La Cappella Paolina di Michelangelo, di Giuseppe Frangi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 23 /03 /2011 - 17:54 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da 30giorni dell’agosto 2009 un articolo scritto da Giuseppe Frangi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti  su Michelangelo, vedi su questo stesso sito la sezione Roma e le sue basiliche.

Il Centro culturale Gli scritti (23/3/2011)

Il 25 gennaio 1540, per la festa della conversione di san Paolo, sino ad allora celebrata nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, papa Paolo III Farnese consacrò al santo di cui aveva preso il nome, la nuova cappella parva, commissionata ad Antonio da Sangallo il giovane e costruita in appena tre anni nel cuore del Palazzo Pontificio.

La cappella parva (contrapposta alla cappella magna, le cui funzioni erano state rilevate dalla Sistina) era la cappella destinata al conclave. E soprattutto era il luogo in cui veniva conservato il Santissimo Sacramento, per cui era stata dotata sia di un altare che di un tabernacolo. Quando Paolo III la consacrò, la cappella non aveva decorazioni, ma era chiaro chi dovesse salire sulle impalcature: toccava ancora a Michelangelo, appena sceso dalle impalcature della Sistina, dove aveva portato a termine la grande fatica del Giudizio universale.

Michelangelo era ultrasessantacinquenne ed era angustiato da una vecchia e tormentata commissione: la tomba di Giulio II, il papa Della Rovere morto ormai da trent’anni. Aveva già ricevuto i compensi, gli eredi gli stavano con il fiato sul collo, ma il progetto aveva subito mille varianti in corsa e l’età avanzata glielo rendeva terribilmente faticoso. Per lui – parole sue – quella era diventata «la tragedia della sepoltura».

Quando Paolo III gli annunciò la nuova commissione dei due affreschi per la Paolina, Michelangelo, con scaltrezza, mise le mani avanti. E il 20 luglio 1542 scrisse al Papa, per mano del fedele Luigi Del Riccio, una lettera di questo tenore: «… Et essendo di nuovo detto messer Michelagnolo ricierco et sollecitato da la deta Santità di Nostro Signore papa Paulo terzo a lavorare et fornire la sua cappella […] la quale opera è grande et ricerca la persona tutta intera et disbrighata da altre cure, essendo detto messer Michelagnolo vechio e desiderando servire Sua santità con ogni suo potere, essendone alsi da quella astretto et forzato, né possendo farlo se prima non si libera in tutta da questa opera di papa Iulio, la quale lo tiene perplesso della mente e del corpo, suprica Sua Santità, poi che è resoluta che lui lavori per lei, che operi con lo ilustrissimo signor duca di Urbino che lo liberi in tutto da detta sepoltura, cassandoli et anulandoli ogni obrighatione, come li sopto scripti onesti patti».

In sostanza Michelangelo chiedeva a papa Paolo di coprirgli le spalle dalle pressioni del duca di Urbino. In realtà, non era questo il suo vero stato d’animo, come si deduce da un’altra lettera privata, scritta allo stesso Del Riccio, nell’ottobre successivo: «Io non posso vivere non che dipingiere, si dipigne col ciervello, et non con le mani et chi non può avere il ciervello seco, si vitupera. Ma, per tornare alla pittura, io non possono negare niente a papa Pagolo: io dipignerò mal contento, et farò cose mal contente».

«Non posso negare niente a papa Pagolo»: così Michelangelo prima della fine di quello stesso anno inizia a lavorare sulle due pareti di sei metri per sei che gli erano state riservate. È un uomo comunque ancora pieno di energia, nonostante l’età e nonostante sentisse di non avere «il ciervello seco». La ricostruzione delle giornate lavorative, resa possibile dalle moderne tecniche di restauro, ci rivela una persona capace di affrontare una grande quantità di lavoro in una giornata. Alla fine in tutto saranno 172 giornate (85 per la Conversione di san Paolo e 87 per la Crocifissione di san Pietro), distribuite nell’arco di sette anni, con l’interruzione del 1544, quando venne fermato da problemi di salute.

L’impresa iniziò dalla parete sinistra, con la scena della Conversione di san Paolo. Michelangelo aveva tra le mani la prima traduzione in volgare degli Atti degli Apostoli, curata da Antonio Brucioli, l’amico presso cui si era rifugiato durante la sua fuga da Firenze nel 1529: «Et essendo tutti noi caduti in terra, udimmo una voce che mi parlava… Et io dissi, chi sei Signore? Et quello disse, io sono Giesu che perseguiti». Michelangelo reimmagina l’episodio imperniandolo su quei due fattori: il “mi parlava” e il “chi sei Signore”. Quindi un’interlocuzione diretta e una presenza fisica.

È una reinterpretazione dirompente, rispetto alle immagini un po’ imbarazzate dei tanti pittori che lo avevano preceduto. Michelangelo fa irrompere Cristo dall’alto della scena, come presenza fisica, reale. Non è sogno e non è neppure una bella e solenne apparizione come quella di Raffaello per gli arazzi vaticani. La figura di Cristo sembra rovesciarsi verso Paolo, con una soluzione che anche Caravaggio terrà ben presente per la prima versione dei quadri della Cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo.

