Ritrovare fra Giovanni dietro il Beato Angelico, di Andrea De Marchi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 24 /11 /2025 - 22:50 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire un articolo di Andrea De Marchi, pubblicato l’1/10/2025. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Arte e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (23/11/2025)


Palazzo Strozzi/Bridgeman | Fra Giovanni da Fiesole, detto il Beato Angelico, “Volto di Cristo coronato di spine”, particolare. Livorno, cattedrale

Guido di Pietro, Guidolino – perché probabilmente era di bassa statura –, fra Giovanni da Fiesole (ma in un pagamento del 1428 ancora “Fra Guido dipintore”), solo dopo la morte, nel 1455, “angelicus pictor”, nel Theotocon di fra Domenico da Corella, del 1464.

E poi per tutti il Beato Angelico, beatificato ufficialmente da Pio XII nel 1955, in occasione di una grande mostra, a Roma e a Firenze, nel quinto centenario della sua morte.

Sono passati settant’anni e la Fondazione Palazzo Strozzi, di concerto con la Direzione regionale Musei nazionali Toscana, ha organizzato una mostra spettacolare su di lui articolata in due sedi, al Museo di San Marco e a Palazzo Strozzi appunto, curata da Carl Brandon Strehlke, con l’aiuto di Stefano Casciu e Angelo Tartuferi (fino al 25 gennaio). Difficilmente riavremo l’occasione di rivedere così tante opere sue tutte insieme. Alla fine si esce storditi da troppa bellezza. Fra Giovanni è davvero un pittore speciale, un paradosso iperbolico: ai suoi anni nessuno ebbe una comprensione così profonda delle logiche spaziali e della naturalezza dei corpi e dei gesti, dopo Masaccio e come Donatello, e nessuno al contempo trasfigurò a livelli così estremi i dati di natura in un paradiso artificiale di colori irrealistici e splendenti, un vero paradiso portato in terra, visibile credibile palpabile, in ogni dettaglio e in ogni piega. Riuscì a dare vita a un mondo che non conosce macchie né ombre, dove anche il sangue che scorre a fiotti non fa male, a dare forma a un’utopia in cui il Vangelo si fa narrazione e verità di ogni giorno.

Umile per davvero era la sua origine mugellana – non come Giotto, figlio di un orafo agiato del popolo di Santa Maria Novella, che in Mugello aveva semmai terra e origini – e la sua umiltà profonda divenne un ethos che pervadeva il suo stesso modo di dipingere, nutrito di attenzioni continue e amorevoli ai dettagli, ai piccoli gesti, agli sguardi furtivi. Ai silenzi.

Sì, perché la forza suggestiva delle sue Madonne e delle sue predelle è affidata più ai gesti trattenuti che a quelli esibiti, a ciò che sta in un angolo più che ai primi piani, a ciò che si intravvede appena, ai vuoti e alle pause, ben misurate nella profondità prospettica, come al massimo dell’intensità nei muri calcinati delle scene di meditazione per le celle di San Marco.

Ci si faccia caso: nella Deposizione Strozzi che apre la mostra nel più tardo palazzo della stessa famiglia, e che è forse il suo esito più alto, anno 1432, attorno al corpo morto di Cristo che viene calato lentamente, in un paesaggio vastissimo e luminoso, dove i colli toscani cedono a terrazzamenti di palme, in una finzione di Terra Santa, ognuno è chiuso nel suo dolore e lo trattiene con dignità, ci invita a indugiare lì con lui, a pregare in silenzio. Due sole persone piangono e si disperano, si intravvedono appena: una donna in fondo a sinistra, che si asciuga le lacrime, e un uomo risucchiato dall’ombra all’estremità destra, che si copre il volto.

La mostra, ariosa e avvincente, è distesa contro pareti azzurre. Una scelta scontata per un pittore che nel cliché si vorrebbe celestiale. Avrei preferito un verde primaverile, così come nelle immagini di bandiera avrei apprezzato l’audacia di uscire dai luoghi comuni, dolci Madonne e angeli che si inchinano, di spiazzare e rivelare a tutti che Angelico è ben altro, aderisce alla vita in tutta la sua splendente varietà, ritagliando quegli infiniti dettagli in cui si nasconde la tenerezza di un gesto o l’esitazione di un momento. Perché egli parte sempre dalla terra, non dal cielo, anticipando quanto sosteneva Bonhoeffer, che la Fede sprigiona dal pieno della vita, non dai suoi limiti.

La mostra racconta i luoghi, che non sono solo i suoi amati conventi dell’Osservanza, San Domenico a Fiesole e San Marco, e quindi pure Santa Trinita dei vallombrosani, Sant’Egidio degli ospedalieri di Santa Maria Nuova, Santa Maria degli Angeli dei Camaldolesi e Santa Croce dei francescani, da dove proviene un polittico assai guasto che si pensava irrecuperabile e che ora grazie a un restauro dell’Opificio ha ripreso vita – dalla Madonna al centro è tratto il manifesto della mostra – e si è riunito ai cinque pannelli della predella divisa fra Berlino, Altenburg e Vaticano.

E poi vengono le pale, con le pale quadre, le storie dei Santi Cosma e Damiano, i Crocifissi, le Madonne dell’Umiltà, le Annunciazioni, i polittici (si torna indietro, ma in realtà no, è quando lavora per Cortona e Perugia)

Tanta chiarezza didascalica è per un verso apprezzabile, per un altro è sintomo di abdicazione da una costruzione critica, da una lettura storica. Ora vanno di moda le ristrutturazioni dei musei per generi e chissà dove andremo a finire con tanta fregola di decostruire e attualizzare e quindi alla fine strumentalizzare a nostro estro, perché si sa, “dobbiamo far parlare le opere d’arte”, non lasciarle parlare, mentre il sapere filologico è arido e inutile.

