Appunti per l’omelia della V domenica dell’anno A, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 05 /02 /2011 - 19:40 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito www.omelie.org gli appunti per l'omelia della V domenica del tempo ordinario dell'anno A preparati da Andrea Lonardo.

Il centro culturale Gli scritti (5/2/2011)

1. Gesù continua ad insegnare. Le parole sul sale e sulla luce proseguono l’annunzio delle beatitudini. Vale la pena, innanzitutto, sottolineare come per la fede cristiana non si da alcuna opposizione fra parola e testimonianza. Infatti, nel vangelo di Luca, Gesù ricorda che «la bocca parla dalla pienezza del cuore» (nella nuova traduzione: «la bocca esprime ciò che del cuore sovrabbonda», Lc 6,45).

La parola è testimonianza. Come già annunziava l’AT, «il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela i pensieri del cuore. Non lodare nessuno prima che abbia parlato, poiché questa è la prova degli uomini» (Sir 27,6-7).

Il vangelo di Matteo insiste molto sulla bellezza e l’importanza dei discorsi di Gesù. Proprio il ciclo liturgico dell’anno A deve essere un invito rivolto ad ogni credente perché riprenda in mano il Nuovo Testamento per leggere e meditare i cinque grandi discorsi nei quali l’evangelista condensa l’insegnamento del Cristo. Egli è veramente il maestro che insegna la nuova Legge (discorso detto della montagna, Mt 5-7), che spiega la novità della sequela cristiana (discorso detto missionario, Mt 10), che annuncia con le sue parabole la presenza del regno (discorso detto parabolico, Mt 13), che manifesta la nuova identità della chiesa popolo di Dio (discorso detto ecclesiale, Mt 18), che prepara i suoi all’attesa della fine dei tempi ed al suo trono (discorso detto escatologico, Mt 24-25).

Il primo discorso, quello della montagna, si conclude proprio affermando che «quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, le folle erano stupite: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi» ( Mt 8,28-29).

La novità della parola di Gesù risuona nelle orecchie dei suoi ascoltatori ed essi percepiscono chiaramente che testimonia di Dio in maniera assolutamente nuova, come mai si era udito. Pur non perdendo nulla della ricchezza della rivelazione veterotestamentaria, la porta ad un compimento assolutamente nuovo ed inatteso. Ed anche i discepoli di Cristo, come Matteo, potranno perciò essere «scribi che estraggono dal loro tesoro cose antiche e cose nuove» (Mt 13,52).

Proprio il tempo in cui viviamo desidera parole chiarificatrici, capaci di illuminare il cammino. Dovunque c’è qualcuno che responsabilmente e con passione si fa carico dell’“insegnamento”, sia i giovani che gli adulti ritrovano il coraggio delle domande, della ricerca, del confronto, che invece si spegne dinanzi a parole non significative, ripetitive o confuse.

2. Già le beatitudini, domenica scorsa, avevano annunciato che le parole dell’isegnamento di Gesù erano per la vita beata. L’annuncio della “beatificazione” di Giovanni Paolo II ce le ha fatte percepire in maniera tutta peculiare. Anch’egli viene ora dichiarato “beato”. Egli non solo le ha vissute, ma ne ha gustato, pur nella fatica, l’intima beatitudine e, soprattutto, la riceve in pienezza da Dio nella vita eterna.

Il paradosso delle beatitudini è proprio quello di una presenza già reale, anche se incompleta, della felicità che promettono, ma insieme, dell’attesa di un compimento senza il quale non avrebbero senso. È il Cristo che se ne fa garante, egli che rese grazie nel momento di offrire se stesso nell’ultima cena che anticipava la croce mentre, insieme, ne sentiva tutto il peso che solo l’attesa della resurrezione consentiva di portare.

Se esse si rivolgevano a tutta l’umanità, a coloro che sarebbero stati poveri di spirito così come puri di cuore, operatori di pace così come miti, affamati di giustizia così come misericordiosi, nondimeno l’espressione finale ne mostrava l’immediata verità nella vita dei discepoli di Gesù: «beati voi quando... per causa mia» (Mt 5,11).

Quel “voi” è la parola rivolta espressamente ai discepoli di Cristo, chiamati a soffrire per la testimonianza del vangelo. Proprio i cristiani che, incompresi non per loro colpa, bensì per la fedeltà al loro Signore, subiscono il rifiuto e la condanna, partecipano della beatitudine del regno.

Con quel “voi “ si apre anche la pericope della liturgia odierna: «voi siete il sale della terra... voi siete la luce del mondo» (Mt 5,13-14).

3. Gesù ama i suoi. Gesù conferisce loro un mandato che non può essere disatteso. Essi sono “luce” e “sale”. E sono luce e sale “della terra” e del “mondo”, proprio perché di sapore e di luce ha bisogno l’uomo. Non avrebbe senso essere sale e luce di una vita già pienamente gustosa e totalmente rischiarata.

Dietro i cliché di facciata, anche l’uomo del nostro tempo si accorge di un sapore che manca e di una luce che deve ancora rischiarare. Sapore e luce che non riguardano solo questa o quella situazione particolare, ma più radicalmente l’esistenza stessa.

Un intellettuale del settecento - Rudolf Erich Raspe - si divertì a scrivere le avventure del Barone di Münchhausen, una serie di avvenimenti inverosimili occorsi al suo personaggio. Oltre ad un viaggio sulla luna, ad un volo a cavalcioni di una palla di cannone, l’episodio più famoso è quello relativo al suo uscire salvo da una palude di sabbie mobili nella quale era caduto. Non essendoci alcun punto cui aggrapparsi per uscire dalla palude nella quale stava affondando, non essendoci né un ramo di un albero, né una roccia sporgente, il Barone del racconto uscì dal pericolo tirandosi fuori per i capelli.

Se un uomo, nella fantasia, può sollevarsi da solo a partire dai suoi stessi capelli, ben diversamente stanno le cose nella realtà. L’uomo si accorge ben presto che quel gusto e quella luce che egli cerca non può darseli da se stesso, bensì deve riceverli in dono. Tutta la grandezza del suo essere “soggetto” non sta nell’assolutizzarsi, bensì nel rivolgersi a Dio ed ai fratelli.

Di questo debbono essere testimoni i discepoli di Gesù. Senza quel sale e quella luce, l’insipido e le tenebre saranno la regola della vita. Per questo le “opere” che i discepoli sono chiamati a compiere non hanno valore in quanto pure azioni, bensì molto più come segni di una presenza più grande, quella del Padre.

Come ebbe ad affermare il grande Pavel Florenskij, matematico e teologo russo che morì fucilato dal regime comunista: «I vostri ‘atti buoni’ non vuole affatto dire ‘atti buoni’ in senso filantropico e moralistico: ymón tà kalà érga vuoldire ‘atti belli’, rivelazioni luminose e armoniose della spirituale - soprattutto un volto luminoso, bello, d’una bellezza per cui si espande all’esterno ‘l’interna luce’ dell’uomo, e allora, vinti dall’irresistibilità di questa luce, ‘gli uomini’ lodano il Padre celeste, la cui immagine sulla terra così sfolgora».