti. E allora tocca a noi smettere di essere adulti adolescenti, per diventare testimonianza viva di un amore che non si consuma, ma si costruisce”. Dipendenze affettive, sessualità precoce, amori performativi, accesso veloce e facile al sesso online, amori tossici. È questo l’amore per i giovani?».

Tale analisi ha il pregio di rimandare alla situazione culturale ed affettiva creatasi negli ultimi decenni e non a quella ormai troppo lontana degli anni del patriarcato.

Un altro intervento che è stato colto come significativo dai media è stato quello di Ambra Angiolini che ricordava, dal suo punto di vista, l’età giovanissima di vittime e assassini e poneva a suo modo in maniera intelligente la questione, rimandando a cause presenti, ben diverse da quelle di un tempo:

«Ragazze sempre più giovani uccise da giovanissimi. Non c’è nessuno che non sia figlio nostro. Ragazze molto giovani muoiono per mano di ragazzi molto giovani, l’età si è abbassata in modo spaventoso».

Lo spettacolo era Oliva Denaro e la storia messa in scena era invece quella di Franca Viola[1], cioè una vicenda degli anni ’60 - cosa che potrebbe a torto indirizzare alle false letture che si intende qui porre in dubbio che rimandano a cause antiche, indipendenti dal costume moderno.

2/ Le radici vere della violenza e del disagio affettivo così evidente

Insomma, se si guarda all’età delle persone violente e se si pone attenzione alla confusione che regna sovrana in campo affettivo al presente, è ben chiaro che non ha veramente alcun senso rimandare al patriarcato che forse era vivo ancora negli anni ’50, ma non certo nei genitori e nei nonni delle attuali generazioni.

I fattori nuovi che emergono e che sono certamente decisivi, anche se attendono ancora una analisi completa e organica, sono diversi.

2.1/ Innanzitutto una violenza diffusa ed una cultura che vede i propri bisogni come “diritti” da perseguire a tutti i costi

Esiste innanzitutto una violenza dilagante, ben al di là della violenza di genere. Diversi giovani, in banda o solitariamente, sono avvezzi alla violenza, ben al di là del rapporto con le donne.

Tale presenza costante di atteggiamenti violenti è segno dell’immaturità generata da tutta una cultura, altrimenti non sarebbero così diffusi. Violenza che si manifesta nell’incapacità di rispettare qualsiasi cosa non sia propria, che si annuncia nelle grida e nella rabbia che è presente nelle strade di una qualsivoglia città, nell’arroganza, che spadroneggia in particolare la notte, con cui ci si prova con una qualsivoglia ragazza si incontri per strada, ma anche in luoghi come le discoteche, unitamente a fiumi di alcool e sostanze, ma che porta anche a liti terribili nel traffico o fra gruppi scolastici.

Quando si attribuisce tutto al patriarcato, si finge di non vedere la paura che serpeggia per le strade e la rabbia che esplode all’improvviso per un posto di parcheggio o nel traffico o non appena si è contestati su qualcosa.

La violenza appare poi anche nella relazione con le donne, spesso in maniera “occasionale”. È una violenza, infatti, che esplode contro donne appena conosciute o incontrate per caso, mentre altre volte si manifesta in relazioni costanti e strutturali, ad esempio in rapporti che durano da mesi e anni.

Sono tristemente noti i casi di violenza contro donne incontrate in spiaggia, in una discoteca o su di un autobus o ad una festa in una piazza a capodanno, o semplicemente incrociate di notte in una qualsivoglia strada cittadina – ma tragicamente esistono anche violenze compiute in convivenze protrattesi per anni.

2.2/ Un crescente disagio psicologico, figlio di un’incapacità educativa degli adulti e dell’assenza di padri

Una seconda questione che deve essere chiamata in causa è l’esistenza di un crescente disagio individuale. Il disagio psicologico dilagante è anch’esso certamente una delle cause della violenza odierna e di quella contro le donne in specie.

Tutto orienta a non riconoscere tale disagio solo all’interno del campo sessuale e affettivo, perché esso, invece, spesso abbraccia tutta la personalità degli individui che commettono violenza.

Nei racconti di chi è stato vicino a chi giunge al femminicidio si rileva spesso che tali persone apparivano problematiche anche in altri ambiti di vita, anche se poi la violenza è esplosa in campo affettivo.

