1/ Leggere la Bibbia dopo la distruzione di Gaza. La Parola di Dio non può essere usata per giustificare guerre e occupazioni, di David Neuhaus 2/ Breve nota di Andrea Lonardo sulla questione delle metodologie bibliche nella comprensione della Sacra Scrittura: del valore e del limite del metodo storico-critico proprio dinanzi alle questioni politiche odierne e allo Stato d’Israele

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 01 /09 /2025 - 09:12 am | Permalink | Homepage
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1/ Leggere la Bibbia dopo la distruzione di Gaza. La Parola di Dio non può essere usata per giustificare guerre e occupazioni, di David Neuhaus

Riprendiamo sul nostro sito un articolo di David Neuhaus, tratto da L’Osservatore Romano” del 7/8/2025. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Sacra Scrittura, I luoghi della Bibbia, Ebraismo e Cristianesimo e teologia.
Di David Neuhaus, sul nostro sito, leggi anche:
-Il gesuita di origine ebraica David Neuhaus racconta la sua vita. Un’autobiografia di David Neuhaus e ulteriori link agli audio sul Deuteronomio e sulla lettera ai Romani
-L’Uomo di Nazareth: Yeshu o Yeshu’a, di David Neuhaus
-Gli ebrei che credono in Gesù. Il dialogo tra cattolici ed ebrei messianici, di David Neuhaus S.I.
-Chiamati a un nuovo inizio, di David Neuhaus [Il dialogo ebraico-cristiano in Terra Santa]
-P. Neuhaus: i cristiani di Terra Santa sono chiamati alla verità
-"Perché tanta gioia?" (prima parte). Intervista con il vicario del patriarcato di Gerusalemme, padre David Neuhaus, S.I., convertito dall'ebraismo
-"Perché tanta gioia?" (seconda parte). Intervista con il vicario del patriarcato di Gerusalemme, padre David Neuhaus, S.I., convertito dall'ebraismo
-Il catechismo in ebraico. Tre volumi per le famiglie in Terra Santa, di Marco Bonatti
-Dichiarazione del vicariato cattolico di lingua ebraica di Gerusalemme sulla proclamazione delle virtù, in vista della beatificazione, di Pio XII
-“Gerusalemme, la Spianata e la fatica di chiedere perdono”. Lo scontro di questi giorni nel cuore della Città Santa raccontato da padre David Neuhaus, uomo di frontiera, oggi guida del Vicariato per i cattolici di espressione ebraica, di Giorgio Bernardelli
-L'ideologia ebraico-cristiana e il dialogo ebrei-cristiani. Storia e teologia, di D.Neuhaus S.J.
-Il dialogo ebraico-cristiano a Gerusalemme, di David Neuhaus.
-Israeliani e palestinesi insieme con un solo Stato e l’autonomia. Due milioni di arabi sono già cittadini integrati e vi sono promettenti esperienze di convivenza. Servirebbero vera uguaglianza di trattamento e la possibilità di uno statuto giuridico proprio, di Antonio Mattiazzo
Sull’interpretazione dei racconti di conquista, cfr. su questo stesso sito
-Brani di difficile interpretazione della Bibbia: il Libro di Giosuè (da J.-L.Ska, J.L. Sicre, Origene, A. Lonardo)
-Il paradosso biblico della Terra di Israele nell’Antico Testamento, secondo l’esegesi moderna “canonica” e storico-critica. Una riflessione scritturistica complementare alle discussioni di politica internazionale su Israele e Palestina, di Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (1/9/2025)

Insegno la Bibbia in Palestina/Israele da venticinque anni, per lo più a seminaristi cattolici di lingua araba, religiosi e religiose e insegnanti di religione. Ho anche insegnato la Bibbia a ebrei in Israele in ebraico, a studenti rabbinici, a guide turistiche e persone comuni desiderose di approfondire la propria educazione. È una missione per la quale sono particolarmente grato e che mi riempie ancora di entusiasmo ed emozione.

Tuttavia, è una missione che a volte mi riempie anche di paura e tremore. Pur essendo molto grato di vivere in un tempo in cui la Chiesa è più consapevole, più sensibile e più prudente su come la Bibbia va usata nell’insegnamento cristiano — profondamente pentita per come è stata utilizzata quale arma contro l’ebraismo e gli ebrei — so che c’è ancora molto lavoro da fare rispetto a quanti subiscono le conseguenze di letture bibliche distorte.