Non tutti condivisero e compresero la rappresentazione della conversione di Paolo proposta da Michelangelo. In ambienti curiali non mancarono le critiche come quella di Giovanni Andrea Gilio, l’ecclesiastico censore del Giudizio universale, che nel 1564, appena morto l’artista, avrebbe scritto: «Però mi pare che Michelagnolo mancasse assai nel Cristo che appare a san Paolo ne la sua conversione; il quale fuor di ogni gravità, e d’ogni decoro, par che si precipiti dal cielo con atto poco honorato…».

Il secondo elemento è quella linea diretta, vero perno attorno a cui ruota tutto l’affresco, che unisce Cristo, in alto, a Paolo, in basso. Un fiotto di luce dirompente, che rappresenta un canale diretto di rapporto e che viene messo in risalto dalla semplificazione che Michelangelo opera sul contesto paesaggistico. La terra è nuda, Damasco è una città quasi sfocata sullo sfondo, la scena è dominata dal cielo, di un blu profondo e drammatico, ottenuto con il lapislazzulo fatto arrivare appositamente dalla Persia via Ferrara.

C’è un altro particolare insolito rispetto all’iconografia della conversione di Paolo che papa Benedetto XVI ha giustamente colto, in occasione della riapertura della Cappella, dopo la conclusione dei restauri, il 4 luglio scorso: è la stranezza di un apostolo rappresentato come un vecchio «mentre», dice il Papa, «sappiamo – e lo sapeva bene anche Michelangelo – che la chiamata di Saulo sulla via di Damasco avvenne quando egli era circa trentenne». Perché Michelangelo opera una simile forzatura?

Ecco la spiegazione che dà il Papa: «Il volto di Saulo-Paolo», che è poi quello dello stesso artista ormai vecchio, inquieto e in cerca della luce della verità, «rappresenta l’essere umano bisognoso di una luce superiore. È la luce della grazia divina, indispensabile per acquistare una vista nuova, con cui percepire la realtà orientata alla “speranza che vi attende nei cieli” – come scrive l’Apostolo nel saluto iniziale della Lettera ai Colossesi».

Sulla parete di fronte Michelangelo viene chiamato a rappresentare invece la crocifissione di Pietro. Le giornate lavorative si fanno più numerose, le aree affrescate di volta in volta, più piccole. Il soggetto aveva molti e celebri precedenti, da quello del Sancta Sanctorum, per passare all’affresco di Cimabue di Assisi sino alla predella di Giotto nel polittico Stefaneschi, oggi conservato nei Musei Vaticani.

Dal punto di vista semplicemente compositivo, questo soggetto aveva dato sempre dei grattacapi agli artisti, perché la croce rovesciata di san Pietro lasciava un grande spazio vuoto in alto. Cimabue lo aveva risolto sollevando in modo innaturale la croce; Giotto facendo volare due angeli all’altezza dei piedi del santo. Michelangelo, come da sua natura, innova in senso drammatico l’iconografia. Anziché rappresentare il fatto compiuto, sceglie di raffigurare l’istante precedente, cioè l’azione dell’innalzamento della croce. La scena così viene accesa da un dinamismo sconvolgente, attorno alla croce non ancora verticale ma inclinata.

Chi assiste è segnato dal dolore, dalla paura, o, dall’altro lato, dalla crudeltà. E c’è addirittura chi, al centro della scena, uscendo allo scoperto come amico di Pietro, tenta di avvicinarsi ai carnefici ma viene trattenuto per un braccio e richiamato alla prudenza, da un altro evidentemente del suo gruppo (l’episodio viene raccontato nella Legenda aurea: dove però si sostiene che sarebbe stato lo stesso apostolo a calmare l’amico).

Ma l’epicentro dell’invenzione di Michelangelo è certamente il volto di Pietro, che con un gesto imprevisto e pieno di forza si solleva sul busto e rivolge lo sguardo all’indietro. Michelangelo lavorò moltissimo su questo punto dell’affresco, correggendolo a secco, per rafforzare il gesto di Pietro, l’unico personaggio della scena che guarda fuori dalla scena. Perché lo fa? E chi guarda?

Tradizionalmente si è sempre sostenuto che lo sguardo fosse rivolto ai cardinali raccolti in conclave, in quanto la Paolina, come s’è detto, originariamente era stata destinata a sede dei conclavi. Benedetto XVI invece ha avanzato un’ipotesi molto più profonda e persuasiva. «C’è come uno smarrimento, uno sguardo acuto, proteso, quasi a cercare qualcosa o qualcuno, nell’ora finale», ha annotato il Papa. Che poi prosegue: «I due volti [di Pietro e Paolo, ndr] stanno l’uno di fronte all’altro. Si potrebbe anzi pensare che quello di Pietro sia rivolto proprio al volto di Paolo, il quale, a sua volta, non vede, ma porta in sé la luce di Cristo risorto. È come se Pietro, nell’ora della prova suprema, cercasse quella luce che ha donato la vera fede a Paolo».