È paradossale che l’accusa di patriarcato sia all’antitesi di tali analisi ben più corrette da tanti poste in luce: in esse emerge l’assoluta incapacità odierna di educare ad un corretto rapporto con la realtà, ad un’accettazione del limite, ad una reale alterità, ad una reale empatia con l’altro, ad un reale rispetto anche di chi si presenta come “nemico”.

Questo deriva ovviamente, a sua volta – anche se insieme ad altri fattori -, non da una sovraesposizione della figura paterna, ma, all’opposto, dall’assenza o dalla latitanza della figura paterna e, quindi, dalla scomparsa della cogenza di valori “oggettivi” da questa rappresentati.

Non, insomma, il patriarcato, ma l’irrilevanza del padre sembra essere all’origine di tanti disturbi che possono degenerare in violenza.

È fuorviante, allora, restringere l’analisi della violenza alla relazione tra generi e tra maschile e femminile, per comprenderla in profondità, bensì è necessario cogliere tutta l’ampiezza del disagio nell’accettazione della realtà che si registra in società.

In taluni psicologi più avvertiti si comincia ad intravedere la necessità di un’inversione di tendenza, rispetto alle tesi degli ultimi decenni. Se per anni è stata cavalcata l’idea che ognuno poteva maturare solo dando spazio alle proprie pulsioni, così come le avvertiva, per soddisfarle sempre e comunque, oggi sono diversi gli psicologi e gli psicoanalisti che evidenziano come il decostruire qualsiasi punto di riferimento oggettivo, qualsiasi valore morale cogente, qualsiasi punto fermo di realtà, non possa che portare ad un disagio sempre maggiore.

Imparare ad accettare i “no”, a interiorizzare le sconfitte, a comprendere che non si ha diritto di avere tutto ciò che si desidera avere, è decisivo per una maturazione di personalità che sappiano interagire con il mondo e non “forzarlo” secondo i propri schemi.

Proprio l’aumento enorme dei disturbi di carattere psicologico del tempo presente è un segnale chiarissimo che tale questione è sociale e non individuale. Non si tratta tanto e solo di accrescere terapie individuali, bensì prima ancora di contestare mentalità affermatesi negli ultimi decenni. Sono queste, evidentemente, ad essere concause di tanto disagio, altrimenti esso non sarebbe così diffuso.

Si veda su questo l’ottimo intervento di Antonio Alcaro su Gli scritti: «Assecondando il culto dell’individuo autonomo e performante, che vuole liberarsi da ogni legame naturale, affettivo, culturale e spirituale (salvo poi ritrovarsi sempre più solo, fragile e vuoto), la sofferenza viene interpretata come un difetto di funzionamento, un deficit organico. Pertanto, la cura viene concepita come intervento tecnico atto a riparare il difetto. Senza un riferimento più ampio, la psicoterapia rischia di trasformarsi in una alcova protettiva che culla e rassicura il paziente senza mai metterlo davvero in discussione. Egli è esortato a pensare sempre di più a sé stesso, a proseguire nella sua corsa individualistica, mentre il terapeuta fornisce, a pagamento, quel sostegno affettivo che il paziente non è più in grado di dare e ricevere dagli altri. L’incapacità di iscrivere la vita del singolo all’interno di un orizzonte sociale più ampio e la perdita della fiducia nel mondo esterno ed il rifiuto di donarsi agli altri rivelano una chiusura affettiva profonda, che è madre dell’angoscia, del controllo esasperato». Comunità di cura e psicologia politica. La salute mentale è una questione collettiva, di Antonio Alcaro).

2.3/ Il rifiuto di ogni “regola” comportamentale e di ogni “giudizio” di contenuto in ambito scolastico

Il pretendere tutto, sempre e subito, in ogni ambito e quindi anche nel campo sessuale e affettivo è evidente anche nella crisi del sistema scolastico. Anche il sistema scolastico – e non solo la debolezza educativa delle famiglie – è chiamato giustamente in causa da tanti, dinanzi alla violenza sessuale di giovani e giovanissimi.

A torto, se si pretenda che la scuola possa fornire risposte con micro-corsi di educazione sessuale, a ragione, invece, se si chiede che nella scuola regni un rispetto supremo delle persone, delle cose e, anche e soprattutto, delle discipline e dei loro contenuti che, essi sì, formano veramente le menti e i cuori.