La cosa più urgente per me, nel mezzo di un conflitto che contrappone Israele alla Palestina in una guerra sanguinaria che ha lasciato Gaza in rovina e ridotto la sua popolazione alla fame, è: come dovrei avvicinarmi al piano d’amore di Dio per l’umanità nella Bibbia, un piano che include l’elezione di Israele, il dono della terra e l’annientamento dei popoli che abitano quella terra?

Come posso leggere la parola che i cristiani acclamano come Parola di Dio, «soltanto nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun essere che respiri; ma li voterai allo sterminio: cioè gli Hittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei, come il Signore tuo Dio ti ha comandato di fare» (Deuteronomio, 20, 16-17).

Non sarebbe forse meglio riporre la Bibbia in un ripostiglio e trovare altre risorse per sviluppare la vita spirituale, il comportamento morale e la leadership religiosa? O, quantomeno, non si dovrebbero censurare le parti più problematiche della Bibbia? Essa può essere, e lo è stato, un libro pericoloso, non solo per molti in Medio Oriente oggi ma anche per molti altri nel corso di lunghi secoli di storia.

Il 7 gennaio 1937 David Ben Gurion, capo dell’Agenzia ebraica nella Palestina sotto mandato britannico (un Governo ombra che prefigurava l’istituzione dello Stato di Israele), parlò davanti alla Commissione Peele che stava cercando di risolvere le problematiche del mandato britannico in Palestina, coinvolto nel conflitto tra ebrei e arabi. Contestando il concetto stesso di “Mandato britannico per la Palestina”, istituito dopo la Prima guerra mondiale, Ben Gurion dichiarò: «A nome degli ebrei, dico che la Bibbia è il nostro Mandato, la Bibbia che è stata scritta da noi, nella nostra lingua, in ebraico, proprio in questo Paese. Questo è il nostro Mandato. Il nostro diritto è antico quanto il popolo ebraico» (https://www.scribd.com/document/287215993/Ben-Gurion-Testimony-to-Peel-Commission).

Nel 1958, dieci anni dopo l’istituzione dello Stato di Israele, Ben Gurion, allora primo ministro, inaugurò il primo Concorso mondiale di Bibbia a Gerusalemme. Poco dopo istituì un circolo regolare di studi biblici, a cui partecipava con assiduità. Il gruppo iniziò i suoi lavori con il libro biblico preferito di Ben Gurion, Giosuè, che egli considerava assolutamente fattuale. Per lui era il modello storico per la conquista della Terra della Bibbia da parte del Popolo della Bibbia, allora come adesso.

Ben Gurion non era un ebreo religioso e la sua fede in Dio era offuscata dalla sua fede nella nazione “ebraica”, un concetto che derivava dalla sua avida lettura della Bibbia. Inoltre rifiutava esplicitamente le tradizioni religiose del popolo ebraico sviluppatesi nel corso dei secoli negli scritti rabbinici raccolti nel Talmud. In quanto nazionalista “ebraico”, vedeva la Bibbia come il vertice letterario e spirituale ultimo ed eterno degli ebrei nella loro terra, mentre considerava gli scritti rabbinici, il Talmud, una raccolta secondaria, creata in esilio e destinata a svanire con il tempo.

Il biblicismo di Ben Gurion (una lettura secolare della Bibbia utilizzata come tesoro di terminologia e mitologia nazionalista) fu determinante nella storia iniziale dell’attività sionista in Palestina. Anche se duramente criticata da intellettuali ebrei religiosi di Israele come Martin Buber e Yeshayahu Leibowitz — entrambi profondamente consapevoli delle inquietanti questioni morali sollevate dalle conquiste militari di Israele, dalla pulizia etnica dei territori israeliani dai palestinesi e dalla radicata discriminazione contro i cittadini arabi nello Stato di Israele — la versione del sionismo di Ben Gurion dominava.