Anche in alcuni musei diocesani si è scelto un criterio simile, la cui stessa efficacia catechetica temo sia fallace, perché respinge chi confessionale non è e perché il mistero cristiano non procede per compartimenti, è nell’intreccio inestricabile fra Incarnazione e Passione, fra morte e resurrezione di Cristo. Ma in questo caso, con un pittore versatile e reattivo come fra Giovanni, che cambia ogni due-tre anni e pure radicalmente, in un progress continuo, entusiasmante e fin sconcertante, la cronologia è tutto, ci aiuta a capirlo veramente, passo passo, nella sua avventura.

Fa eccezione, è vero, la prima sezione al Museo di San Marco, dove le opere della giovinezza dialogano fra loro, attorno al polittico per l’altare maggiore di San Domenico a Fiesole, restaurato nell’occasione come tante altre opere, e a quello per le domenicane di San Pietro Martire, nonché a quello di Masaccio giovanissimo a Reggello, datato 1422.

Poi mi sarebbe piaciuto rifrullare tutte queste opere e vederle nella loro probabile sequenza (più difficile nella giovinezza, dove mancano date certe, in teoria più facile dopo, quando gli ancoraggi sono numerosi): così ho fatto coi miei studenti, a lezione, per aiutarli a seguire meglio il filo in mostra. Si possono fare – è vero – tanti confronti, ma per lo più per contrasto e dissimiglianza.

Nella terza sala compare già la pala per l’altare maggiore di San Marco (1440-1442), apice della sua maturità, spettacolarmente ricostruita con tutti e nove i pannelli della predella narrante le storie dei santi Cosma e Damiano e con tutti e otto i santi dei pilieri.

A lato si vede la pala Medici, poi finita nel 1461 a San Vincenzo di Annalena, quando venne rimpiazzata dal tabernacolo eucaristico di Desiderio da Settignano. È la prima pala quadra della storia dell’arte italiana e la prima “sacra conversazione” in uno spazio unificato, che nella predella presenta le stesse storie, ideazioni vivacissime di fra Giovanni tradotte da Zanobi Strozzi.

Si coglie immediatamente quanto essa sia diversa e più antica. Credo infatti che Cosimo e Lorenzo de’ Medici l’abbiano commissionata subito dopo aver dotato la cappella di San Cosma e Damiano in San Lorenzo nel 1429 e, quando nel 1434 il capitolo della chiesa che si stava edificando su progetto di Brunelleschi deliberò che tutte le pale fossero quadre “et sine civoriis”, quella era l’exemplum. I nimbi graniti alla trecentesca non esibiscono ancora quei dischi razzati e lucenti che l’artista mise a punto nella Deposizione Strozzi, installata nel 1432, e da cui non derogò mai nel seguito.

Peccato però che qui sia datata addirittura 1445 circa e si fantastichi di una sua iniziale provenienza da Bosco ai Frati! Ancora, tre sale più in là unica è l’opportunità di vedere a lato due polittici per destinazioni più periferiche, compiacendo quindi a una persistenza di gusto più attardato, per le chiese di San Domenico a Cortona e a Perugia, e allora tonante è il contrasto fra le due opere, essendo la prima del 1437 circa e la seconda un vertice della nuova maniera del pittore, più emula delle trasparenze ottiche dei fiamminghi, dalla famosa Madonna delle ombre in avanti, nel cuore del quinto decennio.

Un’illuminotecnica impeccabile ci accompagna in questi percorsi per certi versi troppo facili, per altri accidentati, e merita una riflessione. Non ho mai visto l’oro brillare così bene, senza peraltro sbilanciare la percezione d’insieme. E per l’Angelico la sensibilizzazione dei metalli lucenti è essenziale, è una chiave della trasfigurazione luministica della realtà, assieme alle penombre e alle luci riverberate.

Qui dovrebbero venire a prendere esempio tanti direttori di musei con dipinti antichi, perché le illuminazioni spesso uniformano e schiacciano le qualità delle opere, che non sono immagini di un monitor, meritano di essere scoperte in originale per queste qualità fatte anche di accidenti e variabilità materiche. E meritano di essere viste da vicino. In mostra per esempio si può scrutare negli occhi arrossati un volto di Cristo sconvolgente come quello che nel transetto sinistro del Duomo di Livorno non si apprezza neanche con un binocolo.

Così come le due predelle dell’Incoronazione della Vergine di Sant’Egidio, con lo Sposalizio e la Morte di Maria, grazie alla mostra lasceranno il Museo di San Marco, che di opere dell’Angelico ne ha già tante, e si riuniranno definitivamente al resto, agli Uffizi, allo stesso modo speriamo che la mostra getti un seme perché altre opere, come il Cristo coronato di spine livornese, siano meglio valorizzate e non sottratte alla condivisione di tutti.

Una simile provocazione, assieme alle ricomposizioni emozionanti e ai restauri provvidenziali (come quello del grandioso Calvario sagomato di Pesellino in San Michele e Gaetano, che giaceva in condizioni vergognose), sarebbe uno dei meriti non ultimi di questa mostra, frutto di tante energie e di tanto lavoro, sicuramente da non perdere.