Cresce il numero di docenti che, a ragione, riconoscono che l’evidente malessere del sistema scolastico, con l’abbassamento generale del livello culturale e l’assenza di corretti comportamenti degli studenti, abbia cause da denunciare con chiarezza nelle tesi portate avanti negli ultimi decenni in campo pedagogico e scolastico.

Infatti, tale crisi, che genera una crescente ignoranza sia delle scienze che della poesia, sia della letteratura che della storia, non dipende certamente da metodi impositivi della scuola, bensì da quelle scuole di pensiero che negli anni Sessanta e Settanta si illusero di riformare in meglio il sistema educativo e invece fallirono.

Si pensò di eliminare classici e contenuti, di derubricare l’importanza della disciplina, di destituire di autorità i docenti, di concedere sempre e comunque libertà, di abbassare il livello di qualsivoglia contenuto, accettando livelli di preparazione anche bassissimi.

Si veda qui, solo per fare un nome, i contributi di Israel, ad esempio La scuola riparta da maestri e contenuti, di Giorgio Israel e Aspetti principali dell’attuale emergenza educativa, di Giorgio Israel.

Israel, come altri autori, ha denunciato i pedagogisti delle ultime generazioni, quelli che hanno inteso riformare la scuola a partire da una contestazione del passato, ma hanno evidentemente fallito, come emerge dalla deriva che essa ha invece preso.

Le nuove teorie pedagogiche hanno preteso di eliminare dalla scuola classici e contenuti per puntare su competenze e test, “liberando” lo studente da autori ritenuti obsoleti (da Dante a Manzoni ai grandi matematici e scienziati) per formarlo invece a partire dal mito di una “metodologia” valida sempre e dovunque a scapito dei grandi testi e delle grandi questioni.

Come nella violenza sulle donne si rimanda al patriarcato, poiché non si vuole affrontare la grave crisi educativa del presente, così nella scuola si continuano ad additare le impostazioni degli anni Cinquanta o addirittura quelle gentiliane, senza ammettere la dura realtà che tutto il corpo docente è ormai formato a partire dai nuovi principi e dai nuovi metodi, e senza avere così il coraggio di contestare i contestatori!

Sotto indagine dovrebbero, invece, essere messi i nuovi libri di testo e la sostituzione dei programmi con le competenze, la scomparsa della lettura e della poesia, l’assenza di autorevolezza e il costante ripiegare su questioni e testi facili e banali, di modo che nessuno trova più il gusto di ciò che è grande.

2.4/ Excursus: un parallelo nell’ambito dell’educazione cristiana

Vale la pena rilevare come anche nel campo dell’educazione alla fede – ad esempio nell’iniziazione cristiana e nella catechesi – appaia sempre più evidente quanto siano false quelle impostazioni che attribuiscono a quello che viene chiamato “metodo scolastico” in catechesi l’inefficacia di tanti percorsi.

Così facendo, infatti, si dimentica anche qui che tali modalità sono state abbandonate da sessant’anni e tutto è stato trasformato in sterili attività, in quiz, in bans, in giochi e cruciverba e disegni da colorare con poco significato.

Appare sempre più urgente, anche in questo campo, cessare di accusare ingiustamente ciò che non esiste da decenni e decenni, per porre in questione le “scuole” di pensiero che hanno dominato il panorama catechetico negli ultimi sessant’anni e che non sono state evidentemente in grado di cogliere il bandolo della matassa.

Tutti coloro che si sono formati in questi ultimi sessant’anni, secondo le nuove impostazioni e sperimentazioni, non hanno retto all’impatto con la realtà contemporanea e sono questi metodi recenti a dover essere messi in discussione.

Anche nell’ambito dell’educazione alla fede l’attuale sfascio sembra dipendere molti più dalle visioni che si affermarono negli anni Settanta-Novanta (cfr. su questo Rispetto a che cosa dobbiamo innovare? Rispetto a che cosa dobbiamo attuare una conversione pastorale?, di Giovanni Amico e Di una recente relazione di Armando Matteo e dei nodi che bypassa allegramente. Breve nota di Giovanni Amico).

Certo non è alle nuove impostazioni della scuola e della catechesi che deve essere attribuita la violenza sessuale contro le donne, ma certo anche esse debbono riflettere sul perché sia facile attribuire al lontano passato colpe che esso non può avere, per non mettere in discussione il passato recente.