L’attuale primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, è un erede del lascito di Ben Gurion di utilizzare la Bibbia allo scopo di legittimare e consolidare ulteriormente l’occupazione. All’inizio della guerra a Gaza, il 28 ottobre 2023, Netanyahu ha descritto i soldati israeliani come «desiderosi di ripagare gli assassini per gli atti orribili perpetrati contro i nostri figli, le nostre donne, i nostri genitori e i nostri amici. Sono impegnati a sradicare questo male dal mondo, per la nostra esistenza e, aggiungo, per il bene di tutta l’umanità. L’intero popolo e i suoi leader li abbracciano e credono in loro. “Ricorda ciò che ti ha fatto Amalek”».

La sua citazione di Deuteronomio, 25, 17 è stata un agghiacciante promemoria di come la Bibbia possa essere usata per promuovere guerra e odio. Amalek, descritto in Esodo, 17, è il nemico archetipico degli Israeliti, e a essi viene ordinato di sterminare lui e i suoi discendenti. Netanyahu, i suoi alleati, il movimento dei coloni israeliani e coloro che commettono atti di violenza contro i palestinesi attingono continuamente dal lessico biblico che giustifica i loro atti che producono morte e distruzione.

Non c’è nulla di nuovo nell’abuso ideologico dei testi sacri. “Mobilitare” un’idea di Dio e narrazioni sacre che parlano di Dio aggiunge autorità alle ideologie di dominio e di esclusione create dall’uomo. Ciò fa sì che la Bibbia sia mal vista tra coloro che lottano per la libertà, l’uguaglianza e la fraternità.

Tuttavia, per i cristiani, la Bibbia fornisce le parole per parlare di Dio, della persona umana e della relazione che si instaura tra i due. Fornisce un vocabolario, una grammatica, una sintassi, secondo cui i cristiani possono cercare di dire Dio. La narrazione biblica delinea una storia delle origini, dell’attualità e della speranza che inserisce i credenti in una lunga storia dell’umanità in cui possono trovare senso, vocazione e una missione in un mondo in cerca di redenzione. Eppure, come tutti i tesori, il fatto di appropriarsene comporta anche dei rischi.

Nel 1994 il patriarca latino di Gerusalemme, Michel Sabbah, ha pubblicato uno strumento fondamentale per i lettori della Bibbia durante questo periodo di conflitto in Palestina/Israele, Leggere e vivere la Bibbia oggi nel Paese della Bibbia (Michel Sabbah, Reading the Bible Today in the Land of the Bible, Gerusalemme, Patriarcato latino, 1993). La prefazione a questa sua lettera pastorale è un versetto che costituisce una chiave ermeneutica cristiana per la lettura della Bibbia: «Egli è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione, annullando nella sua carne l’inimicizia […] per creare in sé stesso dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio» (Efesini, 2, 14-16).

In questa lettera, Sabbah pone una domanda toccante a coloro che leggono la Bibbia in Palestina oggi: «Dobbiamo forse essere vittime della nostra stessa storia della salvezza, che sembri privilegiare il popolo ebraico e condannare noi? È proprio questa la volontà di Dio, alla quale dovremmo piegarci inesorabilmente, senza appello e senza discussione, e che ci chiederebbe di lasciare tutto a favore di un altro popolo?» (n. 7c).

Rivolgendosi a quanti hanno rifiutato la Bibbia a causa del modo in cui viene letta per giustificare l’occupazione e la discriminazione, Sabbah dice: «Con questo rifiuto della parola di Dio, cari fedeli, voi vi fate complici e vittime di quelli che accusate, e, essendo già stati spogliati della terra, vi lasciate spogliare anche della vostra Sacra Scrittura e della luce che essa contiene per aiutarvi a uscire dall’oscurità e a superare ogni difficoltà» (n. 56).

Verso la fine della lettera, Sabbah conclude: «Leggere e vivere la Bibbia, oggi nella terra della Bibbia, è una grazia e una sfida. Una grazia, perché ogni giorno camminiamo con lo stesso Gesù sulle stesse strade per le quali Egli ha camminato con i suoi discepoli, come compagno e amico. Una sfida perché oggi, in questa terra di conflitto, sperimentiamo sofferenze che sono al centro del nostro colloquio con il Signore. E il Signore, che ci fa ardere il cuore quando ci parla (cfr. Luca, 24, 32) lungo il nostro cammino di pellegrini, “apre il nostro cuore alla comprensione delle Scritture” e ci aiuta a discernere, nella comprensione della nostra storia, la volontà del Padre» (n. 64).