3/ Una immaturità affettiva generata come un effetto di lungo periodo dalla “rivoluzione sessuale!” che ha reso tanti analfabeti negli affetti

Se è chiaro che è fuori bersaglio accusare un patriarcato che non esiste più, quando anzi la società contemporanea ha imparato a respingere ogni limite, ogni norma, ogni autorità, per puntare tutto sulla libertà personale e l’ottenimento di ciò che si desidera, una considerazione ancora deve essere fatta riguardo al mutato costume sessuale degli ultimi cinquant’anni, perché anch’esso deve essere chiamato in causa.

Per avere conferma di tale mutato vissuto sessuale, basta farsi raccontare da qualche DJ o frequentatore di discoteche – ma basta anche solo frequentare le immagini di qualcuno di questi luoghi - per comprendere quali conseguenze abbia avuto una certa visione liberista della sessualità e della donna.

Ognuno ha oggi chiara percezione che, dovunque si presenti una donna, c’è qualcuno che un istante dopo ci prova con lei e la invita a concedersi a lui. Basta essere belle e chiunque si sente in diritto di provarci.

Questo non dipende certamente da un preteso patriarcato che, invece, su tale fronte era estremamente rigido nella definizione dei ruoli.

Con tutta evidenza gli adulti e i giovani che usano violenza alle donne sono cresciuti nel clima che è seguito alla cosiddetta “rivoluzione sessuale” del ’68.

È fondamentale non escludere dalla riflessione sulla violenza maschile contro le donne le conseguenze di lungo periodo di quella “rivoluzione sessuale”, la vera rivoluzione sessantottina – talmente importante ad aver portato ad oscurare anche le rivendicazioni sociali e lavorative che avevano caratterizzato, invece, le generazioni precedenti.

Dal ’68 in poi è diventato un mantra che il soddisfacimento individuale delle proprie pulsioni in ambito sessuale appartiene alla giusta libertà e deve essere rivendicato.

Già da più di sessant’anni in Europa e in Italia si sono diffuse e anzi hanno dominato le idee di Wilhelm Reich - ancora precedenti agli anni Sessanta - e della sua rivoluzione sessuale, le idee di Marcuse, le idee portate avanti in Italia da autori come quelli del racconto Rocco e Antonia. Porci con le ali (1976), autori anonimi e poi rivelatisi con i veri nomi di Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera, l’uno pedagogista, l’altra scrittrice e giornalista.

Tutti costoro rappresentavano non tanto se stessi, quanto un’epoca, in cui il mainstream della cultura, l’intellighenzia e parte del corpo docente, l’industria cinematografica e dei fumetti, i partiti politici e il giornalismo, scommisero su di una sessualità che si voleva “liberata”, perché svincolata sia dalla generazione di figli (le questioni della contraccezione sono all’ordine del giorno da allora) e sia da una anche solo ipotetica fedeltà alla compagna/o (non era tanto e solo una cultura che si oppose al matrimonio tout court, ma più ancora che intendeva svincolare la sessualità dagli affetti, da una responsabilità di lungo periodo riguardo all’altro, per un appagamento che diventò un “diritto” sociale).

Il clima che si respira in una discoteca o la notte nelle vie di una grande città, con ogni tipo di gesti e parole che vengono rivolte a qualsivoglia fra le ragazze che desiderasse invece solo ballare o passeggiare, indicano tale mutamento.

Esiste una irresponsabilità, una mancanza di rispetto che, forse, non era nelle intenzioni degli ideologi di quella “rivoluzione”, ma che certo non toglie loro la responsabilità di non aver previsto il sopraggiungere di questo clima che è quello nel quale oggi si vive e che mette sotto pressione “violenta” qualsiasi donna e in qualsiasi ambiente.

Tutto questo è certamente accresciuto dall’accettazione sociale dell’ubriacarsi e del far uso di spinelli e sostanze, per rendere tutti più cedevoli ad una sessualità fugace, ma il clima vessatorio nei confronti della donna è percepibile da chiunque, nei luoghi di lavoro diurni e soprattutto nella vita notturna dei locali o nei tempi di vacanza e prima ancora del venerdì e del sabato sera.

È come se tutto un mondo desse per scontato che è giusto “provarci” con una donna sempre e comunque e non fermarsi dinanzi ai primi ostacoli frapposti dalla ragazza.

Anche questo è concausa della violenza contro le donne.

Se si guarda a tale dimensione della sessualità vissuta oggi dalle giovani generazioni - ma anche a quella delle persone di mezza età, si deve rivelare con tristezza che quella rivoluzione sessuale degli anni ’68 ha fallito, rendendo la donna ancora più oggetto di quanto lo fosse ai tempi del patriarcato.

Ciò è evidente anche da tante canzoni di rapper e trapper che inneggiano alla violenza e ad una sessualità anche bruta contro giovani chiaramente considerate solo come “macchine” disponibili per la propria eccitazione.

4/ Qualche parola per concludere

Adulti e giovani, pur desiderando spesso amare, sembrano oggi essere debolissimi e fragili in questo, incapaci di prospettiva, poveri di una visione di lungo periodo, tutti presi da bisogni immediati, dal desiderio di appagamenti facili, da una possessività che si sposa con l’insicurezza.

Si noti bene. Tutti conservano una nobiltà che è scritta nel cuore umano da sempre. Tutti si accorgono che la donna che amano è considerata un oggetto da tanti loro compagni più grandi e vorrebbero essere come dei nuovi San Giorgio pronti a lottare per liberarla dalle grinfie del male.

Ma poi, alla resa dei conti, non vi riescono, perché è la mentalità che si è creata che porta ognuno ad essere succube di un clima nel quale la donna è un oggetto che deve essere preso e consumato e che si ritiene dovrebbe trarre anche lei piacere da tale trattamento

Il crescente disagio psicologico non facilita la maturazione di personalità chiare e responsabili, capaci di vero rispetto, e anche la scuola – e la Chiesa – non trovano il bandolo della matassa per incidere su una situazione di costume totalmente diversa dall’antico patriarcato ed anzi incentrata sull’arbitrio più assoluto che non si riesce a modificare.

Tante donne affermano sconsolatamente di non essere in grado di trovare nessun uomo che abbia interessi ad una relazione seria e a diventare marito e padre: a dire di tante, tutti cercherebbero solo rapporti facili e scapperebbero al minimo accenno a relazioni che durino nel tempo.

Ciò appare anche dal fatto che la cultura ha reso ancor più sola la donna dinanzi ad una gravidanza non progettata. Il ragazzo è uso cavarsela dicendo: “È un problema tuo, io non c’entro”, pur essendo lui ad aver generato quella creatura che è nel grembo della ragazza con cui ha fatto l’amore solo qualche settimana prima.

In questa confusione generale, là dove l’immaturità anche psicologica e talvolta il disagio anche psichiatrico è più forte, nascono poi le vere e proprie tragedie del femminicidio.

La generazione del ’68 non ha compreso che effetti devastanti sarebbero venuti dalla “rivoluzione sessuale” innanzitutto per tutti – con un’immaturità così diffusa. Ma non ha poi avuto il minimo sentore di cosa avrebbe generato l’idea del libero appagamento in persone disturbate.

La violenza più grande e devastante si insinua in una situazione nella quale non ci sono “padri”, figure autorevoli dal punto di vista educativo e ciascuna/o è solo – e colpisce in particolare là dove il disagio psicologico ha reso le persone più sole e fragili.

Un’analisi autocritica dei diversi filoni di pensiero qui indicati e su tanti input che sono stati gettati e diventati modalità correnti di mancanza di rispetto diffusa, è necessario oggi. L’accusa di patriarcato la ritarda e falsifica il quadro di lettura del reale.

Esiste una cosificazione del corpo dell’altro sesso che è infinitamente più avanzata di un tempo: non si può oggi negare che siano giovani di ogni corrente politica - e anzi estranei ad ogni corrente politica - ad essersi indirettamente abbeverati a quelle fonti.

È importante cessare di rimandare ad un presunto patriarcato, ormai inesistente in Italia e presente solo in altre culture religiose, per dedicare invece attenzione a comprendere il disagio presente. Si tratta di comprendere non dove fallirono i secoli passati, ma dove abbia fallito la cultura che si è sviluppata dagli anni Sessanta e dopo di quegli anni e cosa si debba fare per opporsi alle derive problematiche che ne sono risultate.



[1] L’intervento è stato pronunciato al termine dello spettacolo, sul palcoscenico del Teatro comunale di Ferrara, l’11/4/2025.