I cristiani devono essere consapevoli che concetti come “popolo eletto” e “terra promessa” hanno conseguenze esistenziali e morali molto concrete per i popoli del Medio Oriente e non sono solo esercizi speculativi e teologici.

In linea con queste preoccupazioni, la Santa Sede ha sottolineato l’importanza del diritto internazionale, piuttosto che del discorso biblico, per comprendere il conflitto in Palestina/Israele. I cristiani sono invitati a comprendere il legame religioso ebraico alla terra d’Israele «che affonda le sue radici nella tradizione biblica pur non dovendo far propria un’interpretazione religiosa particolare di tale relazione. Per quanto si riferisce all’esistenza dello Stato di Israele e alle sue scelte politiche, esse vanno viste in un’ottica che non è di per sé religiosa ma che si richiama ai principi comuni del diritto internazionale» (Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica, 1985, VI, 1).

In definitiva la Bibbia letta con fede, amore e carità si rivela come Parola viva di Dio. In Palestina/Israele oggi la Bibbia viene usata per legittimare e giustificare guerre, occupazione e discriminazione.

Accanto alla Bibbia, il Corano, la sacra scrittura dei musulmani, viene “mobilitato” nelle lotte politiche sul destino della Terra Santa e su chi dovrebbe governarla.

Tuttavia la Dei verbum, la costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II sulla divina rivelazione, sottolinea che «la sacra Scrittura [deve] esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (n. 12).

Discernere questo Spirito, anche secondo l’autentica interpretazione affidata al magistero (n. 10), è quindi parte essenziale della lettura della Bibbia. In sostanza, la Bibbia letta come Parola di Dio insegna uguaglianza, giustizia e pace, valori che sono in sintonia con il Dio che impariamo a conoscere nella lettura della Bibbia da parte della Chiesa.

2/ Breve nota di Andrea Lonardo sulla questione delle metodologie bibliche nella comprensione della Sacra Scrittura: del valore e del limite del metodo storico-critico proprio dinanzi alle questioni politiche odierne e allo Stato d’Israele

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Sacra Scrittura, I luoghi della Bibbia, Ebraismo e Cristianesimo e teologia.  

Il Centro culturale Gli scritti (1/9/2025)

Nell’introduzione all’articolo di David Neuhaus sono stati già citati due articoli presenti su questo sito che presentano alcune questioni esegetiche su quale possa essere una corretta interpretazione dei racconti di conquista:
-Brani di difficile interpretazione della Bibbia: il Libro di Giosuè (da J.-L.Ska, J.L. Sicre, Origene, A. Lonardo)
-Il paradosso biblico della Terra di Israele nell’Antico Testamento, secondo l’esegesi moderna “canonica” e storico-critica. Una riflessione scritturistica complementare alle discussioni di politica internazionale su Israele e Palestina, di Andrea Lonardo.

Quello che si vuole sottolineare ora, in aggiunta a quanto scritto sapientemente da David Neuhaus a partire dalla situazione politica concreta della distruzione di Gaza, è una questione più generale e cioè in che modo la rilevanza, ma anche l’empasse dell’esegesi storico-critica, può essere aiutata ed aiutare in questo frangente.

Innanzitutto è da rilevare come gli studi storico-critici siano sempre meno propensi ad assegnare veridicità storica ai fatti della conquista di Israele[1]. Se questo può, da un lato, scandalizzare, d’altro canto libera quei testi per una lettura diversa, ben prima che l’esegesi cristiana proponga la propria lettura di essi.

Il fatto stesso che l’esegesi storico-critica ritenga, pur dubitativamente, che le ultime e più pesanti mani sui racconti siano state poste al tempo dell’esilio, da redattori che vengono indicati di area “sacerdotale” - cioè più attenti alle questioni non solo del culto, ma della trasmissione della fede in terra d’esilio o comunque in una situazione di non piena libertà politica del popolo ebraico - permette di differenziare sensibilmente la questione della lettura di quei brani dalla questione dell’esistenza di uno Stato, come del possesso della terra e delle modalità di tale acquisizione e conservazione.

Qui si deve però subito ricordare che l’esegesi ebraica credente, antica e contemporanea, non ha piena consapevolezza dei risultati dell’esegesi storico-critica, e quindi è molto più ancorata al testo stesso della Scrittura di quanto lo sia l’esegesi cristiana che è, invece, molto più consapevole della distanza tra la realtà storica e quanto espresso nel testo biblico

D’altro canto resta vero – e anche questo è un contributo dell’esegesi storico-critica – che la questione della terra resta comunque decisiva anche nel periodo dell’esilio e del post-esilio e questo deve far sospettare di letture della Scrittura troppo spiritualiste che estrapolino tale tema dall’autocomprensione veterotestamentaria.

Se poi si volesse cogliere, giustamente, la questione dal punto di vista dei diritti umani, ecco che sono comunque due i popoli ad avere diritto ad avere una terra e una nazione ed è proprio qui l’empasse politica, perché nessuno dei due sembra ancora pronto nel suo complesso a questo riconoscimento – ma qui si intende parlare della questione del metodo biblico e quindi sia sufficiente questo accenno al presente.

Certo è che, come Neuhaus ha sottolineato più volte nei suoi studi, con l’avvento del cristianesimo non nasce solo una nuova interpretazione delle Scritture veterotestamentarie nella nascente Chiesa, ma è tutto l’ebraismo che, a partire dalla prima Guerra giudaica e dalla distruzione del Tempio, scopre a sua volta una possibilità non totalmente prevista di spiritualizzare sé stesso, dando vita al giudaismo mishnaico e talmudico che è un giudaismo diverso da quello biblico (cfr. su questo L’ideologia ebraico-cristiana e il dialogo ebrei-cristiani. Storia e teologia, di D. Neuhaus, dove l’autore dichiara che la differenza tra il giudaismo antico e quello rabbinico, fortemente connotato dalla Torah orale, è sovente sconosciuta ai più).

Ma certo è anche che con la venuta di Cristo e con la scrittura del Nuovo Testamento, tutto l’Antico Testamento, pur venendo conservato nella lettera – a differenza di quanto farà l’Islam che negherà la verità di quella “lettera” e di quel testo, affermando che esso è stato falsificato dal popolo ebraico -, viene riletto in un modo totalmente nuovo.

Per certi aspetti è vero che sono “nuove” sia la lettura del giudaismo mishnaico e talmudico sia la lettura cristiana del testo biblico: entrambe non sono una semplice riaffermazione dell’ebraismo biblico, ma sono diverse da essoentrambe affermano, fra l’altro, l’importanza di una trasmissione orale della parola divina che supera il testo biblico stesso.

Comunque, nel cristianesimo, è il principio cristologico la nuova chiave interpretativa di ogni singolo episodio e di ogni singola parola. Poiché la Parola piena e definitiva è Gesù Cristo e non un ulteriore libro, ecco che ogni cosa viene riletta in maniera nuova – è già per questo che non esiste la Sola Scriptura ed è storicamente e teologicamente errato attenersi ad essa.

La Scrittura, quindi, è centrale, ma alla luce dell’incarnazione che ne è più grande. Mentre le altre religioni che hanno un “Libro” hanno la questione di conciliare le diverse parti del loro libro, scritte in momenti diversi, la fede cristiana ha un “principio” esterno al Libro stesso che è la figura del Cristo non solo come “regola”, ma anche come “chiave”, per cui tutto appare solo “alla sua luce” (cfr. Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti, dinanzi alla Trasfigurazione o nell’episodio dei discepoli di Emmaus).  

Ogni episodio di conquista o di annihilimento del nemico viene così ad essere riletto come vittoria di Cristo sul peccato, sul diavolo e sulla morte, e non come successo contro nemici terreni – anche se a torto taluni cristiani in talune epoche hanno applicato in maniera erronea quei racconti tout court ai loro nemici storici.

Allo stesso tempo, nel cristianesimo, l’Antico Testamento è irrevocabilmente conservato – pena il cadere nel marcionismo e nel distruggere l’unità del piano di salvezza - sia per la luce che continua a manifestare, come vera Parola di Dio, ma anche in quanto “profezia” e “prova” di Cristo, a mostrare la continuità del disegno salvifico. Poiché tutto è già presente, anche se in “tipologia”; in “figura”, come “ombra” che svela il suo vero significato solo al sopraggiungere della pienezza.

Da un lato questo conserva all’Antico Testamento il valore di segno autentificativo della verità del disegno voluto dalla Trinità (e Blaise Pascal parla giustamente di “prove” in riferimento all’annuncio profetico che rendono credibile il Nuovo Testamento e recentemente Ratzinger/Benedetto XVI vi ha aggiunto il concetto di “testi senza padrone” che solo in Cristo trovano significato – cfr. su questo L’infanzia di Gesù di J. Ratzinger-Benedetto XVI. Appunti di Andrea Lonardo «È una narrazione che nasce totalmente dalla Parola e, tuttavia, è proprio essa a dare alla Parola quel suo pieno significato che prima non era ancora riconoscibile. La storia qui raccontata non è semplicemente un’illustrazione delle antiche parole, bensì la realtà che le parole attendevano»).

D’altro canto la centralità di Cristo rispetto al testo biblico rende possibile proprio quella rilettura delle Scritture che è segno e prova del risorto: solo alla sua luce e con il suo Spirito, la Bibbia diviene pienamente intelligibile (cfr. su questo Il kerygma non è solo l’annuncio della resurrezione, ma anche la rivelazione piena del “mistero” di Israele e del senso della vita umana. Appunti di Andrea Lonardo su di un articolo di padre Francesco Rossi de Gasperis). Ad esempio, solo alla venuta di Cristo appare quale sia il vero significato dei racconti di conquista.

Ovviamente questo non può essere accettato dall’ebraismo tout court, perché questo vorrebbe dire riconoscere la verità della fede cristiana e aderirvi. D’altro canto l’ebraismo non può non accettare che questa sia la lettura che i cristiani fanno: è a motivo di tale lettura della rivelazione divina a partire dal Cristo che essi vennero espulsi dalle sinagoghe alla fine del I secolo d.C.

Tale libertà di interpretazione - insieme all’accoglimento della lettura storico-critica che trasforma il significato dei testi di conquista e di altri testi similari – può però aiutare l’ebraismo ad immaginare un approccio complementare ai testi, sulla linea del rabbinismo mishnaico e talmudico che spesso non si limita a leggere letteralmente i testi antichi, ma li interpreta in una condizione di vita differente da quella dell’Israele biblico e spesso in un contesto di assenza di libertà politica e statuale.   

Come si è già detto, e come afferma Neuhaus nell’articolo qui presentato, il problema religioso si pone anche per la scrittura coranica e per le sue tradizioni orali successive, per le quali Maometto sarebbe giunto una notte in volo a Gerusalemme e da lì sarebbe stato traportato in cielo per ritornare poi nella penisola arabica sempre su di una cavalcatura alata (cfr. su questo Il paradosso biblico della Terra di Israele nell’Antico Testamento, secondo l’esegesi moderna “canonica” e storico-critica. Una riflessione scritturistica complementare alle discussioni di politica internazionale su Israele e Palestina, di Andrea Lonardo).

Anche nell’utilizzo politico dell’Islam pesa la tradizione religiosa e le sue letture “storiche” che avrebbero molto da guadagnare da un lavoro storico-critico sulle proprie fonti che, però, appare ancora lontano da compiersi, poiché non si intravede all’orizzonte ancora la possibilità di letture “simboliche”, “allegoriche”, di alcuni dati che vengono interpretati come eventi, senza possibilità alcuna di discussione sulla loro storicità.  



[1] Si pensi, solo per fare due nomi più importanti nella miriade di studiosi di ogni lingua e cultura, ai nomi di Mario Liverani e ancor più di Gian Luigi Prato, noto non solo per l’acribia critica dei suoi studi e l’immensa mole di testi prodotti, ma anche per essere stato docente di tantissimi preti in quanto insegnante alla Gregoriana, di modo che i suoi studi sono entrati nel circolo vivo di chi predica sull’Antico Testamento in ogni città d’Italia e del mondo (cfr. su di lui In morte di Gian Luigi Prato, maestro e caro, di Andrea Lonardo).